il diritto commerciale d’oggi
    V.4 – aprile 2006

STUDÎ & COMMENTI

 

MARIO LIBERTINI

I centri di ricerca e le invenzioni dei dipendenti
nel Codice della Proprietà Industriale *

 

SOMMARIO: 1. Premesse. I diritti di proprietà intellettuale come strumenti di premio-incentivo per gli investimenti in ricerca e sviluppo da parte di imprese. Non eccezionalità delle norme sulle c.d. invenzioni dei dipendenti. – 2. La tripartizione tradizionale delle invenzioni dei dipendenti nel diritto italiano. – 3. L’ottenimento del brevetto come condizione per la nascita del diritto all’equo premio. – 4. I criteri di determinazione dell’equo premio. – 5. Ambito di applicazione e altri problemi interpretativi relativi alle c.d. invenzioni occasionali. – 6. Le ” invenzioni universitarie”. La scelta politico-legislativa del legislatore del 2001 e la sua conferma da parte del CPI. Critica. – 7. I problemi nuovi nella disciplina delle invenzioni universitarie: la disciplina delle invenzioni realizzate nell’ambito di accordi di cooperazione con soggetti esterni. – 8. I problemi non risolti della disciplina delle invenzioni universitarie.

1.
   Nell’affrontare il tema assegnatomi, vorrei muovere da due premesse di ordine generale, che mi sembrano importanti per l’inquadramento sistematico delle norme da esaminare e che non possono dirsi, al momento, condivise da tutti i cultori della materia.
   La prima riguarda il rapporto fra tutela della proprietà intellettuale e tutela della concorrenza.
   È ancora molto diffusa, se non prevalente, l’idea che le norme sulla p.i. diano vita a diritti di monopolio, come tale irrimediabilmente contrastanti con i principi di libertà di concorrenza (anche se poi, salvo alcune posizioni estremistiche, si ammette che queste “deroghe alla libertà di concorrenza” debbano rimanere in vita, propter aliquam utilitatem). Questa idea nasce da una lettura dell’intero diritto della concorrenza nella chiave dell’efficienza statica allocativa, propria dell’analisi economica neoclassica (e della economic analysis of law ortodossa) e focalizzata, dunque, sul paradigma dell’equilibrio economico: se scopo del diritto della concorrenza è quello di garantire l’equilibrio ottimale fra produzione e domanda, a condizioni economiche date, ne consegue che il brevetto (o il diritto d’autore, o qualunque altro diritto di p.i.), in quanto consente al titolare di ottenere un prezzo sopracompetitivo, riduce per definizione l’efficienza allocativa.
   Il difetto di questa impostazione sta proprio nelle premesse ideali da cui muove: “questa teoria [cioè l’analisi economica neoclassica] è diventata sempre più un esercizio tautologico di deduzione matematica, senza collegamento con la realtà economica” (1). Il concetto stesso di efficienza allocativa suppone che vi sia una struttura data dei bisogni umani e scelte razionali da parte di tutti gli attori del mercato, mentre i bisogni e la domanda costituiscono una realtà mutevole, influenzata da asimmetrie informative e fattori culturali vari, che portano a scelte spesso fondate su motivazioni non razionali.
   Da qui la crescente propensione a leggere il diritto della concorrenza nella chiave dell’efficienza dinamica dei mercati, cioè della tutela di un processo competitivo caratterizzato da un flusso continuo di innovazioni in condizioni di equilibrio permanentemente instabile e di informazione e razionalità imperfetta (2). In questa visione, che sostituisce al paradigma dell’equilibrio quello dello sviluppo economico, si recupera un proficuo dialogo con le scienze dell’economia e dell’organizzazione aziendale e si recupera, ad avviso di chi scrive, il senso profondo delle scelte del legislatore antitrust comunitario (espresse soprattutto nella disposizione, di cui sempre più si coglie il ruolo centrale nel sistema, dell’art. 81, § 3, Tratt. CE) (3).
   In questa prospettiva, le norme sulla proprietà intellettuale non appaiono più come un freno alla concorrenza, bensì come uno strumento essenziale per mantenere elevata la spinta all’innovazione (non più un freno, ma un acceleratore, se si vuole usare una metafora). Soprattutto, fra diritto della proprietà intellettuale e diritto della concorrenza non vi è contraddizione, bensì piena coerenza, a livello di principi (4). C’è naturalmente un problema di giusta scelta della durata e dell’intensità della protezione che l’ordinamento dà alla creazione intellettuale, perché le finalità della protezione verrebbero tradite nel caso in cui questa fosse inadeguata (per eccesso o per difetto) rispetto alla finalità di stimolo all’innovazione. Ma questo è un problema, pur importantissimo (5), che può dirsi di secondo livello.
   Una volta riconosciuto che la finalità di premio/incentivo, tradizionalmente riconosciuta ai diritti di proprietà intellettuale, non costituisce una eccezione a principi generali, ma è piuttosto una coerente espressione di principi generali della disciplina dell’economia di mercato, è opportuno esplicitare una seconda considerazione di ordine generale, che mi sembra ancor meno generalmente riconosciuta di quanto non sia la prima.
Di solito, quando si ragiona di premio/incentivo per le creazioni intellettuali, si pensa che destinatari di questo strumento normativo siano l’individuo e la sua creatività. In tal senso, l’idea del premio/incentivo finisce per intrecciarsi con una linea di pensiero antica, ma ancora largamente rappresentata, che inquadra sistematicamente i diritti di proprietà intellettuale come istituti non eccezionali, ma fa ciò fondandosi su un ragionamento ben diverso da quello sopra svolto, e precisamente sul richiamo ad altri principi, come quelli di tutela del lavoro o della persona umana (6).
   A mio avviso, questa idea distorce profondamente la funzione degli istituti considerati. Basta un minimo di riflessione storica e psicologica per riconoscere che la creatività individuale può essere elevata e può dar luogo a risultati altissimi in situazioni in cui manca del tutto l’incentivo costituito dai diritti patrimoniali di proprietà intellettuale: così, per la ricerca scientifica (anche applicata) e filosofica, nella condizione di “libertà e solitudine” delle grandi università; così ancor più, per la letteratura, le arti figurative e la musica (i cui maggiori capolavori sono stati prodotti proprio in momenti storici che non conoscevano il diritto d’autore). Gli individui possono essere stimolati a grandi creazioni intellettuali da motivazioni che nulla hanno a che vedere con il profitto, e possono fornire grandi creazioni anche con il sostegno del mecenatismo o della domanda pubblica (“fuori mercato”).
   Ciò per cui, invece, è indispensabile il sistema di premio/incentivo, proprio dei diritti di proprietà intellettuale, è l’investimento imprenditoriale, che è necessario per trasformare l’idea inventiva individuale (o la prestazione artistica isolata) in un prodotto di serie, atto ad essere offerto sul mercato ad una serie aperta di utilizzatori; in una parola, in un “prodotto industriale”.
   In proposito, si deve fare un’altra considerazione. Per i prodotti artistici e scientifici la trasformazione dell’idea inventiva in prodotto industriale è in molti casi (fatta eccezione per i prodotti culturali che sono già nati in un contesto industriale, come quelli del cinema e della televisione) non necessaria ai fini della qualità del prodotto (ed anzi, talora, fonte di banalizzazione del prodotto culturale). Per le invenzioni industriali coperte da brevetto, invece, la trasformazione dell’idea inventiva in prodotto industriale è un passaggio obbligato per far sì che la creatività contenuta nell’idea originale (che, normalmente, si traduce nell’ideazione di un prodotto ancora rudimentale) possa tradursi progressivamente in merci atte a soddisfare bisogni umani. A tal fine sono indispensabili investimenti di tipo imprenditoriale ed è necessaria un’organizzazione dell’attività di “ricerca e sviluppo”, che selezioni idee inventive (anche limitate a perfezionamenti di routine) e le trasformi progressivamente in prodotti industriali, in un processo di continuo perfezionamento e innovazione. Le idee inventive di Leonardo, che probabilmente non hanno paragone nella storia, se misurate col metro della creatività individuale, non potevano trasformarsi in prodotti industriali per la mancanza di un sistema di imprese atto a valorizzarle.
   Le innovazioni industriali vere e proprie (e ciò vale per l’industria manifatturiera come per quella chimica o elettronica o culturale o per qualsiasi altra industria) nascono da cospicui investimenti e da lavoro organizzato di ricerca e sviluppo dei prodotti.
   I diritti di proprietà intellettuale costituiscono premio/incentivo necessario proprio per i relativi investimenti e devono essere inquadrati sistematicamente, anche a livello costituzionale, nelle norme a tutela dell’impresa e del suo ruolo.
   In questa prospettiva, le norme sulle c.d. invenzioni dei dipendenti non hanno carattere di eccezionalità; non costituiscono (come pure spesso si è ritenuto) (7) eccezionale “espropriazione” dei frutti del lavoro inventivo del dipendente a favore di un soggetto privato (l’impresa, datore di lavoro). La disciplina tradizionale delle invenzioni dei dipendenti, attribuendo tendenzialmente all’impresa la titolarità dei diritti patrimoniali sull’invenzione, costituisce invece il riconoscimento del fatto che i prodotti brevettati destinati alla commercializzazione sono messi a punto quasi sempre mediante l’attività di laboratori di ricerca e sviluppo operanti nell’ambito di organizzazioni imprenditoriali, e sono frutto di specifici investimenti imprenditoriali nell’ambito dell’attività di ricerca e sviluppo.
   Le norme in esame devono dunque essere lette come norme volte a favorire gli investimenti nella ricerca industriale organizzata (8) e, per tale ragione, volta a proteggere i risultati ottenuti in centri di ricerca organizzati in forma imprenditoriale (9). Esse possono essere altresì inquadrate in una più generale tendenza alla protezione dell’impresa come luogo di formazione di conoscenze specifiche e differenziate (10); tendenza che trova riscontro significativo, nel CPI, nell’insieme di norme volte a proteggere, con strumenti proprietari (11), le informazioni aziendali riservate.

