il diritto commerciale d’oggi
    IV.12 – dicembre 2005

STUDÎ & COMMENTI

 

MARIO LIBERTINI
Impresa, proprietà intellettuale e Costituzione

 

   1.
   Questo intervento si articolerà su tre punti:
   a) Definizione della materia: che cosa si intende per impresa nella realtà economico-sociale?
   b) L’impresa, come figura sociale tipica, è nozione rilevante dal punto di vista giuridico-costituzionale?
   c) Come si colloca la rilevanza costituzionale dell’impresa rispetto alla tutela costituzionale della proprietà intellettuale?
   Per contenere le dimensioni del testo, molti passaggi saranno esposti in maniera schematica, con rinvio, esplicito o implicito, alle opere richiamate in bibliografia.

   2. Le teorie dell’impresa nelle scienze sociali.
   L’impresa, come fenomeno sociale, è stata sempre oggetto di riflessioni e teorizzazioni da parte delle scienze sociali ed economiche. Mi sembra interessante richiamare schematicamente, come punto di partenza, i contributi che, in ordine alla tipizzazione del fenomeno, possono trarsi da diversi campi di indagine delle scienze sociali ed economiche.
   A tal fine è necessario distinguere i diversi ambiti disciplinari, perché da essi provengono idee e contributi diversi, non pienamente combinati fra loro in una teoria unitaria, e più o meno significativi per l’elaborazione giuridica.

   2.1. Le teorie sociologiche dell’impresa:
   • L’impresa è un complesso organizzato di persone e mezzi, governato dal principio di autorità.
   • Dal punto di vista strutturale, l’impresa può essere una organizzazione semplice (monarchico / padronale), ma tende ad evolversi in organizzazione di tipo legale-razionale (burocratico).
   • È stata ampiamente sottolineata un’evoluzione che ha portato dalla tradizionale struttura piramidale dell’impresa ad un struttura tendenzialmente “a rete”, con un processo ancora in atto, sulla cui evoluzione vengono disegnati scenari diversi (v., da ultimo, Noam 2005).
   • In ogni caso, pur nell’evoluzione verso strutture sempre più complessamente articolate, rimangono elementi essenziali dell’organizzazione imprenditoriale sia la presenza del principio centralistico di autorità, sia l’impianto legale-razionale (secondo la classificazione weberiana) dei rapporti interni. In altri termini, l’impresa non è mai un’organizzazione di tipo “tradizionale” o di tipo “carismatico”, cioè fondata su una gerarchia di status (in questa prospettiva si svolge da qualche anno una interessante discussione sulla possibilità o meno di qualificare come “impresa” la mafia);
   • Dal punto di vista funzionale, l’impresa –pur potendosi proporre anche scopi secondari – è sempre un’organizzazione finalizzata al conseguimento di profitti, mediante la produzione e lo scambio di beni o servizi.
   • Tipicamente, la finalità di conseguimento del profitto è proiettata in continuità nel tempo, per cui l’impresa si caratterizza anche come organizzazione dotata di una propria strategia di lungo periodo (di sopravvivenza e di crescita).

   2.2. Le teorie dell’impresa nell’economia aziendale:
   • Nella teoria dell’organizzazione aziendale si è assistito ad un cambiamento di paradigma, che ha portato dal modello della “impresa – macchina” a quello della “impresa – sistema culturale”: oggi l’impresa è sempre più configurata come soggetto depositario di conoscenze specifiche e di risorse immateriali; si è così sviluppata anche una branca dell’organizzazione aziendale definita come “knowledge management”.
   • Questa concezione, riassumibile nella nota formula della resource-based view, è in grado di comprendere due diversi tipi fondamentali, che sono quello dell’impresa depositaria di saperi specialistici tradizionali (“organizzazione professionale”, in senso sociologico: formula che può valere così per l’impresa artigiana tipica come per l’attività professionale intellettuale), e quello dell’impresa proiettata verso l’innovazione (che può essere, a sua volta, specializzata od eclettica); in questo quadro, il superamento del vecchio modello “fordista” è spesso interpretato come un meccanismo volto a favorire la produzione di innovazioni all’interno dell’impresa (cfr. Legrenzi 2005).
   • Un’altra acquisizione dell’economia aziendale è quella per cui l’impresa è un’organizzazione che deve costruirsi, di norma, una propria immagine, soprattutto nel rapporto con i consumatori, ma più in generale con l’ambiente esterno.
   • Nella “management science” e nel senso comune che ne deriva, è viva l’dea di una “personalizzazione” dell’impresa, in tutto simile a quella delle vecchie teorie istituzionalistiche, ancorché diverso sia il quadro ideologico in cui si inserisce: da qui una serie di espressioni, entrate nel linguaggio corrente (per esempio: stile aziendale, cultura aziendale, company image, impresa come learning organization, etc.).

   2.3. Le teorie dell’impresa nell’analisi microeconomica:
   • Nella teoria neoclassica, l’impresa è vista come pura funzione della produzione: uno strumento neutro, in grado di trasformare materie prime in merci, sulla base di tecnologie date, fornite dall’ambiente esterno.
   • Radicalmente diversa (ma eterodossa, e non idonea ad essere sviluppata con i metodi standard di analisi economica) è l’impostazione schumpeteriana, in cui il paradigma dell’equilibrio è sostituito da quello dello sviluppo: l’impresa diviene il motore del processo di “distruzione creatrice”, protagonista del flusso di innovazioni che caratterizza il processo di concorrenza dinamica; questa radicale diversità nella considerazione funzionale dell’impresa non si traduce però, nelle elaborazioni della c.d. scuola austriaca, in una compiuta teoria economica dell’impresa (Müller 2002); si può però riconoscere che l’insegnamento schumpeteriano è stato tra le fonti di ispirazione della resource-based view aziendalistica (Mathews 2002).
   • Nell’ambito dei metodi dell’analisi economica “ortodossa”, un passaggio radicalmente innovativo si ha invece con la teoria dell’impresa come struttura autoritativa atta a ridurre i costi transattivi (Coase, Williamson).
   • La teoria di Coase è stata criticata dall’orientamento, formalmente più rigoroso, che nega consistenza scientifica ad ogni ipotesi costruttiva che dia rilievo strutturale ad entità sovraindividuali (come gerarchia, autorità ecc.); da qui la teoria dell’impresa come “nexus of contracts”, e cioè insieme di interrelazioni volontarie fra individui.
   • Nelle sue elaborazioni più mature, la teoria microeconomica ci mostra l’impresa come centro di gestione aggregata (e quindi più efficiente) di property rights (Hart).
   • Alcune posizioni recenti criticano come insufficiente e parziale l’impostazione della transaction costs economics e ricostruiscono le ragioni di efficienza che spiegano l’esistenza dell’impresa in termini di razionale divisione del lavoro attraverso il migliore uso della conoscenza tecnico-produttiva nel problem solving (competence based approach). L’impresa è dunque vista come «luogo della creazione e dell’implementazione della conoscenza produttiva» (Marengo – Pasquali 2005). In tal modo i percorsi, a lungo separati, delle riflessioni microeconomiche ed aziendalistiche sull’impresa sembrano ricongiungersi.
   • Un filone interessante di analisi economica si è poi dedicato al profilo dell’efficienza delle diverse formule organizzative e proprietarie dell’impresa (Hansmann, 1996).

