il diritto commerciale d’oggi
    V.6 – giugno 2006

STUDÎ & COMMENTI

 

VERONICA SCALI

Il contratto dell’amministratore in conflitto di interessi

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Sul conflitto di interessi. – 3. Annullabilità degli atti posti in essere in conflitto di interessi. – 4. Opponibilità a terzi e limitazione ai poteri di rappresentanza. – 5. Il caso. – 6. Segue. – 7. Considerazioni conclusive.

1. Premessa
   La sentenza commentata (Cass., sez. I civile, 26 gennaio 2006, n. 1525) offre lo spunto per soffermarsi sull’articolata disciplina del conflitto d’interessi, che ha conosciuto significative innovazioni per effetto della novella apportata dal D. lgs. 6/2003 e successive modifiche, nonché per tracciare le linee guida da seguire per le norme da applicare per i contratti stipulati in presenza di conflitto di interessi.

2. Sul conflitto di interessi
   Preme innanzitutto rilevare come già la dicitura in rubrica della norma di cui all’art. 2391 cod. civ. sia mutata: il titolo non cita più l’ipotesi del conflitto, bensì, ampliando la portata della disposizione, tratta semplicemente dell’interesse degli amministratori (1). A tale primo indizio sintomatico del più intenso rigore, segue nel corpo dell’art. 2391 una più dettagliata disciplina, la quale pone delle condizioni maggiormente blindate rispetto al regime previgente.
   L’amministratore, esordisce la norma, deve dare notizia agli altri amministratori e al Collegio sindacale di ogni interesse di cui egli sia portatore, per conto proprio o di terzi, in relazione ad una determinata operazione della società (2), precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata (3).
   Si è così sancito l’obbligo per l’amministratore di comunicare ogni interesse nell’operazione, in luogo dell’interesse in conflitto con la società, volendo impedire che l’amministratore decida, lui solo, circa l’esistenza di un rilevante interesse nell’operazione. Il legislatore ha dunque optato per una soluzione radicale, rimettendo la valutazione sulla opportunità della delibera per la società al consiglio di amministrazione. La disposizione di nuovo conio, inoltre, non prevede più un obbligo di astensione per l’amministratore interessato: c’è invece il dovere per il consiglio che eventualmente approva l’operazione, nel pur dichiarato interesse, di motivarne adeguatamente le ragioni e la convenienza.
   Operando un raffronto con la disciplina ante riforma (4), si rileva che la tutela apprestata alla società in caso di conflitto anche sotto il vigore delle vecchie norme era di tipo successivo. Benché l’amministratore era tenuto prima della discussione e della deliberazione a comunicare l’interesse e ad astenersi, tanto il rimedio dell’impugnativa quanto quello risarcitorio erano subordinati al danno (5).
   Il dovere di astensione è invece mantenuto fermo per l’amministratore delegato; tale previsione, tuttavia, riceve sanzione solo sotto il profilo della responsabilità, vale a dire che la violazione dell’obbligo espone il risarcimento al risarcimento del danno (art. 2391 cod. civ.). Quanto alla sorte del contratto stipulato, è profilo che l’art. 2391 non prende minimamente in considerazione.

