il diritto commerciale d’oggi
    IV.10 – ottobre 2005

STUDÎ & COMMENTI

 

PHILIPP FABBIO
Obblighi di contrarre e distribuzione farmaceutica, tra diritto comune e regolamentazione di settore. Appunti per una teoria della dipendenza relativa o di gruppo ovvero della posizione dominante plurima non collettiva o disgiunta *

Commento a App. Milano, 23 luglio 2005

 

SOMMARIO: – 1. Introduzione. – PARTE PRIMA: 2. La dipendenza da assortimento del grossista e la sua traduzione in termini giuridici (in generale). – 3. Il concetto tedesco di dipendenza da assortimento (sortimentsbedingte Abhängigkeit): origine e ragioni del suo successo. – 4. Le specie della dipendenza da assortimento. In particolare: la dipendenza da assortimento assoluta (Spitzenstellungsabhängigkeit). – 5. Segue: la dipendenza da assortimento relativa o di gruppo (Spitzengruppenabhängigkeit). – 6. Generalizzazione del concetto di dipendenza relativa o di gruppo (quasi-sortimentsbedingte Abhängigkeit). – 7. Possibili argomenti contro l’utilizzo di un generale concetto di dipendenza relativa o di gruppo e loro confutazione. – 8. Vantaggi derivanti dall’utilizzo di un generale concetto di dipendenza relativa o di gruppo. – 9. Dipendenza relativa o di gruppo e posizione dominante plurima non collettiva o disgiunta: sostanziale equivalenza dei due concetti. – PARTE SECONDA: 10. Un’applicazione pratica: la dipendenza da assortimento del grossista farmaceutico rispetto ai produttori di specialità medicinali – PARTE TERZA: 11. I doveri di servizio pubblico del grossista farmaceutico come fonte di un obbligo legale di contrarre a carico dei produttori di specialità. – 12. Conclusioni.

 

1 Introduzione
   La filiale italiana di una nota casa farmaceutica, adducendo le generiche esigenze di una mutata strategia commerciale, cessa di rifornire delle proprie specialità medicinali un grossista per la Regione Campania. Il distributore discriminato si ritrova a doversi approvvigionare presso altri grossisti; ed agisce perciò in giudizio contro il produttore, lamentando un abuso di posizione dominante, sotto specie di rifiuto ingiustificato di contrarre. Una posizione dominante, in particolare, è prospettata dal grossista ricorrente per ogni specialità medicinale rifiutata, in considerazione soprattutto dei doveri di pubblico servizio, di tendenziale completezza dell’assortimento e di tempestiva fornitura alle farmacie, che la normativa di settore pone a suo carico.
   In sede di prime cure, la Corte d’appello di Milano rigetta tuttavia la domanda, con una motivazione incentrata sulla nozione (in larga parte presupposta) di mercato rilevante, e sulla sua applicazione al caso concreto. Secondo il giudice, infatti, il produttore farmaceutico non potrebbe di regola detenere alcuna posizione dominante per la singola specialità medicinale, posto che: a) nel settore farmaceutico, il mercato rilevante dal punto di vista merceologico si estenderebbe sempre a tutte le specialità medicinali (normalmente più d’una) destinate alla cura della medesima patologia ed aventi le medesime proprietà terapeutiche; in ogni caso b) il grossista discriminato potrebbe sempre rivolgersi, anziché direttamente al produttore, ad altri distributori intermedi, sia pure a condizioni presumibilmente meno vantaggiose.
In sede di reclamo, la Corte invece accoglie la domanda, argomentando diversamente proprio sulla delimitazione in concreto del mercato rilevante. In particolare, questo è fatto coincidere, per il settore farmaceutico, con la singola specialità ed i corrispondenti generici, atteso soprattutto il carattere vincolante della prescrizione medica. Irrilevante, per contro, è valutata la possibilità, pure prevista dalla normativa di settore, di un approvvigionamento del grossista presso fornitori non produttori.
   I provvedimenti e la vicenda all’origine s’iscrivono perciò nel più ampio dibattito, sviluppatosi finora per lo più a livello di diritto comunitario, sul controllo antitrust delle politiche distributive attuate dai produttori di specialità medicinali (1). Dibattito piuttosto specifico, perché relativo ad un settore caratterizzato da una serie di peculiarità; tra le quali, particolarmente incisiva, la presenza di una regolamentazione amministrativa del mercato, ispirata da finalità di tutela della salute del cittadino e di contenimento della spesa pubblica. Di qui la rilevanza pratica dei precedenti, che si aggiungono ad altre decisioni, di vario segno, adottate da autorità nazionali (2) e straniere (3).
   Di seguito la vicenda sarà tuttavia presa in considerazione come occasione:
   a) per cercare di contribuire alla messa a punto di alcuni concetti generali del diritto della concorrenza, noti e meno noti, e più o meno direttamente evocati dalle ordinanze in epigrafe, quali in particolare quelli di dipendenza da assortimento, di posizione dominante plurima non collettiva o disgiunta, e di mercato rilevante;
   b) per verificare l’applicazione di tali concetti ai rapporti di mercato tra produttori e grossisti farmaceutici, avuto riguardo soprattutto al rilievo che a tal fine possono assumere i doveri di pubblico servizio (di tendenziale completezza dell’assortimento e di tempestiva fornitura alle farmacie) previsti dalla normativa di settore a carico dei grossisti;
   c) per tentare di reimpostare, facendo ricorso al concetto di dipendenza da assortimento, la controversa questione se al dovere di assortimento minimo, gravante per legge sul grossista farmaceutico, corrisponda un obbligo legale di contrarre in senso proprio, avente come destinatari la generalità dei produttori di specialità medicinali.

2. – La dipendenza da assortimento del grossista e la sua traduzione in termini giuridici (in generale).
   Nei rapporti tra produttori e distributori, un conflitto ricorrente – riconoscibile anche nel caso di specie - vede contrapposti: da un lato, l’interesse del produttore, a poter liberamente organizzare la distribuzione dei propri prodotti; e quindi anche escludere, in funzione della politica di volta in volta perseguita, determinate forme distributive o singoli intermediari non graditi. Dall’altro lato, l’interesse del grossista, a rivendere prodotti in sé remunerativi, e a disporre in ogni caso di un assortimento competitivo.
   La possibilità di partecipare alla distribuzione di prodotti remunerativi (perché di largo consumo, caratterizzati da margini elevati o da un basso rischio operativo ecc.) non individua tuttavia una condizione essenziale per attivarsi sul mercato come distributore intermedio. Diversamente, la disponibilità di un assortimento acquistato a prezzi competitivi (i.e. non più svantaggiosi di quelli normalmente praticati agli altri grossisti), relativamente completo (i.e. non meno completo rispetto a quello di cui dispongono per lo più gli altri grossisti) ed in ogni caso sufficientemente attraente per i dettaglianti potenziali acquirenti (magari perché comprensivo di uno o più marchi conosciuti e generalmente apprezzati dal pubblico) rappresenta di regola, considerate anche le funzioni tradizionalmente assolte dal commercio all’ingrosso, una risorsa indispensabile per l’intermediario.
   Di qui l’interrogativo se ed in quali termini il rifiuto di contrarre discriminatorio, proveniente da uno o più produttori, in grado di incidere sulla completezza dell’assortimento del grossista, possa configurare, al di là degli interessi individuali e di fatto delle parti più direttamente coinvolte, un abuso monopolistico, rilevante agli effetti del diritto della concorrenza, ed in particolare dei divieti di abuso di posizione dominante (art. 82 Trattato CE e art. 3 l.antitrust) e di abuso di dipendenza economica (art. 9 l.subf.) (4). E quindi, prima di tutto, se ed in che modo alla dipendenza da assortimento del grossista corrisponda, in capo ai produttori, un potere rilevante per il diritto della concorrenza.
   In realtà, ricorrendo una dipendenza da assortimento del grossista, sussiste evidentemente anche, in capo alla controparte di mercato, un corrispondente potere; che nasce (non dalla condizione individuale del grossista e/o dalla particolare relazione da questi intrattenuta con la controparte, e soprattutto non da scelte imprenditoriali poco lungimiranti o semplicemente sbagliate, ma) da condizioni obiettive del mercato; che rende i produttori in grado, l’uno indipendentemente dall’altro, di condizionare sensibilmente l’azione della generalità dei distributori intermedi; e che per ciò stesso richiede, in relazione ai comportamenti attraverso i quali esso si manifesta, un controllo da parte dell’ordinamento.
   La principale difficoltà, che il quesito solleva, non è quindi (o non dovrebbe essere) tanto di stabilire se questo controllo sia necessario; ma piuttosto - come sembrerebbero dimostrare anche i provvedimenti resi finora in questo ed in altri casi analoghi - nel riuscire a dare di questa tipologia di potere un’adeguata ricostruzione concettuale, che sia al tempo stesso rigorosa, fornita di un fondamento normativo adeguato (a livello di singole disposizioni come anche di sistema) e sufficientemente lineare in vista della sua applicazione pratica.
   Al riguardo, le soluzioni, che allo stato sembra possibile ipotizzare, e che però – come si vedrà – non possono esser considerate (per un verso o per un altro) pienamente fungibili tra loro, sono almeno tre.
Una prima soluzione, correntemente praticata nel diritto antitrust comunitario, ed ormai codificata nei più recenti regolamenti d’esenzione ex art. 81, par. 3, Trattato CE, consiste – come noto - nel fare applicazione del divieto d’intese, utilizzandolo sostanzialmente come un divieto di abuso di potere.
Una seconda soluzione, concettualmente più lineare ed anche per altri versi più adatta a cogliere giuridicamente il fenomeno, è stata proposta di recente da autorevole dottrina, in contributi per la sistemazione e la rielaborazione della tradizionale nozione di p.d., prospettando il concetto di posizione dominante plurima non collettiva o disgiunta (5).
   Una terza soluzione infine, forse ancora più lineare, anche se per il resto largamente equivalente alla precedente, consiste nel valersi, astraendolo più di quanto non sia già avvenuto nell’ordinamento d’origine, del concetto tedesco di dipendenza da assortimento (sortimentsbedingte Abhängigkeit); ed in particolare di quella che ne rappresenta la principale variante, la dipendenza da assortimento relativa o di gruppo (Spitzengruppenabhängigkeit).

3. – Il concetto tedesco di dipendenza da assortimento (sortimentsbedingte Abhängigkeit): origine e ragioni del suo successo.
   Dipendenza da assortimento, almeno nella sua versione originaria ed al tempo stesso più ricorrente nella prassi giudiziaria, è quella situazione, in cui un distributore, per riuscire competitivo, deve condurre nel proprio assortimento uno o più marchi affermati, ed in questo senso dipende dai relativi produttori/fornitori.
   Storicamente, la dipendenza da assortimento è una Fallgruppe (in buona sostanza, il risultato di una tipizzazione dottrinale e giurisprudenziale) nata nel 1973, con la seconda novella alla legge tedesca antitrust (Gesetz gegen Wettbewerbsbeschränkungen, GWB).
La novella faceva venir meno per i produttori di articoli di marca la possibilità di legare contrattualmente i prezzi di rivendita. Si temeva, tuttavia, che il medesimo risultato potesse esser conseguito attraverso distribuzioni o sconti selettivi, tendenti a far rispettare ai distributori prezzi formalmente solo consigliati. Di qui l’art. 26, co. 2, secondo periodo [oggi 20, co. 2, primo periodo] GWB (6).
   La nuova disposizione, estendendo il cd. divieto di discriminazione alle imprese in posizione dominante cd. relativa (relative Marktmacht) (7), doveva perciò fornire uno strumento per il controllo delle politiche distributive attuate dai produttori di articoli di marca. Non di tutti i produttori indistintamente, ma solo di quelli che disponessero di un potere di mercato, tale da consentire loro di selezionare i propri rivenditori, di compromettere la capacità competitiva dei rivenditori esclusi, di continuare ad imporre di fatto i prezzi di rivendita, ed in genere di attentare al corretto funzionamento della concorrenza.
Secondo una concezione diffusa, un tale potere, se non si fonda sul possesso di quote sul mercato finale tali da indiziare una posizione dominante assoluta (art. 22 [oggi art. 19] GWB), può derivare anche dalla speciale considerazione che i consumatori riservano a quel prodotto o, detto altrimenti, dall’esistenza di una domanda fortemente individualizzata da parte della clientela finale (cd. Meinungsmonopol) (8).
   Su queste premesse nasce la Fallgruppe della dipendenza da assortimento.
   Quanto al successo, che la Fallgruppe ha conosciuto nei tribunali, la ragione è presto detta. Finché ai produttori di articoli di marca era consentito di imporre i prezzi di rivendita dei propri prodotti, dal mercato erano rimasti fuori quei rivenditori, discounters, grandi magazzini e simili, i quali puntano tipicamente su di una politica di prezzi aggressiva, che il commercio al dettaglio tradizionale spesso non è in grado di reggere. Appena però gli accordi di prezzo imposto furono messi fuori legge, anche le nuove forme della distribuzione cominciarono ad interessarsi al mercato degli articoli di marca. Tali aspirazioni, tuttavia, si scontravano per lo più con gli opposti interessi dei produttori, i quali, preoccupati soprattutto che una distribuzione indiscriminata potesse rovinare l’immagine ed i prezzi dei loro prodotti, ne rifiutavano la fornitura ai rivenditori sgraditi, imponendo ai distributori autorizzati di fare altrettanto (9).
   Di qui l’elevato contenzioso ex art. 20, co. 2, GWB. La giurisprudenza sul divieto di discriminazione allargato, perciò, verte in buona parte sulla liceità di rifiuti di contrarre, opposti da produttori di articoli di marca ad aspiranti rivenditori. In molti casi il rifiuto è motivato con la strategia di marketing adottata. Segnatamente, con l’adozione di un sistema di distribuzione selettiva. La giurisprudenza tedesca sulla dipendenza da assortimento è così divenuta soprattutto una giurisprudenza in materia di distribuzioni selettive (10). Essa s’incentra sui caratteri che tali sistemi devono presentare, tanto nella fase d’attuazione (il fornitore deve rispettare le regole che egli stesso si è dato: cd. Lückenlosigkeit), quanto nella fase anteriore, dell’individuazione generale ed astratta dei criteri di selezione (le regole che il fornitore si dà devono esser di per sé giustificate, objektiv und angemessen, oltre che trasparenti), affinché il rifiuto di contrarre ed in genere la discriminazione (nella quale si concreta l’attuazione del sistema selettivo) siano leciti. I risultati, almeno per ciò che concerne i criteri di valutazione, coincidono in sostanza con quelli, cui sono pervenuti all’incirca negli stessi anni gli Organi comunitari facendo applicazione del divieto d’intese (11).
   Dal punto di vista del giurista italiano, che s’interroghi sulla possibilità di recepire la figura della dipendenza da assortimento nell’interpretazione della norma nazionale che vieta l’a.d.e., la stretta connessione, riscontrabile nel diritto vivente tedesco, ed in parte divisata dallo stesso legislatore storico, tra dipendenza da assortimento e controllo delle politiche distributive attuate dai produttori di articoli di marca, pone il problema di quale spazio effettivo residui per l’applicazione della Fallgruppe ad un fenomeno, quello dei sistemi di distribuzione selettiva, in tutto od in parte già disciplinato, nel diritto comunitario e di riflesso anche in quello interno, attraverso il divieto di intese e la relativa appendice di normazione secondaria e di diritto giurisprudenziale. In realtà, uno spazio in tal senso - come cercheremo di dimostrare – c’è, e merita d’esser fatto oggetto d’indagine.
   Qui però, in vista dell’elaborazione di un generale concetto di dipendenza relativa, mette conto soprattutto rilevare che la connessione, seppure storicamente presente, non è indefettibile. Già nella giurisprudenza tedesca, infatti, la nozione di dipendenza da assortimento si è progressivamente evoluta verso forme nuove, affini ma non coincidenti con quella che in origine era soltanto una dipendenza da articolo di marca (12). Si è proceduto, in altri termini, anche se in maniera forse non del tutto consapevole, ad una progressiva astrazione della nozione di dipendenza da assortimento, ed in particolare della variante cd. relativa. Con il risultato di gettare le basi per la costruzione di un più generale concetto di dipendenza, utile per cogliere sub specie juris situazioni di potere di mercato, che rischiano altrimenti di rimanere sfuggenti.

