il diritto commerciale d’oggi
    IV.6 – giugno 2005

STUDÎ & COMMENTI

 

ANTONIO GIOVANNONI
La tutela cautelare ex art. 2378 cod. civ. ed il caso “ABN AMRO-Antonveneta”

 

Commento a Trib. Padova, decr. 21 maggio 2005

 

Sommario: 1. La decisione del giudice di Padova di sospensiva della delibera assembleare della “Banca Antoniana Popolare veneta s.p.a.” - 2. La ricostruzione della vicenda - 3. Le problematiche sottese alla tutela cautelare ante causam e profili generali di diritto processuale societario - 4. (segue): in particolare, la sospensione dell’esecuzione di delibera assembleare - 5. La nullità della delibera della “Antonveneta” per difetto di pubblicità del patto parasociale ex art. 122 TUF

 

1. La decisione del giudice di Padova di sospensiva della delibera assembleare della “Banca Antoniana Popolare veneta s.p.a.”
   L’intricata cronaca della “tentata scalata” alla Banca “Antonveneta” da parte del gruppo bancario olandese della “ABN AMRO” - alla quale si è opposta la Banca Popolare di Lodi promovendo una “contro-scalata” - ha avuto un’interessante caratterizzazione giurisprudenziale che contribuisce a definire i contorni e i clamori della vicenda.
   Infatti, il Tribunale civile di Padova, con decreto n. 5396/2005, in riferimento al ricorso proposto ex art. 2378 cod. civ. dalla “ABN AMRO Bank N.V.), ha accolto la domanda di sospensione dell’esecuzione della delibera dell’assemblea dei soci della “Antonveneta”, svoltasi il 30 aprile 2005, con la quale erano stati nominati i membri del nuovo consiglio di amministrazione.
Riportiamo sinteticamente gli elementi salienti del decretodel giudice, che saranno successivamente approfonditi, in riferimento all’istituto della tutela cautelare nel processo societario, alla luce del problema della “contendibilità” degli enti creditizi italiani nell’attuale situazione ordinamentale europea e nazionale.
   Il giudice della cautela ha innanzitutto precisato che la propria decisione si inserisce nel filone giurisprudenziale, di cui discuteremo successivamente, in forza del quale non è possibile distinguere nettamente fra efficacia e mera esecuzione di una delibera assembleare. Ciò posto, l’intervento del giudice, ad avviso del Tribunale patavino, è necessario ogni qualvolta si riscontri la necessità «di scongiurare la realizzazione di conseguenze pregiudizievoli, che trovino la loro fonte, diretta o indiretta, nella deliberazione assembleare invalida».
   Riguardo al fumus boni iuris della domanda, il giudice patavino rileva che, sia la CONSOB, sia la Banca d’Italia, nel loro ruolo di Istituti investiti dalla legge del potere di vigilanza, hanno appurato (1) la costituzione di un patto parasociale occulto fra la “Banca popolare di Lodi” ed altri soggetti, già soci della “Antonveneta”, finalizzato all’«acquisto concertato di azioni ordinarie della Banca Antonveneta», per esprimere un «esercizio anche congiunto di un’influenza dominante sulla Banca stessa». Il patto parasociale non è stato portato a conoscenza, in base a quanto dispone espressamente l’art. 122, 1° comma del d. lgs. n. 58/1998 (“Testo unico sull’intermediazione finanziaria”, TUF), alla CONSOB, pubblicizzato sulla stampa e iscritto nel registro delle imprese. L’avvenuto rastrellamento delle azioni da parte dei soci del patto parasociale avrebbe, per giunta, superato la soglia del 30%, prevista dal TUF (art. 106, 1° comma) quale soglia rilevante ai fini dell’automatico obbligo di promozione di un’offerta pubblica di acquisto sulla totalità delle azioni ordinarie.
   La delibera dell’assemblea dei soci, con la quale erano stati nominati i membri del nuovo consiglio di amministrazione scaduto, è stata dunque “viziata” dalla presenza di un numero di voti derivante dagli avvenuti acquisti di azioni, in conseguenza del patto di sindacato occulto. In ossequio a quanto dispone l’art. 122, 3° comma del TUF, il patto è nullo e i voti espressi nell’assemblea sono affetti alla radice da illegittimità.
   Inoltre, dato che la vicenda riguarda un ente creditizio, l’esistenza del patto occulto e dell’influenza dominante di un gruppo di soci, era soggetto anche alla preventiva comunicazione alla Banca d’Italia, ex artt. 20 e 24 del Testo unico bancario (TUB) (2), che i soci del patto occulto avevano omesso.
Tale documentazione, secondo il giudice della cautela, è di per sé sufficiente a manifestare «una capacità probatoria forte e significativa», tale da dimostrare il fumus boni iuris.
   Per quanto concerne il periculum in mora, che, unitamente al precedente acclarato requisito, consente la procedura cautelare inaudita altera parte, esso viene ravvisato nell’interesse stesso della “Antonveneta” ad una gestione prudente ed oculata, che il giudice patavino non ravvisa nella finalizzazione del patto occulto e nell’espressione di un’influenza dominante da parte dei soci del patto occulto (3).
   Questa influenza dominante si sarebbe espressa, secondo il giudice, nel fatto che il nuovo consiglio di amministrazione, espressione del gruppo rappresentato dal patto di sindacato occulto, avrebbe potuto prendere decisioni ostili alla scalata alla “Antonveneta” da parte della “ABN AMRO”, in contrasto con l’atteggiamento di non ostilità del precedente consiglio di amministrazione.
   Ciò giustifica l’urgenza di un provvedimento cautelare, con il quale il giudice patavino ha deciso la «sospensione della deliberazione dell’assemblea ordinaria dei soci di Antonveneta nella parte in cui ha nominato i componenti del nuovo consiglio di amministrazione e l’organo di controllo».