3. Annullabilità degli atti posti in essere in conflitto di interessi
   Secondo la tradizionale impostazione, occorre operare una distinzione tra l’atto posto in essere dal rappresentante in esecuzione di una delibera del consiglio di amministrazione, e l’atto concluso direttamente dall’amministratore unico o delegato in conflitto di interessi con la società. Le due fattispecie, pur realizzando entrambe una ipotesi di conflitto, si presentano tuttavia notevolmente difformi sul piano della disciplina applicabile.
   Ed invero, il caso della deliberazione assunta in conflitto di interessi trova il suo riferimento normativo nell’art. 2391 cod. civ., il quale prevede al terzo comma che «nei casi di inosservanza a quanto disposto nei due precedenti commi del presente articolo ovvero nel caso di deliberazioni del consiglio o del comitato esecutivo adottate con il voto determinante dell’amministratore interessato, le deliberazioni medesime, qualora possano arrecare danno alla società, possono essere impugnate dagli amministratori e dal collegio sindacale entro novanta giorni dalla loro data».
   La sorte dell’atto concluso dall’amministratore rappresentante, in esecuzione di delibera consiliare viziata perché assunta in conflitto di interessi con la società, è pertanto condizionata al preventivo annullamento della stessa.
   Da ciò derivano due importanti conseguenze. In primo luogo, l’impugnativa della delibera deve avvenire entro il termine decadenziale di 90 giorni dalla sua adozione; inutilmente decorso tale periodo, l’atto non potrà più essere invalidato (6) e la società non potrà fare altro che rivalersi nei confronti degli amministratori per mala gestio (7). In secondo luogo, l’annullabilità della delibera è a sua volta legata al caso in cui sia fatta valere la potenzialità del danno (8).
   Nella ipotesi dell’amministratore unico o delegato, invece, si ritiene che non possa trovare applicazione l’art. 2391 cod. civ., in quanto tale norma ha come presupposto una delibera dell’organo collegiale. In mancanza di specifica previsione, pertanto, trova applicazione la norma generale di cui all’art. 1394 cod. civ. (9).
   In tale eventualità, dunque, legittimato all’azione sarà il rappresentato, e quindi la società, che potrà agire entro il termine di prescrizione quinquennale a decorrere dalla conclusione del contratto (art. 1442 cod. civ.) (10).
   La portata maggiormente garantistica della disciplina discende non solo dal più ampio margine temporale concesso per l’esperibilità dell’azione, ma anche dalla possibilità di eccepire l’invalidità dell’atto in ogni tempo, in base alla regola quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum (11). Inoltre, l’assenza del danno potenziale per il rappresentato, di per sé, non costituisce elemento decisivo per negare il conflitto d’interessi e, con esso, l’annullabilità dell’atto (12).
   In verità, parte della dottrina (13) aveva avanzato dubbi sull’applicabilità dell’art. 1394 cod. civ. al caso degli amministratori di società per azioni, traendo argomento principe dall’impossibilità di applicare la disciplina generale della rappresentanza alle predette società, caratterizzate invece da rappresentanza organica (14). Siffatta ricostruzione, per quanto autorevole, è rimasta minoritaria, e le obiezioni che ad essa sono state prontamente mosse, da un lato hanno negato che il rapporto organico escluda di per sé il rapporto rappresentativo (15), circostanza che ha portato ad affermare che l’art. 1394 cod. civ. sia applicabile anche ai rapporti fra amministratori e società di capitali e, dall’altro, hanno messo in evidenza che il rapporto intercorrente tra l’art. 2391 cod. civ. e l’art. 1394 cod. civ. si ponga in termini di reciproca esclusione.
   Deve rilevarsi, altresì, che in tempi recenti è stata nuovamente posta in discussione l’applicabilità dell’art. 1394 cod. civ. all’amministratore rappresentante in conflitto d’interessi, nella considerazione della necessità di individuare una regola unitaria di opponibilità a terzi del conflitto, valida per qualsiasi atto compiuto dal rappresentante sociale (16). Diversamente, «l’atto della società sarebbe più o meno viziato a seconda che la gestione della società sia collegiale o unipersonale» (17). Tale regola viene identificata nell’art. 2391 cod. civ., che assurgerebbe a «regola speciale dell’ordinamento societario» in questa materia.
   È stato tuttavia osservato che la littera legis non consente una simile lettura, laddove l’inciso “in ogni caso” di cui all’art. 2391 cod. civ. va interpretato non già come riferito all’ipotesi dell’amministratore unico, quanto piuttosto alla deliberazione del consiglio su cui è imperniata la disciplina dell’art. 2391, primo comma (18). Si è inoltre evidenziato che alla minore tutela accordata alla società rispetto all’ipotesi di atto compiuto dall’amministratore unico o delegato, corrispondono invece «maggiori garanzie di oculatezza e ponderazione che sono offerte dal metodo collegiale che dovrebbero ridurre i rischi di comportamenti conflittuali con l’interesse della società» (19).
   Infine, si segnala l’opposta opinione di chi ritiene applicabile la disciplina della rappresentanza nei contratti anche nel caso in cui l’amministratore abbia agito in base ad una previa deliberazione consiliare viziata ex art. 2391cod. civ. (20).