4. - Le specie della dipendenza da assortimento. In particolare: la dipendenza da assortimento assoluta (Spitzenstellungsabhängigkeit).
   Le principali varianti, nelle quali si articola la Sortimentsbedingte Abhängigkeit, sono – come ormai per lo più noto anche da noi in Italia (13) - due: assoluta (Spitzenstellungsabhängigkeit) e relativa o di gruppo (Spitzengruppenabhängigkeit). La seconda derivata dalla prima.
   Una dipendenza da assortimento assoluta, in particolare, ricorre quando un rivenditore, per riuscire competitivo, deve condurre quella marca nel proprio assortimento, a meno di non voler subire un grave danno alla sua immagine di rivenditore specializzato (cd. Makeltheorie) (14).
   Decisivi sono considerati a tal fine la notorietà ed il prestigio del prodotto sul mercato. Questi, a loro volta, sono determinati da fattori quali prezzo, qualità, attività di promozione delle vendite, quota di mercato, capillarità della distribuzione. Non ogni produttore di articoli di marca detiene per ciò stesso una posizione dominante relativa ai sensi dell’art. 20, co. 2, GWB.
   Particolare importanza è attribuita dalla giurisprudenza all’attività promozionale, la quale può contribuire in maniera decisiva a rendere il prodotto oggetto di una domanda individualizzata da parte del consumatore (15). Altrettanto dicasi per la capillarità della distribuzione, vale a dire per la circostanza per cui non c’è distributore della stessa specie che non disponga di quel marchio nel proprio assortimento (16).
   Una quota di mercato modesta non esclude la dipendenza (17). È possibile, del resto, che il produttore rinunci deliberatamente ad aumentare la produzione, pur di mantenere elevati i prezzi e conferire al prodotto un’aura di esclusività (18). Una quota di mercato consistente, invece, può valere come indizio di dipendenza (19). Una quota di mercato particolarmente elevata, infine, fonderà per lo più una posizione dominante assoluta (20).
   Irrilevante, infine, si considera la quota di fatturato che il distributore realizza con quel marchio, non essendo questa rappresentativa del discredito – così si argomenta - che può derivare al negoziante da un assortimento privo della marca più nota del momento.
   I criteri enunciati dalla Cassazione tedesca per la prima volta in “Rossignol” (1975) (21) sono stati ribaditi dalla stessa in numerose altre sentenze (22). In dottrina, la giurisprudenza del Bundesgerichtshof in materia di dipendenza da assortimento assoluta ha incontrato il generale consenso (23). Le rare critiche si sono semmai appuntate sull’opportunità, da un punto di vista di politica della concorrenza, di porre a carico dei produttori di articoli di marca un obbligo di contrarre pressoché indifferenziato o, meglio, da qualcuno ritenuto tale (24). Non risulta, invece, che sia mai stata messa in discussione la correttezza dell’interpretazione, che la Corte ha dato del nuovo divieto, elaborando la Fallgruppe della dipendenza da assortimento. L’elaborazione giurisprudenziale, del resto, riposava sulle indicazioni del legislatore storico.

5. – Segue: la dipendenza da assortimento relativa o di gruppo (Spitzengruppenabhängigkeit).
   A pochi anni di distanza da “Rossignol”, in un altro leading case (“Nordmende”, 1979) (25), la Cassazione tedesca ha avuto modo di precisare che una dipendenza da assortimento può sussistere, oltre che per uno specifico marchio, anche per un intero gruppo di marchi di particolare richiamo per il consumatore; e ha elaborato così la figura della dipendenza da assortimento relativa o di gruppo.
   Il fondamento di tale variante è fatto consistere nell’aspettativa del consumatore di trovare presso il rivenditore un assortimento possibilmente completo (26). Di conseguenza, se l’offerta del rivenditore è già sufficientemente assortita, oppure potrebbe esser resa tale a condizioni ragionevoli, non c’è dipendenza, anche se il rivenditore non dispone di una o più marche tra quelle appartenenti al cd. gruppo di punta (27).
Il numero di marchi appartenenti al gruppo, che devono figurare in un assortimento medio, è fatto dipendere dalle consuetudini del settore interessato e dalle aspettative della clientela (28). L’appartenenza di un marchio al gruppo rilevante è ricondotta alla considerazione riservatagli dal consumatore, nonché alla quota di mercato (29). Non interessa tendenzialmente la capillarità della distribuzione. I marchi del gruppo di punta, infatti, non devono essere tutti contemporaneamente rappresentati nell’assortimento del rivenditore e sono fondamentalmente intercambiabili tra loro (30).
   Nel silenzio della legge, la giurisprudenza lascia al distributore discriminato la scelta del produttore o dei produttori contro cui far valere la propria pretesa, nonché dell’ordine da seguire (31).
In dottrina, la variante debole della dipendenza da assortimento è stata inizialmente criticata sotto i profili dell’equità e della certezza del diritto (32). Si tratta, tuttavia, di critiche isolate, superate nei fatti dal rapido consolidarsi del nuovo orientamento giurisprudenziale.
   Dal punto di vista tedesco, del resto, la Fallgruppe rappresenta uno sviluppo logico della dipendenza da assortimento assoluta. Essa può inoltre esser considerata la risposta, magari non altrettanto consapevole, al problema – noto da tempo all’antitrust comunitario – del cd. effetto cumulativo di blocco, risultante dalla contemporanea presenza sul mercato di più intese o reti di intese verticali indipendenti tra loro. La dipendenza da assortimento relativa, in altri termini, fornisce al distributore discriminato lo strumento, per reagire ad una chiusura eccessiva degli accessi al mercato, quando l’effetto restrittivo deriva non tanto dalla strategia discriminatoria attuata da un’unica impresa dotata di un significativo potere di mercato (Spitzenstellungsabhängigkeit), bensì dalla somma di più comportamenti indipendenti, che considerati per se stessi sarebbero innocui (Spitzengruppenabhängigkeit).

6. - Generalizzazione del concetto di dipendenza relativa o di gruppo (quasi-sortimentsbedingte Abhängigkeit).
   Dopo “Nordmende”, lo schema concettuale, alla base dell’ormai consolidata Fallgruppe della dipendenza da assortimento relativa, è stato utilizzato a più riprese dalle corti tedesche in relazione a fenomeni diversi dalla distribuzione selettiva di articoli di marca. Tanto da indurre la dottrina a coniare l’espressione “dipendenza quasi da assortimento” (quasi-sortimentsbedingte Abhängigkeit) (33).
   Così, in un noto precedente, “Importarzneimittel” (“Farmaci di reimportazione”, 1995) (34), la Cassazione ha riconosciuto la dipendenza di un importatore parallelo di farmaci nei confronti dei principali grossisti farmaceutici tedeschi. Date le peculiarità del mercato, l’importatore era difatti costretto, per raggiungere i dettaglianti, a ricorrere all’intermediazione del commercio all’ingrosso. Dopo un’iniziale collaborazione, tutti i maggiori grossisti, che sarebbero potuti venire in considerazione, si erano tuttavia rifiutati, per fedeltà alle case produttrici, di continuare ad acquistare i meno costosi farmaci di reimportazione. L’importatore – si noti bene - non aveva necessità di contrarre contemporaneamente con tutti i maggiori grossisti, ma solo con alcuni, senza che importasse quali. D’altra parte, se a ciascun grossista fosse stato consentito di rifiutare l’acquisto, semplicemente indirizzando l’aspirante fornitore alla concorrenza – così il ragionamento della Corte -, questi avrebbe corso il rischio di vedersi precluso, in tutto od in parte, l’accesso al mercato. Di qui la dipendenza.
   In maniera analoga, poi, le corti di merito hanno ragionato, ad esempio, per la dipendenza degli aspiranti espositori nei confronti dei principali enti fieristici del settore (35); per la dipendenza dalle case cinematografiche dell’esercente di sala non integrato (36); e così via.
   Raccogliendo allora il suggerimento implicito nell’esperienza tedesca, si può costruire, per astrazione, un generale concetto di dipendenza - che chiamiamo convenzionalmente dipendenza relativa o di gruppo -, consistente in una relazione di dipendenza/potere, la cui cifra caratteristica è così individuata. L’impresa dipendente ha necessità di intrattenere relazioni commerciali (a condizioni eque e non ingiustificatamente discriminatorie) con uno, con alcuni o al limite con tutti i soggetti facenti parte di un insieme determinato d’imprese, attive nel mercato a monte o a valle. Il rifiuto (di contrarre tout court o di contrarre a condizioni eque e non discriminatorie) opposto da una delle imprese del gruppo rilevante può anche esser di per sé innocuo, cioè inidoneo a condizionare significativamente l’azione dell’impresa dipendente; ma cessa di esser tale, se un numero sufficiente d’imprese, tra quelle facenti parte del gruppo rilevante, adotta, anche in via del tutto indipendente l’una dall’altra, comportamenti identici o simili.