2. La ricostruzione della vicenda
    Per meglio comprendere gli aspetti giuridici della decisione del giudice patavino e, allo stesso tempo, quelli più prettamente di “contendibilità” di una media banca italiana da parte di due categorie di possibili acquirenti, è necessario ricostruire brevemente la vicenda sul piano dei fatti.
   Alla fine di marzo di quest’anno, la stampa internazionale e quella italiana illustrano le strategie di due grandi gruppi bancari europei, finalizzate all’acquisto di due istituti bancari italiani. Si tratta della spagnola “Bbva”, che intende acquistare il controllo della “Banca Nazionale del Lavoro” e dell’olandese “ABN AMRO”, che intende scalare la vetta della “Antonveneta”, di cui già possiede un pacchetto azionario. Molti osservatori collegano le strategie di acquisizione dei due istituti bancari europei agli ostacoli che la Banca d’Italia sembra frapporre, per contrastare l’acquisizione di importanti banche italiane da parte di imprese europee (4).
   A fine aprile, la banca olandese formalizza la sua strategia, lanciando un’offerta pubblica di acquisto sulle azioni di “Antonveneta” ad un prezzo appetibile (25 euro per azioni, nettamente superiore al valore di mercato). In attesa dell’autorizzazione da parte dell’Istituto di vigilanza, una banca di dimensioni più piccole della “Antonveneta”, la “Banca Popolare di Lodi”, inizia a rastrellare sul mercato azioni della banca veneta, arrivando in poco tempo a detenere il 29,1% del capitale sociale e diventando, in questo modo, il vero controllore della società-bersaglio.
   Il gruppo olandese ricorre all’Antitrust europeo, lamentando una sfasatura nei tempi di autorizzazione che la Banca d’Italia sta mostrando: veloce nel caso della Popolare di Lodi, assai lento per la banca olandese, che è così ferma sulle posizioni iniziali. Non solo. Il rastrellamento di azioni da parte della “Popolare di Lodi” rischia di vanificare l’offerta pubblica di acquisto della “ABN AMRO”, verso la quale il consiglio di amministrazione della banca veneta ha deciso di non mostrare alcuna contrarietà, nel quadro della “discrezionalità” prevista, in relazione alla posizione che può assumere la società-bersaglio, dall’art. 104, 1° comma TUF (5).
   Ai primi di maggio, il commissario alla concorrenza Neele Kroes si fa portavoce delle preoccupazioni olandesi scrivendo al Governatore della Banca d’Italia e chiedendo le ragioni per le quali l’Istituto centrale rallenti l’autorizzazione alla scalata, concentrando l’istruttoria sui motivi per cui la “ABN AMRO” voglia detenere una quota di azioni della “Antonveneta” superiore al 20% (6).
   Ma il punto controverso, destinato a lanciare l’intera vicenda nelle aule dei tribunali italiani, è che, a contrastare l’operazione olandese, in realtà, è una cordata di soggetti, legati fra di loro da un “patto non ufficializzato” (7). Questo patto non è reso pubblico e non ottempera a quanto espressamente previsto dall’art. 122, 1° comma TUF in materia di patti parasociali (comunicazione preventiva alla Consob, pubblicazione del patto sulla stampa nazionale e iscrizione dell’accordo nel registro delle imprese).
   Il 6 maggio, la Banca d’Italia concede l’autorizzazione alla “ABN AMRO” di realizzare l’OPA, mentre, nel frattempo, come si è visto, il gruppo guidato dalla “Popolare di Lodi” è già divenuto il vero e proprio dominus della “Antonveneta”, tanto da far eleggere, all’assemblea dei soci del 30 aprile, un consiglio direttivo espressione diretta del nuovo gruppo di comando.
   Gli olandesi propongono due ricorsi d’urgenza: uno al TAR, motivandolo con il fatto che la Banca d’Italia ha autorizzato la “ABN AMRO” con notevole ritardo rispetto all’autorizzazione concessa alla “Popolare di Lodi”, compromettendo in questo modo il tentativo di scalata. L’altro al Tribunale di Padova, chiedendo ex art. 2378 cod. civ., la rimozione degli effetti della delibera di nomina del nuovo consiglio di amministrazione, in quanto il gruppo di comando della “Antonveneta” non ha ottemperato agli obblighi di comunicazione e pubblicità previsti dal TUF in materia di stipulazione di patti parasociali.
Il TAR rigetta il ricorso, mentre il giudice di Padova, come abbiamo visto, lo accoglie e concede la sospensiva degli effetti della delibera di “Antonveneta”.

3. Le problematiche sottese alla tutela cautelare ante causam e profili generali di diritto processuale societario
   Il giudice di Padova ha accolto il ricorso ex art. 2378 cod. civ. e sospeso l’esecuzione della delibera assembleare della “Antonveneta”, con la quale era stato nominato un nuovo consiglio di amministrazione, espressione dei mutati rapporti di forza all’interno della compagine sociale.
   La materia della sospensione delle delibere assembleari delle società di capitali è stata oggetto di complesse interpretazioni ed analisi dottrinali e giurisprudenziali. Lo stesso giudice patavino, in apertura delle motivazioni che accompagnano il decreto di accoglimento del ricorso e di sospensiva della delibera assembleare, evidenzia la sua adesione ad un filone interpretativo giurisprudenziale, mettendo dunque in luce la non acclarata ed uniforme interpretazione su una serie di elementi problematici derivanti da una corretta e sistematica interpretazione dell’art. 2378 cod. civ. nel modello generale di procedimento cautelare in materia societaria.
   Le fonti normative cui bisogna fare riferimento per una disamina riassuntiva delle principali problematiche ermeneutiche sul punto in questione, oltre al novellato art. 2378 cod. civ., sono innanzitutto il d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, ed in particolare gli artt. 23 per i provvedimenti cautelari in materia societaria (sia ante causam, sia in corso di giudizio) e 24, 8° comma (la cui rubrica dispone norme in materia di “Provvedimenti cautelari in corso di causa e giudizio abbreviato”) e, infine, le norme del codice di rito (in particolare, l’art. 669 cod. proc. civ. concernente il procedimento cautelare uniforme) (8).
   L’art. 2378 cod. civ., come noto, è stato novellato dal d. lgs. n. 5/2003, per molteplici ragioni e, innanzitutto, per meglio raccordarlo col mutato processo ordinario nel cui contesto è inserito il sub-procedimento di natura cautelare e sia per limitare i dubbi e le divisioni dottrinali e giurisprudenziali che il vecchio testo aveva suscitato (9).
   In particolare, il 4° comma – fonte principale della nostra materia – dispone che, contestualmente al deposito dell’atto di citazione, il soggetto impugnante «può chiedere la sospensione dell’esecuzione della deliberazione». In casi di urgenza, «il presidente del tribunale, omessa la convocazione della società convenuta, provvede sull’istanza con decreto motivato». Unitamente alla decisione cautelare, il giudice deve provvedere anche alla designazione «del giudice per la trattazione della causa di merito», oltre alla fissazione «dell’udienza per la conferma, modifica o revoca dei provvedimenti emanati con il decreto».
   Si può dire che, nonostante la novella abbia inciso positivamente sulla struttura della norma, nel senso di una sua modernizzazione applicativa, il legislatore del 2003 ha comunque deciso di non modificare la locuzione sulla quale maggiormente si sono incentrati i rilievi ermeneutici, vale a dire quella «sospensione dell’esecuzione della deliberazione» che pone delicate questioni, sulle quali, come vedremo, tuttora si affanna la dottrina.
   In realtà, è l’intero modello della tutela cautelare a far emergere quello che è stato definito significativamente un «puzzle normativo dai contorni non sempre definiti» (10). Il legislatore della novella del 2003, in altri termini, si è posto il problema di un inquadramento sistematico della materia de qua, ma, nell’impossibilità di una sistemazione unitaria, ha agito nel solco della originaria frammentazione normativa, non mutando in particolar modo la funzione assegnata al codice civile per quanto concerne la fonte principale in materia di procedimento di impugnativa delle delibere societarie.
D’altronde, non è di poco conto la principale novità introdotta dal d. lgs. n. 5/2003, e cioè l’accentuazione dell’autonomia del procedimento cautelare rispetto al successivo procedimento di merito. Infatti, nel procedimento cautelare uniforme, il nesso di strumentalità appare disposto in modo univoco soprattutto dagli artt. 669-octies e 669-novies cod. proc. civ., laddove si dispone la perdita di efficacia del provvedimento cautelare stesso nel momento in cui il processo a cognizione piena non sia instaurato nel termine indicato o sia estinto per altro motivo (11). A questo primo elemento connotante la strumentalità del procedimento cautelare uniforme occorre aggiungere gli ulteriori motivi ravvisabili nella revocabilità dei provvedimenti cautelari (sia ante causam, sia nel processo di cognizione piena) durante l’istruzione da parte del giudice istruttore, con ordinanza, quando «si verifichino mutamenti nelle circostanze» (12) (art. 669-decies, 1° comma cod. proc. civ.) e nell’inefficacia degli stessi che si producono automaticamente non soltanto nel momento dell’estinzione del processo a cognizione piena ma anche a seguito di emanazione di sentenza (o lodo arbitrale), anche non passata in giudicato, con la quale si dichiari «inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso» (art. 669-novies, 3° comma cod. proc. civ.).
   Proprio su questo punto, e dunque in materia specifica di tutela cautelare nel procedimento societario, il legislatore ha deciso di attenuare il vincolo di strumentalità tipico del procedimento cautelare uniforme (13). Il legislatore della novella, in effetti, ha preso ispirazione da determinati suggerimenti dottrinali, in base ai quali si era prospettata una revisione dei provvedimenti cautelari finalizzata alla soppressione dell’onere per la parte ricorrente di promuovere la causa di merito. La ragione per tale avvertita esigenza di riforma stava nel fatto che, sovente, la soddisfazione di un diritto evidente da parte del provvedimento anticipatorio estingueva di per sé l’istruzione di una causa a cognizione piena, facendo perdere l’interesse ad agire anche alla parte convenuta e trasformando, di per sé, il processo a cognizione piena in una inutile ripetizione dell’affermazione del diritto leso (14). Dall’assunto così sintetizzato si era ricavata un’esigenza di politica deflattiva del processo civile e di maggiore velocità delle decisioni in materia civile, cui senz’altro un’attenuazione del nesso di strumentalità poteva preludere (15).
   Dal punto di vista così esposto, in effetti, il legislatore delegante ha previsto (art. 23, 1° comma della legge delega) che «nelle controversie di cui al presente decreto, ai provvedimenti di urgenza e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della decisione di merito non si applica l’art. 669-octies del codice di procedura civile ed essi non perdono la loro efficacia se la causa non viene iniziata» (16). Ora, però, come non ha mancato di notare la dottrina maggioritaria, il risultato prodotto dalla legge delegata ha seguito soltanto in parte la determinazione dei principi e criteri direttivi (17). Anzi, per ciò che concerne in particolar modo il procedimento in materia di impugnativa delle delibere societarie (ex art. 2378, 3 e 4° comma cod. civ.) e di revoca degli amministratori nell’azione di responsabilità sociale nelle società a responsabilità limitata (ex art. 2479, 3° comma cod. civ.), la realizzazione è andata in una direzione del tutto diversa, o per lo meno biunivoca. Infatti, posto che la misura cautelare della sospensione può essere richiesta anche durante il processo a cognizione piena, il problema della obbligatorietà dell’instaurazione di quest’ultimo non si dovrebbe nemmeno porre e si dovrebbe asserire, ancora una volta, la funzione di “strumentalità necessaria” del procedimento cautelare rispetto a quello a cognizione piena, per quanto “attenuata” rispetto al modello precedente, in quanto la riforma del 2003 ha introdotto il principio dell’efficacia della misura cautelare a prescindere dall’estinzione o meno del procedimento nel merito (18). Tale innovazione – comunque rilevante – è stata originata dalla convinzione di dover adeguare, quanto più possibile, il procedimento civile in linea generale al principio costituzionale della ragionevole durata del processo (19).