4. Opponibilità a terzi e limitazione ai poteri di rappresentanza
   Dopo aver tratteggiato le linee fondamentali delle azioni esperibili nell’uno e nell’altro caso, occorre spendere alcune considerazioni relative all’ulteriore aspetto del profilo esterno, ovvero quello dell’opponibilità a terzi dell’avvenuto annullamento dell’atto.
   Sebbene le due ipotesi di conflitto cui si è fatto cenno paiono soggiacere a regole diverse (in quanto l’art. 1394 cod. civ. subordina l’annullamento alla conoscenza o conoscibilità del conflitto da parte del terzo, mentre l’art. 2391 cod. civ. fa salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede), per effetto della modifica apportata dalla attuazione della prima direttiva comunitaria le stesse vedono restringere la diversità di trattamento.
   Ai sensi dell’art. 2384 cod. civ., le eventuali limitazioni ai poteri di rappresentanza degli amministratori, risultanti dallo statuto o da una decisione degli organi competenti, non sono opponibili ai terzi, neppure se pubblicate, a meno che la società non provi che i terzi «abbiano intenzionalmente agito a danno della società» (21).
   Nell’originario testo dell’art. 2384 cod. civ., invece, le limitazioni statutarie ai poteri di rappresentanza erano ammesse in virtù del rinvio, ivi contenuto all’art. 2298 cod. civ., in tema di società in nome collettivo regolari. Tali limitazioni erano molto diffuse nella prassi e consistevano nel divieto di compiere certi atti (22) o nella necessità di particolari adempimenti per il compimento di talune operazioni (23) (ad es., la firma congiunta di tutti gli amministratori aventi la rappresentanza o la previa delibera autorizzatoria del Consiglio di Amministrazione). Simili restrizioni al potere di rappresentanza, se iscritte nel registro delle imprese, erano opponibili ai terzi ed erano, altresì, opponibili anche se non iscritte, purché la società provasse che i terzi ne erano a conoscenza (art. 2298 cod. civ. comma 1). Conseguentemente, l’atto dell’amministratore che avesse travalicato i limiti statutari dei poteri di rappresentanza, poteva essere reso inoperante attraverso la dichiarazione d’inefficacia di cui all’art. 1398 cod. civ.
   Al di là della possibilità di opporre l’exceptio doli al terzo contraente che abbia concordato con l’amministratore un inganno a danno della società, la regola è oggi che i limiti statutari ai poteri di rappresentanza degli amministratori non sono opponibili ai terzi: la loro eventuale violazione da parte degli amministratori non pregiudica la validità degli atti compiuti, e vale solo a rendere gli amministratori responsabili (24) nei confronti della società per risarcimento danni.
   La ratio della nuova norma va rinvenuta nella esigenza di salvaguardare i terzi in buona fede, evitando che clausole denotanti una non perfetta fiducia dei soci negli amministratori consentissero di farne ricadere sui terzi le conseguenze, incidendo negativamente sulla certezza dei traffici giuridici (25).
   Se i limiti statutari possono essere più difficilmente opposti a terzi, i limiti legali al potere di rappresentanza possono ancora essere fatti valere. Tra questi ultimi, la dottrina dominante fa rientrare anche l’obbligo dell’amministratore unico o delegato di non stipulare un contratto in conflitto di interessi con la società (26). Con riferimento, invece, al caso in cui l’esercizio del potere di rappresentanza presupponga una preventiva delibera del consiglio di amministrazione e tale delibera manchi ovvero sia viziata, si discute se si tratti di limite legale o di limite statutario al potere di rappresentanza e, quindi, se la fattispecie possa essere ricompresa o meno nella previsione di cui all’art. 2384 cod. civ., secondo comma. L’orientamento prevalente considera tale dissociazione tra potere deliberativo e potere di rappresentanza in seno all’organo amministrativo come un limite statutario privo di rilevanza esterna (27).