   3. L’utilizzazione delle teorie economico-sociali dell’impresa da parte del giurista.
   Il riferimento alle teorie sociologiche, aziendalistiche e manageriali (1.1 e 1.2) mi sembra indispensabile per il giurista, perché esse descrivono profili essenziali del funzionamento dell’attuale sistema di economia di mercato.
   Secondo una nota e brillante immagine di H.Simon, gli spazi del sistema di economia di mercato sono occupati soprattutto da imprese (organizzazioni), e solo piccoli corridoi sono occupati dagli scambi paritetici fra imprese o fra imprese e consumatori finali. In questa prospettiva, si deve riconoscere che le teorie sociologiche e aziendalistiche rappresentando efficacemente le funzioni essenziali svolte delle imprese nel sistema (dall’organizzazione del lavoro, alla realizzazione di una “immagine” riconoscibile da parte dei consumatori, alla produzione di know-how e in genere di creazioni intellettuali).
   Gli apporti della sociologia economica e quelli dell’economia aziendale mi sembrano, inoltre, perfettamente integrabili fra loro.
   Le teorie microeconomiche dell’impresa sono invece, a mio avviso, piuttosto sterili, malgrado la brillantezza dei loro contenuti, al fine della costruzione di regole giuridiche.
   La teoria neoclassica riduce l’impresa a una «scatola nera con funzione di produzione» (S. Martin; ma la metafora di black box si ritrova anche in altri autori). Ma anche la teoria del nexus of contracts, con l’enfasi riposta sull’approccio individualistico, finisce per essere fuorviante, come tutte le teorie che trapassano dall’individualismo metodologico all’individualismo ontologico.
   In sostanza, le elaborazioni più significative sono quelle che costruiscono l’impresa come strumento per ridurre i costi transattivi e quelle che vedono in essa uno strumento necessario per la gestione accentrata (e più efficiente) di diversi property rights.
   Si può però osservare (con dovute scuse per la grossolanità dell’affermazione) che, in fondo, queste linee teoriche ricreano, su diverse basi metodologiche, quella teoria dell’impresa come organizzazione che è già nota ed analizzata su base empirica (anche se, ovviamente, senza la precisione formale richiesta dall’analisi economica), nell’ambito di altre discipline. In questa prospettiva, non può neanche tacersi l’impressione che il recente, e fruttuoso, filone di studi che inquadra la teoria dell’impresa nell’ambito della “economia della conoscenza” possa leggersi come un percorso di riscoperta di posizioni teoriche già sviluppate se basi empiriche (anche se con nobili ascendenze, che vanno da Adam Smith a Schumpeter) dalle discipline aziendalistiche.