4. (segue): in particolare, la sospensione dell’esecuzione di delibera assembleare
   Chiariti sommariamente i problemi principali che la novella del 2003 pone in termini generali, possiamo ora analizzare più da vicino il problema della tutela cautelare prevista dall’art. 2378, 3°-4° comma cod. civ., cui fa riferimento la sentenza del Tribunale di Padova in riferimento alla vicenda “AMRO-ANTONVENETA”.
   Come abbiamo avuto modo di precisare in precedenza, in effetti, la fattispecie disposta dalla norma codicistica costituisce un po’ il “cuore pulsante” del processo societario (20), in quanto dispone l’intervento cautelare del giudice che può determinare la “sospensione dell’esecuzione” di una delibera assembleare, quindi la perdita di validità (perlomeno temporanea) di una decisione del massimo organo deliberante di una società di capitali, sui cui rilevanti effetti concreti, in capo alla persona giuridica, non è possibile dubitare.
   Questa ultima preoccupazione ha indotto il legislatore della riforma del 2003 ad introdurre un principio di comparazione degli interessi contrapposti, che in ben poche altre fattispecie si pone con una determinazione normativa così chiara ed imperativa. Infatti, il 4° comma dell’art. 2378 cod. civ. dispone che il giudice designato per la trattazione della causa di merito, «sentiti gli amministratori e sindaci, provvede valutando comparativamente il pregiudizio che subirebbe il ricorrente dalla esecuzione e quello che subirebbe la società dalla sospensione dell’esecuzione della deliberazione».
   Dunque, sospendere l’esecuzione di una deliberazione assembleare significa indubbiamente porre la società di capitali nell’impossibilità di vedere realizzata la decisione presa dall’organo deliberante. La delicatezza della questione ha indotto la dottrina e la giurisprudenza a discutere su quali delibere assembleari siano, in realtà, sospendibili e quali, al contrario, non possono formare oggetto di questo tipo di provvedimento cautelare (21).
   Possiamo dire, in linea di prima approssimazione, che la distinzione più proficua per l’inquadramento della fattispecie è quella fra delibere c.d. self-executing e delibere la cui esecuzione è già avvenuta integralmente. Le prime consistono in quelle delibere che non hanno necessità di altro atto successivo e che si realizzano, per così dire, ex se. Nel caso di una delibera di nomina (o revoca) di amministratori, ad esempio, come noto, non c’è alcun bisogno di accettazione da parte del soggetto nominato (22) e, tutt’al più, la sua efficacia può venir meno soltanto dal rifiuto di costui ad accettare l’incarico (23). Si tratta di delibere a natura organizzativa (24), la cui sospensione, quindi, introduce una situazione di incertezza per la stessa governance societaria. Infatti, occorre subito precisare che, a differenza di quanto prevede l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori e la disciplina legale della denunzia al tribunale, in ordine alla quale l’art. 2409, 4° comma cod. civ. prevede la possibilità, nei casi più gravi e di reiterazione di atti in violazione dei loro doveri imposti dalla legge e dallo statuto, di revoca degli amministratori e di nomina, da parte del giudice, di un amministratore giudiziario, «determinandone i poteri e la durata», nell’emanazione di un provvedimento cautelare di revoca degli amministratori ex art. 2378 cod. civ. tale possibilità non è prevista. Conseguentemente, si deve prospettare l’ipotesi che, come nel caso della sospensione della delibera assembleare della “Antonveneta”, si debba ricorrere a quanto prevede espressamente l’art. 2386, 2° comma cod. civ., che assegna all’assemblea, in caso di mancanza della maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione, la loro pronta sostituzione, con la nomina di nuovi membri, ovvero, nella fattispecie prevista dal 4° comma del medesimo articolo, ove lo statuto preveda che, a seguito della cessazione di taluni amministratori cessi l’intero consiglio, «l’assemblea per la nomina del nuovo consiglio è convocata d’urgenza dagli amministratori rimasti in carica» (25).
   Il problema principale posto dalla sentenza del Tribunale di Padova è di natura più sottile e consiste nel decidere se sia possibile, in punto di diritto, prevedere la sospensione dell’esecuzione di una delibera la cui esecuzione è già avvenuta.
   In termini strettamente concettuali, parte della dottrina non ha mancato di rilevare come «sospendere ciò che è già eseguito non ha senso, e neppure è possibile: si può solo (oramai) rimuovere ciò che è già eseguito: il che, tuttavia, non sarebbe nei poteri del giudice della cautela, ma solo ed esclusivamente del giudice di merito» (26).
   Come appare evidente, il nocciolo del problema è sempre stato individuato nella differenza sostanziale fra “esecuzione” ed “efficacia” della delibera assembleare. In altri termini, affermare, come fa l’attuale art. 2378, 3° comma cod. civ., la «sospensione dell’esecuzione della delibera», in termini strettamente letterali, significa che il decreto cautelare può solamente sospendere l’esecuzione di quelle delibere non ancora interamente attuate. Ma quali sono quelle delibere non ancora interamente attuate? A ben vedere, se ne potrebbe individuare una, e cioè quella che consente una ricapitalizzazione della società, cioè un aumento del capitale sociale (27). In questo caso, dato che il materiale versamento del nuovo capitale nelle casse sociali è operazione che può avvenire in un determinato lasso di tempo, l’eventuale decreto di sospensione dell’esecuzione potrebbe “bloccare” il corso dei versamenti, travolgendo tutta l’operazione non ancora eseguita per intero (28).
   Questa interpretazione restrittiva della norma era prevalente nella giurisprudenza più risalente, ed in parte caratterizza, come vedremo, anche una parte minoritaria della giurisprudenza attuale, ispirata soprattutto da fattispecie in ambito amministrativistico che in questa sede, però, non è possibile esporre se non in termini sintetici (29). La questione si pose, infatti, in materia di impugnazione degli atti amministrativi e di tutela cautelare ante causam. Progressivamente, la dottrina amministrativistica, seguita dalla giurisprudenza prevalente, ha prospettato una delineazione dell’istituto della sospensiva cautelare dell’atto amministrativo che ha chiarito la sua natura essenzialmente costitutiva, in quanto tale capace di produrre effetti ex nunc sull’operatività, quindi sull’efficacia dell’atto. L’esecuzione materiale dell’atto impugnato, in altri termini, si traduce, secondo questa impostazione, nella modificazione materiale della realtà giuridica, che è dunque la conseguenza della volizione umana sul mondo fenomenico. Conseguentemente, non ha senso distinguere fra mera “esecuzione” ed “efficacia”, in quanto l’una e l’altra sono concetti che attengono alla “materializzazione” di un processo giuridico incidente sulla realtà fisica e sui rapporti sociali. Ma anche a voler distinguere in punto di forma fra “esecuzione” e “efficacia”, intendendo con il primo termine il mero elemento caratteristico di un atto giuridico (che può, in teoria, essere eseguito senza produrre un’efficacia diretta) (30), concepire la tutela cautelare come applicabile soltanto alla “esecuzione” e non anche alla “efficacia” significa sostanzialmente impedire la tutela cautelare, che pure è prevista dall’ordinamento e, successivamente all’entrata in vigore della Costituzione, sovraordinata come principio in ambito giurisdizionale (31).
   D’altronde, accanto ad una migliore definizione concettuale dei termini “esecuzione” e “efficacia” (o “operatività”), ha preso sempre più corpo la convinzione che la lettura restrittiva dell’istituto della sospensione cautelare, svuota di contenuto lo stesso istituto, contrastando in modo incongruo il principio cardine della tutela dei diritti intersoggettivi (32). Si viene così a chiarire, in modo definitivo, che per “esecuzione” si deve intendere la realizzazione degli effetti giuridici prodotti dall’atto, che può verificarsi in varie forme, mediante la progressiva realizzazione della deliberazione (come nel caso, già accennato, di una delibera di aumento del capitale sociale), o attraverso una realizzazione self-executing, che appartiene ontologicamente alla stessa natura dell’atto di volizione (33). Inoltre, come sottolineano le motivazioni di una sentenza di merito, «sicuramente il legislatore ha voluto impedire, attraverso l’esperibilità di un procedimento cautelare, che la vita della società possa essere affetta da gravi irregolarità con conseguente pregiudizio per la società. Sarebbe, pertanto, inverosimile e poco coerente negare l’ammissibilità della sospensione proprio in occasione di uno dei momenti più cruciali della vita societaria e cioè nel momento in cui si nominano gli amministratori che per legge rappresentano la società ed hanno il compito di compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale» (34).
   Si deve aggiungere, inoltre, che anche il dato letterale su cui si è incentrato il dibattito della dottrina e della giurisprudenza, consistente nel fatto che la norma positiva parla di “sospensione dell’esecuzione della delibera”, oggi appare superato, in quanto l’art. 35 dello stesso d. lgs. n. 5/2003, disciplinando la tutela cautelare nell’ambito dell’arbitrato, dispone, in materia di delibere assembleari, che l’arbitro può disporre «con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della delibera».
   D’altronde, anche la giurisprudenza di merito si è adeguata con convinzione a questo assunto e ad una delineazione giuridica della tutela cautelare ante causam che meglio definisce funzionalmente il significato del “momento esecutivo” e del “momento dell’efficacia” della delibera societaria.
   Si prospetta, così, il dato concettuale per cui la tutela apprestata dall’art. 2378, 3° comma cod. civ. si deve applicare funzionalmente «anche nei confronti di quelle deliberazioni che, per quanto già eseguite (eccettuato ovviamente il caso in cui gli effetti siano oramai irreversibilmente esauriti), manifestino attitudine ad incidere ancora sull’organizzazione e amministrazione della società» (35), ovvero la tutela oltrepassa il momento della mera esecuzione quando «risultasse suscettibile di continuare a produrre effetti rispetto all’organizzazione sociale» (36). Con maggiore precisione, alcune sentenze di merito sottolineano che «sono suscettibili di sospensione, su richiesta del socio opponente, le deliberazioni assembleari che, se pur non bisognevoli di specifica ulteriore attività esecutiva, continuino a manifestare una perdurante efficacia rispetto all’organizzazione societaria ed alle correlate posizioni dei soci non già in via di mero riflesso, ma di diretta incidenza sul funzionamento degli organi dell’ente, come quelle che disponendo operazioni sul capitale sociale sacrifichino senza valide ragioni di interesse sociale il diritto d’opzione dei soci di minoranza» (37).
Non mancano comunque le decisioni di merito che prospettano la convinzione dell’inammissibilità della tutela cautelare nel caso di richiesta di sospensiva per delibere già eseguite. L’adozione di un criterio fattuale, spinge alcuni giudici, sulla scorta di posizioni amministrativistiche che abbiamo precedentemente sintetizzato, a ritenere impossibile sospendere qualcosa che ha prodotto già interamente i suoi effetti (38).