7. – Possibili argomenti contro l’utilizzo di un generale concetto di dipendenza relativa o di gruppo e loro confutazione.
   Prima di concludere definitivamente per l’accoglimento, nell’ambito del divieto di a.d.e., del concetto di dipendenza relativa o di gruppo (in realtà – come si vedrà – il concetto si presta ad esser utilizzato anche nell’ambito dei divieti, comunitario e nazionale, di a.p.d.), mette conto ancora cercare di soppesarne pro e contro.
   Le possibili obiezioni.
   I) La costruzione di un concetto giuridico di dipendenza relativa nei termini sopra delineati già implica un giudizio di valore, per quanto astratto; e, precisamente, una valutazione circa l’opportunità di sottoporre i comportamenti, nei quali si manifesta il corrispondente potere, ad un controllo da parte dell’ordinamento.
Sul piano operativo, ciò significa che, accertata nel caso concreto una situazione di dipendenza relativa, i comportamenti delle imprese dominanti, che costituiscono manifestazione di quel potere, e che valgono a pregiudicare gli interessi della controparte dipendente, vanno qualificati come illeciti, se soltanto l’impresa dominante non riesce ad allegare e provare la ricorrenza di un giustificato motivo. Giustificato motivo che non può risolversi, a meno che non si voglia negare in radice la rilevanza giuridica della dipendenza relativa o di gruppo, in una generica istanza di libertà d’iniziativa.
   Dovrebbe essere evidente, per contro, che costruire un concetto giuridico di dipendenza relativa non equivale ancora ad un’indistinta condanna di tutti i comportamenti che le imprese dominanti possono tenere in pregiudizio degli interessi della controparte dipendente.
   Sarebbe perciò sbagliato, anzitutto da un punto di vista dogmatico, pensare di mettere in discussione la validità della costruzione, e le sue possibili applicazioni, con valutazioni che riguardano più propriamente la fase, successiva, dell’accertamento dell’abuso.
   II) Le possibili obiezioni al concetto della dipendenza relativa, semmai, sono altre; ed attengono alle difficoltà che la nozione può comportare, già in astratto e/o nell’applicazione concreta, sul piano dell’equità e della certezza del diritto. A ben vedere, tuttavia, queste difficoltà sono più apparenti, che reali; e possono in ogni caso essere messe in conto – come si vedrà -, a fronte dell’obiettivo, prioritario anche nella valutazione del legislatore comunitario, di assicurare un adeguato controllo delle corrispondenti situazioni di potere di mercato.
   Una prima ragione di perplessità, ad ogni modo, è data dal fatto che per l’impresa dipendente può essere sufficiente intrattenere relazioni commerciali, anziché con tutte le imprese dominanti che vengono astrattamente in considerazione, anche con alcune soltanto (al limite una sola), non importa quali, purché appartenenti al gruppo rilevante. Il rivenditore specializzato del caso “Nordmende” deve disporre, per la completezza dell’assortimento, solo di alcuni dei marchi più importanti del momento. All’importatore parallelo di “Farmaci di reimportazione” occorre che (non tutti, ma) giusto alcuni dei principali grossisti presenti sul mercato acquistino la sua merce; e così via.
   D’altra parte, finché l’interesse del soggetto dipendente (a disporre, come grossista, di un assortimento competitivo; ad ottenere, come importatore parallelo di farmaci, l’accesso alla distribuzione all’ingrosso; ecc.) non è soddisfatto, neppure si possono lasciare le imprese del gruppo rilevante libere, ciascuna per conto proprio, di discriminare e, più in generale, di applicare trattamenti iniqui alle controparti dipendenti.
Il problema, allora, diventa principalmente quello dei criteri per l’individuazione, tra tutti gli appartenenti al gruppo rilevante, dei soggetti nei confronti dei quali l’impresa dipendente può in concreto soddisfare il suo interesse. La soluzione impostasi nel diritto vivente tedesco, verosimilmente la più equilibrata (37), è di lasciare all’impresa dipendente la scelta, contro chi agire e secondo quale ordine.
   Criticamente si potrebbe pensare che in tal modo, per prevenire un effetto indesiderato, che è la conseguenza di una somma di condotte indipendenti tra loro e delle quali nessuna è di per sé decisiva, se non magari come causa ultima, si finisce col far pagare uno o pochi per tutti; e che la soluzione importa quindi una disparità di trattamento, tra chi alla fine è convenuto in giudizio e condannato, e chi invece non lo è. In questa disparità di trattamento qualcuno potrebbe ravvisare una prima ragione d’iniquità della Fallgruppe in esame: tutti contribuiscono o possono contribuire in eguale misura all’effetto indesiderato, ma solo alcuni ne rispondono (38). La discriminazione, inoltre, - si potrebbe pensare – rischia di alterare le posizioni reciproche dei concorrenti, finendo così col creare distorsioni ulteriori del gioco concorrenziale.
La difficoltà in realtà si supera, già solo osservando che questo è il modo normale di funzionare delle obbligazioni solidali; e che, in effetti, le più imprese dominanti, che con la somma dei loro rifiuti di contrarre ledono l’interesse del soggetto dipendente, cagionano un unico fatto dannoso ai sensi dell’art. 2055 cod. civ., divenendo così solidalmente obbligate verso il danneggiato. Laddove, poi, l’impresa discriminata ottenga la condanna di una o più controparti al risarcimento per equivalente, queste potranno esercitare il regresso pro quota verso le altre imprese dominanti, che abbiano ugualmente rifiutato il contratto. Laddove, invece, la condanna si risolva in un ordine giudiziale di contrarre (come risarcimento in forma specifica ex art. 2058 e/o – qualora si ritenga che l’inibitoria sia altro rispetto alla riparazione del danno in forma specifica - come inibitoria (39), non dovrebbe esserci regresso, posto che il contratto, nel quale prende forma la relazione commerciale ordinata dal giudice, non può che essere a titolo oneroso. Resta, tuttavia, in quest’ultima ipotesi il dubbio che l’impresa o le imprese destinatarie dell’ordine di contrarre si ritrovino, in conseguenza di una scelta arbitraria del soggetto dipendente (che ha ritenuto di agire contro uno piuttosto che un altro), a dover sacrificare un loro non meglio quantificabile interesse, ad una libera scelta del contraente (e, al limite, delle condizioni del contratto); mentre lo stesso interesse rimane preservato in capo agli altri co-autori dell’illecito. Questi, infatti, a seguito della compiuta soddisfazione dell’impresa dipendente assicurata dalla condanna a contrarre di un numero sufficiente di imprese dominanti, non corrono più il rischio di esser condannati a loro volta, ed al tempo stesso non sono esposti a regresso.
   A parte ciò, vi è – almeno all’apparenza - una seconda possibile ragione d’iniquità, legata sempre al fatto che l’impresa dipendente non per forza ha bisogno di intrattenere contemporaneamente rapporti con tutto il gruppo rilevante.
   Qualunque impresa si condanni (una, alcune o tutte quante insieme), questa rischia di esser fatta responsabile non solo e non tanto di una propria condotta, ma anche e soprattutto di quella dei concorrenti, della quale - oltretutto – potrebbe ragionevolmente non essere a conoscenza (40).
   Sennonché, essendo l’abuso nozione oggettiva, l’ignoranza del comportamento, che hanno tenuto o che terranno le altre imprese dominanti, vale al più ad escludere l’elemento soggettivo, richiesto per l’ammenda amministrativa e - in principio - anche per il risarcimento del danno. L’assenza di colpa non preclude invece la diffida semplice in sede amministrativa e l’ordine giudiziale di contrarre.
   L’altro aspetto poi del problema, dell’imputabilità od ascrivibilità materiale od oggettiva dell’effetto anticoncorrenziale (il rischio, in altri termini, che il singolo finisca per rispondere anche o soprattutto di un fatto materialmente altrui) è invece solo apparente. Già nel diritto penale pacificamente si ammette, sotto il profilo della causalità, l’esecuzione frazionata (esempio classico: l’uccisione di Cesare), nella quale il contributo del singolo non è di per sé decisivo, ma lo diventa insieme con i contributi degli altri co-autori. Il diritto penale si pone semmai il problema dell’elemento soggettivo, che deve accompagnare il contributo di ciascuno; problema che però, nel diritto della concorrenza, ha un’importanza – come s’è appena ricordato - solo relativa e, per la pratica, in definitiva modesta.
   Anche a voler ritenere, ad ogni modo, che l’imputabilità materiale dell’effetto anticoncorrenziale e la prevedibilità delle conseguenze della propria condotta possano in astratto costituire un problema, entrambi sicuramente si ridimensionano, fino a divenire tollerabili, quando in concreto i) l’interessato appartiene ad un gruppo sufficientemente individuato d’imprese (e si può supporre che, il più delle volte, il gruppo rilevante coincida con un oligopolio ristretto), ii) le quali dispongono ciascuna separatamente dalle altre di una risorsa privilegiata, che, anche se solo in sinergia con i comportamenti simili adottati da alcuni o tutti i (principali) concorrenti, consente di incidere in maniera determinante sul funzionamento di quel mercato. Così stando le cose, infatti, l’apporto causale di ciascuna impresa dominante che rifiuta il contratto, anche se non è certo, rimane probabile ed in ogni caso quantitativamente significativo. Essendo inoltre la dipendenza riconoscibile in anticipo, anche se essa si manifesta appieno soltanto quando altre imprese del gruppo rilevante hanno adottato il medesimo comportamento, ciascuna impresa dominante dovrebbe essere in condizione di ragionevolmente prevedere che il suo rifiuto spesso, anche se non sempre, può finire col danneggiare seriamente l’aspirante rivenditore o fornitore.
   Infine, va tenuto presente che le medesime situazioni, che si possono catturare attraverso la figura della dipendenza relativa (o, nella prospettiva degli artt. 3 l.antitrust e 82 Trattato, della dominanza plurima non collettiva: v. infra), nel diritto comunitario (e di riflesso nazionale) in parte sono già controllate attraverso il divieto d’intese o, seguendo la tendenza in atto, potrebbero esserlo (41). Si pensi soltanto al fenomeno delle distribuzioni selettive o anche ai contratti per la licenza di diritti di proprietà intellettuale.
Ora, pure l’applicazione del divieto d’intese può porre problemi d’iniquità e d’incertezza, analoghi a quelli appena evidenziati per la dipendenza relativa. La differenza è che il meccanismo dell’esenzione di gruppo (sempre che un regolamento applicabile al caso di specie vi sia), con il correlato della revoca e della disapplicazione, può ridurre tali inconvenienti (42).
   In ordine quindi alla possibilità in generale di configurare una dipendenza relativa, la conclusione che si può trarre, almeno in prima approssimazione, è che l’iniquità, che eventualmente derivi dall’applicazione del concetto, può anche esser messa in conto, a fronte dell’obiettivo – valutato come prioritario dallo stesso legislatore comunitario – di assicurare un adeguato controllo delle corrispondenti situazioni di potere di mercato.
   III) Difficoltà possono infine ipotizzarsi per la delimitazione in concreto del cd. gruppo rilevante. Vale a dire, nell’individuazione, tra tutte le imprese presenti nel mercato, di quelle veramente in grado di condizionare l’azione delle imprese dipendenti.
   La difficoltà, tuttavia, si direbbe eminentemente pratica, e non va sopravvalutata. Si può difatti supporre che di regola un gruppo rilevante sufficientemente riconoscibile ci sia.
   Può darsi, ad ogni modo, - facciamo il caso della dipendenza da articolo di marca - che non sia possibile individuare un gruppo di produttori, che si stacchi nettamente dalla concorrenza, e che al tempo stesso si componga di un numero di marchi sufficientemente ampio, da assicurare al rivenditore un assortimento soddisfacente. La soluzione, ragionevole, che al riguardo tende ad affermarsi nella dottrina tedesca, è di considerare in tal caso destinatari del divieto indistintamente tutti i produttori in qualche modo “interessanti” per il rivenditore (43).

8. – Vantaggi derivanti dall’utilizzo di un generale concetto di dipendenza relativa o di gruppo.
   I vantaggi.
   I) È nota, e già vi si è accennato, la tendenza, in atto nel diritto comunitario, a controllare le situazioni di potere riconducibili allo schema della dipendenza relativa, per un verso o per un altro, con il divieto d’intese.
   Il ricorso a quelli che si presentano già nella formulazione come divieti di abuso di potere, piuttosto che al divieto d’intese, rappresenta tuttavia una soluzione concettualmente più lineare; e dovrebbe per ciò stesso comportare un guadagno, in termini di chiarezza del giudizio.
   II) La diversa struttura, inoltre, del divieto d’intese, da un lato, e dei divieti di a.d.e. e di a.p.d., dall’altro, comporta nel processo civile una diversa ripartizione dell’onere di allegazione e probatorio: più gravosa per l’impresa dipendente, fino al limite della negazione di fatto della tutela giurisdizionale, nel divieto d’intese; più sostenibile per l’impresa dipendente, e perciò capace di assicurare una maggiore effettività della tutela, senza però togliere alla controparte la possibilità di far valere le proprie fondate ragioni, nei divieti di a.d.e. e di a.p.d.
   Così, ad esempio, di fronte ad un’impresa (relativamente) dominante che oppone un rifiuto di contrarre presumibilmente legato all’esistenza di un sistema di distribuzione selettiva, l’impresa dipendente, la quale scelga di invocare il divieto d’intese, ha l’onere di provare che il rifiuto è collegato ad un’intesa o - come spesso accade - ad una rete d’intese, facenti capo alla controparte, ed illecite di per sé (in assoluto o in relazione al contesto di mercato) oppure attuate secondo modalità illecite. Prospettando, invece, una violazione del divieto di a.d.e. o di a.p.d., l’impresa dipendente assolve il suo onere (minimo) di allegazione e di prova, se solo riesce a dimostrare la propria condizione di dipendenza ovvero che la controparte detiene nei suoi confronti una posizione dominante, e che il rifiuto di contrarre che le è stato opposto costituisce una manifestazione di quel potere. Spetterà poi alla controparte, in applicazione dei principi negativa non sunt probanda e di riferibilità concreta della prova, dimostrare l’esistenza di un giustificato motivo, atto a scriminare una condotta altrimenti illecita.
   III) Infine, non sempre il divieto d’intese, neppure attraverso il meccanismo del regolamento d’esenzione ex art. 81, par. 3, Trattato CE (44), consente il controllo delle condotte unilaterali dell’impresa relativamente dominante, tanto più dopo la recente sentenza della Corte di giustizia in “Adalat” (45).
   Diversamente gli istituti dell’a.d.e. e dell’a.p.d. Entrambi, essendo concepiti dall’inizio come divieti di abuso di potere, permettono difatti di catturare i comportamenti dell’impresa dominante, a prescindere che questi si riconducano, in maniera più o meno immediata, ad un’intesa.

9. – Dipendenza relativa o di gruppo e posizione dominante plurima non collettiva o disgiunta: sostanziale equivalenza dei due concetti.
   Si è dato fin qui per scontato che il concetto di dipendenza relativa possa esser riferito indistintamente al divieto di a.d.e. come ai divieti, nazionale e comunitario, di a.p.d. Riportata al divieto di a.d.e., la costruzione può in realtà risultare di più immediata evidenza.
   Gran parte dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, della quale oggi si dispone, si è difatti formata in relazione (non ad un divieto di posizione dominante formulato come quello dell’art. 3 l.antitrust o dell’art. 82 Trattato CE, bensì) ad una disposizione, l’art. 20, co. 2, GWB, che è l’omologo e la dichiarata fonte d’ispirazione del nostro art. 9 l.subf.
   Nella sua formulazione, inoltre, il divieto di a.d.e. fa perno sulla dipendenza dell’impresa che subisce l’abuso, anziché sul potere dell’impresa che lo commette. La dipendenza, poi, può sussistere – per espressa previsione del legislatore - verso una o più imprese. Ora, anche se dipendenza e dominanza debbono in realtà considerarsi le due facce di una stessa medaglia, il fatto che il presupposto dell’abuso sia fissato dal legislatore movendo dalla prospettiva dell’impresa dipendente vale forse a rendere più perspicuo un concetto come quello di dipendenza relativa.
   Alla condizione d’inferiorità relativa di una parte corrisponde difatti, sul versante opposto, un potere di mercato, che è in qualche modo diffuso, perché detenuto da una pluralità d’imprese in grado di esercitarlo ciascuna indipendentemente dall’altra; e che può anche essere latente, nel senso che esso si manifesta appieno solo quando più imprese adottano, in numero sufficiente, un identico comportamento. Al concetto di dipendenza relativa corrisponde in altri termini un potere lontano dall’archetipo della posizione dominante, spesso erroneamente (e magari inconsapevolmente) identificato con la posizione dominante tout court, cioè il monopolio o quasi monopolio di un’impresa (o, al più, di un cartello d’imprese) sul mercato di sbocco finale.
   Sennonché, - com’è stato di recente evidenziato (46) - una corretta ricostruzione del concetto di posizione dominante, che sappia tenere adeguatamente conto del carattere normativo e relativo della nozione, permette di attribuire rilievo, nell’ambito del divieto di abuso, pure alla posizione dominante cd. plurima non collettiva o disgiunta, in cui “diverse imprese (anche in questo caso oligopoliste) [hanno], ciascuna indipendentemente dalle altre, un potere determinante sul funzionamento di mercati collegati” (47). Situazione che può ricorrere “nei servizi di rete (con riferimento ai mercati dell’interconnessione), come nei mercati a monte o a valle di quello in cui si è determinata la situazione di oligopolio (basti pensare al tradizionale problema della distribuzione selettiva dei prodotti di marca celebre)” (48).
   Il concetto, dunque, che si parli di dipendenza relativa piuttosto che di posizione dominante plurima disgiunta, rimane sostanzialmente il medesimo; e coincidenti dovrebbero perciò essere anche, se non in tutto almeno in larga parte, i punti critici e l’utilità (49).