2.
   Passando, dopo queste premesse, all’esame dell’art. 64 CPI, deve constatarsi che lo stesso non ha realizzato un significativo ammodernamento della disciplina. Continuano ad essere previste, secondo la tradizione italiana, tre ipotesi:
   - invenzioni di servizio (“attività inventiva prevista come oggetto del contratto e a tale scopo retribuita” > titolarità dell’invenzione in capo al datore di lavoro e solo diritto morale del dipendente);
   - invenzioni di azienda (invenzione effettuata nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto, in cui manchi però la previsione di una retribuzione a compenso dell’attività inventiva > titolarità dell’invenzione in capo al datore di lavoro e diritto all’equo premio in capo al dipendente);
   - invenzioni occasionali (casi residuali di invenzioni del dipendente, che rientrino nel campo di attività del datore di lavoro > diritto di opzione del datore di lavoro).
   Il CPI è intervenuto sulla materia su diversi aspetti (soprattutto la disciplina dell’equo premio), ma ha lasciato impregiudicati alcuni importanti problemi interpretativi, suscitati dalla vecchia disciplina (12).
   In particolare, vi è stato contrasto sui criteri distintivi delle tre fattispecie:
   a) la tesi più tradizionale ritiene che ricorra la prima ipotesi quando l’invenzione sia prevista come oggetto del contratto e quindi la retribuzione possa qualificarsi come corrispettivo dell’attività inventiva; la seconda ipotesi si avrebbe tutte le volte in cui l’invenzione sia maturata nell’ambito dell’esecuzione di un rapporto di lavoro avente ad oggetto mansioni diverse dall’attività inventiva; la terza ipotesi quando l’invenzione sia frutto di attività svolta dal dipendente al di fuori dell’esecuzione del rapporto di lavoro (cioè fuori dall’ambiente e dall’orario di lavoro);
   b) una diversa tesi, risalente in dottrina (Ascarelli) e a cui sembra essersi avvicinata la Cassazione in tempi recenti, ritiene che ricorra la prima ipotesi quando il contratto abbia ad oggetto un’attività di ricerca industriale e preveda una speciale retribuzione in caso di conseguimento dell’invenzione; la seconda ipotesi quando il contratto abbia pur sempre ad oggetto un’attività di ricerca industriale, ma non preveda un particolare premio in caso di conseguimento dell’invenzione; la terza ipotesi in qualsiasi altro caso di invenzione realizzata dal prestatore di lavoro e interessante per l’attività dell’impresa.
   L’interpretazione b è preferibile, perché più aderente alla realtà dell’organizzazione del lavoro industriale, in cui la ricerca è un dato normale, mentre l’invenzione è un risultato auspicato ma tutto sommato eccezionale. È dunque normale considerare l’attività di ricerca come una mansione del lavoratore, ma non altrettanto lo è considerare come mansione l’invenzione, che è un risultato finale, che può essere ottenuto o meno per un insieme di ragioni anche indipendenti dalla volontà e dalla capacità del lavoratore. In tale prospettiva diviene coerente la scelta normativa di attribuire ai dipendenti, che hanno concretamente cooperato al conseguimento di un’invenzione, nel caso in cui tale risultato sia raggiunto, un premio speciale rispetto all’ordinaria retribuzione.
   È dunque razionale ed equo che la ratio della distinzione tra invenzioni “di servizio” e invenzioni “di azienda” sia ricostruita intorno all’idea dell’attribuzione di un “premio” al ricercatore che consegue un’invenzione.
   In questa prospettiva, la ricostruzione della terza fattispecie (la c.d. invenzione occasionale) può evitare di far capo ad un criterio labile, qual è quello del conseguimento dell’invenzione all’interno o al di fuori del rapporto (o dell’orario) di lavoro (13). L’ambito di applicazione della disposizione può dunque allargarsi a tutte le invenzioni conseguite da un dipendente, quali che siano le mansioni a cui è adibito, sul solo presupposto che l’invenzione rientri nell’ambito di attività dell’impresa in cui il dipendente opera, e possa dirsi dunque positivamente ispirata dalla “cultura d’impresa”, di cui il dipendente è comunque partecipe (14).