   3.1. Qui si potrebbe aprire una parentesi, per chiedersi le ragioni dell’attuale povertà del dialogo fra giurisprudenza e scienze sociali e, per contro, del dilagante, anche se spesso (a mio avviso) superficiale, successo dell’analisi economica del diritto.
   Il buon senso suggerisce che dovrebbe essere il contrario: la sociologia opera attraverso la costruzione di tipi ideali “aperti” e l’individuazione di regole della dinamica sociale, che dovrebbero costituire lo strumento fondamentale, su cui il giurista dovrebbe poi innestare la sua ricostruzione normativa della realtà; la microeconomia (almeno quella neoclassica, che sta alla base dell’EAL), opera invece mediante modelli convenzionali rigidi, costruiti sulla base di assunti che semplificano programmaticamente la realtà (per esempio: pieno possesso di informazioni, parità di condizioni tecnologiche e di costi ecc.), scontando un elevato tasso di astrazione dalle situazioni di fatto. Ciò costituisce però premessa per la possibilità di sviluppi rigorosi e controllabili, suscettibili di formalizzazione matematica.
   L’analisi economica tradizionale (proprio per il suo statuto teorico) è insofferente verso l’impiego di nozioni sfumate ed “aperte”, quali sono (per definizione) i “tipi” (o, ma si tratta di scelta terminologica non convenzionale, che però sarà usata anche in seguito, “concetti tipologici”) impiegati nelle scienze umane, sociali e storiche.
   Un altro limite strutturale dell’analisi economica tradizionale sta nel fatto che essa, per sviluppare in modo analiticamente rigoroso le sue elaborazioni, suppone una vita economica che si svolge sulla base di interazioni fra agenti individuali, così ipotizzando un modello semplificato dei criteri di scelta degli operatori economici, caratterizzato da razionalità piena in condizioni di completa informazione. Questo modello contrasta però radicalmente con la realtà, in primo luogo perché i criteri effettivi di scelta degli individui sono caratterizzati da motivazioni varie e non sempre razionali (o, se si vuole, razionali rispetto alle proiezioni dell’identità di ciascun individuo, ovviamente assai diversa da un soggetto all’altro) e, in ogni caso, condizionati da situazioni di imperfetta conoscenza. Inoltre, il modello è fuorviante rispetto alla realtà perché, ipotizzando una vita economica caratterizzata da interazioni fra soggetti individuali, non tiene conto del fatto che la vita economica si svolge essenzialmente sulla scala delle imprese (organizzazioni pluripersonali, dotate di proprie strategie).
   Nel momento in cui l’analisi economica si affranca dai modelli neoclassici, e tende a comprendere sempre più varianti, tratte dall’esperienza reale (per esempio, ricorrendo alla teoria dei giochi), l’esigenza di formalizzazione matematica dell’analisi (che è parte integrante dello statuto teorico della scienza economica) porta a risultati di crescente complessità, tali da rendere proibitivo il dialogo con il giurista. Per di più, man mano che i modelli economici si complicano per tenere conto delle varianti reali, sempre più si evidenzia il confronto metodologico con l’alternativa costituita dall’impiego di concetti tipologici, cioè programmaticamente sfumati nei confini della definizione, e costruiti sulla base di una sintesi di dati descrittivi e di giudizi di valore dell’osservatore.
   Il buon senso vorrebbe che l’analisi economica tradizionale fosse utilizzata dal giurista solo come strumento ausiliario di verifica e che invece il giurista impiegasse con larghezza, per realizzare le proprie costruzioni normative, concetti tipologici tratti (anche) dalle elaborazioni delle scienze sociali.
   In effetti, il metodo cosiddetto “tipologico”, teorizzato in Germania nella seconda metà del secolo scorso, ebbe un effimero momento di attenzione fra i giuristi italiani trent’anni fa (ricordo le analisi di De Nova, di Spada, e di chi scrive), ma è stato poi dimenticato o quasi (con qualche eccezione, che però non mi sembra metodologicamente sicura, nel diritto del lavoro). Contestualmente, si avviava il recepimento, anche in Italia, delle teorie dell’analisi economica del diritto, il cui indubbio fascino è stato probabilmente alimentato dal fatto che esse hanno proposto un tipo di ragionamento giuridico che sembra raggiungere un livello di “scientificità” (e quindi di verificabilità) che la scienza giuridica europea non conosceva più, dal tempo della crisi del grande concettualismo ottocentesco.
   La scientificità del ragionamento dipende però da premesse convenzionali, che, nei ragionamenti giuseconomici, devono necessariamente semplificare una realtà che è sempre più complessa e dinamica di qualsiasi modello economico. Per questo, a mio avviso, è tuttora preferibile l’impiego di un metodo che muova dalla ricostruzione tipologica della realtà (che, come ricordato, è sempre frutto di una sintesi di dati descrittivi e di giudizi di valore), per poi confrontare la tipologia sociale effettiva con quella tipologia sociale che, coscientemente o meno, è stata alla base dell’intenzione del legislatore, ed infine ricostruire le norme di diritto positivo nel modo il più possibile coerente con la tipologia sociale effettiva (salvo che esigenze propriamente di diritto positivo impongano interpretazioni rigide e formali delle disposizioni, ciò che accade soprattutto nel caso in cui esigenze di certezza prevalgono su quelle di giustizia e di efficienza) [per l’illustrazione del metodo tipologico v., come più recente, Pawlowski 2001].
   Su queste premesse, passiamo a ripensare, rapidamente, le teorie giuridiche dell’impresa elaborate in Italia dopo la codificazione del 1942.

