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settembre 2002

Studî e commenti

 

ALESSIA MONTONESE

La continuità normativa nei reati societari

     La recente pronuncia della Corte di Cassazione (V Sezione penale 21 maggio 2002, n. 6921) colma il “vuoto” legislativo del Dlgs. n. 61 del 2002, stabilendo che tra le vecchie e le nuove norme vi è continuità normativa. Secondo la Corte, in sostanza, la riforma non ha abrogato il precedente reato di falso in bilancio, ma lo ha semplicemente modificato in senso più favorevole all’imputato.
     Il ragionamento della Cassazione prende le mosse da una dettagliata ricostruzione degli articoli 2621, 2622, 2623 e 2624 cod. civ., prima e dopo la riforma entrata in vigore col decreto n. 61/2002. Dal raffronto emerge che la norma preesistente e quella sopravvenuta tutelano «l’identico interesse alla veridicità delle scritture sociali e in particolare dei bilanci, come bene essenziale per la correttezza dei rapporti all’interno della società e di essa nei confronti di terzi»; che sono «praticamente identici» i soggetti agenti; e che non ci sono differenze sostanziali neppure per quanto riguarda l’elemento soggettivo del reato, cioè il dolo specifico. Le differenze, invece, riguardano la sanzione e la punibilità.
     La conclusione della Corte è che la riforma riflette una «scelta di politica criminale ben precisa che tende a specificare e distinguere in varie ipotesi il contenuto del reato, ritenendo in alcuni casi rilevante penalmente la semplice pericolosità delle false comunicazioni sociali, e in altri, richiedendo l’esistenza di un danno effettivamente cagionato a soci e creditori, ed escludendo nelle ipotesi di minor rilievo la punibilità». Ciò sulla base di un “dato sociologico”: la «evoluzione delle strutture societarie verso nuove forme di aggregazione anche a carattere sopranazionale, tali da rendere più efficiente il controllo effettuato dal mercato rispetto a quello penale. A ciò deve aggiungersi – prosegue la Corte – la scelta effettuata dal legislatore di affievolire il controllo penale della correttezza degli amministratori delle società, attenuando le sanzioni ed escludendo la responsabilità nei casi di minore gravità».
     Di qui la conclusione: le differenze «non sono strutturali» ma riguardano «modalità parzialmente diverse di difesa dello stesso interesse tutelato» e riflettono «politiche criminali diverse». Pertanto, «vi è continuità fra le due fattispecie».
     Sino a questa decisione il problema era comprendere se vi fosse continuità normativa tra la vecchia e l’attuale normativa: comprendere cioè come potessero trovare applicazione i tre concorrenti principi, enunciati nell’art. 2 cod. pen. e in parte costituzionalizzati nell’art. 25 Cost., dell’irretroattività delle nuove norme incriminatrici (comma 1 del citato art. 2), della retroattività della successiva “abolitio criminis” (comma 2) e, per il caso di successione nel tempo di diverse leggi, dell’applicabilità di quella più favorevole (comma 3). Assicurare il principio per cui nessuno può essere punito, o non può essere punito più gravemente, in conseguenza di una norma che non esisteva nel momento in cui ha commesso il fatto e della quale, quindi, non poteva venire a conoscenza, come anche non può essere punito per un fatto che al momento dell’applicazione della sanzione non sia più valutato dall’ordinamento come meritevole di sanzione penale.
     Sino alla decisione della Suprema Corte le decisioni dei Tribunali di merito erano tra loro divergenti.
     A favore della continuità normativa il Tribunale di Napoli (Sentenza del 29 maggio 2002, Sezione XI) ed il Tribunale di Milano, ordinanza del 23 Aprile 2002.
     Nella sentenza del Tribunale di Napoli, che concerne un reato di false comunicazioni sociali, si legge che:
     a) vi è sostanziale identità dell’interesse protetto dalla norma con l’unica differenza ravvisabile nel fatto che a carattere inizialmente plurioffensivo dell’illecito fa seguito, attualmente, uno sdoppiamento del reato in due distinte fattispecie poste autonomamente a tutela in modo separato dei beni in considerazione: interesse alla compiutezza e veridicità dell’informazione societaria (articolo 2621) ed interesse all’integrità del patrimonio del patrimonio dei soci e dei creditori (articolo 2622);