3.
   Le riflessioni, sopra rapidamente svolte, potevano già farsi, in ordine alla materia trattata, sulla base della sola disciplina dell’abrogata legge invenzioni. Vediamo ora le innovazioni apportate dal CPI.
   Con riguardo alle invenzioni di azienda, il CPI ha ritenuto di precisare, in conformità all’orientamento giurisprudenziale prevalente, che il diritto sorge solo se il datore di lavoro “ottenga il brevetto”. La norma è volta ad evitare l’insorgere di pretese di premi per trovati che non raggiungono la soglia della brevettabilità. Tuttavia, la norma sembra far dipendere la nascita del diritto, in capo al dipendente, da una scelta libera dell’impresa (brevettare o non brevettare), o magari anche da fatti oggettivi, che impediscano l’ottenimento del brevetto, che possano essere imputabili all’impresa per colpa o dolo.
   Per riequilibrare la disciplina, la condizione dell’ottenimento del brevetto va contemperata, a mio avviso, con la regola dell’art. 1359 cod. civ.: il diritto all’equo premio sorgerà dunque ugualmente, se la brevettazione non c’è stata per causa imputabile al datore di lavoro (cioè per sua libera scelta o perché vi è stata divulgazione colpevole, ecc.).
   La successiva dichiarazione di nullità non dà luogo a diritto di restituzione delle somme pagate al lavoratore.

4.
   Il CPI ha ritenuto anche di dettare ex novo dei criteri per la determinazione dell’equo premio (nella vecchia disciplina mancava qualsiasi indicazione normativa).
   Tali criteri sono:
   (i) “l’importanza della protezione conferita all’invenzione dal brevetto”;
   (ii) le “mansioni svolte”;
   (iii) la “retribuzione percepita dall’inventore”;
   (iv) il “contributo che questi ha ricevuto dall’organizzazione del datore di lavoro”.
   In tal modo, il legislatore si è solo parzialmente ispirato alla c.d. formula tedesca, preferita dalla giurisprudenza più recente (I = V x X : P, ove P è la somma di tre punteggi legati all’importanza del trovato, all’apporto personale e alle mansioni). Senza voler sopravvalutare la questione (per il fatto che nessuna formula dà previsioni certe sull’esito della valutazione, cha rimane ampiamente discrezionale), non si vede quale sia il risultato perseguito dal legislatore, nell’aver voluto segnare un distacco dall’orientamento prevalente (15); l’unico punto significativo può essere il rilievo (propriamente equitativo) dato alla retribuzione già percepita dal lavoratore. Gli altri criteri appaiono ragionevoli e sostanzialmente coerenti alla “formula tedesca”, sempre che quello sopra riportato sub (i) voglia riferirsi all’importanza oggettiva dell’invenzione (il testo normativo è invero oscuro) (16).