   4. Le teorie giuridiche dell’impresa.
   • Nella storia del diritto commerciale si sono, in passato, intrecciati due concetti di impresa: l’impresa come opus, poi “attività”, e l’impresa come struttura organizzata, “istituzione”. Le teorie istituzionali dell’impresa avevano dominato il dibattito culturale negli anni intorno alla redazione del codice (una sintesi del dibattito in Grossi 1999).
   • Al tempo dell’entrata in vigore del codice civile, si scriveva (riassumendo quello che, allora, era il sentire comune) che «La parola impresa viene usata, nel linguaggio corrente, scientifico e legislativo, non solo per indicare l’attività economica, ma anche per indicare l’intero organismo economico, composto insieme dall’imprenditore e dall’azienda» (Auletta 1945).
   • L’abbandono delle teorie istituzionali, nell’ultimo mezzo secolo, è dovuto soprattutto a ragioni ideologiche (conseguenti all’utilizzo che della teoria avevano fatto fascismo e nazismo). Più in generale, è apparso ed appare incompatibile con una visione liberista –anche se il tema non è mai stato definitivamente abbandonato, nel dibattito politico e culturale- l’idea che l’impresa sia un organismo plurifunzionale, che deve autonomamente farsi carico anche di interessi diversi da quelli consistenti nella produzione di profitti. Una variante più sofisticata della critica alle teorie istituzionali (Ascarelli) vede poi, nel riconoscimento di rilevanza giuridica all’interesse della “impresa in sé”, una posizione filomonopolistica, incompatibile con i principi della disciplina antitrust.
   • Per quanto le teorie istituzionali europee (analogamente ad altre nate in contesti diversi, come quella celebre di Berle e Means) siano caratterizzate storicamente dall’idea dell’impresa plurifunzionale, deve riconoscersi che non c’è un nesso teorico necessario fra questa idea e l’impiego di un apparato concettuale di tipo istituzionale. La teoria dell’istituzione, nella sua versione genuina, è infatti neutra rispetto ai fini, e può quindi ben comprendere in sé anche l’idea dell’impresa come organizzazione esclusivamente vocata al profitto. Ritengo anzi che, se si riconosce come finalità istituzionale dell’impresa il conseguimento del profitto, nulla esclude che possa riconoscersi legittimità alle più diverse strategie aziendali, purché non manifestamente incompatibili con quell’obiettivo fondamentale.
   • Le teorie dell’impresa, nate sul terreno dell’interpretazione dell’art. 2082 c.c. (segnate, nei primi anni di applicazione del codice, dalle idee, in questo caso convergenti, di Bigiavi e Ascarelli), hanno depotenziato il requisito dell’organizzazione ed hanno ridotto l’impresa a sequela di atti giuridici (fino a richiamare il criterio negoziale della contemplatio domini nell’affrontare il problema dell’imputazione dell’attività d’impresa). L’operazione è stata esegeticamente discutibile (tanto da rendere enigmatico l’art. 2238 c.c.), sì da far pensare che le ragioni ideologiche abbiano pesato in modo determinante.
   • Più in generale, si è detto giustamente che «la dottrina ha svalutato nella formula dell’art. 2082 quelli che viceversa ne sembravano i caratteri salienti» (Ferro Luzzi, che ha poi riassunto ironicamente la storia delle interpretazioni dell’art. 2082 come un “gioco al massacro”).
   • Su questa base si è creato a un certo punto un sentire comune, secondo cui l’impresa, costituente una “unica realtà complessa” dal punto di vista sociale, sul piano giuridico non rileva nella sua interezza, ma mediante il frazionamento della sua realtà sociale unitaria in diversi ambiti, giuridicamente rilevanti in contesti separati fra loro (soggetto titolare, azienda, avviamento) [Auletta 1958].
   • A fronte di questa idea “atomistica”, non sono mancati tentativi di ripresa di concezioni “unitarie”. La più nota ha avuto matrice civilistica, ed ha tentato di teorizzare l’impresa come oggetto di un diritto soggettivo. Essa è però rimasta (credo giustamente) un binario morto della ricerca giuridica.
   • Nella dottrina commercialistica italiana si è sviluppata però anche una tesi minoritaria, tendente a rivalutare l’idea dell’impresa come entità economica tipica, assumendo a modello l’organizzazione produttiva industriale (Ferri). Questa tesi è stata esposta, inizialmente, in modo debole sul piano della tecnica dell’argomentazione e degli sviluppi esegetici. Essa, tuttavia, coglieva una prospettiva metodologicamente corretta, i cui sviluppi sono ancora in corso.
   • Gli sviluppi diretti dell’idea di Ferri si sono realizzati, in un primo momento, soprattutto nel campo del diritto societario. La società è stata studiata come strumento di gestione dell’impresa e ciò ha portato a valorizzare la teoria dell’organizzazione nello studio del diritto societario (Gambino, Ferro-Luzzi e altri). Questo filone di ricerca ha portato con sé alcuni importanti risultati, poi valorizzati nella recente riforma delle società di capitali; anzi, a mio avviso, sono state realizzate ancora solo parzialmente le potenzialità insite nell’approccio teorico.
   • Nel frattempo, un altro contributo autorevole (Oppo 1976) avanzava l’idea che, già nel diritto positivo, si debba riconoscere la rilevanza dell’impresa come “realtà globale”, sintesi di organizzazione ed attività; i contesti, nei quali questa realtà “globale” dell’impresa ((identificabile come concezione socialmente tipica del fenomeno) ha già rilevanza, sono, secondo Oppo, quelli della disciplina dell’inizio e cessazione dell’impresa, della concorrenza, della sostituzione nella titolarità dell’impresa.
   • Col passar degli anni, mentre il programma di Oppo non trovava grandi sviluppi sul piano delle costruzioni giuridiche, la dottrina commercialistica ha avvertito sempre più l’insufficienza della teoria giuridica dell’impresa costruita dai primi esegeti del codice civile. L’approccio critico più significativo alla teoria dell’impresa come insieme di atti giuridici è stato quello di Ferro-Luzzi (1985), già richiamato, incentrato sull’idea della costruzione di una disciplina oggettiva dell’impresa distinta dalla individuazione della fattispecie soggettiva dell’imprenditore, e inteso a dare alla nozione di “attività” una connotazione oggettiva concettualmente simile alla “funzione” della tradizione teorica pubblicistica, e concettualmente legata alla teoria dell’organizzazione (anche se poi l’a., come tutti, rifugge da ogni richiamo esplicito a teorie istituzionalistiche).
   • Questo filone di pensiero ha trovato largo spazio nei contributi didattici più recenti. In particolare, nel testo di introduzione al diritto commerciale di Angelici, la trattazione inizia con una definizione di tipo sociologico dell’impresa, che viene a un certo punto definita non come “attività”, ma come una «tecnica di svolgimento dell’attività economica caratterizzata dal profilo della gerarchia» (e, si aggiunge in altro luogo, della “pianificazione”). In altri contributi (Corsi, Gambino, Spada, e naturalmente Ferro-Luzzi, nel suo corso di diritto bancario) la sensibilità verso il tema dell’organizzazione è molto cresciuta; però mi sembrano ancora limitati gli sviluppi sistematici. La prospettiva d’indagine sembra infatti spesso limitarsi ai profili di rilevanza giuridica presenti nella tradizione codicistica.
   • Si ha dunque l’impressione che l’attuale dottrina giuscommercialistica guardi alla teoria dell’impresa formatasi dopo l’entrata in vigore del codice con occhio critico, ma senza ancora impegnarsi in uno sforzo costruttivo alternativo. Per esempio, si leggano alcune affermazioni di F. Corsi (2003), secondo cui «l’impresa, come organismo vitale, non è riuscita – de jure condito – a trovare una sua collocazione… Il legislatore appare consapevole della sua esistenza, la nomina ripetutamente, vi fa riferimento, ma non la assume nelle sue categorie, condannandola ad una esistenza sommersa, a fare da costante sottinteso all’emergere di due figure formalmente immesse nel sistema, l’imprenditore e l’azienda, che dell’impresa rappresentano le due facce estreme». Si tratta però, forse, di giudizio troppo negativo: sotto diversi profili (dal diritto amministrativo al diritto del lavoro al diritto della concorrenza, e perfino nella disciplina dell’insolvenza) la nozione di impresa come organizzazione appare, già de jure condito, giuridicamente rilevante.
   • Appare dunque urgente riprendere il programma di costruzione dogmatica di una teoria dell’impresa come “realtà globale”, enunciato trent’anni fa da G.Oppo. In tale prospettiva, è poi valido l’altro insegnamento dello stesso a. (Oppo, 1982), che impone di ricordare che l’impresa costituisce, comunque nell’ordinamento italiano, una “fattispecie” giuridicamente rilevante, e come tale va costantemente ragionata. Tale assunto, però, non ci dice ancora se, nell’ordinamento, esista una unica fattispecie “impresa”, o se invece possano ricostruirsi diverse fattispecie in funzione di diversi ambiti normativi (così, per esempio, l’assoggettabilità al fallimento e l’applicazione delle norme sulla concorrenza). E non ci dice, soprattutto, se, al di là dei contesti di disciplina dell’impresa individuati nel codice civile, possano esservi profili di rilevanza normativa di una fattispecie “impresa” costruita con criteri tipologici.