5. Il caso
   Nel caso deciso dalla sentenza in epigrafe, l’amministratore di una società per azioni aveva concluso in nome della società un contratto di prestazione d’opera professionale, avente ad oggetto la determinazione del prezzo di quote di un’altra società. Tale contratto non rispondeva ad alcun interesse della società in nome della quale lo stesso era stipulato, ma piuttosto rispondeva all’interesse esclusivo dell’amministratore, titolare delle quote della società cedente, alla conoscenza del prezzo della cessione.
   Il Giudice di prime cure accoglieva la domanda relativa al pagamento dell’incarico e respingeva le eccezioni della società. Quest’ ultime si basavano sul fatto che l’incarico era stato conferito nel personale interesse del rappresentante, e che l’atto era annullabile e comunque non opponibile alla società in quanto estraneo all’oggetto sociale e neppure autorizzato dal Consiglio di Amministrazione. La sentenza veniva però riformata dalla Corte d’Appello che respingeva la domanda facendo proprie le deduzioni della società, secondo la quale il contratto, in quanto conferito per ottenere elementi necessari alla determinazione del prezzo di cessione delle quote, era stipulato in conflitto di interessi palese e riconoscibile, nonché senza delibera del Consiglio di Amministrazione, e, quindi, invalido ed opponibile.
   Il Giudice di legittimità perviene alle medesime risultanze cui era giunta la Corte territoriale, sebbene – per quanto è dato desumere dalla pronuncia in esame – fondandone la decisione esclusivamente sul secondo dei due profili accennati.
   Pur condividendo l’eccezione della società relativa alla mancanza della delibera autorizzatoria dell’organo collegiale, infatti, la Suprema Corte rileva come tale circostanza, comportante l’illegittimità del comportamento del legale rappresentante, non fosse di per sé rilevante nei confronti dei terzi.
   Il ragionamento compiuto dall’organo giudiziario di vertice muove nel senso di ritenere la mancanza della delibera priva di conseguenze sul contratto stipulato tra la società ed il terzo contraente: infatti, secondo la previsione dell’art. 2384 cod. civ., le limitazioni ai poteri di amministrazione e rappresentanza risultanti dallo statuto non sono opponibili ai terzi, salvo che si provi che questi abbia agito intenzionalmente a danno della società. In assenza della prova dell’exceptio doli, il contratto non può dunque essere invalidato.
   Tra le limitazioni al potere di rappresentanza contemplate dal secondo comma dell’art. 2384 cod. civ., la Corte fa quindi rientrare anche quelle derivanti dalla dissociazione tra potere gestorio e potere di rappresentanza quando esse trovino fondamento in una disposizione statutaria, assumendo che «non varrebbe obbiettare che la limitazione colpisce il potere di “gestione”, anziché quello di “rappresentanza”. È agevole, replicare, infatti, che tali limitazioni si riflettono sull’esercizio del potere rappresentativo, che viene ad essere corrispondentemente ristretto».
   Quanto al profilo dell’art. 1394 cod. civ., è sull’applicabilità di tale norma e sull’accertamento dei requisiti ivi prescritti che la Cassazione fonda la propria ratio decidendi. In particolare, il Giudice di legittimità, sulla scia dell’orientamento dominante, opera una distinzione tra il conflitto di interessi che si profila nell’ambito di una delibera del Consiglio di Amministrazione e quello in cui si trova chi agisce come legale rappresentante di una società in relazione al contratto che deve stipulare.
   Nel primo caso, arguisce la Corte, l’annullamento dell’atto non può avere conseguenze sul contratto nel frattempo stipulato dalla società, salvo l’ipotesi del terzo contraente che agisce intenzionalmente a danno della stessa. Nella seconda ipotesi, troveranno invece applicazione, non già le norme societarie, quanto piuttosto le regole del diritto comune dei contratti, e nella specie, l’art. 1394 cod. civ., secondo cui il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi, è annullabile solo quando tale conflitto sia riconosciuto o riconoscibile dal terzo. Infatti, se il compimento dell’atto posto in essere dal singolo amministratore con il terzo non è stato preceduto da una fase procedimentale concretatasi nell’adozione di une delibera consiliare, la disposizione di cui all’art. 2391 cod. civ. non può ricevere applicazione.
   Si legge nella pronunzia: «nell’ipotesi prefigurata dall’art. 2391 cod. civ. il conflitto emerge in sede deliberativa e, quindi, in un momento anteriore a quello in cui l’atto viene posto in essere, in nome della società, nei confronti del terzo. Esso tocca, pertanto, l’esercizio (…) del potere di gestione, che, data la struttura dell’organo amministrativo, si estrinseca in deliberazioni collegiali: l’annullamento del negozio stipulato con il terzo costituisce riflesso dell’invalidità della delibera dell’organo amministrazione ed è quindi subordinato al suo accertamento. (…) Non essendo quindi ravvisabili le condizioni per il ricorso alla disciplina dettata dal citato art. 2391 cod. civ., l’incidenza del conflitto d’interessi sulla validità del negozio posto in essere dal terzo deve essere regolata sulla base di principi diversi che, in mancanza di altri indici normativi, vanno identificati in quelli fissati, in via generale, dall’art. 1394 cod. civ.».