5.
   Un ulteriore problema interpretativo, creato dall’innovazione legislativa, riguarda le invenzioni occasionali: la vecchia disciplina limitava l’ambito di applicazione alla “azienda” in cui era impegnato il dipendente, oggi si fa invece capo al “campo di attività del datore di lavoro”.
   La scelta normativa ha inteso tutelare maggiormente l’impresa, e in tal senso può essere letta in modo coerente con le premesse svolte al § 1. Tuttavia, essa lascia molte incertezze interpretative. La norma potrebbe essere infatti interpretata con criteri formali (intendendo per “datore di lavoro” il soggetto giuridico con cui intercorre il rapporto contrattuale con il dipendente autore dell’invenzione), ma ciò farebbe dimenticare la realtà dell’impresa di gruppo, e potrebbe portare a risultati ingiustificatamente pregiudizievoli per l’impresa (per esempio: l’invenzione del dipendente di una divisione commerciale, che interessa però il campo principale di produzione dell’impresa di gruppo, non rientrerebbe nell’ambito di applicazione della norma). Se, per contro, si adottasse come criterio quello dell’attività dell’impresa di gruppo nel suo insieme, potrebbe giungersi a risultati paradossali nel caso di gruppi conglomerali (per esempio: potrebbe rientrare nell’ambito della disciplina l’invenzione del dipendente di un’impresa che gestisce aeroporti, anche se essa riguardi la materia delle comunicazioni elettroniche).
   Un criterio razionale di interpretazione è quello per cui l’ambito di applicazione della norma è delimitato dalla considerazione dell’ambiente culturale-aziendale in cui il dipendente opera. La ratio della disposizione sta proprio e solo nel fatto che l’invenzione, ancorché non maturata nell’ambito di un laboratorio di ricerca, è pur sempre influenzata dalla cultura d’impresa, da cui il lavoratore è partecipe (17). In sostanza, si ripresenta così il vecchio criterio del collegamento con l’azienda, che il legislatore ha modificato nel testo normativo.
   Il Codice non ha fornito utili indicazioni neanche per la soluzione del problema relativo al momento in cui sorge il diritto del datore di lavoro, in presenza di un’invenzione “occasionale”: se dopo l’avvenuta brevettazione (da considerare frutto di una scelta insindacabile) del dipendente, ovvero già solo con l’avvenuto conseguimento dell’invenzione. L’inquadramento sistematico proposto (che vede le norme sulle “invenzioni dei dipendenti” come norme poste a tutela degli investimenti dell’impresa) fornisce un criterio di soluzione nel secondo senso. Correlativamente all’insorgere del diritto del datore di lavoro si devono ritenere sussistenti, in base al principio generale di buona fede contrattuale, obblighi di comunicazione da parte del dipendente (18).
   Un ulteriore problema riguarda la previsione di un arbitraggio obbligatorio per la determinazione dell’equo premio (art. 64, commi 4 e 5, CPI), che può far sorgere qualche dubbio di legittimità costituzionale. Il dubbio dev’essere però superato, perché la procedura disciplinata dai commi 4 e 5 ha carattere amministrativo e non esclude un sindacato giurisdizionale nel caso in cui la decisione degli arbitratori sia viziata da eccesso di potere (19).

6.
   L’art. 65 detta una disciplina particolare (introdotta, per la prima volta, con l’art. 7.1 della legge 18 ottobre 2001, n. 383) per le invenzioni dei ricercatori delle Università e degli enti pubblici di ricerca.
   La differenza saliente, rispetto alla disciplina generale, sta nel fatto che in questo caso, benché la ricerca costituisca mansione propria del dipendente, egli (e non l’ente datore di lavoro) è titolare dei diritti, anche patrimoniali, sull’invenzione conseguita in corso di rapporto.
   La ratio della diversità di disciplina è stata, nell’intenzione del legislatore storico (2001), duplice:
   a) conseguire il risultato di una maggiore valorizzazione delle invenzioni conseguite nell’ambito della ricerca universitaria (in base all’idea che l’interesse egoistico del ricercatore/proprietario dovrebbe spingere verso tali risultati, più di quanto non possa avvenire attraverso la gestione burocratica dei diritti di proprietà industriale);
   b) tenere conto del fatto che la ricerca universitaria è “libera” nel contenuto, a differenza di quanto accade nella ricerca industriale, che avviene all’interno delle aziende, in cui le strategie e gli obiettivi della ricerca sono determinati dagli organi amministrativi dell’impresa e imposti ai dipendenti attraverso il vincolo gerarchico.
   Personalmente ho dubbi sulla fondatezza della scelta. L’insoddisfacente valorizzazione dei risultati della ricerca universitaria deriva dal fatto che le Università non hanno, per solito, i mezzi finanziari, né gli incentivi appropriati, per affrontare in proprio la fase di sviluppo dell’invenzione. Funzione precipua delle Università e dei centri di ricerca pubblici è stata storicamente, e dovrebbe ancora essere, quella di svolgere ricerca di base, e quindi di produrre idee inventive e in genere creazioni intellettuali destinate poi a divenire di dominio pubblico, e quindi tali da essere valorizzate nell’ambito della ricerca industriale autonomamente svolta dalle imprese in concorrenza fra loro. Altra funzione precipua dei centri di ricerca pubblici dovrebbe essere quella di supplire alla carenze della ricerca industriale privata, nei campi in cui il mercato non fornisce sufficienti incentivi (si pensi al problema dei c.d. “farmaci orfani”) (20).
   Per contro, l’industria privata ha un forte interesse ad avvalersi della ricerca pubblica come fornitrice di: (i) idee; (ii) persone; (iii) servizi su commessa. A tal fine, i mezzi finanziari di cui l’industria dispone sono più che sufficienti per ottenere la disponibilità individuale dei ricercatori universitari a collaborare, con incentivi vari (da quello direttamente monetario a quelli consistenti nel potenziamento delle strutture in cui il ricercatore opera, e che costituiscono uno strumento importante per migliorare la sua posizione nello stesso mondo universitario).
Viceversa, l’industria non ha interesse a dare alle Università un ruolo di partner paritario nei processi di ricerca e sviluppo, perché le Università, pur essendo in grado di fornire idee inventive, capitale umano e know-how nel campo della ricerca in senso proprio, non sono in grado di partecipare all’impegno finanziario occorrente per lo sviluppo del prodotto, né a fornire contributi significativi ai fini dell’industrializzazione dello stesso. A ciò si aggiunga che, in molti casi, l’industria privata può avere un interesse contrario allo sviluppo di filoni di ricerca universitaria, che potrebbero avere effetti negativi rispetto a filoni di ricerca concorrenti, sui quali le imprese hanno già molto investito.
   Rispetto a questa asimmetria strutturale di situazioni, la soluzione razionale sarebbe costituita dal rafforzamento del potere contrattuale delle Università e dalla ricerca, da parte di queste, di partner industriali direttamente interessati alla valorizzazione (ci sarebbe largo spazio per banche dotate di vero spirito di iniziativa).
   La soluzione adottata dal legislatore va, sostanzialmente, in direzione opposta. Essa infatti toglie incentivi alle Università per impegnarsi in proprio nella valorizzazione dei risultati della ricerca, ed attribuisce i diritti a individui che, salvo eccezionali casi di possesso di talento imprenditoriale, saranno ancor più incentivati ad instaurare con le imprese private rapporti di collaborazione non paritari (cioè ad operare più come fornitori di servizi professionali che non come imprenditori in partnership) (21).