     b) l’originaria disciplina del reato di false comunicazioni sociali contemplava un illecito proprio di pericolo ed a dolo specifico, la nuova regolamentazione si limita ad aggiungere alcuni elementi specializzanti (soglie qualitative e danno patrimoniale);
     c) non vi sono espresse previsioni nel decreto 61/2002 in merito all’abrogazione delle precedenti fattispecie e viene peraltro previsto un termine per la proponibilità della querela con riferimento ai reati commessi prima della data in vigore del decreto a dimostrazione del nesso di continuità esistente tra le condotte succedutesi nel tempo.
     Mentre il Tribunale, di Milano, rilevato peraltro l’utilizzo dello stesso nomen, ha notato la sostanziale identità dell’interesse protetto dalla norma con l’unica differenza ravvisabile nel fatto che a carattere inizialmente plurioffensivo dell’illecito fa seguito, attualmente, uno sdoppiamento del reato in due distinte fattispecie poste autonomamente a tutela in modo separato dei beni in considerazione: interesse alla compiutezza e veridicità dell’informazione societaria (art. 2621) ed interesse all’integrità del patrimonio del patrimonio dei soci e dei creditori (art. 2622).
     In senso difforme alla decisione della Cassazione in esame si ricordano, invece, le decisioni del Gip di Firenze (ordinanza del 17 aprile), della Corte di Appello di Milano (depositata il 10 maggio 2002) (1), del Tribunale di Reggio Emilia (sentenza n. 397 del 2002) (2) e del Tribunale di Napoli (sentenza del 28 maggio 2002, Sezione IX) (3), le quali si sono espresse tutte per la non continuità normativa.
     Nell’ordinanza di Firenze (pronunciatasi per la non continuità tra il reato di bancarotta fraudolenta impropria e reato di false comunicazioni sociali) si ricorda che l’articolo 4 del D.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, di riforma dei reati societari ha infatti riformulato l’articolo 223, comma 2, n. 1, della legge fallimentare, prevedendo la configurabilità del reato in questione nei confronti degli amministratori o degli altri soggetti qualificati che «hanno cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società», commettendo taluno dei nuovi reati societari specificamente indicati, tra i quali le false comunicazioni sociali di cui agli articoli 2621 e 2622 del Codice civile. Nel caso in questione, si trattava di un amministratore di società finanziaria, dichiarata fallita, al quale era stato contestato di avere fraudolentemente esposto in bilancio plusvalenze fittizie per svariati miliardi, al fine di arrecare pregiudizio ai creditori. Nel corso dell’udienza preliminare, essendo entrata in vigore la riforma, il pubblico ministero ha chiesto di essere autorizzato a modificare l’imputazione per contestare, alla luce della nuova norma incriminatrice, l’evento di danno.
     Si è quindi prospettata una duplice questione: se il requisito ora richiesto, cioè che il falso in bilancio abbia cagionato il dissesto della società, costituisca un fatto nuovo, tale da determinare la ritrasmissione degli atti al pubblico ministero, e se anche l’ipotesi di bancarotta fraudolenta per false comunicazioni sociali, essendo il delitto di falsità in bilancio di cui all’articolo 2622 del Codice civile procedibile a querela, richieda allo stesso modo la presentazione della querela ai fini della procedibilità. Il giudice delle indagini preliminari, ritenendo che il fatto reato configurato dal riscritto articolo 223 della legge fallimentare, sia radicalmente diverso rispetto alla previgente norma incriminatrice, ha autorizzato la modifica dell’imputazione e disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero. Tale decisione riconosce dunque che l’attuale ipotesi di bancarotta rappresenta una nuova incriminazione, che non si pone, quindi, in continuità normativa con la precedente (decisione in linea con l’orientamento assunto, in una recente ordinanza della Corte d’appello di Milano del 10 maggio 2002).