5. Invalidità della delibera della “Antonveneta” per difetto di pubblicità del patto parasociale ex art. 122 TUF
    L’altro elemento proprio della sentenza del giudice di Padova fa riferimento, in relazione all’accertamento del periculum in mora, al fatto che l’esistenza di un patto parasociale occulto, finalizzato al duplice scopo di rastrellare azioni della “Antonveneta” ed esercitare, così, un’influenza dominante sull’ente creditizio, non può non incidere negativamente su quest’ultimo, per il quale, la “scalata” da parte di soci occulti si riverbererebbe, in senso negativo, sulla necessità di una sana e prudente gestione. Ciò, evidentemente, sul presupposto del 4° comma dell’art. 2378 cod. civ., è elemento caratterizzante del libero convincimento del giudice a favore dell’accoglimento della richiesta del ricorrente.
   Come abbiamo anticipato, la fonte normativa in forza della quale il giudice rimuove gli effetti della delibera risiede nell’art. 122 TUF, il quale disciplina le c.d. convenzioni di voto e le subordina ad una triplice condizione di validità: a) devono essere comunicati alla Consob entro cinque giorni dalla loro stipulazione; b) devono essere pubblicati per estratto sulla stampa quotidiana entro dieci giorni dalla stipulazione; c) devono essere depositati presso il registro delle imprese del luogo dove la società ha la sede legale entro quindici giorni dalla loro stipulazione (39).
   Si può precisare, peraltro, che tali obblighi disposti dal TUF ricalcano in larga misura quelli già previsti dall’art. 10, 4° comma della legge n. 149/1992. In entrambi i casi, l’obbligo si colloca nel contenuto generale stesso della “legge Draghi”, il cui spirito innovatore è stato essenzialmente quello di conformare il mercato regolamentato dei valori mobiliari ad un principio di trasparenza, che, unitamente ad altri, può permettere la realizzazione concreta della libera concorrenza.
   La pubblicizzazione del patto parasociale esclude, dunque, che esso possa avvenire in violazione del principio di trasparenza (40); se ciò avviene, il 3° comma dell’art. 122 TUF ne dichiara la nullità. Essendo nulla la convenzione di voto, la conseguenza principale è la nullità del voto espresso dai contraenti occulti nell’assemblea di nomina dei nuovi amministratori della “Antonveneta”, dato che, il 4° comma dell’art. 122 TUF inibisce l’espressione del voto «alle azioni quotate per le quali non sono state adempiuti gli obblighi previsti dal comma 1» (41). Inoltre, per effetto del superamento della soglia del 30% del capitale della società-bersaglio, i promotori devono lanciare un’offerta pubblica di acquisto (e non di scambio) sulla totalità delle azioni disponibili sul mercato (art. 106, 1° comma TUF).
   Il caso esaminato dal giudice di Padova, dunque, appare chiaro. Il gruppo promotore della scalata alla “Antonveneta” si è mosso con il fine di controbattere alla tentata “scalata” di un gruppo bancario olandese (“ABN-AMRO”). E per far ciò, l’istituto che ha promosso la “contro-scalata”, cioè la “Banca Popolare di Lodi” ha unito le forze di vari soggetti, detentori di una certa liquidità, formando un gruppo occulto e violando, in questo modo, una delle principali norme poste a tutela della trasparenza del mercato dal legislatore.
   Si può immaginare – come d’altronde prospetta lo stesso giudice cautelare – che l’intento prioritario della “controscalata” fosse quello di nominare un consiglio di amministrazione in grado di proporre tecniche difensive nei confronti dell’OPA olandese, ciò che è consentito dalla legge (art. 104, 1° comma TUF). L’unico limite all’adozione di tali tecniche di difesa è quello che le subordina alla preventiva autorizzazione da parte dell’assemblea. Per la validità della delibera è necessario il voto favorevole di tanti soci che rappresentino almeno il trenta per cento del capitale (42).
   Il fatto che il gruppo coordinato dalla “Banca Popolare di Lodi” abbia scelto di costituire un patto occulto per acquisire una posizione dominante nella “Antonveneta” è difficilmente spiegabile, alla luce del dato normativo italiano. Infatti, se il patto fosse stato regolarmente costituito e comunicato alla Consob, considerato che la legge impone solamente un obbligo di pubblicità e non anche, ovviamente, una preventiva autorizzazione al patto di sindacato, il gruppo avrebbe potuto acquisire le medesime partecipazioni senza rischiare l’istruttoria e la declaratoria di nullità del patto e di sterilizzazione del voto nell’assemblea. Si può, peraltro, ritenere che la via tentata nel modo descritto sia stata ispirata dal minor costo che deriva da una scalata senza obbligo di offerta pubblica di acquisto, che invece è necessario fare quando, come abbiamo visto, i soci appartenenti al patto superino la soglia del 30%. Conseguentemente, si può prospettare che i soci del patto occulto abbiano deciso di stipulare una convenzione di voto segreta nella speranza di non dover essere coinvolti in un’OPA obbligatoria, per superamento del limite di soglia. Infatti, se il patto non fosse venuto in evidenza, ciascun socio non avrebbe superato la soglia critica disposta dalla legge.
   Ma su questo punto, le considerazioni critiche potrebbero essere diverse e assai numerose. La prima e più importante è che, in una vicenda di “contendibilità” di un’impresa italiana sulla quale ricade l’interesse di un ente creditizio di uno Stato membro dell’Unione europea, sarebbe forse auspicabile esigere un rigido rispetto delle procedure di trasparenza del mercato mobiliare, per non dare modo agli osservatori e analisti internazionali di continuare a catalogare il capitalismo italiano – soprattutto quello finanziario – fra i modelli nei quali, troppo spesso, prevale l’elusione o il travalicamento degli obiettivi posti dalla legislazione nazionale ed europea, finalizzati al consolidamento di un mercato libero e trasparente.