7.
   La disciplina comunque esiste e va interpretata.
   Dopo l’entrata in vigore della riforma del 2001, il problema che ha maggiormente diviso gli interpreti riguarda l’ambito di applicazione oggettivo della norma.
   Secondo alcuni (22) la nuova disciplina si applica a qualsiasi trovato inventivo realizzato dal ricercatore universitario nel corso della sua attività. Secondo altri (23) la nuova disciplina si applica invece alla sola ricerca “libera”, mentre rimarrebbe in vigore la disciplina generale sulle invenzioni dei dipendenti per la ricerca “commissionata” al ricercatore dall’esterno. La ratio di questa scelta interpretativa, oltre che legata alla ricostruzione storica dell’intenzione del legislatore, è quella di non disincentivare l’afflusso di finanziamenti esterni alla ricerca universitaria, nella forma di commesse di ricerca.
   Nell’ambito di questa tesi si era determinata poi una divergenza sul concetto stesso di ricerca “libera”: per alcuni (Floridia) è tale qualsiasi ricerca che non avvenga su commessa di un soggetto esterno all’Università; per altri (Libertini) sono tali quelle ricerche che non siano eseguite su deliberazione degli organi decisionali dell’Ateneo, ma siano frutto di spontanea programmazione della propria attività da parte del ricercatore.
   Con l’ultimo comma dell’art. 65, il legislatore ha voluto espressamente accogliere la prima tesi, escludendo dal campo di applicazione della disciplina i risultati delle “ricerche finanziate, in tutto o in parte, da soggetti privati, ovvero realizzate nell’ambito di specifici progetti di ricerca finanziati da soggetti pubblici diversi dall’università, ente o amministrazione di appartenenza del ricercatore”.
   La precisazione crea però una serie di problemi interpretativi:
   a) anzitutto, come è stato segnalato da diversi interpreti , si è creata una contraddizione fra il comma 2 e il comma 5 dell’art. 65, perché il comma 5 dichiara inapplicabile l’intera disciplina dei commi precedenti (quindi compreso il 2) alle ricerche finanziate da privati, mentre il comma 2 attribuisce all’ente pubblico di ricerca un potere regolamentare anche in questa materia; dovendosi superare la “lacuna per contraddizione”, mi sembra ragionevole dare prevalenza alla norma storicamente sopravvenuta, cioè al comma 5;
   b) un secondo paradosso, anch’esso ampiamente segnalato in dottrina, sta nel fatto che, una volta dichiarato inapplicabile l’art. 65 nel suo complesso, non è chiarito qual sia la norma applicabile: se la titolarità dell’invenzione debba attribuirsi al centro di ricerca, ai sensi dell’art. 64, ovvero al ricercatore individuale (25); se si segue l’impostazione sistematica ritenuta preferibile nelle pagine precedenti, la soluzione dev’essere la prima;
   c) la “specificità” del finanziamento sembra richiesta solo per i finanziamenti di provenienza pubblica [si è pensato all’esistenza di finanziamenti pubblici (statali, regionali o locali) destinati al funzionamento generale dell’ente, e si è voluto chiarire che l’esistenza di finanziamenti di questo tipo non impedisce l’applicazione della disciplina ordinaria]; non si è pensato però che contributi generali al funzionamento potrebbero anche provenire da un’impresa privata, così come potrebbero esservi casi di “contributi”, anche di modico valore, legati a qualche frammento dell’attività di ricerca; in sostanza, credo che si debba preferire un’interpretazione sistematica, che leghi l’eccezione all’esistenza di un vero e proprio contratto di ricerca (comunque determinato), con la previsione di un finanziamento di scopo a carico del soggetto esterno all’Università; ciò comporta, tuttavia, una inevitabile forzatura del testo;
   d) un’ulteriore differenza sta nel fatto che, per il finanziamento privato, l’eccezione opera anche nel caso di finanziamento “parziale”, mentre nel caso del finanziamento pubblico questa precisazione manca, sicché viene da pensare che il finanziamento debba essere “totale”; tuttavia, dato che la ratio della disposizione è quella di favorire l’afflusso di finanziamenti esterni alla ricerca universitaria, sembra opportuna anche qui un’interpretazione sistematica unitaria (tanto più che non è semplice configurare il caso di ricerche che siano finanziate “integralmente” dall’esterno, a meno che si considerino i soli costi variabili);
   e) un terzo problema riguarda eventuali ricerche commissionate da organizzazioni (società, consorzi) a cui partecipi anche l’ente di appartenenza, e che però sono da qualificare come “soggetti diversi” da tale ente; la soluzione che mi sembra preferibile è quella di applicare la deroga anche per le ricerche finanziate da questi soggetti (a meno che si tratti di organizzazioni soggette a controllo esclusivo dell’ente-datore di lavoro).