10. – Un’applicazione pratica: la dipendenza da assortimento del grossista farmaceutico rispetto ai produttori di specialità medicinali.
   Un caso limite di dipendenza relativa è, per certi versi, quella in cui versa in Italia il grossista farmaceutico nei confronti dei produttori di specialità medicinali, in ragione del dovere di assortimento minimo, che la normativa di settore pone a suo carico (50).
   Con il primo dei provvedimenti in epigrafe, in realtà, la Corte d’appello di Milano, investita della questione sotto il profilo del divieto di a.p.d., ha in principio escluso la configurabilità di una posizione dominante in capo a ciascun produttore per la singola specialità medicinale, argomentando in particolare: a) che nel settore farmaceutico il mercato rilevante sarebbe formato da tutte le specialità medicinali aventi identiche proprietà terapeutiche, sicché il più delle volte non sarà possibile circoscrivere il mercato rilevante alla singola specialità; b) che, anche a voler far coincidere il mercato rilevante con la singola specialità medicinale, il grossista troverebbe alternative soddisfacenti, rispetto all’approvvigionamento diretto dal produttore, negli altri grossisti, anche se questi di regola praticheranno condizioni meno vantaggiose.
   Con il secondo provvedimento, al contrario, la Corte ha concluso per l’esistenza di una posizione dominante del produttore di specialità, da un lato, a) facendo leva, nella delimitazione del mercato rilevante, sul carattere vincolante della prescrizione medica; e, dall’altro, b) negando rilievo, al medesimo fine, alla possibilità per il grossista di rivolgersi a fornitori non produttori.
   Rilievi critici.
   I) Un primo errore nel ragionamento del giudice milanese, particolarmente evidente nella prima delle due ordinanze, è in una ipostatizzazione del concetto di mercato rilevante: questo è definito dal punto di vista non dell’intermediario commerciale, vittima diretta del lamentato l’abuso, bensì del consumatore finale, avendo riguardo alle proprietà terapeutiche del farmaco.
   L’errore, peraltro diffuso, consiste in generale nel ritenere che il mercato rilevante individui un presupposto obiettivo della norma; e che esso possa perciò definirsi prima ed indipendentemente dalla norma da applicare, nonché - per quanto riguarda il divieto di abuso – a prescindere dall’abuso concretamente dedotto (51). Si perde di vista, in altri termini, che il mercato rilevante è soltanto uno strumento analitico (52), funzionale all’applicazione di un concetto, quello di posizione dominante, avente carattere normativo e relativo (53); che il ricorso allo strumento del mercato rilevante può di conseguenza essere più o meno appropriato, secondo il caso concreto da valutare (54); e che in determinate ipotesi può essere anche opportuno ricorrere ad altre metodologie, in aggiunta o in sostituzione; ovvero, se si vuole insistere nell’utilizzo del concetto di mercato rilevante, che questo va opportunamente adattato alla norma da applicare, nonché alle circostanze del caso (55).
   Nel primo dei provvedimenti in esame, una definizione di mercato rilevante, correntemente utilizzata dagli Organi comunitari e nazionali nel controllo delle concentrazioni tra produttori farmaceutici (56), ed incentrata sulla sostituibilità del prodotto farmaceutico dal punto di vista del consumatore finale (57), è meccanicamente trasposta nella valutazione di un caso, nel quale è invece invocata la norma sull’abuso di posizione dominante, per di più deducendo un rifiuto di contrarre ai danni (non di consumatori, bensì) di un’impresa grossista, cioè di un attore economico che opera ad un livello intermedio del ciclo del prodotto (58).
   Se però si muove dalla premessa che, rispetto al divieto di a.p.d., il mercato rilevante è in generale l’ambito, nel quale l’iniziativa sospetta può in astratto esser efficacemente contrastata dalle reazioni dei contro-interessati, allora una ricostruzione del mercato rilevante adeguata al caso di specie, se mai se ne avvertisse la necessità, dovrebbe tener conto del fatto che vittima dell’abuso è un grossista; che il grossista ha in genere bisogno di tenere un assortimento sufficientemente completo ed in ogni caso competitivo; e che il grossista farmaceutico italiano, in particolare, deve disporre di un assortimento comprensivo di almeno il novanta per cento delle specialità medicinali in commercio. Impostato il problema in questi termini, il mercato in concreto rilevante si dovrebbe allora poter correttamente individuare in quello degli scambi aventi ad oggetto la fornitura di specialità medicinali ai grossisti farmaceutici operanti in Italia. Rispetto a questo mercato, poi, potrà eventualmente riscontrarsi una posizione dominante dei produttori di specialità, sotto specie di dipendenza relativa o di posizione dominante plurima disgiunta (59).
   II) Un secondo errore, che si riscontra nel ragionamento del giudice di prime cure, è nell’assunto secondo cui il produttore di specialità medicinali non deterrebbe una posizione dominante nei riguardi del grossista, perché questi può sempre approvvigionarsi dai propri diretti concorrenti, anche se a condizioni presumibilmente meno vantaggiose (60).
   In realtà, per competere il grossista (farmaceutico e non) necessita di un assortimento non solo sufficientemente completo; ma anche acquistato a condizioni competitive. Invertendo la prospettiva, il fatto che il grossista, pur di disporre di un assortimento comprensivo di quel prodotto, scelga di acquistarlo dalla concorrenza, per quanto a condizioni presumibilmente meno vantaggiose, indizia l’esistenza di un corrispondente potere di mercato in capo al produttore, come capacità di condizionare sensibilmente lo svolgimento del gioco concorrenziale sul mercato a valle; e segnala, quindi, la necessità di un controllo (il che, evidentemente, non significa ancora condanna) da parte dell’ordinamento.
   Sul punto, il primo dei provvedimenti che si annotano o astrae troppo dalla realtà, applicando una massima d’esperienza falsa; oppure dà erroneamente per scontato che solo un potere di mercato, che consente di espellere dal mercato la controparte imprenditoriale (e non semplicemente di condizionare in maniera sensibile lo svolgimento del gioco concorrenziale a valle), sarebbe degno di esser preso in considerazione dal diritto della concorrenza (61). È plausibile, infine, pensare che in tutto ciò abbia fatto la sua parte il diffuso (ma ugualmente errato) pregiudizio, secondo cui il divieto di abuso di posizione dominante tutelerebbe i consumatori, e non le imprese (62).
   Condivisibile appare per contro il provvedimento del reclamo, nella parte in cui nega rilievo alla possibilità, pure prevista dalla normativa di settore, di approvvigionarsi presso altri fornitori, non produttori.
   III) Non è da escludere infine che, nelle decisioni in esame, abbia giocato un ruolo anche o soprattutto l’assenza di un adeguato strumentario concettuale, che consentisse di sussumere pianamente la situazione di dipendenza, in cui versa il grossista farmaceutico in ragione dei suoi doveri di pubblico servizio, nelle nozioni di dipendenza economica ex art. 9 l.subf. e di posizione dominante ex art. 3 l.antitrust e art. 82 Trattato CE.
   La situazione del grossista farmaceutico rappresenta in realtà un caso limite di dipendenza relativa o, se si vuole, di posizione dominante plurima non collettiva.
   La dipendenza, infatti, sussiste nei confronti (dando per acquisito che l’approvvigionamento presso altri grossisti non rappresenti un’alternativa ragionevole) della generalità delle imprese produttrici di specialità medicinali, senza che si possa individuare al loro interno quello che si è chiamato un “gruppo rilevante”, in sostanza un oligopolio dominante.
   La legge, inoltre, prevede l’obbligo di condurre non tutte le specialità, ma solo una percentuale individuata. Il caso del grossista farmaceutico può essere quindi considerato esemplare di quel potere diffuso e latente, nel senso che si è detto.
   Il grossista farmaceutico, in definitiva, finché non dispone di un assortimento completo del novanta per cento delle specialità medicinali, come anche nel caso in cui decida di mutare la composizione dell’assortimento minimo, dovrebbe poter pretendere da ciascun produttore un trattamento equo e non discriminatorio, salvo il ricorrere di un giustificato motivo.
   A livello per lo meno teorico, si può inoltre ipotizzare che alla dipendenza da assortimento derivante dal dovere di servizio pubblico si aggiunga una dipendenza da assortimento per specialità medicinali specificamente individuate, assoluta o relativa, non dissimile da quella che può ricorrere per qualsiasi grossista o distributore in genere (63). Vale a dire, una dipendenza legata alla notorietà ed alla diffusione di una o più specialità medicinali.
   In tale ipotesi, tuttavia, incomberà sul grossista un onere probatorio più gravoso, dovendo egli dimostrare, nel caso già disponga dell’assortimento minimo stabilito per legge, l’indispensabilità proprio di quella o di quelle specialità medicinali, in aggiunta all’assortimento minimo, per avere assicurata la competitività della propria offerta. In concreto, poi, la prova potrà esser fornita ad esempio attraverso il confronto - come suggerisce l’esperienza tedesca - con l’assortimento di cui dispongono gli altri grossisti.
In applicazione, infine, dei principi e delle regole generali, ma tenuto conto anche della previsione tra i rimedi per l’a.d.e. delle inibitorie (art. 9, co. 3, l.subf.), la violazione da parte dei produttori di specialità medicinali dell’obbligo di trattare il grossista farmaceutico in modo equo e non discriminatorio dovrebbe poter risultare – il punto è notoriamente controverso - in un obbligo di contrarre, come sanzione giudiziale (se del caso anche cautelare) dell’illecito (64).

11. I doveri di servizio pubblico del grossista farmaceutico come fonte di un obbligo legale di contrarre a carico dei produttori di specialità.
   Nell’accertamento della dipendenza del grossista farmaceutico dal punto di vista del diritto della concorrenza, il dovere di assortimento minimo previsto dalla normativa di settore viene in rilievo non per le valutazioni normative che esso esprime, ma solo come elemento di fatto, per quanto determinante. Arrivati a questo punto dell’indagine, è perciò fatto chiedersi se al dovere legale di assortimento minimo del grossista non corrisponda anche, oltre all’eventuale obbligo di contrarre secondo il diritto della concorrenza, un obbligo legale di contrarre vero e proprio; e, in caso affermativo, quale ne sia l’esatta configurazione.
   Secondo un orientamento, in realtà, il dovere di pubblico servizio del grossista, di tenere un assortimento minimo, essendo volto ad assicurare un interesse generale (ad una distribuzione capillare ed in definitiva ad una fornitura tempestiva dei farmaci al pubblico), non potrebbe di per sé fondare, tanto più in assenza di un’espressa previsione normativa in tal senso, un obbligo di fornitura a vantaggio del grossista.
   I) L’argomento, tuttavia, sembra anzitutto confondere l’obiettivo (di una distribuzione adeguata alle esigenze della popolazione) con il mezzo (l’obbligo di fornitura a vantaggio del grossista). L’obbligo di contrarre può difatti servire l’interesse generale, anche se il beneficiario dell’obbligo lo invoca – come del resto è normale che sia - per il suo personale tornaconto.
   II) Portata alle sue estreme conseguenze, la tesi implica inoltre l’accettazione del rischio che il grossista non sia in grado, in conseguenza del rifiuto di contrarre oppostogli da un sufficiente numero di fornitori, di adempiere il suo dovere di pubblico servizio. Ora, l’accettazione di tale rischio si può giustificare – all’apparenza - in più modi.
   a) Si potrebbe pensare, anzitutto, che in concreto il rischio normalmente non sussista (ovvero che spetti al grossista discriminato provare che ricorre un concreto rischio in tal senso) (65).
   In realtà, nel dare attuazione alla direttiva 92/25/CEE, che sul punto parla genericamente di un obbligo di garantire in permanenza un assortimento di medicinali adeguato a soddisfare tempestivamente le esigenze del territorio servito (66), il legislatore italiano ha optato per una soluzione rigida, prescrivendo per la completezza dell’assortimento del grossista la presenza di una percentuale individuata ed assai elevata di specialità. Già la rigidezza di questa soluzione sembra precludere accertamenti, circa il livello d’efficienza in concreto raggiunto dall’articolazione della distribuzione farmaceutica nel territorio coperto dalla licenza, per inferirne o al contrario escludere obblighi di fornitura in favore dell’intermediario.
   b) Si potrebbe però anche pensare, in alternativa, che questo rischio sia già messo in conto a livello di valutazioni normative, da un legislatore che confida nei meccanismi di auto-regolazione di un mercato (relativamente) libero. Il che spiegherebbe la previsione di un dovere di assortimento minimo per l’intermediario, non accompagnata dalla previsione di un corrispondente dovere di fornitura per i produttori o per i fornitori in genere (67).
   Neppure questa spiegazione è però del tutto soddisfacente.
   Sembra anzitutto contraddittorio, infatti, che nel disegno legislativo, da un lato, si ammetta un numero illimitato di licenze per il commercio all’ingrosso di farmaci, prevedendo al contempo sanzioni amministrative per l’inadempimento dei relativi obblighi di legge, compreso il dovere di assortimento minimo; e, dall’altro lato, si lascino i potenziali fornitori liberi di discriminare, fino al limite estremo del rifiuto assoluto di contrarre.
   Inoltre, tra le due alternative (escludere o, al contrario, ammettere che il dovere di assortimento del grossista si rifletta in un corrispondente obbligo di contrarre in capo ai potenziali fornitori), quella più favorevole all’intermediario sembra esser anche la più coerente – almeno in principio - con la ratio complessiva della disciplina d’attuazione della direttiva 92/25/CEE, di assicurare una distribuzione possibilmente capillare del farmaco e, per questa via, un’efficiente copertura dei bisogni della popolazione.
A ciò non varrebbe replicare, infine, che il grossista può sempre rivolgersi – per espressa previsione di legge -, oltre che ai produttori, anche agli altri soggetti autorizzati al commercio all’ingrosso, sia pure a condizioni presumibilmente meno vantaggiose. Non è difatti da escludere, almeno in teoria, un rifiuto discriminatorio pure da parte dei fornitori non produttori. Soprattutto, però, appare fuori della realtà e sistematicamente incoerente pretendere che il grossista assolva i suoi doveri di pubblico servizio in una posizione di svantaggio rispetto ai concorrenti.
   III) Da quanto precede dovrebbe in conclusione derivare il riconoscimento, in capo ai produttori di specialità medicinali, di un obbligo di contrarre con il grossista, fondato direttamente sulla normativa di settore.
   Essendo ricavato de plano dal dovere di servizio pubblico del grossista, quest’obbligo di contrarre, contrariamente a quanto da altri sostenuto, rispetta il principio di proporzionalità che governa l’intera materia (68), non meno di quanto lo rispetti la previsione di un obbligo di assortimento minimo a carico del grossista (69).
   Per quanto riguarda, poi, la sua configurazione, l’obbligo di contrarre evidentemente non può essere assoluto.
   Così, anzitutto, vale anche in quest’ambito il ragionamento alla base della figura della dipendenza relativa. L’obbligo di contrarre, in altri termini, sussiste, finché il grossista non dispone dell’assortimento minimo prescritto per legge (70), come anche nel caso in cui egli intenda modificarne la composizione. La scelta delle specialità deve ritenersi rimessa all’intermediario. Incombe poi sull’intermediario, in applicazione dei principi e delle regole generali, il corrispondente onere probatorio.
   Valgono inoltre i principi e le regole generali in materia di obbligo legale di contrarre, ed in particolare quelli in tema di obblighi di contrarre inerenti all’attività d’impresa (71). Ne consegue – il punto, considerata la sua importanza pratica, merita di essere sottolineato - che il produttore dovrebbe sempre poter efficacemente opporre l’esistenza di motivi oggettivi, atti a giustificare il suo rifiuto di contrarre tout court o anche solo a determinate condizioni. Così, ad esempio, l’anormalità degli ordinativi.
   Infine, si dovrebbero porre pure per questa speciale figura di obbligo di contrarre le note questioni, dei rapporti con le figure generali degli artt. 2597 e 1679 cod. civ., nonché dei rapporti con il diritto della concorrenza (72).