NOTE

   (1) Vedi la delibera della CONSOB del 10 febbraio 2005, n. 15029.

   (2) La società ricorrente, peraltro, ha allegato al ricorso una lettera della Banca d’Italia, indirizzata alla stessa società, nella quale si fa presente che «in conseguenza di quanto deliberato dalla Consob e da quest’ultima comunicato alla Banca d’Italia l’11 maggio u.s., questo Istituto ha provveduto, in data 13 maggio u.s., a rappresentare agli azionisti interessati e a Banca Antonveneta che trovano applicazione le disposizioni contenute nell’art. 24, comma 1, del Testo unico bancario con riferimento all’ipotesi di omessa comunicazione di cui all’art. 20 del medesimo Testo unico».

   (3) Scrive il giudice a questo proposito: «(...) il sig. Giampiero Fiorani (amministratore delegato della “Banca Popolare di Lodi”, artefice della scalata alla “Antonveneta, per contrastare quella della “ABN AMRO”) vero e proprio dominus della costituzione del patto parasociale occulto (...), fa parte allo stesso tempo dell’organo gestorio della Banca Popolare di Lodi che, giusta comunicazione ai sensi dell’art. 102 T.U.F., ha dichiarato di voler promuovere due diverse offerte pubbliche, una di acquisto obbligatoria, un’altra di acquisto e di scambio di azioni emesse dalla Banca Antoniana Popolare Veneta». Ne consegue il giudizio del giudice, secondo cui «questo stato di cose, caratterizzato da una cointeressenza e da una coincidenza di plurimi interessi in capo allo stesso Fiorani, ove perdurasse, potrebbe venire, di fatto, a costituire le basi per una configurazione dell’organizzazione societaria asservita al soddisfacimento di interessi esclusivi di un socio a danno di altri».

   (4) Titoli e articoli dei principali quotidiani europei sono indicativi al riguardo. Il francese La Tribune titola: “Colpi di maglio europei sulla banca italiana”. Così riassume quanto sta per accadere: “La spagnola Bbva e l’olandese Abn-Amro hanno deciso di abbattere la fortezza eretta dal governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio per proteggere le banche italiane”. Lo spagnolo El Mundo scrive: “Bisogna esigere la neutralità delle autorità italiane in questo caso”. Nello stesso senso, il francese Le Figaro: “Da diverse settimane il governatore della Banca d’Italia dichiara di volere salvaguardare l’italianità delle banche italiane”. L’autorevole Financial Times: “Se non è il veto della Banca d’Italia, sono le complicate strutture di proprietà e governance a ostacolare le banche straniere. In passato Fazio ha auspicato il consolidamento delle piccole banche, ma al dunque non ha mostrato entusiasmo né sulle tre principali fusioni né sull’ingresso degli stranieri. Un approccio liberale avrebbe creato un mercato più efficiente”. Un po’ più duro l’altrettanto autorevole Le Monde: “Ma Fazio è anche un difensore dell’italianità del sistema bancario: utilizza tutti gli strumenti di cui dispone per ostacolare i colossi stranieri”. La stampa italiana mostra le medesime perplessità sul comportamento dell’Istituto di Via Nazionale.

   (5) Come si vedrà meglio in seguito, l’art. 104, 1° comma TUF, consente tecniche di difesa della società-bersaglio per contrastare offerte ritenute ostili. Evidentemente, si tratta di una scelta discrezionale da parte della società, che può benissimo decidere che l’offerta pubblica di acquisto non presenta caratteri di ostilità ed astenersi, così, dall’adozione di una delle tecniche di difesa (vedi, sul modello delle legislazioni straniere su questo punto, in epoca antecedente all’approvazione del Testo unico sulla finanza, G. LISANTI, Difese contro l’OPA in Italia, Usa, Gran Bretagna, in Amm. Pol., 1995, 200 ss.).

   (6) Già, però, alla fine di marzo Bruxelles aveva chiarito che, ove la Banca d’Italia avesse impedito l’acquisizione del controllo della “Antonveneta” da parte della “ABN AMRO”, sarebbe intervenuta la Commissione europea per valutare se le motivazioni dell’Istituto centrale italiano avessero sufficienti ragioni legislative, nel quadro del controllo prudenziale e di vigilanza.

   (7) L’esistenza di un “patto occulto” viene annunciato in un comunicato dell’ANSA il 18 maggio, in cui si parla di un accordo fra la Banca di Lodi e altri finanzieri italiani (Gnutti, Lonati e Coppola), entrato in vigore due giorni prima, avente ad oggetto l’acquisto di tutte le azioni ordinarie della “Antonveneta” reperibili sul mercato, unitamente a tutti i diritti di voto. L’accordo ha la durata di tre anni, ma ciascun socio può esercitare il diritto di recesso unilaterale dopo dodici mesi dalla stipulazione del patto. Se l’istituto di credito di Lodi acquisterà il controllo della banca veneta, dopo aver espletato l’offerta obbligatoria di acquisto e scambio, si obbliga a vendere azioni ma a non scendere, in alcun caso, sotto la soglia del 50%.