   5. La teoria dell’impresa come organizzazione nella prospettiva giuridica.
   Anticipando quanto si dirà più avanti, credo che un campo, in cui il concetto tipologico di impresa, di cui si è ragionato, può avere feconda applicazione, è proprio quello del diritto costituzionale. Tuttavia, prima di passare a tale campo, mi sembra opportuno svolgere qualche ulteriore riflessione sul terreno privatistico, tornando a chiedersi se, attraverso l’interpretazione sistematica, possa essere coltivata una prospettiva teorica di ampliamento della rilevanza giuridica dell’impresa (intesa come entità socioeconomica).
   La disciplina codicistica (fallimento, contabilità, pubblicità) è certamente importante, ma altrettanto certamente incompleta, rispetto alle possibili prospettive di rilevanza giuridica del fenomeno “impresa”.
Dal punto di vista strutturale, rimane fuori ogni possibile costruzione di principi giuridici relativi alla Beitriebsverfassung, e i profili organizzativi sono lasciati all’esame della disciplina delle società e delle altre figure organizzative tipiche di gestione dell’impresa (rinunciando alla stessa ipotesi di possibile costruzione di principi generali coerenti al ruolo economico dell’impresa).
   Dal punto di vista funzionale rimangono fuori ampi profili, relativi all’impresa come centro di produzione di conoscenze interne (know-how, in senso lato) e di produzione di comunicazione con il mondo esterno (marketing, comunicazione aziendale).
   A conferma della possibilità di attribuire, de jure condito, all’impresa il carattere di concetto giuridico suscettibile di sviluppi sistematici rispetto ai dati normativi testuali, ricordo due filoni di costruzione giuridica, già sperimentati:
   • quello dell’individuazione di principi e regole di autonomia negoziale, destinate all’impresa e speciali rispetto alle regole civilistiche generali applicabili agli individui (filone su cui si è particolarmente impegnato, da ultimo, Buonocore);
   • quello della individuazione della fattispecie “impresa” nella disciplina della concorrenza: qui la riflessione si è mossa da un presupposto implicito, che è quello per cui la “concorrenza”, come bene giuridico tutelato, è competizione “fra imprese” (non fra individui, come invece può esservi anche all’interno di una efficiente organizzazione non imprenditoriale; né fra altre entità), e che, per “impresa”, si intende proprio quella entità tipologica, che è definita dalle scienze sociali ed aziendali. Su questa base il diritto della concorrenza ha elaborato ed accettato, al di fuori di ogni dato testuale, l’idea che l’impresa “di gruppo” costituisce un soggetto unitario, nella prospettiva dell’imputazione delle regole sulla concorrenza; mentre, corrispondentemente, non vi è “impresa” in caso di organizzazione produttiva giuridicamente autonoma, ma priva di autonomia gestionale (è la figura della c.d. “agenzia integrata”, di recente ricostruita con criteri estensivi da Trib. I gr. CE, sez. V, 15 settembre 2005, T-325/01, Daimler Benz).
   • Questa costruzione giuridica dell’impresa di gruppo ha mostrato capacità espansiva anche al di fuori del campo di applicazione delle norme antitrust in senso stretto. In particolare, nella disciplina dei contratti ad evidenza pubblica, la nozione è ormai correntemente usata, sia con effetti negativi (due società collegate non possono partecipare alla stessa gara in competizione fra loro, perché si presume che pongano in essere una strategia comune) sia in positivo (una società partecipante ad una gara è legittimata ad avvalersi, per l’ammissione alla gara stessa, dei requisiti tecnici di altra società appartenente allo stesso gruppo) [cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 28 settembre 2005, n. 5194, sulla scorta di indicazioni in tal senso della giurisprudenza comunitaria].
   Tutto ciò per dire – con esempi assolutamente limitati e parziali – che l’idea della costruzione di una teoria giuridica dell’impresa, misurata su una prospettiva di disciplina più ampia di quella tradizionale, prevista nel codice, è sempre attuale e ricca di interesse.

   6. Conclusioni intermedie.
   Vorrei a questo punto riassumere i risultati del ragionamento che si è tentato di svolgere:
   a) l’impresa, come concetto tipologico socioeconomico, può essere definita come un’organizzazione di beni e persone, governata sulla base di un principio di autorità legale-razionale, depositaria di un insieme di conoscenze proprie, ed operante sulla base di strategie volte alla conquista duratura di profitti mediante la produzione di beni e servizi per il mercato;
   b) questo concetto socioeconomico è suscettibile di impieghi nella sistematica giuridica, perché coglie dati significativi della realtà ed è insieme espressione sintetica di valori positivamente riconosciuti dall’ordinamento (in sostanza, ciò significa che l’efficienza dell’impresa, come organismo socioeconomico, è un bene giuridicamente tutelato); in altri termini, sussistono le condizioni per costruire un concetto tipologico-giuridico di impresa, suscettibile di impieghi nell’interpretazione sistematica.