12. Conclusioni.
   Conclusivamente, si può tener fermo in particolare che:
   a) esistono relazioni di dipendenza/potere di mercato, come la dipendenza da assortimento del commercio all’ingrosso tradizionale nei confronti dei produttori, che non si lasciano ricondurre all’archetipo della posizione dominante, ossia il monopolio o quasi-monopolio di un’impresa (o al più di un cartello d’imprese) sul mercato di sbocco finale; e che nel diritto comunitario e di riflesso nazionale tendono perciò ad esser controllate, per un verso o per un altro, attraverso il divieto d’intese.
   b) Le medesime situazioni, tuttavia, si prestano ad esser colte in maniera per diversi aspetti più efficace attraverso i divieti di abuso di dipendenza economica e di abuso di posizione dominante. Lo strumento concettuale, in parte già collaudato in altri ordinamenti, che in questi casi renderebbe possibile il ricorso ai divieti di a.d.e. e di a.p.d. è quello della dipendenza cd. relativa o di gruppo ovvero della posizione dominante cd. plurima non collettiva o disgiunta.
   c) La cifra caratteristica di queste due figure, sostanzialmente equivalenti tra loro, risiede in ciò che un’impresa, per competere, ha necessità di contrarre (a condizioni eque e non discriminatorie) con una, alcune o, al limite, tutte le imprese di un insieme individuato (solitamente un oligopolio ristretto). Il rifiuto di una delle imprese del gruppo può anche essere di per sé innocuo, cioè inidoneo a condizionare sensibilmente il gioco concorrenziale sul mercato collegato; ma cessa di esser tale, se un numero sufficiente d’imprese, tra quelle facenti parte del gruppo rilevante, adotta, anche in via del tutto indipendente l’una dall’altra, comportamenti identici o simili.
   d) Nella particolare ipotesi, in cui l’impresa dipendente abbia necessità di contrarre soltanto con alcune delle imprese facenti parte del gruppo rilevante, si pone il problema dell’individuazione dei soggetti, nei confronti dei quali l’interessato può in concreto soddisfare il suo interesse. La soluzione sistematicamente più equilibrata e già ampiamente collaudata altrove è di lasciare all’interessato la scelta delle imprese contro le quali agire, nonché dell’ordine da seguire, finché il suo interesse non ha trovato compiuta soddisfazione.
   e) In situazioni di dipendenza relativa o di gruppo ovvero di posizione dominante plurima non collettiva o disgiunta, il ricorso ai divieti a.d.e. e di a.p.d., anziché al divieto d’intese, appare in grado di assicurare vantaggi in termini di chiarezza del giudizio e di effettività della tutela.
   f) Un’innovativa e peculiare applicazione delle due figure si potrebbe avere, tenuto conto in particolare del dovere di assortimento minimo che la legge pone a suo carico, nei rapporti tra grossista farmaceutico e produttori di specialità medicinali. Il medesimo dovere di pubblico servizio si dovrebbe inoltre poter tradurre – contrariamente a quanto vorrebbe un orientamento manifestatosi in qualche pronuncia giurisprudenziale - in un vero e proprio obbligo legale di contrarre, avente come destinatari i produttori di specialità, e da ricostruire sempre secondo lo schema della dipendenza relativa.

* il presente articolo, destinato ad essere pubblicataosulla Rivista di diritto commerciale, riprende, in parte sviluppandole, informazioni e riflessioni già contenute nel mio L’abuso di dipendenza economica, ed. provv., Roma, 2004.

NOTE

   (1) Il dibattito comunitario verte in massima parte intorno al fenomeno delle importazioni parallele di farmaci e, quindi, alla liceità delle misure correntemente adottate dai produttori di specialità medicinali per arginare tale fenomeno (in tema, da ultimo, C. KOENIG – ENIGNGELMANN, Parallelbeschränkungen im Arzneimittelbereich auf dem Prüfstand des Art. 82 EG, in GRUR Int., 2005, p. 304 ss.). Occasioni recenti di dibattito sono state in particolare la sentenza della Corte di giustizia in “Adalat” (6.1.2004, C-2-3/01P), ed il procedimento per pregiudizialità comunitaria avviato dall’Autorità antitrust greca in “Glaxo Wellcome” e conclusosi con una sentenza processuale (Corte di giustizia CE, “Syfait”, 31.5.2005, C-53/03).
   Per l’Italia si segnala, per autorevolezza, AGCM, Indagine conoscitiva sul settore farmaceutico, 1997, reperibile nel sito istituzionale www.agcm.it; nonché, come contributo più recente, L. FERRARI BRAVO – AVO ICITA, La distribuzione dei farmaci in Italia. Verso riforme proconcorrenziali, in siena memos and papers on law and economics, Siena, 2005, n. 32.

   (2) Trib. Napoli, 21.5.2004 (ord.), in Foro it., 2004, I, c. 2875 ss., con nota di A. L. BITETTO, nonché in Riv. dir. ind., 2004, II, p. 163 ss., con nota di V. FRANCESCHELLI, Considerazioni su boicottaggio, “concorrenza interferente” e obbligo a contrarre del titolare di un brevetto, che ha giudicato pressoché sulla medesima vicenda, ma sotto i diversi profili della concorrenza sleale per boicottaggio ex art. 2598, n. 3, cod. civ. e dell’art. 7 (“Dotazioni minime di medicinali e fornitura dei prodotti”) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 538 recante “attuazione della direttiva 92/25/CEE riguardante la distribuzione all’ingrosso dei medicinali per uso umano”, escludendo in principio un obbligo di contrarre dei produttori di specialità in favore dei grossisti.

   (3) Cfr. Epitropì Antagonismoù (autorità antitrust greca), “Glaxo Wellcome”, provvedimento (cautelare) del 3.8.2001, n. 193/III/2001 (traduzione tedesca in GRUR Int., 2002, p. 534 ss.) e Conseil de la concurrence (autorità antitrust francese), “Phoenix Pharma”, provvedimento (cautelare) del 24.2.2004, n. 04-D-05, reperibile nel sito istituzionale www.conseil-concurrence.fr, che hanno entrambe riconosciuto l’esistenza in capo a ciascun produttore di una posizione dominante verso i grossisti e per la singola specialità (più diffusamente infra par. 10).

   (4) Ai fini della qualificazione della fattispecie come atto di concorrenza sleale per boicottaggio ai sensi dell’art. 2598, n. 3, cod. civ., si dà qui per acquisito che le relative valutazioni normative abbiano fondamentalmente a coincidere con quelle dell’antitrust; e che quindi sul piano sostanziale, rispetto ad una qualificazione come abuso di dipendenza economica ex art. 9 l.subf. o come abuso di posizione dominante ex art. 3 l.antitrust o art. 82 Trattato CE, il ricorso all’art. 2598, n. 3, cod. civ., anche a voler ammettere un concorso reale tra i due ordini di disposizioni, aggiunga poco o nulla.
   In generale, per una concretizzazione dei principi della correttezza professionale dell’art. 2598 cod. civ. secondo un approccio normativo, orientato ai principi in materia di buon funzionamento dei mercati, M. LIBERTINI, I principi della correttezza professionale nella disciplina della concorrenza sleale, in Scritti in onore di Antonio Pavone La Rosa, Giuffrè, Milano, 1999, p. 575 ss.; nonché G. GHIDINI, Note sull’evoluzione della disciplina della italiana della concorrenza sleale alla luce dei principi antitrust, in Riv. dir. ind., 2002, I, p. 426 ss.; G. M. BERRUTI, La concorrenza sleale nel mercato. Giurisdizione ordinaria e normativa antitrust, Giuffrè, Milano, 2002.

   (5) M. LIBERTINI, Posizione dominante individuale e posizione dominante collettiva, in Riv. dir. comm., 2003, I, p. 543 ss., nonché in Studi di diritto industriale in onore di Adriano Vanzetti, Milano, 2004, I, p. 827 ss.; M. GRILLO – ILLOAGNANI, Valutazione antitrust delle concentrazioni in mercati oligopolistici, in Merc. conc. reg., 2004, p. 217 ss. (il secondo scritto con riferimento alla materia delle concentrazioni).

   (6) Cfr. Bericht des Ausschusses für Wirtschaft „zu dem Entwurf eines Zweiten Gesetzes zur Änderung des Gesetzes gegen Wettbewerbsbeschränkungen“ (Relazione della Commissione per l’Economia „sul progetto di una seconda legge per la riforma della Legge contro le restrizioni della concorrenza“), 13.6.1973, in BT-Drucks. 7/765, riprodotto tra l’altro in WuW, 1973, p. 581 ss., ivi a p. 592-593: “L’art. 26, secondo periodo, pone altresì un limite alla verosimile aspirazione dei produttori di articoli di marca di assicurare, attraverso una distribuzione selettiva mirata o una politica di sconti finalizzata, l’osservanza, per gli articoli di marca celebre, dei prezzi consigliati. Per i produttori di articoli di marca, che un rivenditore, per essere competitivo, deve condurre nel proprio assortimento, sussiste ai sensi della nuova disposizione fondamentalmente un obbligo di contrarre.
   La fornitura può tuttavia essere rifiutata in quei casi, in cui è palese l’intenzione del rivenditore di praticare prezzi-civetta vietati ai sensi dell’art. 3 UWG. Il rifiuto di contrarre può inoltre essere oggettivamente giustificato, quando il rivenditore si rifiuta di prestare quei servizi di assistenza pre- e post-vendita e di ricambistica, che possono esser richiesti dalla natura del prodotto, e che rispondono all’interesse dei consumatori”.

   (7) Sull’espressione “potere di mercato relativo”. Nella letteratura tedesca, ed ora anche italiana, la locuzione si trova in realtà utilizzata (a partire da R. SACK, Zum erweiterten Adressantenkreis des Diskriminierungsverbots, in GRUR, 1975, p. 511 ss., ivi a p. 513), in due principali accezioni di significato. I due significati, peraltro, non s’escludono a vicenda, e talvolta effettivamente concorrono.
   In una prima accezione, in particolare, si definisce relativo il potere economico che può esser colto solo o principalmente tra le parti, dominante e dipendente. Si tratta, in altri termini, di una posizione di predominio che nasce essenzialmente da circostanze intrinseche o specifiche alla relazione. Secondo l’espressione di un economista tedesco (H. ARNDT, tra l’altro in Markt und Macht, 2a ed., Tübingen, 1973), talvolta ricordato – a torto o a ragione - come ispiratore del cd. divieto di discriminazione allargato, si tratterebbe di bilaterale Beherrschungs-Abhängigkeits-Verhältnisse (ossia, rapporti bilaterali di dominanza-dipendenza). Ugualmente appropriato può esser parlare di “dipendenza soggettiva”. Altre espressioni d’uso corrente sono “monopolio relazionale” o “congiunturale” e “micro-monopolio”. C’è infine anche chi definisce tale forma di dipendenza come “contrattuale”, a significare in qualche caso non solo che la dipendenza è specifica alla relazione intrattenuta dalle parti, ma anche che una sua tutela poco o nulla avrebbe a che fare con gli obiettivi “veri” dell’antitrust.
   Esemplificazioni ricorrenti, nella letteratura in materia, sono quelle del subfornitore industriale, del distributore integrato, e più in generale dell’impresa che investe in una relazione commerciale, finendo col diventarne “prigioniera”.
   Nella seconda accezione di significato, invece, la locuzione “potere relativo” indica un potere di mercato, che non è soggettivo nel senso precisato, ma neppure raggiunge l’intensità o l’estensione della posizione dominante, intesa in un certo modo. Tale si considera in Germania, principalmente per una convenzione imposta dal legislatore storico, la dipendenza da assortimento.

   (8) Nella letteratura tedesca, l’idea che una politica di distribuzione selettiva presupponga una posizione di forza del fornitore sul mercato, e che tale posizione non necessariamente coincida con il possesso di quote elevate sul mercato di sbocco finale, potendo derivare anche solo dalla differenziazione del prodotto, si trova affermata in maniera particolarmente chiara in un parere reso per la Commissione delle Comunità da H. SCHEUFELE, Über selektive Distribution. “Nachfragerrolle”, “Macht” und “Abhängigkeit” im EWG-Kartellrecht, in BB, 1974, Beilage 14.
   Posizioni simili si trovano espresse all’incirca negli stessi anni anche da altri autori, in particolare da H. EWALD, Kontrahierungszwang für preisbindende Hersteller von Markenartikel, in WRP, 1957, p. 252 ss., ivi a p. 253; G. SCHWARTZ, Die Problematik des § 18 GWB, in GRUR, 1971, p. 397 ss., ivi a p. 401; P. ULMER, Grundbegriffe des Gesetzes gegen Wettbewerbsbeschrämkungen, in ZHR, 1971, p. 557 ss., ivi a p. 565.
   In Italia, ancora di recente, M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, in questa Rivista, 2002, I, p. 433 ss., cit., p. 459 (ed ivi riferimenti ulteriori per la dottrina italiana).

   (9) Per tutti, K. MARKERT, Der gegenwärtige Stand der Rechtsprechung zur Anwendung des § 26 Abs. 2 GWB auf Vertriebsselektionen von Markenartikelherstellern, in Selektiver Vertrieb und SB-Warenhäuser, a cura di Immenga – Markert – Schaper – Wichmann, Frankfurt, 1982, p. 24 ss.

   (10) Nel diritto tedesco, in verità, il controllo dei sistemi di distribuzione selettiva sarebbe assicurato anche dall’art. 16, n. 3, GWB, che vieta le cc.dd. Vertriebsbindungen (vale a dire, gli accordi tra fornitore e distributore che limitano la libertà del secondo nella rivendita), laddove tali accordi realizzino una restrizione sensibile della concorrenza. Il divieto, tuttavia, è stato finora scarsamente applicato. La norma, infatti, consente solo un controllo amministrativo ex post, mentre non è azionabile – a differenza dell’art. 20, co. 2, GWB - in sede civile.

   (11) Da ultimo, H. HARTE-BAVENDAMM – A. KREUTZMANN, Neue Entwicklungen in der Beurteilung selektiver Vertriebssysteme, in WRP, 2003, p. 682 ss., ivi a p. 686, con un breve stato dell’arte. Nella giurisprudenza tedesca dell’ultimo decennio è del resto ricorrente l’affermazione, secondo cui l’interpretazione delle disposizioni nazionali deve tener conto delle valutazioni normative espresse dall’antitrust comunitario. Di recente, in materia di distribuzioni selettive, BGH, 12.5.1998, “Depotkosmetik”, in NJW-RR, 1999, p. 189 ss.

   (12) V. infra par. 5.