6. Segue
   La sentenza in epigrafe rappresenta un ulteriore avallo dell’orientamento oramai radicatosi nelle decisioni dell’organo giudiziario di vertice in ordine all’ambito di applicabilità dell’art. 1394 cod. civ. al contratto stipulato dall’amministratore di società per azioni in assenza di delibera del consiglio di amministrazione.
   Se, infatti, la dottrina, benché consenta di rintracciare un filone decisamente maggioritario conforme al principio testé enunciato, offre al riguardo varietà di opinioni, non così la giurisprudenza, la quale presenta invece un orientamento che può dirsi consolidato (28).
   Di particolare interesse è la sentenza della Cass. 1 febbraio 1992, n. 1089 – citata, tra l’altro, dalla decisione in epigrafe – ove la Suprema Corte, dopo essersi pronunciata a favore dell’applicabilità dell’art. 1394 cod. civ. ai rapporti tra società di capitali e amministratori, fa luce sul rapporto intercorrente tra l’art. 1394 cod. civ. e l’art. 2391 cod. civ. Si legge nella pronuncia che seppure «le due norme vogliono considerasi regolatrici della medesima fattispecie e l’applicabilità dell’art. 1394, quale norma generale, voglia ritenersi esclusa dall’applicazione dell’art. 2391 quale norma speciale e settoriale, non potrebbe negarsi che la prima si applica fin dove non possa applicarsi la seconda» (29).
   Si segnala altresì la recente pronuncia della Suprema Corte, 26 settembre 2005, n. 18792, ove si ribadisce espressamente che in tema di conflitto di interessi insorto in ambito societario «gli articoli 1394 e 2391 del cod. civ. si pongono in una relazione di reciproca esclusione, ciascuno avendo un proprio ambito di operatività. L’art. 1394 cod. civ., si applica agli atti compiuti dal rappresentante della società di capitali quando manchi una deliberazione del Consiglio con la determinazione del contenuto del contratto; si applica, invece, l’art. 2391 cod. civ. nel caso in cui il conflitto emerga in sede deliberativa, anche quando l’attuazione del contratto sia affidata all’amministratore in conflitto di interessi con la società».