8.
   A parte i problemi di interpretazione dell’ultimo comma, la disciplina pone diversi altri problemi interpretativi, già evidenziati dai primi interpreti della l. 383/2001, su cui il legislatore non è intervenuto:
   (i) quanto all’oggetto della disciplina, esso sembra limitato alle invenzioni brevettabili, anche se sembrerebbero forti le ragioni di analogia con gli altri diritti di proprietà industriale, disciplinati dal CPI (26); tuttavia, considerate le perplessità sui principi ispiratori della disciplina, è da ritenere preferibile un’interpretazione letterale;
   (ii) per “ricercatore” si intende un dipendente che abbia specifiche mansioni di ricerca (non necessariamente esclusive); quindi, non i tecnici esecutivi e gli impiegati amministrativi addetti a laboratori di ricerca; sono altresì esclusi i collaboratori autonomi (27), e quindi anche i dottorandi e gli studenti;
   (iii) per i ricercatori dipendenti il diritto è da considerare irrinunciabile, in corso di rapporto (arg. ex art. 2113 cod. civ.); non così per i collaboratori autonomi, i dottorandi e gli studenti;
   (iv) si deve però distinguere la rinuncia ex ante al diritto non ancora sorto (invalida) dall’eventuale atto di disposizione, a favore dell’Università, del diritto già sorto: questo è da ritenere valido e spesso risponde ad un interesse e ad un’esigenza dello stesso dipendente (28);
   (v) più dubbia è l’ammissibilità di una rinunzia in toto del diritto da parte del ricercatore (s’intende: dopo che il diritto sia sorto); questa facoltà parrebbe, a prima vista, attribuita al ricercatore, dal momento che questi è dichiarato “titolare esclusivo dei diritti”; però, dalla lettura sistematica dell’articolo, si desume che gli interessi patrimoniali dell’Università sono stati ampiamente presi in considerazione e tutelati dal legislatore; non può dunque ritenersi che di tali interessi altrui il ricercatore possa essere liberamente disporre; ne consegue che questi ha un dovere di protezione degli interessi dell’ente di appartenenza: l’eventuale rinunzia va dunque equiparata ad una predivulgazione del trovato (fa venir meno il diritto, ma costituisce violazione degli obblighi inerenti al rapporto di lavoro),
   (vi) se l’invenzione è frutto della collaborazione di più persone (caso peraltro normale) “i diritti derivanti dall’invenzione appartengono a tutti in parti uguali, salvo diversa pattuizione”: sul piano testuale, la disposizione sembra richiedere una pattuizione espressa preventiva, ma questa ipotetica regola potrebbe dar luogo a risultati altamente iniqui; è preferibile pensare che, in qualsiasi forma di collaborazione nella ricerca (e salvo patto o prova contraria), sia compresa una clausola d’uso, per la quale i risultati saranno suddivisi in proporzione al contributo dato da ciascuno;
   (vii) il comma 3 dell’art. 65 stabilisce che le Università hanno diritto al 30% dei proventi o canoni, salvo diversa determinazione con regolamento interno; questo limite del 30% può considerarsi disponibile tanto a favore, quanto a svantaggio delle Università, ma solo in presenza di giustificati motivi compatibili con il pubblico interesse alla valorizzazione degli investimenti pubblici nella ricerca; in ogni caso dev’essere rispettato il diritto del ricercatore ad avere almeno il 50% dei proventi (infra, sub ix);
   (viii) il regolamento interno (comma 2) può stabilire “l’importo massimo del canone… spettante alla stessa università… ovvero a privati finanziatori della ricerca, nonché ogni ulteriore aspetto dei rapporti reciproci”; l’autonomia regolamentare può certo esprimersi in vari modi, ma è difficile –come già ricordato- coordinare questa disposizione con quella del comma 5, che sembra dare pieno spazio all’autonomia privata, per le ricerche co-finanziate da privati, e sembra altresì escludere che i diritti di p.i., in tal caso, siano del ricercatore: ne dovrebbe conseguire che, per le ricerche finanziate da terzi, il regolamento abbia valore meramente interno e non prevalga sull’eventuale accordo con il privato e, per altro verso, che esso disciplini i diritti del ricercatore che, in questo caso, assumono le caratteristiche tradizionali di “equo premio”;
   (ix) quanto ai “rapporti reciproci”, di cui parla il comma 2, è da ritenere, per coerenza sistematica con il comma 5 e con la ratio dell’intera disciplina (che non intende scoraggiare le commesse di ricerca da soggetti esterni alle Università) che essi riguardino i rapporti interni fra ente e ricercatore dipendente, e non i rapporti con soggetti terzi;
   (x) l’inventore ha diritto, in ogni caso, “a non meno del 50% dei proventi o canoni”; anche questa norma, che è chiaramente di protezione del dipendente, deve ritenersi inderogabile; è dubbio se i “proventi” e “canoni” debbano intendersi al lordo, oppure al netto delle spese sostenute dall’Università; in parallelismo al comma 3, sembra preferibile la prima soluzione (29);
   (xi) la disciplina prevede dunque un rapporto di cointeressenza fra dipendente-inventore ed ente di appartenenza; ciò implica, anche a prescindere dalla disciplina regolamentare, un obbligo reciproco di collaborare lealmente per la valorizzazione dell’invenzione (informazione ecc.);
   (xii) dopo 5 anni dal rilascio del brevetto, se non sia iniziato “lo sfruttamento industriale” da parte dell’inventore o dei suoi aventi causa, l’ente “acquisisce automaticamente un diritto gratuito [sic], non esclusivo, di sfruttare l’invenzione”; la norma può avere qualche utilità solo nel caso in cui l’acquirente terzo abbia acquisito il brevetto con l’intenzione di non attuarlo; nella maggioranza dei casi, l’inerzia quinquennale sarà sufficiente per scoraggiare iniziative di valorizzazione del brevetto; in ogni caso, è difficile che un’Università, depotenziata (per scelta consapevole del legislatore) nella sua attività di valorizzazione delle invenzioni, possa essere in grado di riprendere, dopo 5 anni, una situazione già compromessa (5 anni di mancato sviluppo possono pregiudicare la maggior parte delle invenzioni);
   (xiii) la norma da ultimo richiamata non si applica quando la mancata attuazione derivi da cause indipendenti dalla volontà dell’inventore; si deve trattare di cause di forza maggiore (per esempio: la procedura amministrativa per l’autorizzazione all’immissione in commercio di farmaci) e non da impotenza finanziaria o cause tecniche, in vario modo imputabili all’inventore.
   In conclusione, credo però che debba ancora condividersi il giudizio secondo cui “non esistono ragioni serie a giustificazione della disparità di trattamento fra i ricercatori universitari e i ricercatori dipendenti di strutture di altro tipo”, per cui la normativa esaminata presenta molti dubbi anche sotto il profilo della legittimità costituzionale (30). Ma le ragioni critiche possono esprimersi, oltre e più che con riferimento alla disuguaglianza fra dipendenti pubblici e privati, alla disuguaglianza fra centri di ricerca pubblici e privati (chiaro essendo che la disciplina in esame crea ostacoli molto pesanti a possibili sviluppi imprenditoriali dei primi) (31).

* Relazione al convegno “Un anno di attuazione del codice della proprietà industriale – Bilancio e prospettive” (Università di Roma Tre, 20 marzo 2006). L’articolo sarà pubblicato anche nella raccolta di “Studi in onore di Giovanni Nicosia”.

NOTE

   (1) Così R.VIALE, Introduzione. La svolta empirica dell’economia, in Le nuove economie, a cura di R.Viale, Il Sole/24 Ore, Milano, 2005, p. 2. Fra le tante prese di posizione analoghe ricordo, per la sua autorevolezza, P.SYLOS LABINI, Torniamo ai classici. Produttività del lavoro, progresso tecnico e sviluppo economico, Laterza, Bari, 2004.