   (13) Diversi autori nostrani, nel rinviare per l’interpretazione dell’art. 9 l.subf. alle Fallgruppen tedesche, v’includono la dipendenza da assortimento. Così, in particolare A. BARBA, L’abuso di dipendenza economica: profili generali, in Cuffaro (a cura di), La subfornitura nelle attività produttive, Napoli, 1998, p. 297 ss., ivi a p. 337; G. COLANGELO, L’abuso di dipendenza economica tra la disciplina della concorrenza e diritto dei contratti, Torino, 2004, p. 115; G. CERIDONO, Art. 9. (Abuso di dipendenza economica), in Lipari (a cura di), Disciplina della subfornitura nelle attività produttive, in Nuove leg. civ. comm., 2000, p. 429 ss., ivi a p. 437; G. MANGIONE, Abuso di dipendenza economica, servizi pubblici e sanzioni: le modifiche introdotte dall’art. 11 della legge 5 marzo 2001, n. 57, in Conc. e merc., 2001, p. 223 ss., ivi a p. 225; M. R. MAUGERI, da ultimo in Le modifiche alla disciplina dell’abuso di dipendenza economica, in Meli (a cura di), Modifiche alla disciplina dell’abuso di dipendenza economica e agli artt. 8 (imprese pubbliche e in monopolio legale) e 15 (diffide e sanzioni) della legge antitrust, in Nuove leg. civ. comm., 2001, p. 1062 ss., ivi a p. 1067 e passim; C. OSTI, Riflessioni sull’abuso di concorrenza economica, in Merc. conc. reg., 1999, p. 9 ss., ivi a p. 12-13; R. RINALDI - N. R. TURITTO, L’abuso di dipendenza economica, in Sposato – Coccia (a cura di), La disciplina del contratto di subfornitura nella legge n. 192 del 1998, Torino, 1999, p. 121 ss., ivi a p. 133 ed alla nt. 129.
   Pur senza fare riferimento alla casistica tedesca, sembrerebbe ugualmente orientato nel senso di riconoscere la rilevanza della dipendenza da assortimento dell’intermediario commerciale ai sensi dell’art. 9 l.subf. (ma non anche degli artt. 3 l.antitrust e 82 Trattato CE), M. S. SPOLIDORO, Marchi rinomati e potere di mercato (testo provvisorio), Relazione al Convegno SISPI Diritto e mercato: Proprietà intellettuale e Antitrust, tenutosi a Perugia nei giorni 25 e 26 maggio 2001, p. 19 e ss. del manoscritto.
   Un autore poi si spinge oltre, suggerendo l’applicabilità dell’art. 9 l.subf., sempre attraverso la figura della dipendenza da assortimento, al fenomeno della distribuzione selettiva di articoli di marca. Così A. PALMIERI (in nota a Trib. Padova, 16.9.1998), in Foro it., 1999, I, c. 338 ss., ivi c. 340.
   Prima della legge 192 sulla subfornitura, invece, sono emerse in dottrina interpretazioni, volte a recepire la Fallgruppe nell’interpretazione di disposizioni affini al divieto di a.d.e., quali in particolare l’art. 3 l.antitrust (in tal senso G. SCHIANO DI PEPE, Art. 3 – Abuso di posizione dominante, in Concorrenza e mercato, a cura di Afferni, Padova, 1994, p. 199 ss., ivi a p. 125, il quale auspica genericamente l’accoglimento nella prassi nazionale ex art. 3 l.antitrust delle Fallgruppen elaborate nel diritto tedesco in relazione all’art. 20, co. 2, GWB) e/o l’art. 2597 cod. civ. (così già M. LIBERTINI, L’imprenditore e gli obblighi di contrarre, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, vol. IV, Padova, 1981, p. 271 ss., ivi a p. 291 - 292; più di recente, M. LIBERTINI – BERTANFILIPPO, Obbligo a contrarre, in Dig. disc. priv. Sez. comm., Utet, Torino, 1995, vol. XII, p. 480 ss., ivi a p. 493 ed alla nt. 90).
Non risulta tuttavia a chi scrive che in Italia il tema della compatibilità sistematica e dell’utilità pratica della figura, nell’ordinamento interno e comunitario, sia stato finora oggetto di approfondimento, specie per quanto riguarda la variante della dipendenza relativa.

   (14) Per tutti, K. MARKERT, ad art. 20, in GWB. Kommentar zum Kartellgesetz, a cura di Immenga – Mestmäcker, 3a ed., München, 2001, Rdnr. 63.

   (15) V., ad es., BGH, 20.11.1975, “Rossignol”, in WuW/E BGH, p. 1391 ss.; BGH, 23.10.1979, “Plaza SB-Warenhaus”, in NJW, 1980, p. 941 ss.; BGH, 24.3.1987, “Saba-Primus”, in WuW/E BGH, p. 2419 ss.

   (16) Tra le altre, BGH, “Rossignol”, cit.; BGH, 24.3.1981, “SB-Verbrauchermarkt”, in WuW/E BGH, p. 1793 ss.; BGH, 16.6.1981, “Levi’s Jeans”, in WuW/E BGH, p. 1867 ss.

   (17) BGH, “Rossignol”, cit.

   (18) Così, K. MARKERT, ad art. 20, cit., Rdnr. 64.

   (19) Cfr., ad es., BGH, “SB-Verbrauchermarkt”, cit.

   (20) V., per es., KG, 4.2.1985, “Märklin”, in WuW/E OLG, p. 3501 ss.

   (21) BGH, “Rossignol”, cit..
   Nella specie, un affermato negozio di sci bavarese si vede rifiutare dall’importatore esclusivista per la Germania una fornitura di sci (per alcune centinaia di paia) della marca Rossignol. Nell’anno precedente, il fatturato realizzato dal rivenditore con sci Rossignol non superava i centomila marchi, a fronte di un fatturato complessivo di tre milioni. Nello stesso anno, inoltre, la quota di mercato detenuta da Rossignol era dell’otto per cento appena, risultando così modesta anche in confronto alle quote dei concorrenti.
   Ciò nonostante, in tutti e tre i gradi di giudizio si riconosce la dipendenza del rivenditore. Decisiva è ritenuta la circostanza che, grazie all’intensa promozione pubblicitaria ed ai successi sportivi del marchio, gli sci Rossignol godono in quel momento di una considerazione senza pari tra i consumatori.

   (22) Oltre alle sentenze citate alle note precedenti, v. ad es. BGH, 24.2.1976, „Asbach-Fachgroßhändlervertrag“, in WuW/E BGH, p. 1429 ss.; BGH, 18.9.1978, „Faßbierpflegekette“, in WuW/E BGH, p. 1530 ss.; BGH, 30.6.1981, „Adidas“, in WuW/E BGH, p. 1885 ss.; BGH, 9.5.2000, „Designer-Polstermöbel“, in NJW-RR, 2000, p. 1286 ss., nonché in WuW/E DE-R, p. 481 ss.

   (23) V., in particolare, V. EMMERICH, Die höchstrichterliche Rechtsprechung zum Diskriminierungsverbot (§ 26 Abs. 2 GWB), AG, 1976, p. 57 ss., ivi a p. 60; H.-D. LÜBBERT, Anwendung des Diskriminierungsverbot auf Markenartikelhersteller, BB, 1976, p. 240 ss., ivi.

   (24) Si veda, ad es., K. HEUCHERT, Die Normadressaten des § 26 Abs. 2 Satz 2 GWB – Eine ökonomische Analyse des Rechts, Heidelberg, 1987, spec. p. 56 ss.

   (25) BGH, 17.1.1979, „Nordmende“, in WuW/E BGH, p. 1567 ss.
   Nella specie, motivo ed oggetto del contendere era una partita di televisori a colori, che Nordmende, noto produttore di elettronica da intrattenimento, aveva rifiutato ad un grande magazzino. Nei precedenti gradi di giudizio si era accertato che nessun negozio di elettronica offriva un assortimento veramente completo, comprensivo di tutti i marchi presenti sul mercato; e che il marchio “Nordmende” figurava nell’assortimento di appena il sessanta per cento dei negozi specializzati. Riformando la pronuncia di secondo grado, che si rifaceva espressamente al precedente “Rossignol”, la Cassazione stabilisce tuttavia che una diffusione non capillare del prodotto non esclude di per sé la dipendenza. La competitività del rivenditore, infatti, può dipendere, anziché da un marchio specificamente individuato, dalla disponibilità di un certo numero di marchi tra i più affermati. Per il mercato dei televisori a colori, un’indagine rivelava poi che i piccoli negozi specializzati erano mediamente in grado di offrire quattro o cinque marche diverse, i grandi rivenditori specializzati addirittura una decina. L’appartenenza della marca “Nordmende” al gruppo di punta era ricondotta all’elevata quota di mercato, pari all’undici per cento, che valeva a collocarla al secondo posto.

   (26) Per tutti, V. EMMERICH, Kartellrecht, cit., p. 217.

   (27) Ad es., BGH, 22.1.1985, “Technics”, in WuW/E BGH, p. 2125 ss.; OLG Düsseldorf, 21.1.1986, “Clarins”, in WuW/E OLG, p. 3862 ss.; OLG Stuttgart, 31.7.1987, “Blaupunkt”, in WuW/E OLG, p. 4047 ss.

   (28) Così, ad esempio, BGH, 17.1.1979, “Nordmende”, in WuW/E BGH, p. 2990 ss.; BGH, 16.12.1986, “Belieferungswürdige Verkaufstätten II”, in WuW/E BGH, p. 2351 ss.; da ultimo, OLG München, 16.12.2002, “Internetvertrieb”, in MMR, 2002, p. 162 ss.

   (29) Tra le altre, BGH, “Technics”, cit.; BGH, “Saba Primus”, cit.; OLG München, “Internetvertrieb”.

   (30) V., in particolare, BGH, “Saba Primus”, cit.

   (31) Cfr. BGH, “Saba Primus”, cit.; BGH, 23.10.1979, “Plaza SB-Warenhaus”, in GRUR, 1980, p. 180 ss.

   (32) V. infra par. 7.

   (33) K.-P. SCHULTZ, ad art. 20, in Kommentar zum deutschen und europäischen Kartellrecht, a cura di Langen-Bunte, 9a ed. Neuwied, 2001, Rdnr. 67.

   (34) BGH, 21.2.1995, “Importarzneimittel”, in WuW/E BGH, p. 2990 ss.

   (35) Ora facendo applicazione del divieto di abuso di dipendenza economica [tra le altre, OLG Koblenz, “Bad Dürkheimer Wurstmarkt”, in GRUR, 1990, p. 65 ss. (dipendenza di un esercizio gastronomico nei confronti dell’ente locale organizzatore di una festa popolare); OLG Frankfurt, 13.4.1989, “Art Frankfurt”, in WuW/E OLG, p. 4455 ss. (dipendenza delle gallerie d’arte nei confronti di una fiera di nuova apertura); OLG Frankfurt, 17.3.1992, “Art Frankfurt 1992”, in WuW/E OLG, p. 5027 ss. (dipendenza di un gallerista nei confronti dell’organizzatore di “Art Frankfurt”, entrata nel frattempo a far parte di una cerchia ristretta di importanti manifestazioni internazionali del settore); OLG Düsseldorf, 30.7.1987, “Art Cologne”, in WuW/E OLG, p. 4173 ss. (dipendenza di un gallerista nei confronti dell’ente organizzatore di una nota fiera internazionale di arte moderna, appartenente ad un circuito europeo di complessivamente tre manifestazioni, non paragonabili per pubblico e notorietà alle rimanenti fiere, tutte miste o di notorietà solo regionale]; ora, invece, facendo applicazione del divieto di abuso di posizione dominante [OLG Frankfurt a.M., 30.10.1984, “Kürchschnerhandwerk”, in WuW/E OLG, p. 3347 ss. (dipendenza nei confronti dell’organizzatore di un celebre concorso di qualità, che si svolgeva annualmente nell’ambito di una fiera di settore)].
In dottrina, qualifica l’ipotesi come dipendenza da assortimento V. EMMERICH, Kartellrecht, 8a ed., München, 1999, p. 231 (ma il riferimento alla dipendenza da assortimento scompare nell’edizione successiva del manuale). Diffusamente sul potere di mercato degli enti fieristici, e sulla necessità di un controllo della ragionevolezza di eventuali discriminazioni, U. IMMENGA, Grundfragen des Diskriminierungsverbotes anhand neuer Entwicklungen, in AG, 1998, p. 547 ss., ivi a p. 548.

   (36) Di recente, OLG München, 30.1.2003, “Kleinstadtkino”, in WuW DE-R, p. 1106 ss.

   (37) Una soluzione alternativa sarebbe in astratto quella di imporre al soggetto dipendente di agire nei confronti di tutte le imprese del gruppo rilevante; e di condannare queste ultime, ciascuna per la sua parte, a contrattare a condizioni adeguate. Sennonché, il risultato che così si consegue eccederebbe l’interesse protetto (l’impresa dipendente – ricordiamo – non ha bisogno di contrarre con tutti), e finirebbe quindi per limitare oltre misura la libertà d’iniziativa delle imprese dominanti. Di più, obbligare in concreto tutto il gruppo rilevante, oltre l’effettiva necessità dell’impresa dipendente, potrebbe avere l’indesiderato effetto di frenare la concorrenza tra i soggetti dominanti ed in genere di ingessare i rapporti di mercato esistenti.
   Scartata quindi questa soluzione, si potrebbe ancora pensare, sempre al fine di non lasciare all’arbitrio dell’impresa dipendente la scelta dei soggetti da convenire, di tener conto del minore o maggior contributo, che ciascun’impresa del gruppo rilevante presta nel determinare la dipendenza della controparte di mercato. Il criterio, tuttavia, pare in contraddizione con l’idea-base della dipendenza relativa, di più imprese che, ciascuna indipendentemente dall’altra, ma nessuna in maniera di per sé decisiva, condizionano lo svolgimento della concorrenza su di un mercato collegato.
In assenza, dunque, di validi criteri alternativi, pare preferibile quello indicato dalla Cassazione tedesca, ed ampiamente consolidato nel diritto vivente, di lasciare all’impresa dipendente la scelta, contro chi agire all’interno del gruppo rilevante e secondo quale ordine, finché l’interesse ad un assortimento sufficientemente competitivo non ha trovato soddisfazione.

   (38) Così, in sostanza, W. DANELZIRK, Abhängigkeit eines Handelsunternehmens von einem Lieferanten, BB, 1979, p. 1575 ss., ivi a p. 1576; K. STAHL, Der selektive Vertrieb im Spannungsfeld zwischen Vertragsfreiheit und Diskriminierungsverbot, MA, 1981, p. 501 ss.

   (39) Per i termini della questione, v. ex plurimis M. LIBERTINI – B. SANFILIPPO, Obbligo a contrarre, cit., p. 509 e ss.

   (40) Accenna al problema J. P. F. M. PEGO, A posição dominante relativa no direito da concorrência, Coimbra, 2001, p. 99-100.

   (41) Da ultimo, M. LIBERTINI, Posizione dominante individuale, cit., p. 572.

   (42) Revoca e disapplicazione (previste in via generale e astratta agli artt. 7 e 1a del regolamento del Consiglio n. 19/65 del 2 marzo 1965 sull’applicazione dell’art. 81 par. 3 del Trattato a gruppi di accordi e di pratiche concordate, che ne attribuisce la competenza alla Commissione e/o alle autorità antitrust nazionali) operano difatti solo per il futuro.
La disapplicazione (concretamente prevista ora nei regolamenti della Commissione n. 2790/1999 del 22 dicembre 1999, art. 8, e n. 1400/2002 del 31 luglio 2002, art. 7), riguardando l’applicabilità del regolamento d’esenzione a mercati caratterizzati dalla contemporanea presenza di più reti d’accordi simili, dispiega inoltre i suoi effetti nei confronti di tutte le imprese presenti su quel mercato, e quindi non comporta discriminazioni.

   (43) In tal senso, K. MARKERT, ad art. 20, cit., Rdnr. 69; U. CARLHOFF, ad art. 26, in Frankfurter Kommentar, 2a ed., Frankfurt a.M., 1986 (1994), Rdnr. 160. In giurisprudenza sembrerebbero muoversi in quest’ordine d’idee, BGH, “Nordmende”, cit., e soprattutto OLG Düsseldorf, 29.5.1990, “Installateurverzeichnis”, in WuW/E OLG, p. 4692 ss. Critici, invece, W. FISCHÖTTER – H.-D. LÜBBERT, in nota a BGH, “Plaza SB-Warenhaus”, cit., p. 183, adducendo ragioni di certezza.

   (44) Sulla tendenza della Commissione a trattare determinati atti unilaterali dell’impresa o delle imprese dotate di significativo potere di mercato come causa d’esclusione dal beneficio dell’esenzione di gruppo, di recente, P. MENGOZZI, Il regolamento 1400/2002 e le vie seguite dalla Commissione per la tutela della concorrenza nel settore delle automobili, in Contr. impr./Eur., 2003, p. 1 ss., spec. p. 7 e ss.