   (8) Per un inquadramento sistematico della materia, vedi C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, vol. I, Le tutele, Padova, 2003, 337 ss. Vedi, soprattutto per l’analisi del principio di “strumentalità” delle misure cautelari rispetto al giudizio di cognizione pieno, C. RAPISARDA SASSON, Il nuovo processo cautelare, in M. TARUFFO (a cura di), Le riforme della giustizia civile, Torino, 1993, 484 ss. Per l’analisi sistematica del procedimento cautelare uniforme, vedi A. PROTO PISANI, Procedimenti cautelari, in Enc. giur. Treccani, vol. XXIV, Roma, 1990, § 2.

   (9) Vedi, per quanto concerne l’interpretazione del vecchio e meno esaustivo art. 2378 cod. civ., in particolar modo il 4° comma, R. FRANCESCHELLI, Sospensione di delibere assembleari impugnate, in Riv. dott. comm., 1950-51, 3 ss.; A. GIANNATTASIO, Questioni in tema di sospensione dell’esecuzione della delibera di società per azioni, in Giust. civ., I, 1961, 447 ss.; F. GOMELLINI, Sulla sospensione dell’esecuzione delle delibere assembleari, in Giur. comm., I, 1987, 935 ss.

   (10) Così A. CARRATTA., Rito speciale per le società. In arrivo l’inedito “processo senza giudice”, in Dir. gius., 7, 2003, 19. Il fatto che il procedimento cautelare sia frammentato in fonti normative diverse, pone l’evidente problema dell’applicabilità, o meno, del procedimento cautelare uniforme. Su tale questione, però, il legislatore del 2003 ha contribuito a fare chiarezza. Conseguentemente, si deve affermare la natura speciale dei commi 3° e 4° dell’art. 2378 cod. civ., riguardo al procedimento di sospensione dell’esecuzione delle delibere assembleari, rispetto alle norme contenute nel d. lgs. n. 5/2003. Da ciò si ricava espressamente il fatto che, per tutti quei profili non presi in espressa considerazione dalla norma del codice civile, si deve avere riguardo a quanto dispone il d. lgs. n. 5/2003 (ma la dottrina non è unanimemente concorde nemmeno su questo punto; in senso affermativo con il carattere di specialità dell’art. 2378, 3°, 4° comma cod. civ. sono A. CARRATTA., Sub art. 2378, in S. CHIARLONI, (a cura di), Il nuovo processo societario, Bologna, 2004, 1168 ss.; G. ARIETA.-F. DE SANTIS, Diritto processuale societario, Padova, 2004, 430; altra dottrina non è completamente d’accordo sull’interpretazione sistematica delle fonti così prospettata, L. RUBINO, Commento all’art. 23 d. lgs. n. 5/2003, in G. LO CASCIO, (a cura di), I procedimenti, Milano, 2003, 285 ss., per il quale il 3° e 4° comma dell’art. 2378 cod. civ. si imporrebbero sulle norme di cui al d. lgs. n. 5/2003 solo per i profili sostanziali e non già per quelli processuali; secondo altri, G. MUSCOLO, Il nuovo regime dei vizi delle deliberazioni assembleari nelle s.p.a.: l’impugnazione, in Le soc., 2003, 678, le norme codicistiche avrebbero natura integrativa piuttosto che derogatoria).

   (11) Vedi, per quanto concerne l’interpretazione del nesso di strumentalità fra provvedimento cautelare e procedimento a cognizione piena, innanzitutto, per l’autorevolezza ermeneutica, P. CALAMANDREI, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, 1939, ora in Opere giuridiche, vol. IX, Napoli, 1983, 21 ss. Poi, A. PROTO PISANI, Procedimenti cautelari, cit., in particolar modo § 2.3., in cui l’autore sottolinea come la caratteristica della strumentalità «si rivela particolarmente idonea a descrivere la differenza tra provvedimenti sommari cautelari e provvedimenti sommari non cautelari». Infatti, i primi si configurano come fattispecie caratterizzate dal dato temporale della “attesa” di un successivo provvedimento definitivo, il quale, ove venga a mancare, fa venir meno del tutto l’efficacia e addirittura lo scopo del provvedimento cautelare. I secondi, invece, si caratterizzano per la “speranza” che un successivo provvedimento a cognizione piena «non sopraggiunga ad impedire loro di diventare definitivi» (P. CALAMANDREI, Introduzione, cit., 21).

   (12) A. PROTO PISANI, Procedimenti cautelari, cit., § 2.3. Vedi sul punto anche, TARZIA-SALETTI, Processo cautelare, in Enc. dir., “aggiornamento”, vol. V, Milano, 2001, 863 ss.; L. MONTESANO, Strumentalità e superficialità della cognizione cautelare, in Riv. dir. proc., 1999, 315 ss.

   (13) Tradizionalmente, il principio della strumentalità del procedimento cautelare appartiene alla sua essenza e ne ha da sempre connotato i contorni e la delineazione giuridica fondamentale. Infatti, per strumentalità o sussidiarietà si è intesa la relazione strutturale che lega funzionalmente il provvedimento cautelare al provvedimento definitivo. Ravvisando nel primo un mezzo per impedire che il trascorrere del tempo necessario per la cognizione piena produca danni anche irreparabili al ricorrente, la dottrina ha sottolineato in esso una «strumentalità qualificata, ossia elevata, per così dire, al quadrato: essi sono infatti, immancabilmente, un mezzo predisposto per la migliore riuscita del provvedimento definitivo, che a sua volta è un mezzo per l’attuazione del diritto; sono, cioè, in relazione alla finalità ultima della funzione giurisdizionale, strumento dello strumento» (P. CALAMANDREI, Introduzione, cit., 176). Per altro verso, la strumentalità del provvedimento cautelare impone che il giudice, innanzitutto, debba vagliare il fumus boni iuris, vale a dire l’esistenza reale di un diritto controverso, a cautela del quale si richiede l’emanazione di un provvedimento anticipatorio, qualora dal ritardo della decisione, conseguente all’instaurazione del procedimento a cognizione piena, possa derivare un danno irreparabile alla parte ricorrente (vedi sul punto, C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, vol. I, cit., 36 ss.; vedi anche L. LUISO, Istituzioni di diritto processuale civile, Torino, 2003, 284, soprattutto per quanto concerne la relazione strutturale esistente fra il fumus boni iuris e il periculum in mora).

   (14) P. BALENA, Provvedimenti sommari esecutivi e garanzie costituzionali, in Foro it., I, 1998, 1542.

   (15) In tale senso, A. PROTO PISANI, Per l’utilizzazione della tutela cautelare anche in funzione di economia processuale, in Foro it., V, 1998, 8 ss.; ARIETA-DE SANTIS, Diritto processuale societario, cit., 384.

   (16) L’art. 669-octies, 1° comma cod. proc. civ. dispone che «l’ordinanza di accoglimento, ove la domanda sia stata proposta prima dell’inizio della causa di merito, deve fissare un termine perentorio non superiore ai trenta giorni per l’inizio del giudizio di merito». Il fatto che il legislatore delegante abbia previsto la non applicabilità di questa norma suggerisce all’interprete che il legislatore delegato avrebbe dovuto agire di conseguenza, e cioè non imporre la conferma o meno del provvedimento anticipatorio da parte di quello a cognizione piena.