   (2) Testo di riferimento rimane I.M.KIRZNER, Concorrenza e imprenditorialità [1973], trad.it., Rubettino, Soveria Mannelli, 1997.

   (3) Mi permetto di rinviare a M.LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, in Riv.dir.comm., 2002, I, p. 433 ss.; ID., La tutela della concorrenza nella Costituzione italiana, in Giur.cost., 2005, p. 1429 ss.
   Tra gli scritti orientati nello stesso senso (oltre a quelli citati negli scritti di cui sopra e gli altri citati infra alla nota successiva) v., per esempio, A.CUCINOTTA, Resale Price Maintenance. Teoria economica e analisi giuridica nell’antitrust statunitense, Giuffrè, Milano, 2003; W.KERBER – S.VEZZOSO, EU Competition Policy, Vertical Restraints, and Innovation: An Analysis from an Evolutionary Perspective, in World Competition, 28 (4), p. 507 ss. [2005].

   (4) Cfr. D.KALLAY, The Law and Economics of Antitrust and Intellectual Property. An Austrian Approach, Elgar, Cheltenham (U.K.), 2004; R.PERITZ, Rethinking U.S. Antitrust and Intellectual Property Rights, in New York Law School Studies Research Papers, n. 04/05-22 [2005]; M.BERTANI, Proprietà intellettuale, antitrust e rifiuto di licenze, Giuffrè, Milano, 2004.

   (5) Cfr. L.GILLE, La protezione della proprietà intellettuale, fattore della divisione internazionale della conoscenza, in Economia della conoscenza, a cura di A.Pilati e A.Perrucci, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 207 ss.

   (6) Cfr. G.OPPO, Creazione ed esclusiva nel diritto industriale, in Riv.dir.comm., 1964, I, p. 187 ss.; ma ancor di recente A.CELOTTO, Diritto d’autore e circolazione delle informazioni: quale bilanciamento fra valori costituzionali (e comunitari)?, in Ann.Ital.Dir.Aut., 2004, p. 504 ss.
   La costruzione esclusivamente personalistica del diritto d’autore porta poi a rendere incomprensibile (o a far sospettare di incostituzionalità) la protezione dell’industria culturale, che acquisisce diritti esclusivi commissionando a terzi (o acquistando da terzi) opere dell’ingegno. V. da ultimo M.MANETTI, in A.PACE – M.MANETTI, Rapporti civili – La libertà di manifestazione del proprio pensiero, in Commentario della Costituzione (Branca – Pizzorusso), Zanichelli, Bologna, 2006, p. 178.

   (7) Anche dopo l’entrata in vigore del CPI. V., per esempio, A.SIROTTI GAUDENZI, Codice della proprietà industriale, Maggioli, Rimini, 2005, p. 51-2, nota 61.

   (8) Su un piano più generale, potrebbe osservarsi che, se è vero che le invenzioni sono normalmente frutto del lavoro organizzato di più persone, gli schemi organizzativi abituali sono costituiti non soltanto dai centri di ricerca organizzati in forma imprenditoriale.
   Gli schemi organizzativi fondamentali sono tre, e possono essere fra di loro combinati:
   1) accordo di cooperazione fra soggetti indipendenti;
   2) contratto di ricerca, con risultato commissionato ad un prestatore d’opera indipendente;
   3) ricerca organizzata nell’ambito della propria azienda, con l’impiego di personale indipendente.
   Nel primo caso si realizza una comunione di diritti sull’invenzione, con presunzione di eguaglianza delle quote (art. 6 CPI, art. 1101 cod. civ.).
   Nel secondo caso la titolarità dell’invenzione è normalmente regolata nello stesso contratto. In caso di silenzio, si presume che la titolarità spetti al committente (salvo il diritto morale dell’inventore).
Il terzo caso è l’unico dettagliatamente disciplinato dalla legge (artt. 64 e 65 CPI), e quello a cui si riferiscono le osservazioni sviluppate nel testo. Anche per gli altri schemi organizzativi, peraltro, possono risultare utili le premesse esposte nel testo.

   (9) Cfr. M.LIBERTINI, Impresa, proprietà intellettuale e Costituzione, in Ann.Ital.Dir.Aut., 2006 (nonché in www.dircomm.it, 2005).
   Non soddisfa l’opinione, pur abbastanza diffusa (cfr., per esempio, G.FLORIDIA, in P.AUTERI e aa., Diritto industriale2, Giappichelli, Torino, 2005, 230), secondo cui le norme in esame sarebbero pur sempre eccezionali, ma dovrebbero essere giudicate “obsolete” in relazione all’esperienza attuale dell’organizzazione della ricerca industriale, e quindi meriterebbero di essere criticate de jure condendo. L’opinione sarebbe condivisibile se si traducesse in proposte di modifica del contenuto dispositivo delle norme (il che non è); se invece la questione riguarda l’inquadramento sistematico, può dirsi che esso è già compito dell’interprete e non richiede interventi del legislatore.

   (10) Questa concezione dell’impresa come luogo di gestione organizzata ed accentrata (e quindi più efficiente) di un insieme di risorse immateriali, costituite soprattutto da conoscenze produttive, in parte condivise e in parte esclusive, è oggi prevalente negli studi di economia aziendale (ove è riassunta nella formula della resource based view).
   Sul punto cfr., per esempio, E.NOAM, L’impatto economico della conoscenza sull’impresa, in Economia della conoscenza, cit., p. 53 ss.; L.MARENGO – G.PASQUALI, Il mercato, l’impresa e il primato della conoscenza, in Le nuove economie, cit., p. 53 ss.

   (11) Che poi lo strumento del diritto dominicale titolato sia veramente adatto a fornire protezione giuridica alle informazioni aziendali, è punto che può essere messo largamente in discussione (anche se non in questa sede); ma ciò non tocca il valore politico-legislativo della scelta compiuta dal CPI.