   (45) Con “Adalat”, cit., la Corte di giustizia ha difatti posto un limite alla tendenza, manifestatasi nella prassi della Commissione, ad interpretare estensivamente il concetto d’intesa, fino a ricondurvi iniziative sostanzialmente unilaterali di una parte. Commenti alla sentenza tra l’altro in: T. EILMANSBERGER, Die Adalat-Entscheidung des EuGH – Maßnahmen von Herstellern zur Steuerung des Verhaltens von Vertriebshändlern als Vereinbarungen im Sinne von Art. 81 EG, in ZWeR, 2004, p. 285 ss.; H.-G. KAMANN – MANNERGMANN, Einseitige Vertriebsbeschränkungen und Art. 81 EG-Vertrag – Folgerungen aus dem Bayer-Adalat-Urteil des EuGH und dem Volkswagen-Urteil des EuG, in EWS, 2004, p. 151 ss.; A. KLEES, Einseitige Maßnahmen eines Herstellers als Vereinbarung bei Parallelimporten von Arzneimitteln? - Adalat, in BB, 2004, p. 291 ss.; A. ROSENFELD, Nachweis einer (konkludenten) Kartellvereinbarung zur Unterbindung von Parallel-Einfuhren in Vertriebsnetzen – Adalat, in RIW, 2004, p. 298 ss.; J. WERTENBRUCH, „Einseitige Maßnahmen“ des Herstellers in Vertriebsnetzen als Kartellvereinbarung im Sinne des Art. 81 EG, in EWS, 2004, p. 145 ss.

   (46) M. LIBERTINI, Posizione dominante individuale, cit., p. 570-572.

   (47) M. LIBERTINI, Posizione dominante individuale, cit., p. 571.

   (48) M. LIBERTINI, Posizione dominante individuale, cit., p. 571.

   (49) Un argomento, contro l’uso (o contro alcuni dei possibili utilizzi) del concetto di posizione dominante plurima non collettiva, è contenuto all’apparenza in “Metro I” (Corte giust. CE, 25.10.1977, C-26/76), una delle prime sentenze comunitarie in materia di distribuzione selettiva, nella quale la Corte di giustizia sembra affrontare ex professo la questione se alla dipendenza da assortimento dell’intermediario commerciale possa farsi corrispondere una posizione dominante del produttore/fornitore ai sensi dell’art. 82 Trattato CE.
   Protagonisti della vicenda sono SABA, un noto produttore di elettronica da intrattenimento, e Metro, un grossista cash & carry tedesco. SABA si era rifiutata di rifornire l’attrice dei propri televisori a colori. Con la motivazione che Metro non accettava di sottostare a, o non era in grado di, soddisfare le condizioni, stabilite da SABA per partecipare come grossista al suo sistema distributivo, sistema già esentato ai sensi dell’allora art. 86 Trattato CEE. Oggetto del contendere era dunque la liceità, secondo gli artt. 85 e 86 Trattato CEE, del rifiuto opposto da SABA.
   Di fronte a quote di mercato modeste, la ricorrente giustifica la posizione dominante di SABA invocando il precedente della Cassazione tedesca in “Rossignol” e la dottrina della dipendenza da assortimento. In realtà, ad esser invocata era quella che di lì ad un paio d’anni sarebbe divenuta nel diritto vivente tedesco la variante debole della dipendenza da assortimento. Si deduceva, infatti, che in ragione della loro qualità superiore i televisori SABA appartenevano a quel gruppo di forse sei, su di un totale di dieci marchi tedeschi, che un rivenditore di televisori doveva essere in grado di offrire alla propria clientela, per competere con gli altri rivenditori.
   L’argomento è disatteso. Secondo la Corte, “anche se la quota di mercato detenuta da un’impresa non costituisce necessariamente l’unico criterio per stabilire se sussista una posizione dominante, si può fondatamente ritenere che una quota di mercato così bassa come quella di SABA [circa 10%] su un mercato di prodotti altamente evoluti dal punto di vista tecnico, ma facilmente sostituibili tra loro agli occhi della gran massa dei consumatori, escluda, a meno che non ricorrano circostanze particolari, una posizione dominante. Ciò è tanto più vero se – come nel caso di specie – tra i produttori regna una vivace concorrenza. Il fatto che la qualità del prodotto sia tale da obbligare il distributore a condurre quel prodotto nel proprio assortimento, non permette di per sé al produttore di tenere una condotta significativamente indipendente dai concorrenti ed è di conseguenza inidonea ad assicurargli una posizione dominante; tale circostanza è piuttosto uno fra tanti fattori concorrenziali. Altrettanto si dica del fatto […] che gli altri produttori di elettronica da intrattenimento hanno adottato o stanno per adottare sistemi di distribuzione selettiva dello stesso tipo di quello approvato dalla Commissione con la decisione impugnata. Tale circostanza potrà eventualmente esser presa in considerazione per valutare la conformità del sistema litigioso all’art. 85 del Trattato, ma non può far sì che, nella situazione specifica, la posizione della SABA sul mercato in questione si trasformi in una posizione dominante”.
   In dottrina, il precedente è stato variamente interpretato. Le prese di posizione esplicite, ad ogni modo, non sono molte, e si riducono per lo più a poche battute.
   Un autore, in particolare, mostra di aderire. Secondo A. FRIGNANI, Abuso di posizione dominante, in Diritto antitrust italiano, Frignani – Pardolesi - Patroni Griffi - Ubertazzi, Bologna, 1993, I, p. 310 ss., ivi pp. 348-349, la prudenza della Commissione e della Corte di giustizia, nell’assumere l’esistenza di una posizione dominante in casi di dipendenza economica (per cause intrinseche ai rapporti tra le parti o, come per la dipendenza da assortimento, per cause esterne) sarebbe giustificata dalla generica premessa secondo cui l’antitrust ha come obiettivo principale la tutela della concorrenza, e non dei concorrenti (leggi: delle singole imprese come tali).
   Altri autori si limitano a prender atto dell’enunciato della Corte in “Metro I”, e lo interpretano in ogni caso come preclusivo della possibilità di qualificare la dipendenza da assortimento dell’intermediario commerciale come posizione dominante ex art. 82 Trattato CE. Così C. JUNG, ad art. 82, in Trattato CE, in (a cura di) Grabitz - Hilf, Das Recht der Europäischen Union. Kommentar, Beck, München, EL 17 - Januar 2001, I, Rdnr. 96, e A. SCHWARTZ, Das kartellrechtliche Mißbrauchverbot und die Wettbewerbsfähigkeit europäischer Industrieunternehmen, Frankfurt a. M., 1994, p. 92, nt. 191.
   Tendono invece a distinguere, e sminuiscono così implicitamente la portata del precedente, voci autorevoli come H. SCHRÖTER, Artikel 82 EG-Vertrag – Missbrauch einer marktbeherrschender Stellung, in Kommentar zum Europäischen Wettbewerbsrecht, a cura di Schröter – Jakob – Mederer, Baden-Baden, 2003, Rdnr. 110, e W. MÖSCHEL, ad art. 86 Trattato CEE, in (a cura di) Immenga – Mestmäcker, EG-Wettbewerbsrecht, München, 1997, I, Rdnr. 90. Per il primo, in particolare, una dipendenza da assortimento dei distributori rispetto ad un articolo di marca non potrebbe, secondo la regola ricavabile da “Metro I”, dar luogo da sola ad una posizione dominante del produttore/fornitore nei confronti dei concorrenti. Il secondo autore, invece, alla soluzione tendenzialmente restrittiva adottata dalla Corte di giustizia in “Metro I” contrappone la sentenza “United Brands” (14.2.1978, C-27/76), dove il marchio affermato di un produttore di banane (“Chiquita”) non è più un parametro concorrenziale come altri, ma diventa un indizio decisivo per configurare (in presenza di una quota di mercato non troppo elevata, pari al trenta/quaranta per cento) una posizione dominante nei confronti degli intermediari commerciali.
Richiama il precedente, ma implicitamente svalutandolo, anche M. R. MAUGERI, Le recenti modifiche, cit., p. 1073, nt. 62.
   Fortemente critico, infine, è un breve commento dell’epoca, di M. VAN EMPEL, pubblicato senza titolo in S.E.W., 1978, p. 421 ss., ivi a p. 428.
   Pure ad avviso di chi scrive, l’enunciato della Corte è discutibile, se è vero che, ai fini dell’accertamento di un abuso ai danni di un intermediario commerciale, mercato rilevante e posizione dominante sembrerebbero definiti assumendo la prospettiva non della vittima immediata dell’asserito abuso, bensì del consumatore.
   Difatti, anche a voler correttamente ritenere che il divieto di a.p.d. tuteli la concorrenza, e non la singola impresa come tale, ciò ancora non significa che la nozione di posizione dominante debba per forza individuare un concetto monolitico o assoluto; vale a dire, coincidere con un’egemonia, che sussiste contemporaneamente nei confronti di tutte le controparti interessate: concorrenti, fornitori, imprese clienti e consumatori. Al contrario, la nozione di posizione dominante, se si va oltre la generale definizione come possibilità di tenere condotte di mercato significativamente indipendenti (ossia come assenza di un sufficiente controllo da parte del meccanismo concorrenziale), deve sempre esser contestualizzata, e può quindi in concreto variare secondo la direzione che prende l’abuso.
   Il punto (che la posizione dominante individua un concetto normativo e relativo, e che quindi essa – al di là dell’unitaria definizione come sostanziale indipendenza di comportamenti - si atteggia diversamente secondo che si discuta di concentrazioni o di abuso, e all’interno del divieto di abuso secondo la tipologia del comportamento da esaminare) si trova di recente tematizzato ed approfondito, nella dottrina nostrana, da M. LIBERTINI, Posizione dominante individuale, cit. Questa consapevolezza si coglie però bene o male, a livello teorico, anche nella letteratura straniera, recente e meno, soprattutto in quella tedesca (più di ogni altro, W. MÖSCHEL, ad art. 86 Trattato CEE, cit., Rdnr. 39 e ss.; ma v. pure, più di recente ed almeno altrettanto autorevolmente, E.-J. MESTMÄCKER – STMÄCHWEITZER, Europäisches Wettbewersbrecht, 2° ed., München, 2004, spec. p. 401-402). Nel medesimo ordine d’idee si muovono poi, a livello di fonti legislative, quelle leggi nazionali antitrust (si pensi ancora una volta all’esempio tedesco) che, in linea con l’elevato livello di dettaglio che le caratterizza, contengono una tipizzazione, anche molto articolata, spesso stratificatasi negli anni, delle diverse figure di potere economico considerate rilevanti per la tutela della concorrenza. La stessa prassi degli Organi comunitari e nazionali, infine, si fa leggere, almeno a livello complessivo, in questo senso (per riferimenti alla casistica, soprattutto dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, v. sempre M. LIBERTINI, Posizione dominante individuale, cit., p. 557 e ss., in nota).
Al contempo è tuttavia difficile stabilire fino a che punto l’enunciato della Corte in “Metro I” sia espressivo di una precisa scelta di valore, capace di mettere in discussione la validità in generale di un concetto di dipendenza relativa o di posizione dominante plurima non collettiva; e fino a che punto, invece, abbiano giocato un ruolo altri fattori, in particolare la circostanza che nel caso deciso il rifiuto di contrarre era riconducibile ad un sistema di distribuzione selettiva, e che nel diritto comunitario il fenomeno delle distribuzioni selettive è regolato essenzialmente attraverso il divieto d’intese. Oppure ancora la circostanza che, nella specie, non di una dipendenza da assortimento assoluta si sarebbe trattato, bensì di una dipendenza da assortimento relativa. Vale a dire, di una figura che è emersa nel diritto vivente tedesco solo alcuni anni dopo, come evoluzione della Fallgruppe inaugurata con il leading case “Rossignol” (precedente che la difesa di Metro citava a sostegno della propria tesi); e che s’allontana concettualmente ancora di più dalla nozione di posizione dominante come tradizionalmente intesa, ossia come monopolio o quasi-monopolio nella produzione/fornitura di un certo tipo di bene.
   In realtà, già da “Metro I”, ed in ogni caso da un complessivo esame della disciplina comunitaria della distribuzione selettiva, emerge che la dipendenza da assortimento dell’intermediario commerciale, ed in particolare il danno che a questi può derivare da un rifiuto di contrarre opposto da uno o più produttori di marchi leader, sono tutt’altro che giuridicamente irrilevanti. Cambia piuttosto lo strumento normativo utilizzato: invece di quello che ab origine si presenta come un divieto di abuso di potere (l’art. 82 Trattato), trova applicazione il divieto d’intese (art. 81 Trattato). Ma l’applicazione del divieto d’intese avviene pur sempre in un’ottica, che attribuisce un ruolo centrale al potere di mercato del fornitore (da solo o insieme con altri fornitori), nonché all’effetto esclusionario, che dall’esercizio di tale potere può risultare per l’intermediario commerciale discriminato.
   Vero è però anche che, proprio all’interno della disciplina comunitaria della distribuzione selettiva, si tende oggi a distinguere, anche sul piano terminologico, tra la “posizione dominante” del fornitore sul mercato finale da un lato, posizione che rende assai improbabile, anche se non impossibile, la liceità del sistema di distribuzione selettiva, che il fornitore decidesse di adottare; ed il potere di mercato solo “significativo”, dall’altro, del fornitore che non detiene sul mercato finale quote da monopolista o quasi-monopolista, ma è ugualmente in grado, da solo o con altri fornitori, di condizionare il gioco concorrenziale al livello successivo della distribuzione.
   Sennonché, questa distinzione tra posizione dominante in senso stretto e potere di mercato solo significativo, per come si delinea nella disciplina comunitaria della distribuzione selettiva, non pare netta; e soprattutto essa sembra avere un valore più che altro ordinante, senza quindi compromettere la validità in generale del concetto – tenuto conto anche degli argomenti che militano a favore di questo - di dipendenza relativa ovvero di posizione dominante plurima disgiunta.

   (50) L’art. 7 d. lgs. n. 538/92 recita, tra l’altro, al co. 1, “… il distributore all’ingrosso è tenuto a detenere almeno: a) i prodotti di cui alla tabella 2 allegata alla Farmacopea Ufficiale della Repubblica italiana; b) il 90%delle specialità medicinali in commercio; c) almeno un medicinale preconfezionato prodotto industrialmente per ciascuna delle formulazioni comprese nel formulario nazionale della Farmacopea Ufficiale che risultino in commercio”; al co. 2, “La fornitura agli interessati dei medicinali di cui il distributore è provvisto deve avvenire con la massima sollecitudine e, comunque, entro le 12 ore lavorative successivo alla richiesta nell’ambito territoriale indicato nella dichiarazione di cui all’art. 5, comma 2, lettera d).”

   (51) Sul punto, in Italia, v. in particolare M. LIBERTINI, Posizione dominante individuale, cit., p. 551 e ss. Nella stessa direzione, a livello di manualistica recente, C. ANGELICI, Diritto commerciale – I, Bari, 2002, p. 113. Con specifico riguardo all’antitrust comunitario, da ultimo, E.-J. MESTMÄCKER – STMÄCHWEITZER, Europäisches Wettbewersbrecht, cit., p. 393 e passim (ove anche l’efficace espressione “zweckgebundene Marktabgrenzungen”).