     Quanto alla necessità della querela ai fini della procedibilità del delitto di cui trattasi, ipotizzata dallo stesso pubblico ministero sulla base del disposto dell’articolo 2622, comma 2, cod. civ. laddove prevede che «si procede a querela anche se il fatto integra altro delitto, ancorché aggravato a danno del patrimonio di soggetti diversi dai soci e dai creditori», il testo di tale disposizione appare di dubbia formulazione. A ben vedere, però, va rilevato che, se il legislatore avesse veramente voluto rendere perseguibile a querela il delitto di bancarotta fraudolenta per false comunicazioni sociali, avrebbe dovuto inserire tale previsione nell’articolo 223 della legge fallimentare. Inoltre, la disposizione in questione è da ritenersi piuttosto finalizzata ad evitare disparità di trattamento rispetto ad altre fattispecie concorrenti di reati contro il patrimonio (categoria alla quale ormai appartiene il delitto di cui all’articolo 2622) in danno di soggetti diversi dai soci o dai creditori. Ad esempio, quella di truffa che, se aggravata, sarebbe stata altrimenti perseguibile d’ufficio (4).
     La posizione è diversa per il reato di bancarotta. Nella sentenza della Cassazione n. 21535 del 2002, in particolar modo, si sottolinea come in materia di bancarotta non possa assolutamente parlarsi di continuità normativa tra vecchio e nuovo articolo 223 della legge fallimentare.
     Tali considerazioni prendono le mosse dal nuovo assetto che ha il reato di bancarotta impropria. La riforma ha infatti stabilito, come condizione indispensabile per la contestazione del reato, che debba esserci il nesso causale tra false comunicazione e dissesto finanziario (5). Tale condizione non era in precedenza prevista, dal momento che bastava avere semplicemente commesso uno dei reati indicati nella disposizione della legge fallimentare, ed è di palese evidenza che in tal modo si viene a restringere la possibilità di rilevare la fattispecie criminale.
     Il falso in bilancio rileva assieme alla bancarotta solo perché si verificano contestualmente, senza cioè che quest’ultima potesse essere direttamente imputata al falso (infatti la Corte ha deciso per l’annullamento della condanna pronunciata dal giudice di merito). Come si legge nella predetta sentenza, infatti «appare evidente che non può bastare la commissione di un falso in bilancio (o di altri reati societari) in connessione semplicemente temporale con una sentenza dichiarativa di fallimento della società, ma il reato societario viene assunto come condotta volta a provocare il dissesto della società come evento sostanziale».
     L’elemento psicologico è oggetto delle considerazioni in materia di falso in bilancio. La Corte procede a una rapida disamina delle diverse caratteristiche dei reati nella vecchia e nuova formulazione del Codice civile, ricordando che nella nuova versione, sancita negli articoli 2621 e 2622 si sottolinea la necessità dell’intenzionalità dell’inganno e l’obiettivo di raggiungere un profitto ingiusto. Una previsione che porta a ricomprendere il requisito psicologico sotto la categoria del “dolo specifico”. La Cassazione osserva poi che la “fraudolenza” stabilita dalla precedente versione del Codice già poteva essere intesa nella direzione di farvi rientrare non soltanto la volontà di indurre in errore soci e terzi sulla effettiva situazione patrimoniale della società, ma anche il proposito di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. Una situazione che porta la Cassazione a concludere non per l’abrogazione di legge quanto per la successione e, quindi, per la continuità normativa.
     La Cassazione interviene anche con un’interessante precisazione in materia di autori del reato di bancarotta, osservando che il nuovo articolo 223 si riferisce non tanto all’aspetto formale di investitura alla “qualifica” di amministratore (o direttore generale, sindaco, ecc.), quanto alle mansioni concrete che sono relative alla qualifica «poiché la ratio della legge deriva dall’obbligo di lealtà e correttezza nell’espletamento di quelle mansioni, sicché sarebbe irrazionale, in relazione all’interesse tutelato, escludere da quell’obbligo chi eserciti di fatto le funzioni di amministratore, nella piena connivenza degli organi societari, pur senza esserne formalmente investito».