   7. L’impresa nella prospettiva costituzionale.
   Passando alla prospettiva costituzionale, dobbiamo anzitutto ricordare che la tutela costituzionale di determinati valori o interessi può avvenire mediante la tecnica dell’attribuzione di diritti soggettivi pieni, o attraverso l’attribuzione di “diritti fondamentali”, che sono situazione soggettive a protezione modale o sono, talora, interessi protetti in forma pubblica o almeno collettiva. Su questa linea, si può giungere poi fino alla protezione costituzionale di beni giuridici in forma (almeno apparentemente) del tutto oggettiva (si pensi alla tutela del paesaggio o dell’ambiente, o dell’arte e della scienza, o ancora alla tutela della famiglia; un’articolazione più complessa, nel testo costituzionale, si ha per la tutela della salute, che richiama il duplice profilo, individuale e collettivo).
   La prospettiva costituzionale sembra dunque una delle più interessanti, per verificare la possibilità di sviluppo sistematico di quella nozione oggettiva dell’impresa come organizzazione, di cui si è sopra parlato.
   Tuttavia, scorrendo i testi costituzionali (non solo italiani) l’impresa, come entità socioeconomica, non compare.
   Nell’art. 41 della Costituzione l’impresa appare nella prospettiva soggettiva della libertà di iniziativa economica; espressione volutamente molto ampia, che si prestava, come poi effettivamente si è prestata, ad interpretazioni diversissime, che ne hanno ricostruito il contenuto nei modi più svariati: qualcuno si è spinto a restringere la nozione di iniziativa e contenuti molto ridotti (gli atti di investimento: Baldassarre, Luciani), qualcun altro ha dilatato la nozione di iniziativa economica, fino a comprendervi, per esempio, i comportamenti e le scelte del consumatore (Zito, 1998).
   In ogni caso, la suggestione del dato testuale “iniziativa” è stata nel senso di favorire letture soggettivistiche, in cui oggetto di tutela è apparsa solo una scelta libera individuale, piuttosto che l’impresa come oggettiva realtà economica e struttura portante dell’economia di mercato.
   Piuttosto, l’impresa come entità reale è comparsa nelle interpretazioni del secondo e del terzo comma dell’art. 41, con il risultato, però, di farla apparire come una sorta di entità pericolosa, soggetta a “libertà vigilata” e priva di tutela costituzionale. Su questa base si sono poi sviluppate, a cominciare dagli anni 70 del secolo scorso, interpretazioni che leggevano l’art. 41 Cost. sostanzialmente come una norma di “transizione al socialismo”: da alcuni questa lettura era accolta con entusiasmo; altri, pur fortemente critici nei confronti di tale prospettiva, hanno ritenuto necessaria una riforma costituzionale perché si potessero far valere nell’ordinamento italiano i principi dell’economia di mercato (Irti).
   La lettura più diffusa dell’art. 41 è stata comunque quella che vi ha visto la costituzionalizzazione del modello di “economia mista”; asserzione corretta, nella sua genericità, ma anche ovvia (giacché non è storicamente concepibile un sistema “tutto privato”, in cui non esista alcuna entità avente la funzione di assicurare un minimo di “beni pubblici”). Il punto critico di questa ricostruzione è stato –a mio avviso – nella debolezza del concetto di economia mista, che gli interpreti hanno avuto in mente: un concetto caratterizzato dal generico riconoscimento della legittimità di limiti alla libertà d’impresa, con il solo contro-limite del divieto di piena collettivizzazione del sistema economico. Un modello debole, che ha consentito di legittimare ogni sorta di intervento pubblico, e quindi anche discipline di regolazione amministrativa antiquate e corporative, limiti irrazionali alla libertà d’impresa, e – soprattutto in passato – presenza pervasiva di imprese in mano pubblica.
   Sarebbe stata invece necessaria una lettura del sistema “misto” che muovesse dal riconoscimento di una piena a forte diversità di ruolo fra pubblico e privato, nella comune finalità del raggiungimento di risultati di sviluppo economico e di benessere collettivo.
   Personalmente (mi permetto di richiamare un mio vecchio scritto del 1977) ho sempre ritenuto inaccettabili le interpretazioni riduttive, o addirittura negative, del principio costituzionale di tutela dell’impresa privata. A mio avviso, il termine “iniziativa economica” dell’art. 41 deve invece interpretarsi in modo estensivo, sì da comprendere l’intera realtà dell’impresa capitalistica; questa deve dunque intendersi come bene giuridico costituzionalmente rilevante (il che poi non impedisce di riconoscere la possibilità, e anche la doverosità, di limiti ex lege alla libertà d’impresa; o la legittimità costituzionale di leggi di che impongano alle imprese, o a certe categorie di imprese, programmi e controlli).
   A base della proposta interpretativa sta l’idea che una lettura riduttiva del primo comma dell’art. 41 tradirebbe il senso del compromesso costituzionale, che comprendeva il riconoscimento dell’economia di mercato come base del sistema economico a fini di sviluppo e benessere, ma intendeva poi superarne i difetti (veri o presunti) mediante un intervento pubblico che, nelle intenzioni, sarebbe stato certamente pervasivo.
   La potenziale pervasività dell’intervento pubblico non significa però che esso possa svolgersi, insindacabilmente, in qualsiasi direzione. Al contrario, l’intervento dev’essere giustificato da ragioni di miglioramento dello sviluppo e del benessere collettivo. Non è invece costituzionalmente legittimo un intervento restrittivo o distorsivo della libertà d’impresa, che non abbia finalità sociali, bensì meramente protezionistiche o comunque particolaristiche.
   Ciò comportava e comporta, per l’interprete, l’onere di tenere presente, nell’interpretazione costituzionalmente orientata delle discipline economiche, il modello di economia di mercato nel suo complesso, con le sue strutture, i suoi valori, i suoi strumenti.
   Certamente un’operazione interpretativa di questo tipo sarebbe stata agevolata dall’entrata in vigore della Costituzione europea, che (all’art. II-76) usa proprio il termine “libertà d’impresa”.
   Ciò non impedisce comunque di ritenere legittima già oggi quella interpretazione estensiva, tanto più che ormai anche il dato testuale della Costituzione ha recepito l’espressione “tutela della concorrenza” (nel nuovo testo dell’art. 117).

   8. L’art. 41 della Costituzione come norma di tutela generale della libertà d’impresa.
   L’interpretazione proposta legge dunque l’art. 41 in modo pregnante, come norma che riconosce l’economia di mercato come valore degno di tutela, e contemporaneamente assegna allo Stato il compito di correggere inefficienze e iniquità, che il sistema può pur sempre creare.
In altri termini, quella accolta è una interpretazione storico-sistematica, che attribuisce alla norma costituzionale un significato di tutela dell’impresa come bene giuridico oggettivamente considerato, in quanto strumento essenziale per il raggiungimento di finalità di sviluppo economico e di benessere collettivo.
   Una interpretazione estensiva del primo comma dell’art. 41 conduce a diversi risultati:
   • l’ampliamento dell’oggetto della libertà tutelata (che dev’essere intesa anche come libertà di scelta di soluzioni organizzative e finanziarie, nonché come libertà di scelte di marketing, ecc.);
• l’estensione della tutela ai mezzi necessari a supportare l’efficienza produttiva dell’impresa (e quindi l’attribuzione all’impresa di poteri di disposizione su risorse necessarie per esercitare in modo efficiente la propria iniziativa nel mercato); in questa prospettiva, non c’è più tanto un problema di tutela della libertà, quanto di tutela dell’impresa privata come organizzazione efficiente, e quindi di garanzia di riconoscimento di poteri autoritativi all’interno dell’impresa (? sarebbe incostituzionale una disciplina che abolisse il principio di gerarchia all’interno dell’impresa), nonché di garanzia di tutela dei diritti esclusivi dell’impresa sulle proprie risorse, materiali e immateriali;
   • l’attribuzione di rilevanza costituzionale ai caratteri sistemici dell’economia di mercato (finalità di sviluppo, funzionamento concorrenziale dei mercati); ciò comporta l’attribuzione di valore alla concorrenza effettiva, come bene giuridico distinto dalla libertà individuale di concorrenza (quest’ultima può essere esercitata anche in senso negativo, cioè evitando di fare concorrenza) [mi permetto, sul punto, di rinviare ad un mio recente scritto sulla tutela della concorrenza nella Costituzione].