   (52) Correttamente, ad es. G. BRUZZONE, L’individuazione del mercato rilevante nella tutela della concorrenza, in Temi e problemi, a cura dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Roma, 1995, ivi a p. 12 e passim; V. AMMENDOLA – P. L. PARCU, L’antitrust italiano, Torino, 2003, p. 49-50; J. VICKERS, Competition Economic and Policy, in ECLR, 2003, p. 95 ss., ivi a p. 99-100.

   (53) V. supra par. 10, nt. 49.

   (54) Da più parti si sostiene addirittura che la definizione del mercato in concreto rilevante è un’operazione superflua, ed anzi fonte di equivoci, perché sostanzialmente anticipatrice dell’accertamento, solo all’apparenza distinto, della posizione dominante. Sul punto, diffusamente, R. KNÖPFLE, Ist es für die Beurteilung, ob ein Unternehmen eine Marktbeherrschende Stellung hat, notwendig, den relevanten Markt zu bestimmen?, in DB, 1990, p. 1385 ss., ivi. Favorevoli ad un accertamento “monofase” della posizione dominante, nell’antitrust tedesco, anche O. SANDROCK, in Merz – Schluep (a cura di), Grundprobleme der sachlichen Marktabgrenzung, in Recht und Wirtschaft heute, Bern, 1980, p. 449 ss., ivi a p. 469 e H.-J. RUPPELT, ad art. 19, in Langen – Bunte (a cura di), Kommentar zum deutschen und europäischen Kartellrecht, 9a ed., Neuwied, 2001, Rdnr. 8. In Italia, nel senso che la definizione del mercato rilevante dovrebbe essere contestuale all’accertamento della posizione dominante, M. LIBERTINI, Posizione dominante individuale, cit., p. 555.
   Una conferma di ciò si trae del resto dall’osservazione della prassi, dove i medesimi criteri sono spesso utilizzati per due volte: la prima, per definire il mercato rilevante; la seconda volta, per stabilire la posizione dominante (cfr., ad es., AGCM, “Pepsico-Food”, 7.12.1999, proc. A224, provv. n. 7804, in Boll. n. 49/1999).

   (55) Il che non significa, pare ovvio, che la definizione del mercato in concreto rilevante sia un’operazione puramente valutativa, che prescinde dal dato reale. In questo senso si lascia leggere il rilievo, solo all’apparenza contrario ad una concezione normativa, di O. SANDROCK, Grundprobleme, cit., p. 469: “Das Kartellrecht kann nicht in der Wirklichkeit existierende Märkte mit Hilfe juristischer Werturteile nach dem Muster einer jeweils anwendbaren Kartellnorm zuschneidern, sondern nur als reale Gegebenheiten entdecken und aus der konkreten Wirklichkeit seine Definition übernehmen”.

   (56) Per riferimenti, European Federation of Pharmaceutical Industries and Associations (EFPIA), Article 82 EC: Can It Be Applied to Control Sales by Paharmaceutical Manufacturers to Wholesalers?, 2004, reperibile sul sito della Federazione www.efpia.org, p. 26 e ss.

   (57) Per l’esattezza, il punto di partenza dell’analisi è normalmente rappresentato, e così anche nel provvedimento in epigrafe, dall’Anatomical Therapeutic Classification (ATC), dal sistema di classificazione dei farmaci per classi terapeutiche adottato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sistema di classificazione che le autorità antitrust cercano poi di adattare al caso concreto, vale a dire ai farmaci di volta in volta interessati.

   (58) L’equivoco nel quale incorre il provvedimento in epigrafe è tuttavia alimentato anche dall’ambiguità dei documenti ufficiali.
   Ad es. AGCM, Indagine conoscitiva sul mercato farmaceutico, cit. (richiamata dall’estensore dell’ordinanza), nell’ambito di una complessiva analisi delle dinamiche concorrenziali del settore farmaceutico, sembrerebbe a tratti sovrapporre i concetti di “settore” “mercato” e “mercato rilevante” (p. 9). L’intera analisi del concetto di mercato rilevante applicato al settore farmaceutico s’impernia poi sulla classificazione ATC. Con la sola precisazione, in apertura, che è questo il criterio “normalmente” adottato dalle autorità antitrust.

   (59) Una prospettazione alternativa ricorre in Epitropì Antagonismoù, “Glaxo Wellcome”, cit., secondo cui ogni specialità etica (i.e. soggetta a prescrizione medica obbligatoria) definisce un mercato a sé, sicché il produttore verrebbe a detenere per ciascuna specialità etica una posizione dominante. Sulla stessa linea sembra muoversi la seconda ordinanza, App. Milano 12-23.7.2005, in epigrafe.
   Il ragionamento alla base si direbbe il seguente. L’obbligatorietà della prescrizione medica, sommata al divieto per il farmacista di vendere equivalenti, priva il consumatore della possibilità di scegliere. Con la conseguenza che il mercato rilevante, definito dal punto di vista del consumatore, verrebbe necessariamente a coincidere con la singola specialità etica. Così formulato, però, il ragionamento presuppone anch’esso un’ipostatizzazione dell’idea di mercato rilevante, nel senso che si è detto.
   Il ragionamento dell’Autorità greca, tuttavia, non si ferma qui. La scelta effettuata dal medico prescrivente - si argomenta - vincola necessariamente la farmacia nei suoi acquisti all’ingrosso. Di qui, secondo l’Autorità, l’insostituibilità del farmaco, una volta prescritto, anche dal punto di vista del grossista; e, per l’effetto, la posizione dominante del produttore.
   Sennonché, l’automatismo pare eccessivo. Il fatto che la prescrizione medica vincoli la farmacia nei suoi ordinativi non significa di per sé che il grossista, per essere sufficientemente competitivo, debba disporre di un assortimento completo di tutte le specialità soggette a prescrizione medica obbligatoria. È ben possibile, infatti, che nessun grossista disponga in concreto di un assortimento completo in assoluto. Decisivo dovrebbe esser allora piuttosto il confronto con l’assortimento medio del settore ovvero l’importanza commerciale della specialità. Al più si potrebbe pensare che la natura etica della specialità rappresenti un fattore che, tenuto conto delle norme (si pensi in particolare, per il mercato italiano, al decreto-legge 27 maggio 2005, n. 87, recante “disposizioni urgenti per il prezzo dei farmaci non rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale”, convertito con modifiche dalla legge 26 luglio 2005, n. 149, che all’art. 1, co. 1, obbliga il farmacista ad informare il paziente dell’esistenza in commercio di medicinali equivalenti, nonché a fornire su richiesta del paziente un medicinale avente prezzo più basso, sempre che la ricetta medica non rechi l’indicazione della non sostituibilità) e delle abitudini del settore (in particolare dei medici prescriventi, dei consumatori, dei farmacisti), contribuisce soltanto a rafforzare il potere di mercato del produttore.
(60) In obiter dictum l’ordinanza milanese sembra spingersi addirittura oltre, là dove afferma – se ben comprendiamo - che, ai fini dell’individuazione delle fonti alternative che concorrono a definire il mercato rilevante, non rileverebbe neppure un rifiuto assoluto dei grossisti concorrenti a vendere.
   Sennonché, le alternative che definiscono il mercato rilevante non possono essere solo teoriche ed in concreto impraticabili. Diversamente, l’individuazione del mercato rilevante si risolverebbe in una valutazione astratta dalla realtà. Ed una conferma in tal senso viene ora dalla lettera dell’art. 9 l.subf., nella parte in cui lo stato di dipendenza economica è identificato con la reale possibilità di reperire sul mercato alternative soddisfacenti.
   Privo di pregio è perciò anche l’ulteriore argomento, che ricorre pure nell’ordinanza annotata, secondo cui l’accertamento della non praticabilità in concreto di un’alternativa pure teoricamente esistente atterrebbe al diverso profilo del danno, e non già a quello della posizione dominante.

   (61) Accontentarsi di una capacità di condizionamento sensibile ancora non significa applicare nella ricostruzione della nozione di posizione dominante il noto paradosso (richiamato da ultimo in M. MOTTA - M. POLO, Antitrust – Economia e politica della concorrenza, Bologna, 2005, p. 103), secondo cui ogni impresa è in qualche modo monopolista della sua produzione.

   (62) Le ipotesi legali di abuso (art. 82, lett. a-d), infatti, dimostrano che, dal punto di vista delle valutazioni normative, l’assunto secondo cui il divieto di a.p.d. proteggerebbe i soli consumatori è sbagliato. Nella prassi, poi, è noto che gli abusi di p.d. più frequentemente contestati sono quelli che si rivolgono contro altre imprese.
   In realtà, il consumatore viene ad esser direttamente protetto, solo se vittima immediata dell’abuso. Il che può avvenire quando l’impresa si rivolge con i propri prodotti o servizi direttamente alla clientela finale, come - tipicamente - nella fornitura di servizi di pubblica utilità, quali elettricità, gas, acqua, telecomunicazioni. Altrimenti il consumatore è protetto solo indirettamente, attraverso il mantenimento di un adeguato livello di concorrenza sui mercati intermedi. In tal senso, da ultimo ed autorevolmente, E.-J. MESTMÄCKER – STMÄCHWEITZER, Europäisches Wettbewerbsrecht, cit., p. 378.

   (63) Conseil de la concurrence, “Phoenix Pharma”, cit., par. 35, nell’assumere l’esistenza in capo a ciascun produttore di una posizione dominante per la singola specialità, sembra accennare, anche se in modo non troppo perspicuo, una distinzione come quella nel testo, tra dipendenza “legale”, indotta dal dovere di assortimento minimo previsto dalla legge (come in Italia, anche in Francia la normativa di settore impone al grossista farmaceutico di condurre nel proprio assortimento il novanta per cento delle specialità medicinali in commercio); e dipendenza “commerciale” in senso stretto, legata al fatto che le farmacie clienti si aspettano di trovare, al di là dell’obbligo legale gravante sul grossista, un assortimento capace di soddisfare tutte le loro richieste. In ogni caso sembra presente nel provvedimento dell’Autorità francese, in nuce, il concetto di dipendenza relativa o, se si vuole, di posizione dominante plurima non collettiva.
   Il riferimento al dovere di assortimento minimo, sul quale si basa in buona parte la sintetica motivazione del provvedimento francese, si trova criticato nella presa di posizione dell’EFPIA, Art. 82 EC, cit., p. 24, perché implicherebbe un fraintendimento del ruolo che i doveri di pubblico servizio possono svolgere in tale contesto, nonché dei rapporti tra questi ed i principi dell’antitrust. Il dovere di assortimento minimo come anche gli altri doveri di servizio pubblico gravanti sul grossista farmaceutico tenderebbero difatti ad assicurare la capillarità, la tempestività ed in definitiva l’efficienza della distribuzione farmaceutica nell’interesse della salute del cittadino; e non anche – se comprendiamo bene - la competitività del singolo grossista. Di conseguenza il dovere di servizio pubblico del grossista non potrebbe giustificare un obbligo di contrarre ai sensi del diritto della concorrenza. L’argomento sembrerebbe ricorrere anche in Trib. Napoli, 21.5.2004 (ord.), cit.; nonché in App. Barcellona, 27.11.2000 (non vidi: il provvedimento è citato in EFPIA, Article 82, cit., p. 73; il giudice spagnolo avrebbe escluso l’esistenza di un obbligo di contrarre, almeno finché la copertura delle esigenze dei consumatori finali sul territorio di riferimento risulti adeguata).
   Sennonché, in una valutazione dei rapporti tra produttori di specialità medicinali e grossisti secondo il diritto della concorrenza, la disciplina di settore che stabilisce i doveri di servizio pubblico in questione viene in rilievo non tanto per le indicazioni normative di principio che se ne possono trarre, ma semmai come un elemento che, di fatto (al pari delle quote di mercato, delle barriere all’ingresso, dei gusti dei consumatori e via discorrendo), contribuisce insieme con altri a definire l’ambiente competitivo in cui si svolgono i rapporti di mercato tra produttori e grossisti.

   (64) Sull’obbligo di contrarre come sanzione giudiziale dell’illecito concorrenziale, in termini generali e per tutti, M. LIBERTINI – BERTANFILIPPO, Obbligo a contrarre, cit., p. 509 e ss.
   Sull’ammissibilità di un corrispondente ordine cautelare, sia consentito rinviare inoltre, anche per riferimenti ulteriori, al mio PH. FABBIO, Note sulla terminazione dei rapporti di distribuzione automobilistica integrata, tra diritto comunitario e nazionale, in questa Rivista, 2004, II, p. 9 ss. (ivi a p. 36-37). Come più recente, v. altresì M. TRECCANI, in nota a Trib. Bari, 11.10 2004 (ord.) e 17.1.2005 (ord.), in Riv. dir. priv., 2005, p. 704 ss. (ivi a p. 719 e ss.). A livello comparatistico, vale infine la pena di ricordare che, in linea di principio, la questione è risolta positivamente nel vicino ordinamento tedesco, dove rimane controversa più che altro la ricostruzione dogmatica: cfr., da ultimo, H. KÖHLER, Durchsetzung des kartellrechtlichen Durchleitungsanspruchs im Wege der einstweiligen Verfügung, in BB, 2002, p. 584 ss.

   (65) In tal senso, Trib. Napoli, 21.5.2004 (ord.), cit.

   (66) Art. 1, co. 2.

   (67) Così, in sostanza, Trib. Napoli, 21.5.2004 (ord.), cit.

   (68) Cfr. art. 7, co. 2, direttiva 92/25/CEE, ora art. 81, secondo periodo, direttiva 2001/83/CE del 6 novembre 2001 recante un “codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano”.

   (69) Diversamente (avendo riguardo all’analoga situazione francese, dove non è posto un limite al numero di licenze per il commercio all’ingrosso di farmaci, ed è al contempo previsto a carico del grossista farmaceutico l’obbligo di tenere un assortimento minimo comprensivo del novanta per cento delle specialità in commercio), EFPIA, Article 82, cit., p. 72. Secondo gli autori del parere, il diritto comunitario vivente richiede un’interpretazione restrittiva delle disposizioni che impongono doveri di pubblico servizio; e di conseguenza impedisce – in assenza di un’espressa previsione di legge - di dedurre dal dovere di assortimento minimo del grossista farmaceutico un obbligo di contrarre a carico dei produttori di specialità.
   Questa conclusione, tuttavia, deve apparire eccessiva agli stessi autori del parere, se poi si precisa che un obbligo di contrarre in tal senso sussisterebbe, sia pure eccezionalmente, nel caso in cui ci sia da parte dei consumatori una domanda insoddisfatta, che solo quel grossista può soddisfare. Trattasi, tuttavia, di valutazioni, che la formulazione rigida dei doveri di pubblico servizio gravanti sull’intermediario non sembra consentire (v. supra nel testo). Non è chiaro, inoltre, su quale base normativa poggino le non meglio individuate eccezioni alla supposta regola.

   (70) V. nt. prec.

   (71) Per tutti, M. LIBERTINI – BERSANFILIPPO, Obbligo a contrarre, cit.

   (72) V. nt. prec.

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