 

Note

     (1) Cfr.Guida al diritto, n. 21/2002. Il caso concerne un socio promotore che nell’atto costitutivo di una società a responsabilità limitata, dichiarata poi fallita, ha falsamente attestato che la stessa potesse disporre di un capitale versato di lire 20 milioni.
     L’analisi si è divisa in due piani: il primo volto a negare la continuità normativa tra il vecchio ed il nuovo reato di bancarotta fraudolenta. Il nuovo articolo della legge 223 stabilisce che debba rispondere di reato chi abbia causato o concorso a causare il dissesto della società: in questo caso si tratta di un nuovo reato, poiché il nuovo decreto interviene modificando la condotta, e non è possibile rivendicare legami con il passato.
     Diversa è la posizione per il reato di false comunicazioni sociali. Secondo la nuova normativa la categoria del socio promotore non più punibile, come non è più condotta penalmente rilevante l’ipotesi riguardante la costituzione della società. La Corte d’Appello di Milano ha infatti affermato la continuità normativa, ritenendo integrata nella nuova fattispecie anche la condotta di coloro che espongono fatti non rispondenti al vero sulla costituzione o sulle condizioni economiche della società, circostanze che nella precedente versione dell’art. 2621 del codice civile erano espressamente contemplate.

     (2) Il Tribunale di Reggio Emilia ha assolto due imputati «perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato». Nella sentenza peraltro si legge che tutti i reati nuovi sono speciali rispetto a quello vecchio e che non è stato, in alcun modo, violato il principi del codice penale per cui nessuno può essere punito per un fatto che secondo la legge posteriore non costituisce più reato. A tali conclusioni il Tribunale è giunto partendo dalla considerazione che per verificare l’esistenza della continuità normativa devono essere messe a confronto le fattispecie astratte e non i singoli fatti concreti. In tal modo non vi è mai continuità normativa, nei termini dell’art. 2, comma 2, del codice penale quando si ha un passaggio da una fattispecie generale ad una speciale, poiché quando la contestazione è stata fissata il nostro sistema processuale non conosce nessuno strumento processuale per recuperare al contraddittorio l’elemento specializzante sopravvenuto, anche se si va ad aggiungere agli elementi della fattispecie generale o si limiti a specificarne uno.

     (3) Si è riconosciuta l’impossibilità di stabilire la continuità normativa tra vecchi e nuovi illeciti, nel caso di reato di false comunicazioni sociali. Nella sentenza si legge che «principale elemento che farebbe venir meno la citata continuità, sarebbe rappresentato dalla nuova configurazione del reato come delitto di danno che richiede un quid pluris, in precenza non previsto ed ora essenziale all’esistenza del reato» ed «altro elemento caratterizzante, secondo i giudici, sarebbe inoltre rappresentato dalla idoneità della condotta ad indurre in errore i destinatari».

     (4) In tal senso TRAVERSI, nella Relazione al Convegno sui reati societari presso il Consiglio Nazionale dei ragionieri Commercialisti, Roma 6 giugno 2002

     (5) È da segnalarsi, per completezza espositiva, l’ordinanza n. 369 del 10 luglio 2002, con la quale la Corte Costituzionale ha ordinato la restituzione degli atti al giudice rimettente, affinché, a seguito della sostituzione del n. 1 dell’art.223 da parte dell’art. 4 D.lgs. n. 61 del 2002 e degli artt. 2621 e 2622 da parte dell’art.1 del citato Decreto, verifichi l’attuale rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 27 della Cost, dell’art. 223, 2 comma, n. 1 della l. fall. (nella parte in cui, richiamando l’art. 2621 cod. civ., non richiede, per la configurabilità del delitto di bancarotta fraudolenta, un nesso causale fra le false comunicazioni sociali ed il successivo fallimento della società).

 

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