7. Considerazioni conclusive
   Epilogando, si è fatto cenno, stabilendo che:
   – le dissociazioni tra potere gestorio e potere rappresentativo sono inquadrabili nell’ambito delle limitazioni statutarie e non già delle limitazioni legali;
   – il contratto stipulato dall’amministratore in assenza di delibera di autorizzazione del consiglio di amministrazione è configurabile come eccedente il potere di rappresentanza anziché quello del potere di gestione;
   – la disciplina sul conflitto di interessi di cui all’art. 2391 cod. civ. è applicabile solo in caso di delibera collegiale dell’organo gestorio, con conseguente impossibilità di invocarla ai casi di compimento dell’atto da parte di organo unipersonale;
   – all’ipotesi dell’atto compiuto dall’amministratore unico o delegato è assimilabile quella del caso in cui, pur in presenza di organo collegiale, l’atto sia eseguito dal singolo amministratore in assenza di delibera autorizzatoria del consiglio, quando questa sia richiesta da statuto;
   – al contratto stipulato dall’amministratore unico o delegato o in assenza di delibera del consiglio di amministrazione, si applica l’art. 1394 cod. civ.;
– la disciplina del conflitto di interessi di cui all’art. 1394 cod. civ. è applicabile anche alle società di capitali.
   Nella condivisibile sentenza in commento, la presenza o meno della delibera del consiglio di amministrazione, appare dunque essere lo spartiacque ai fini della applicabilità della disciplina generale dei contratti ovvero quella particolare delle società. La sorte del contratto stipulato in conflitto di interessi dall’amministratore è vicenda estranea alla norma di cui all’art. 2391 cod. civ. e, pertanto, per rintracciarne la disciplina, non può che attingersi al diritto comune dei contratti.
   Si è così definitivamente sgomberato il campo dalla tesi che, invece, tendeva ad escludere l’operatività dell’art. 1394 cod. civ. alle società di capitali, nell’assunto dell’impossibilità di estendere le norme generali sulla rappresentanza al rapporto tra amministratore e società, che integrerebbe piuttosto gli estremi della rappresentanza organica.
   La norma contemplata nell’art. 1394 cod. civ. rinviene la sua ratio nella esigenza di rendere inattaccabile il contratto quando un terzo contratti con un rappresentante in conflitto di interessi, senza tuttavia essere partecipe della situazione di conflitto e senza poterla riconoscere. Se il terzo, tuttavia, conosceva il conflitto e anzi ne abbia profittato, ovvero se la situazione di conflitto è palese al punto che un contraente abbastanza attento avrebbe dovuto accorgersene, allora è chiaro che questi non merita più la tutela approntata dalla legge a suo favore e, pertanto, prevale in tale evenienza l’esigenza di tutela del rappresentato a vedere che le condizioni contrattuali non siano minate dal conflitto di interessi in cui versa il rappresentante.
   La Suprema Corte non ha ritenuto di dover indugiare sul profilo, invero cruciale, della conoscenza o riconoscibilità del conflitto; il che, fa presumere che il relativo accertamento fosse stato nel grado antecedente correttamente compiuto, in ossequio al principio, pacifico in giurisprudenza, secondo cui l’indagine sulla sussistenza o meno, in concreto, di un conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato si risolve in un accertamento di fatto, insindacabile in cassazione se sostenuto da un’adeguata motivazione del giudice di merito, immune da vizi logici e da errori di diritto (30).
   Infine, con riferimento alle prevaricazioni degli amministratori provvisti di rappresentanza e non, si ritiene di avallare l’orientamento secondo cui queste ultime devono essere poste comunque a carico della società, piuttosto che a carico dei terzi in buona fede (e dunque facendo salvo il caso dell’exceptio doli), in omaggio alla regola del “cuius comoda, et eius incomoda”.

 

   (1) Per una più dettagliata disamina dell’istituto, senza pretesa di completezza, cfr. PANZIRONI, Il conflitto di interessi dell’amministratore di s.p.a. nell’elaborazione di dottrina e giurisprudenza, CERADI LUISS, 2003; GUIZZI, sub. art. 2391, in AA.VV, Il nuovo diritto societario, a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, 2004, 652 ss; ALEMAGNA, Potere di gestione e rappresentanza degli amministratori delle s.p.a. dopo la riforma, in Soc., 2004, 284 ss; DI BERNARDO- MATTIA, Il conflitto di interessi degli amministratori nella nuova s.p.a., in Soc., 2005, 557 ss.

   (2) Nella vigenza della vecchia normativa, tanto la dottrina quanto la giurisprudenza ritenevano applicabile la disciplina del conflitto di interessi non solo con riferimento ad operazioni di gestione dell’impresa, ma anche alle attività di organizzazione. DI BERNARDO-MATTIA, op. cit., 559.

   (3) TOFFOLETTO, Amministrazione e controlli, in AA.VV., Diritto delle società. Manuale breve, Milano, 2005.

   (4) Recitava l’art. 2391 cod. civ. vecchio testo «L’amministratore, che in una determinata operazione ha, per conto proprio o di terzi, interesse in conflitto con la società, deve darne notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale, e deve astenersi dal partecipare alle deliberazioni riguardanti l’operazione stessa. In caso di inosservanza, l’amministratore risponde di perdite che siano derivate alla società dal compimento dell’operazione. La deliberazione del consiglio, qualora possa recare danno alla società, può, entro tre mesi dalla sua data, essere impugnata dagli amministratori assenti o dissenzienti e dai sindaci se, senza il voto dell’amministratore che doveva astenersi, non si sarebbe raggiunta la maggioranza richiesta. In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della delibera».