   (17) Vedi, in tema di riflessione generale sulla riforma del processo societario, A. PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo societario (note a prima lettura), in Foro it., 2003, V, 1 ss.; C. CONSOLO, Le prefigurabili inanità di alcuni nuovi riti commerciali, in Corriere. giur., 2003, 1519 ss. Vedi, peraltro, in riferimento alle difficoltà che il “puzzle normativo” in materia cautelare indubbiamente ripropone, per quanto concerne in particolar modo il regime degli elementi probatori, A. ROMANO, La tutela cautelare delle prove nel processo civile, Napoli, 2004, 301 ss. In riferimento ai principi-guida che dovrebbero informare l’esclusione della strumentalità strutturale per la cautela atipica ex art. 700 cod. proc. civ., vedi V. CARBONE-C. CONSOLO, Quali riforma oggi per il processo civile di cognizione?, in Corr. giur., 2002, 283 ss.; G. OLIVIERI, L’effettività della tutela giurisdizionale: i procedimenti cautelari, in Nuovo processo civile e giudice unico, «Atti del Convegno di Napoli, 6-8 novembre 1998», Milano, 2000, 207 ss.; S. CHIARLONI, Riflessioni inattuali sulla novella del processo civile (con particolare riguardo ai provvedimenti cautelari e interinali), in Foro it., V, 1990, 501.

   (18) Vedi sul punto specifico, A. CARRATTA, Procedimento di impugnazione, in Il nuovo processo societario, Commentario diretto da S. Chiarloni, Bologna, 2004, 1156.

   (19) Sulle “ragioni costituzionali” della riforma, vedi le considerazioni di G. SCARSELLI, La ragionevole durata del processo civile, in Foro it., V, 2003, 126, il quale però nota, in chiave critica, che è ben difficile conciliare necessariamente la ragionevole durata del processo civile all’altro principio costituzionale delle tutele giurisdizionali, perché non è affatto statuibile che il primo principio si traduca automaticamente nell’effettività delle tutele dei diritti intersoggettivi. Sul punto vedi anche le considerazioni della Suprema Corte, Cass. 4 febbraio 2003, n. 1600, in Foro it., I, 2003, 1450. Si può notare, a chiusura del quadro generale che abbiamo tracciato sulla riforma del diritto processuale societario, che il legislatore italiano sembra essersi ispirato al modello francese del référé sul quale vedi C. SILVESTRI, Il sistema francese dei référés, in Foro it., V, 1998, 9 ss.), introdotto dapprima dal Code de procédure civile del 1806, quale misura d’urgenza atipica e poi, in un modello più completo dal Nouveau code de procédure civile, in riferimento alla tutela propriamente cautelare e sia per i provvedimenti d’urgenza tipici (che si sostanziano nei cosiddetti référé provision e référé injonction. Il modello francese avrebbe ispirato il legislatore italiano (sono di questo avviso, fra gli altri, C. CECCHELLA, Il référé italiano nella riforma del diritto societario, in Riv. dir. proc., 2003, 1139 ss.; C. CAVALLINI, Il procedimento sommario di cognizione nelle controversie societarie, in Giust. civ., II, 2003, 449 ss.) per il fatto che la decisione ante causam nel sistema francese si presenta con una sua autonomia, nel senso che può essere o meno suffragata dalla decisione nel merito, che in questo modo assume una funzione “assorbente” rispetto alla cautela. Si tratta, dunque, di una “strumentalità attenuata” in quanto, come nel caso italiano, non ha effetto di giudicato e può essere interpretata, a voler utilizzare una figura retorica classica, quale sorta di “ossimoro” procedimentale, in quanto decisione “di provvisorietà stabilizzata”.

   (20) Vedi su questo punto, anche per un inquadramento sistematico, G. MUSCOLO, Commento all’art. 2378 cod. civ., in G. LO CASCIO (a cura di), Società per azioni. Azioni, società collegate e controllate, assemblee, Milano, 2003, 392 ss.

   (21) Vedi, per una discussione introduttiva all’argomento, R. PROVINCIALI, Presupposti del procedimento di sospensione di delibere assembleari, in Dir. fall., II, 1952, 61 ss.; W. BIGIAVI, Nuovi orizzonti in tema di sospensione di delibere assembleari e di sindacati azionari, in Foro it., I, 1953, 727 ss. La problematica qui discussa è stata comunque esaminata anche nel periodo antecedente all’emanazione del codice civile del 1942. Fra i contributi più interessanti e autorevoli, vedi V. SCIALOJA, Natura e disciplina del procedimento per la sospensione delle deliberazioni d’assemblea delle società per azioni, in Foro it., I, 1932, 817 ss.

   (22) Contra Trib. Piacenza, 6 maggio 1989, in Foro it. rep., 2002, secondo il quale la nomina degli amministratori si compone di due momenti distinti: quello della delibera e quello dell’accettazione: «Nel caso di specie è facile individuare un atto complesso composto da due momenti: il primo costituito dalla delibera con la quale vengono nominati gli amministratori, il secondo costituito dall’accettazione da parte di questi della carica sociale e quindi dall’esecuzione della delibera che è destinata a produrre i suoi effetti (e cioè di essere eseguita attraverso i vari atti di gestione) nel tempo».

   (23) L’interpretazione in tal senso da parte della dottrina appare assolutamente prevalente. Vedi, fra gli altri, A. PAVONE LA ROSA, La rinnovazione delle deliberazioni assembleari invalide, in Banca, borsa, tit. credito, I, 1954, 893 ss., il quale concepisce la delibera di nomina o revoca dell’amministratore quale atto unilaterale che, in quanto tale, esprime pienamente la sua efficacia sulla realtà giuridica sottostante, senza alcun bisogno di altro provvedimento di esecuzione. Una corrente minoritaria di pensiero ritiene, invece, che la nomina di un amministratore si inquadrerebbe nel contesto di un rapporto negoziale (vedi la rassegna di opinioni in tal senso in MARULLI, CAVALLI e SILVETTI, La società per azioni. Gli organi e il controllo giudiziario, in Giur. sist. dir. civ. comm., fondata da W. Bigiavi, vol. 2, Torino, 1996, 400 ss.

   (24) P. FERRO LUZZI, La conformità delle deliberazioni alla legge e all’atto costitutivo, Milano, 1993, 72 ss.

   (25) Peraltro, il 5° comma del medesimo articolo preveda anche il caso in cui «se vengono a cessare l’amministratore unico o tutti gli amministratori, l’assemblea per la nomina dell’amministratore o dell’interno consiglio deve essere convocata d’urgenza dal collegio sindacale, il quale può compiere nel frattempo gli atti di ordinaria amministrazione». Vedi sulla problematica qui sintetizzata, F. DI SABATO, Manuale delle società, Torino, 1995, 447 ss.; vedi anche D. MEO, Gli effetti delle deliberazioni assembleari invalide, Milano, 1998, 87 ss.

   (26) In tali termini, R. PROVINCIALI, Presupposti del procedimento di sospensione, cit., 65. L’autorevole dottrina, però, sembra incorrere in una contraddizione, in quanto, pur concependo il provvedimento cautelare quale atto a sostanziale funzione anticipatoria della decisione di merito, lo ritiene inadatto, come si è detto, a sospendere una delibera di nomina di amministratori che è di per sé self-executing. Ma se la decisione cautelare ha natura anticipatoria della decisione di merito (che può ben annullare la delibera e quindi revocare gli amministratori), non si dovrebbe concettualmente negare la possibilità anche al decreto cautelare, appunto, di “anticipare” la decisione nel merito e, soprattutto, non si dovrebbe negare la sua efficacia funzionale rispetto alla tutela cautelare apprestata dall’ordinamento. É il medesimo ragionamento che fa da supporto a quella larga parte della dottrina più recente che, appunto, sul presupposto per cui la decisione cautelare ha natura anticipatoria, ammette integralmente la sospensione dell’esecuzione della delibera (fra gli altri, G. ZAGANELLI, Sulla sospensione di delibere di nomina di amministratori di società per azioni e cooperative, in Giur. comm. 1976, II, 360 ss.). Vedi, però, Tribunale. Milano, 12 gennaio 2001, in Foro it. rep., 2002, secondo cui «non è ammissibile la sospensione della deliberazione assembleare di approvazione del bilancio sul presupposto che la stessa, per il suo contenuto, non risulta suscettibile di esecuzione in senso proprio, né di produrre effetti rispetto all’organizzazione sociale».