   9. La tutela dell’impresa come centro di produzione e di valorizzazione di risorse immateriali.
   Per quanto direttamente attiene al nostro tema, il punto da ultimo segnalato mi sembra assai rilevante.
   Se l’impresa è tutelata nell’ordinamento, lo è in quanto luogo di formazione di risorse utilizzabili per la produzione di beni e servizi liberamente scelti dai consumatori, e quindi come strumento di sostegno e di incremento dello sviluppo economico.
   Occorre quindi che l’impresa sia tutelata anche come struttura organizzata che crea innovazioni.
   Sotto questo profilo, è appena il caso di ricordare che la teoria economica dell’innovazione ha seguito un lungo percorso, che muove:
   (i) dall’idea dell’innovazione come shock esogeno, atto ad introdurre nella realtà una nuova risorsa produttiva di cui l’impresa può appropriarsi come di qualsiasi altra risorsa esterna,
   (ii) all’idea dell’innovazione come frutto di strategie imprenditoriali, autonomamente e riservatamente decise da ciascuna impresa;
   (iii) fino alla costruzione di una teoria sistemica, in cui le innovazioni appaiono come un flusso alimentato sì dalle strategie proprie della singola impresa, ma soprattutto dall’esistenza di un ambiente competitivo, in cui i “giocatori” sono soprattutto le imprese già affermate, oltre che innovatori indipendenti (v., in particolare, Antonelli – Patrucco, 2004).
   In un quadro di questo tipo, le ragioni della protezione della proprietà intellettuale, come necessario premio/incentivo all’innovazione, sono oggi di nuovo contestate, da filoni di pensiero che ritengono il processo innovativo in grado di autoali-mentarsi spontaneamente, e pertanto incentivo sufficiente il “diritto di prima vendita”, che costituisce comunque vantaggio competitivo dell’autore della creazione intellettuale (in termini radicali, v. Boldrin/Levine 2005; una rassegna di posizioni più equilibrate in Nicita e aa. 2005).
   Queste tesi (almeno quelle estreme) sono alimentate da un preconcetto, che tuttora sembra costituire opinione prevalente, secondo cui «la protezione della proprietà intellettuale introduce un monopolio temporaneo … Si tratta quindi di una misura ‘anticoncorrenziale’ a priori … La protezione della proprietà intellettuale appare quindi leggermente contro natura, una specie di male necessario per favorire l’investimento nell’innovazione e nella creazione» (Gille, 2005).
   A me sembra, al contrario, che la proprietà intellettuale attribuisca un vantaggio competitivo nell’ambito di un processo dinamico, in cui il titolare del diritto di esclusiva non è affatto monopolista in senso economico, salvo casi eccezionali (“A legal monopoly is not necessarily an economic monopoly”: Posner), ma competitore in un mercato aperto, in cui la creazione coperta da esclusiva può rivelarsi priva di valore commerciale, o di valore effimero e di breve durata, o ancora, in qualche caso, di valore immenso.
   In questa prospettiva, se il bene giuridico “concorrenza” dev’essere ricostruito essenzialmente in funzione dell’efficienza dinamica dei mercati, la proprietà intellettuale non solo non è “un male” (sia pur necessario), ma è una necessaria regola del gioco, volta a fornire una chance rafforzata (oltre al diritto di prima vendita) per far sì che il processo innovativo non rallenti. Questa idea della continuità sistematica fra disciplina della concorrenza e disciplina della proprietà intellettuale mi sembra oggi incontrare crescenti consensi (v., per esempio, Bertani 2004).
   Può essere vero che la funzione di “premio-incentivo” dell’esclusiva non è sempre necessaria per stimolare la creatività intellettuale degli individui. Può essere vero che, in certi campi di creazione artistica, e per ragioni diverse nella ricerca scientifica di base, la domanda pubblica (versione attuale del mecenatismo del passato) può essere incentivo insostituibile e più efficiente del mercato concorrenziale.
   Ma ciò può valere per la creatività individuale negli ambiti letterari ed artistici tradizionali (non si può negare che le più grandi opere della letteratura, delle arti figurative e della musica sono state create in tempi che non conoscevano il diritto d’autore). Non può valere certamente nel campo della ricerca industriale, ove la creazione intellettuale è priva di possibilità di valorizzazione senza un investimento che sviluppi il progetto tecnico fino a farlo divenire prodotto commerciabile.
   Il problema è piuttosto quello di determinare il giusto livello di protezione, in termini di durata e di ampiezza (e in ciò, del resto, convergono, negli esiti, anche posizioni che si muovono idealmente da presupposti ben diversi, come quelle di Gille e Poster, sopra citate). Le punte più avanzate della riflessione in materia mi sembrano dunque quelle che tentano di funzionalizzare più attentamente la tutela della proprietà intellettuale al progresso economico, sottolineando la funzione di espandere il patrimonio di conoscenze in dominio pubblico (cfr., in particolare, Peritz 2005, con importanti proposte applicative circa gli standard di originalità, l’interpretazione estensiva delle norme sulle utilizzazioni libere, limiti alla protezione dei segreti, ecc.).
   In ogni caso, credo che –anche tenendo conto delle riflessioni più avanzate e critiche sui problemi della proprietà intellettuale – la funzione storica di “premio/incentivo” non venga affatto meno, in una situazione in cui l’innovazione è divenuta soprattutto innovazione progettata e realizzata all’interno di imprese. La funzione del premio è in parte cambiata: dalla creatività individuale (che rimane comunque la “materia prima” del processo innovativo) all’investimento imprenditoriale (che però, a sua volta, significa anche capacità dell’impresa di stabilire strategie e progetti).
   Se così è, la tutela costituzionale dell’impresa, e la tutela costituzionale della concorrenza (da intendere come “concorrenza fra imprese”) giustificano e impongono il riconoscimento di una tutela proprietaria delle creazioni intellettuali che si formano all’interno dell’organizzazione imprenditoriale, come parte integrante della proprietà dell’impresa (quale che sia, poi, la titolarità di quest’ultima).
   Direi anzi che la base costituzionale per la tutela della proprietà intellettuale, se si guarda al profilo patrimoniale (quello morale rimane legato alla tutela della persona), dev’essere cercata proprio nell’art. 41 e non nell’art. 42, che è costruito in funzione del tipo ideale della proprietà di beni materiali, suscettibili di possesso esclusivo.
   Il collegamento sistematico fra tutela dell’impresa e tutela della proprietà intellettuale è poi ancora più lineare se si considera la materia dei segni distintivi.
   Per quanto ovvio, può essere opportuno ricordare che le creazioni intellettuali, nell’ambito dell’impresa, si rivolgono idealmente in due direzioni diverse: alcune tendono a produrre comunicazione verso il mondo esterno, e in particolare verso i consumatori; altre tendono a tradursi in nuovi prodotti e in migliori offerte commerciali, e sono le innovazioni produttive, ma anche organizzative, finanziarie e commerciali (non sempre protette da diritti tipici di proprietà industriale).
   Questi assunti portano a due linee di sviluppo:
   • l’esigenza di allargamento dei diritti di proprietà intellettuale: la tutela del marchio come strumento di comunicazione, la tutela delle creazioni intellettuali che siano frutto di investimenti rilevanti, l’allargamento della tutela brevettuale, la tutela diretta delle informazioni aziendali riservate e del know-how proprio, la tutela dei diritti sportivi come risultato di attività imprenditoriale, ecc.;
   • in una parola, si deve riconoscere che i diritti di proprietà intellettuale non sono frutto di norme eccezionali, dettate dal legislatore propter aliquam utilitatem, ma in contrasto con supposti principi di libertà (di espressione, di concorrenza e quant’altro); questa idea, si ripete, ha forse un senso rispetto a un mondo ideale formato di soli individui indipendenti; non ha senso in un mondo caratterizzato dalla concorrenza fra imprese, che pianificano e attuano strategie produttive e commerciali, mirando ad ottenere il consenso dei consumatori;
   • la seconda linea di sviluppo, dopo quella dell’allargamento oggettivo, è quella della necessaria imputazione soggettiva degli IPR in capo all’impresa in sé; anche questa conclusione non è frutto dell’applicazione di supposte norme eccezionali, che sottrarrebbero agli individui il frutto del loro lavoro, per attribuirli ad una entità esterna ed astratta;
   • al contrario, se una creazione intellettuale è frutto di un progetto di ricerca e di investimento che si è formato all’interno di una organizzazione imprenditoriale, l’attribuzione degli IPR che ne derivano all’impresa stessa costituisce una necessità vitale, per l’efficienza del sistema (altrimenti mancherebbe l’incentivo principale all’impresa, per produrre innovazione), e deve ritenersi coerente esplicazione del principio costituzionale di tutela dell’impresa;
   • queste considerazioni non valgono solo per le creazioni intellettuali di carattere tecnico, ma anche per le opere protette dal diritto d’autore: anche queste sono spesso frutto di progettazione d’impresa e sono normalmente valorizzate attraverso attività di tipo imprenditoriale; la tutela costituzionale del diritto d’autore, se da un lato può essere fondata, nella sua dimensione individuale, sul principio generale di tutela del lavoro, dall’altro è funzionale anche allo sviluppo dell’arte e della scienza, per il tramite della valorizzazione imprenditoriale dei prodotti culturali (che non comporta mai, peraltro, monopolio sulle idee, sui metodi, sui generali letterari e sugli stili); del tutto fuorvianti appaiono, dunque, le vecchie opinioni che addirittura vedevano nel diritto d’autore una deroga eccezionale al principio di libertà di manifestazione del pensiero.