   (5) L’impugnazione era accordata «qualora la deliberazione possa arrecare danno alla società», mentre il risarcimento era subordinato all’accertamento di «perdite che siano derivate alla società dal compimento dell’operazione».

   (6) La mancata impugnazione della delibera nel breve termine di decadenza, sortirà l’effetto di rendere quest’ultima inattaccabile, analogamente agli atti posti in essere in sua esecuzione, potendo dirsi ormai sanato il vizio di annullabilità. Sul punto, cfr. ANGELICI, Amministratori di società, conflitto di interessi e art. 1394 cod. civ., in Riv. Dir. Comm., 1970, 104.

   (7) ANGELICI, op. cit., 136.

   (8) ANGELICI, op. cit., 137.

   (9) ANGELICI, op. cit., 135. Sul punto, cfr. anche PANZIRONI, Il conflitto di interessi dell’amministratore di s.p.a. nell’elaborazione di dottrina e giurisprudenza, in CERADI LUISS, 2003.

   (10) Così Cass. 22 giugno 1990, n. 6278; vedi PANZIRONI, op. cit.; ma contra, MOSCO, La rappresentanza volontaria nel diritto privato, Napoli, 1961, 332, nonché SANTARSIESE, Sulla devianza del potere di gestione delle società capitalistiche, in Giust. Civ. 1990, I, 2274, secondo i quali il dies a quo per l’impugnativa decorre dal momento in cui il rappresentato è venuto a conoscenza della causa di annullabilità, in applicazione del principio contra non valentem agere non currit praescriptio.

   (11) Così BELLACOSA, Il conflitto d’interessi dell’amministratore unico di società per azioni e l’art. 2391 cod. civ., in Giur. Comm., 1997, I, 148.

   (12) BELLACOSA, op. cit., 148.

   (13) FERRI, Fideiussioni prestate da società, oggetto sociale, conflitto di interessi, in Id. Scritti giuridici, III, 983. Sembrano aderire a tale impostazione, altresì, ZANELLI, La nozione di oggetto sociale, Milano, 1962, 383, e GRIECO, Il conflitto di interessi in generale e nell’ambito dei gruppi di società, in Giust. Civ., 1991, II, 141.

   (14) «Esternamente vi può essere posizione di conflitto perché è la stessa persona che agisce per il tramite del suo rappresentante». Così FERRI, op. cit. In giurisprudenza la tesi è stata accolta da App. Milano, 6 giugno 1967.

   (15) Cfr. Cass. 10 febbraio 1962, n. 285, in Dir. Fall. 1962, II, 115; Cass. 8 ottobre 1970, n. 1852, in Foro it. 1970, 2736; Cass. 6 giugno 1988, n. 3829, in Soc., 1988, 1250.

   (16) BELLACOSA, op. cit., 148.

   (17) BELLACOSA, op. cit., 143.

   (18) ENRIQUES, Il conflitto d’interessi degli amministratori di società per azioni, Milano, 2000, 438.

   (19) Così CALANDRA BUONAURA, Potere di gestione e potere di rappresentanza degli amministratori, in Trattato delle società per azioni diretto da Colombo e Portale, 4, Torino, 1991, 173, richiamato da ENRIQUES, op. cit., 439.

   (20) ENRIQUES, op. cit., 439 ss.

   (21) Si fa presente che l’opinione dominante ritiene che tale condotta intenzionale non si identifichi con la semplice mala fede, intesa come conoscenza o negligente ignoranza, ma che contenga un quid pluris coincidente con il concetto penalistico di dolo generico, ovvero con la «coscienza e volontà del terzo di stipulare col rappresentante, sfornito di poteri, un quid dal quale possa derivare oggettivamente un danno alla società» , così Cass. n. 4914/1988, in Dir. Fall. 1989, II, 365.

   (22) Esemplificamente, l’assunzioni di obbligazioni cambiarie superiori ad un certo ammontare o la prestazione di fideiussioni. Sul punto, cfr. GALGANO, Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, I, 279.