   (12) L’occasione è stata perduta per “la preoccupazione delle imprese” (come ci informa FLORIDIA, op.cit., 232; ma per ulteriori informazioni v. G.GHIDINI – M.PANUCCI, La disciplina dei brevetti per invenzione nel nuovo Codice della proprietà industriale, in Dir.ind., 2005, 25). La spiegazione non è confortante, in relazione al ruolo svolto dal legislatore nella vicenda, né in ordine alla lungimiranza delle associazioni imprenditoriali, che hanno probabilmente sottovalutato i guadagni di efficienza che sarebbero derivati da un maggiore certezza giuridica in materia.

   (13) Questa idea dell’invenzione realizzata “al di fuori dell’orario di lavoro”, nella dimensione casalinga della vita del lavoratore, appare certamente “non più attuale” (così M.FRANZOSI, in M.SCUFFI e aa., Il codice della proprietà industriale, Cedam, Padova, 2005, 339). Ciò però dovrebbe indurre (a differenza di quanto si ritiene nello scritto citato) ad accogliere interpretazioni ragionevolmente evolutive, e non a ritenersi vincolati ad una visione dei fenomeni non più attuale.

   (14) Cfr. supra, nota 9.

   (15) Per altri riferimenti su posizioni critiche v. F.SANNA, in UBERTAZZI, Commentario breve al diritto della concorrenza – Appendice di aggiornamento 2005, Cedam, Padova, 2005, 79-80.

   (16) In tal senso cfr. V.PICCARRETA – F.TERRANO, Il nuovo diritto industriale, Il Sole 24 Ore, Milano, 2005, p. 196.

   (17) Nelle spiegazioni consuete (riprodotte anche dopo l’entrata in vigore del CPI: cfr. PICCARRETA – TERRANO, op.cit., p. 197), la ratio della norma inclina verso il riconoscimento di un vero e proprio privilegio a favore del datore di lavoro, più o meno chiaramente fondato sull’obbligo di fedeltà del lavoratore (con evidenti problemi di legittimità costituzionale).

   (18) Conf., su tali punti, FRANZOSI, op.cit., 340.

   (19) Questa è la valutazione contenuta nella relazione ministeriale (cfr. SANNA, op.cit., 80, che però ritiene che la norma preveda un arbitrato obbligatorio e sia perciò incostituzionale). Una linea di pensiero (da ultimo FRANZOSI, op.cit., 341) ritiene che la procedura arbitrale, di cui alla norma in esame, debba ritenersi facoltativa, per evitare valutazioni di illegittimità costituzionale. Tale ragionamento muove però dall’attribuzione al procedimento de quo della natura di giudizio arbitrale (cioè sostitutivo del giudizio del giudice ordinario). Ma ciò non corrisponde all’intenzione del legislatore e neanche al contenuto effettivo della disciplina.

   (20) Si veda, sul punto da ultimo accennato, V.DI CATALDO, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto, e verso un nuovo diritto dei brevetti, in Proprietà intellettuale e concorrenza – Studi di diritto industriale in onore di A.Vanzetti, Giuffrè, Milano, 2004, I, p. 443 ss.

   (21) Per valutazioni critiche simili v. A.VANZETTI – V.DI CATALDO, Manuale di diritto industriale5, Giuffrè, Milano, 2005, 386-7.
Una valutazione meno critica (che tiene conto anche dei fenomeni segnalati infra, alla nota 28), in A.MUSSO, Recenti sviluppi normativi sulle invenzioni “universitarie” (con alcune osservazioni sul regime delle altre creazioni immateriali), in Proprietà intellettuale e concorrenza, cit., II, p. 1061 ss. (cui si rinvia per una compiuta trattazione dei problemi posti dalla disposizione, prima dell’entrata in vigore del CPI, nonché per le proposte di modifica legislativa che sono state avanzate, fin dai primi tempi successivi all’entrata in vigore).

   (22) Per esempio V.DI CATALDO, Le invenzioni delle università, in Riv.dir.ind., 2002, I, 343 ss.

   (23) G.FLORIDIA, Le invenzioni universitarie dopo il pacchetto Tremonti, in Dir.ind., 2002, 10 ss.; M.LIBERTINI, Appunti sulla nuova disciplina delle "invenzioni universitarie", in Foro it., 2002, I, c. 2170 ss.

   (24) V., per tutti, FRANZOSI, op.cit., 354.

   (25) Sul punto v., per esempio, M.GRANIERI, La disciplina delle invenzioni accademiche nel Codice della proprietà industriale, in Dir.ind., 2005, 32, con conclusioni perplesse.

   (26) Secondo alcuni (M.GRANIERI, op.cit., 33) l’analogia potrebbe comprendere anche il diritto d’autore sul software. Non si può tuttavia concordare con l’a. citato quando ritiene che l’ambito di applicazione oggettivo della disciplina sia rimesso ai regolamenti universitari, dal momento che le regole di attribuzione del diritto sull’invenzione non possono che essere di rango legislativo, e che il regolamento può solo intervenire “a valle” delle norme attributive dei diritti.

   (27) Conf. FRANZOSI, op.cit., 354.

   (28) La prassi vede numerose esperienze in tal senso. Può dirsi anzi che, per un effetto non previsto della riforma, le Università sono state indotte, proprio a causa della sottrazione del diritto, subita in linea di principio, ad un maggiore attivismo sul terreno delle iniziative per valorizzare i risultati delle ricerche effettuato all’interno dei propri dipartimenti.

   (29) Si è ritenuto (M.GRANIERI, op.cit., 31) che la norma che attribuisce al ricercatore il 50% dei proventi venga meno nelle ipotesi in cui l’ente pubblico di ricerca sia divenuto cessionario del diritto (per atto volontario del ricercatore) e, tanto più, se lo abbia conferito in una società incaricata della valorizzazione dello stesso (c.d. spin-off). A me sembra invece che la disposizione, in quanto protettiva del ricercatore, possa trovare applicazione anche nelle ipotesi in esame (non si vede infatti perché debba darsi peso decisivo allo strumento giuridico attraverso cui i proventi entrano nel patrimonio dell’ente di ricerca).

   (30) Così VANZETTI – DI CATALDO, op.cit., 387. Ma v. anche, in termini più generali, GRANIERI, op.cit., 36-7.

   (31) Cfr. LIBERTINI, op.cit. alla nota 8.

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