   (27) Secondo Tribunale Como, 1° giugno 2000, in Foro it. Rep., 2002, «ricorrono giusti motivi per sospendere l’esecuzione di una deliberazione assembleare di aumento del capitale di una società, impugnata dal socio dissenziente, quando la deliberazione sia stata assunta col voto determinante di altro socio in violazione del principio di correttezza e buona fede che deve improntare i rapporti tra i soci di una società di capitali (nella specie, il socio di maggioranza ed amministratore di una società composta da due soli soci - legati da rapporto di coniugio, ma in fase di separazione litigiosa - aveva proposto e votato un aumento del capitale sociale, idoneo a diluire la partecipazione dell’altro socio, adducendo necessità finanziarie della società provocate dalla mancata riscossione di crediti vantati nei confronti di altra società della quale egli stesso era socio maggioritario)».

   (28) Vedi, per quanto concerne la delineazione della delibera di aumento del capitale sociale, interpretata come fattispecie a formazione complessiva, risultante da una serie materiale di atti che concretizzano la volontà deliberativa, V. BELVISO, Le modificazioni dell’atto costitutivo nelle s.p.a., in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. XVII, Torino, 1985, 88 ss.

   (29) Vedi, nella folta dottrina sull’argomento: G. FOLLIERI, Giudizio cautelare amministrativo e interessi tutelati, Milano, 1981, 69 ss.

   (30) Vedi l’analisi compiuta dall’autorevole dottrina, A. FALZEA, Efficacia, in Enc. dir., vol. XIV, Milano, 440 ss.

   (31) Significativa la posizione che, in tale ambito, avevano assunto le Sezioni Unite della Cassazione. Secondo questa impostazione, si doveva partire dall’esatto significato del verbo “sospendere”, che significa “arrestare l’esecuzione” e non “annullare”. Conseguentemente, ad avviso del giudici delle Sezioni Unite, la materia della sospensione cautelare doveva essere caratterizzata da tre principi fondamentali: a) la sospensione è ammissibile solamente per gli atti che non siano stati totalmente eseguiti, vale a dire quando l’atto realizzi la sua efficacia attraverso una serie di atti successivi; b) quando l’atto abbia esplicato ed esaurito la sua efficacia, la sospensione non può essere concessa, né prevista, in quanto, in questo caso, non si avrebbe alcuna “sospensione” ma l’annullamento di atti già eseguiti, ciò che è contrario alla stessa logica della tutela cautelare; c) nel quadro così delineato, la sospensione può avvenire solamente con effetti ex nunc (Cass. S.U., 20 marzo 1943, n. 649, in Foro it., I, 1943, 648). Vedi comunque le posizioni di apertura che mostrava un’autorevolissima dottrina, G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, vol. VII, Milano, 1954, 291 ss.

   (32) Sempre in ambito amministrativo, una dottrina ha rilevato come solamente mediante una “finzione giuridica” si può ritenere che la sospensiva cautelare travolga solamente la mera esecuzione e non anche l’efficacia o operatività dell’atto. Vedi sul punto, P. ZEVIANI PALLOTTA, Contenuti e limiti delle pronunce cautelari del giudice amministrativo e loro aspetti costituzionali, in Giur. it., IV, 1981, 61 ss.

   (33) Una ricostruzione di questo tipo, in riferimento all’atto amministrativo, viene compiuta autorevolmente da S. SATTA. Giustizia amministrativa, Padova, 1997, 362 ss. Nella dottrina commercialistica, l’opinione prevalente attuale è a favore di una lettura estensiva della norma posta dall’art. 2378, 3° comma cod. civ. Vedi sul punto: G. ZAGANELLI, Sulla sospensione di delibere, cit., 362 ss.; A. CARRATTA., Sub art. 2378, cit., 1182 ss.

   (34) Trib. Piacenza (ord.), 6 maggio 1989, cit.

   (35) Trib. Salluzzo, 24 febbraio 2001 (ord.), in Le soc., 2001, 1376.

   (36) Trib. Milano, 4 maggio 1990 (ord.), in Le soc., 1990, 1334.

   (37) Tribunale. Milano, 25 luglio 1998, in Foro it. rep., 2002.

(38) Vedi, Tribunale Torino, 9 giugno 2003, in Rep. Foro it., 2004, secondo cui «l’esecuzione della deliberazione dell’assemblea può essere sospesa, su richiesta dell’azionista opponente, se ricorrono gravi motivi, salvo che essa abbia conseguito interamente i suoi effetti, poiché in tal caso il provvedimento cautelare del presidente del tribunale comporterebbe, ove fosse emesso, non già la sospensione, bensì la revoca della deliberazione che si pretende viziata». Sulla stessa linea altra sentenza del Tribunale di Milano («Tribunale Milano, 24 aprile 2002, in Foro it. rep., 2002), secondo il quale la «delibera assembleare di revoca dell’amministratore, realizzando i suoi effetti in via immediata, non è suscettibile di esecuzione e non può pertanto essere oggetto di sospensione, che non comporterebbe in ogni caso la reimmissione nell’incarico dell’amministratore revocato, poiché gli effetti di tale revoca si sono ormai definitivamente realizzati ed esauriti; la protrazione degli effetti rispetto all’organizzazione sociale perdura infatti soltanto in relazione all’eventuale nomina di un nuovo amministratore». Peraltro, tale ultima posizione dei giudici di Milano corregge un’impostazione precedente del tutto diversa (vedi Tribunale Milano, 12 settembre 1995, secondo cui «sono suscettibili di sospensione ex art. 2378, 4º comma, cod. civ. anche le deliberazioni assembleari che hanno già avuto integrale esecuzione, se ancora produttive di danno grave ed irreparabile»). Il grave contrasto nella giurisprudenza di merito su questo punto, richiederebbe forse l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Cassazione.

   (39) Vedi sui patti parasociali, fra gli altri M. ATELLI, Recesso e inadempimento nelle convenzioni di voto, in Contr. Impresa, 1997, 68 ss.; B. LIBONATI, Sindacato di voto e gestione di impresa, in Riv. dir. comm., I, 1991, 106 ss. Per quanto concerne gli obblighi di pubblicità disposti dal TUF, vedi M. ATELLI, Commento agli artt. 122-124, in Commentario al Testo unico dell’intermediazione finanziaria, a cura di C. Rabitti Bedogni, Milano, 1998, 663 ss.

   (40) Secondo un’autorevole opinione, peraltro, rientrano nella fattispecie anche quei patti sottoscritti in forma orale, verso i quali, anzi, maggiormente dovrebbe riverberare i suoi effetti l’obbligo di pubblicizzazione. Vedi G. CIAN, Società con azioni quotate: profili sanzionatori della disciplina dei patti parasociali nella riforma Draghi, in Corr. giur., 1998, 733 ss.

   (41) La disposizione in esame sostituisce l’ambigua sanzione dell’inefficacia del patto, prevista dall’art. 10, 4° comma della legge n. 149/1992.

   (42) La ratio della norma in questione va ravvisata nella «necessità che gli azionisti chiamati a scegliere se dismettere o meno la propria partecipazione siano gli stessi a decidere se resistere o meno all’OPA; o meglio, nella necessità di evitare che, mentre la prima decisione faccia capo agli azionisti minoritari, la seconda spetti esclusivamente al management, espressione, a propria volta, del gruppo di comando» (R. D’AMBROSIO, Commento agli artt. 102-112, in Commentario al Testo unico dell’intermediazione finanziaria, cit., p. 599).

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