   (23) Tali atti potevano consistere in acquisti o vendite immobiliari, operazioni non in contanti o, addirittura, tutti gli atti di straordinaria amministrazione. v. GALGANO, op. cit., 279.

   (24) GALGANO, op. cit., 279.

   (25) Si è osservato come la nuova disciplina abbia inteso anche indirettamente scoraggiare nella società per azioni, tramite la previsione dell’inefficacia esterna, l’introduzione di clausole che limitassero per valore o per categoria di atti i poteri ordinari degli amministratori, ovvero operanti una distinzione tra ordinaria e straordinaria amministrazione, adottando per quest’ultima particolari cautele. Così ALLEGRI, Gli amministratori, 293, in AA.VV., Diritto commerciale, Bologna, 1999.

   (26) CAMPOBASSO, Diritto commerciale, Torino, 2002.

   (27) Così ABBADESSA, La gestione dell’impresa, 109 ss; CABRAS, Poteri di gestione e poteri di rappresentanza nelle società per azioni, in Riv. Dir. Comm., 1973, i, 359; CALANDRA BUONAURA, op. cit., 165 ss; ENRIQUES, op. cit., 395 ss. o, ad ogni modo, da assoggettare per analogia alla disciplina di cui all’art. 2384, secondo comma cod. civ.
Sul punto, cfr. BONELLI, Gli amministratori, 110 ss; LAURINI, in Riv. Soc. 1984, 838 ss. Si segnala la contraria opinione di GALGANO, La società per azioni, 261 ss., secondo cui gli atti compiuti dagli amministratori muniti di rappresentanza privi di potere deliberativo sono invalidi, ma non possono tuttavia essere opposti ai terzi di buona fede in applicazione degli artt. 2377 e 2391, terzo comma, cod. civ

   (28) Cass. 10 febbraio 1962, n. 285, in Dir. Fall., 1962, II, 115, ove l’intimazione di licenziamento nei confronti di un dipendente, effettuata dall’amministratore della società con lettera firmata, non è stata considerata riferibile alla società medesima, in quanto con tale atto il gestore aveva perseguito l’interesse proprio anziché l’interesse sociale e ciò è stato ritenuto sufficiente a negare l’esistenza di una dichiarazione negoziale idonea a spiegare effetti nei confronti della società; conf. Cass. 16 giugno 1961, n. 1407, in Foro it. 1961, 1691; Cass. 8 ottobre 1970, n. 1852, in Foro it., 1970, 2736.

   (29) Nella fattispecie sottoposta all’attenzione della Suprema Corte, l’amministratore delegato aveva alienato alcuni immobili ad altra società al solo scopo di poter adempiere ai propri debiti mediante l’utilizzo del denaro ricavato dall’operazione. A seguito della messa in liquidazione della società, il liquidatore, riscontrando che il prezzo pattuito non era stato riscosso dalla società, conveniva in giudizio la società acquirente, chiedendo che fossero accertate tale ultima circostanza, nonché la simulazione della vendita, e in subordine, l’annullamento del contratto in quanto concluso dall’amministratore in conflitto di interessi. La Cassazione confermava la decisione della Corte territoriale, la quale, in riforma della sentenza di primo grado, aveva annullato il contratto perché ritenuto sussumibile nella norma di cui all’art. 1394 cod. civ.

   (30) In tal senso, Cass. 10 aprile 2000 n. 2505, in Giur. It., 478; Cass. , 17 maggio 1985, n. 3020, in Rep. Giur. It, 1985, voce “Obbligazioni e contratti”, n. 311; Cass. 17 aprile 1972 n. 1214, in Dir. Fall., 1972, II, 986. Sul punto, v. anche Cass., 4 novembre 1991, n. 11741, in Giur. It., 1992, I, 1, 1525, ove si precisa che il conflitto di interessi tra il rappresentante ed il rappresentato non può essere rilevato d’ufficio o dedotto per la prima volta in sede di legittimità, ma può essere fatto valere dal rappresentante solo in sede di merito. Per un approfondimento della tematica, cfr., tra gli altri, VISINTINI, Della rappresentanza, in Commentario del cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Libro quarto, Delle obbligazioni (artt. 1372- 1405) Bologna, 1993, 264 ss.

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