   10. Le invenzioni dei dipendenti come risorse immateriali prodotte nell’ambito della strategia di ricerca e sviluppo dell’impresa.
   Da quanto esposto può desumersi la conclusione per cui le norme sulle invenzioni dei dipendenti non sono norme eccezionali –come pure talora si è ritenuto – bensì coerenti sviluppi del principio costituzionale di tutela dell’impresa.
   Che poi questo principio debba contemperarsi con quello di tutela del lavoro individuale, e che debba portare a riconoscere remunerazioni specifiche e adeguate a chi, all’interno dell’organizzazione d’impresa, abbia dato un contributo individuale maggiore al conseguimento di un risultato innovativo, è problema diverso, che deve trovare soluzione nella ricostruzione di congrue regole di equilibrio contrattuale.

   11. Una postilla sulle “invenzioni universitarie”.
   Sul piano sistematico, le regole sulle invenzioni dei dipendenti sono dunque suscettibili di sviluppo, come scelte normative di principio che si fondano su una dicotomia “strutturale” sottostante, che distingue fra ricerca industriale organizzata (cioè frutto di scelte gestionali maturate all’interno dell’organizzazione imprenditoriale), i cui risultati spettano all’impresa, e ricerca industriale libera (cioè frutto di scelte e azioni personali del dipendente), i cui frutti spettano al dipendente, ma su cui l’impresa ha un diritto di opzione.
   In questa prospettiva, può dubitarsi della legittimità costituzionale della disciplina delle invenzioni universitarie (art. 65 C.P.I., peraltro destinato, pare, a prossima modifica), nella parte in cui non garantisce agli enti la proprietà intellettuale sui risultati di ricerche progettate e finanziate dallo stesso ente, e non costituenti frutto di iniziativa libera del dipendente.

 

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