Intervento nel dibattito su
GIOVANNI CABRAS – Riforma delle procedure concorsuali ed economia di mercato
FRANCESCO FIMMANÒ Le prospettive di riforma del
diritto delle imprese in crisi |
1. La fase di transizione che stiamo vivendo, caratterizzata da rivoluzioni davvero epocali, rende estremamente delicata la costruzione di nuovi assetti normativi. Lasciare principi e regole consolidate, ma superate, e avventurarsi in principi e regole innovative, ma inesplorate, richiede un’attenzione altrettanto straordinaria. In questo contesto, la costruzione delle norme del diritto delle imprese in crisi deve seguire inevitabilmente il metodo economico e quindi tener conto delle regole del mercato e delle esperienze e delle influenze di altri Paesi, senza perdere di vista però le specificità dell’ordinamento. D’altra parte già la riforma del diritto societario è fin troppo ispirata dal tentativo di fondo di introdurre nel sistema, in modo indiscriminato, pretesi vantaggi comparativi, in funzione della maggiore competitività delle imprese sul piano internazionale, in un quadro di concorrenza tra ordinamenti. Analizzare quali esigenze economiche determinano la introduzione delle soluzioni normative proposte e quali effetti economici potranno avere i relativi principi, è decisivo in una materia come il diritto fallimentare ove l’aderenza degli istituti alle direttive del mercato è forse più marcata che in altri settori.
Occorre infatti partire da una premessa, in Italia esiste un rilevantissimo svantaggio competitivo: i costi di sistema della crisi delle imprese, direttamente connessi all’inefficienza delle procedure concorsuali. Le spese e la durata di queste ultime sono di gran lunga le più elevate d’Europa e contemporaneamente le percentuali di recupero sono tra le più basse in assoluto. Il fondo monetario internazionale e le Corti comunitarie hanno a diverso titolo stigmatizzato da anni il problema (1). Si è stimato che la durata media di una procedura nel nostro Paese è di sei o sette anni, contro i due o tre della Francia, uno o due della Germania, uno della Svezia e addirittura meno di uno per il Regno Unito. Il tutto per consentire ai creditori chirografari un recupero medio tra l’otto ed il dieci per cento del valore nominale del credito e complessivamente a distanza di anni poco più del trenta per cento dell’esposizione debitoria (2).
Un recentissimo rapporto presentato al Convegno annuale sull’analisi economica del diritto di Nancy ha confermato, usando come strumento di valutazione dell’efficienza normativa i parametri di Basilea due, che in Italia l’azione di recupero costa ai creditori di più che in ogni altro Paese a capitalismo avanzato con una pesante ricaduta sul costo del denaro e sulla competitività del sistema Paese (3). Le diseconomie in caso di crisi possono dunque variare molto a seconda dell’ambiente normativo in cui ci si trova a operare.
La situazione italiana in sostanza incide da un lato sul livello dell’onerosità e della disponibilità del credito bancario, dall’altro, su quello del costo dell’insuccesso del progetto legato all’investimento ossia sul livello del premio di rischio. La letteratura economica in genere è ricca di contributi in cui si verifica analiticamente ed empiricamente «la relazione tra limitazioni nella concessione del credito – razionamento e alti tassi di interesse – e qualità della normativa e dell’enforcement giudiziario sui quali può contare il creditore nel recupero di una somma prestata» (4).
In parallelo, tutto questo genera la ritardata, o talora mancata, riallocazione dei valori aziendali, dei fattori produttivi e degli stessi rischi assunti, che rimangono per anni imprigionati nelle imprese fallite fino ad essere del tutto annullati, invece di rientrare rapidamente in circolo. Non a caso l’Italia dopo la fase di recessione, nella quale i dissesti si sono moltiplicati in modo esponenziale, vive una fase di ripresa del ciclo economico molto più lenta di altri Paesi. Tutto ciò rende necessario un intervento immediato, diretto a innovare un quadro normativo decrepito, concepito da un Legislatore autarchico, corporativo ed interventista nell’economia (5), in un contesto sociale ed economico ancorato ad un modello neoclassico. L’alveo di riferimento della legge fallimentare era un’economia mercantile (6) ed un sistema di imprese, i cui fattori della produzione, compreso il lavoro, si presentavano assolutamente mobili e facilmente assorbibili dal mercato (7).
Quest’ordinamento creato in funzione del solo imprenditore ed adatto ad una realtà economica paleocapitalistica è straordinariamente inadeguato in un contesto mutato, specie negli ultimi anni, con una velocità impressionante e sconvolto da eventi politici e sociali senza precedenti (8) definiti convenzionalmente e complessivamente globalizzazione. L’impresa non può più essere considerata soltanto come una diretta proiezione dell’imprenditore (9), ma va necessariamente vista come una realtà oggettivamente rilevante cui l’ordinamento accorda tutela ed assegna uno specifico ruolo (10) ed alla quale sono riferibili, in certi limiti, situazioni e rapporti autonomi rispetto a quelli che fanno capo all’imprenditore (11). Essa costituisce il punto di riferimento e di saldatura in cui confluiscono gli interessi di tutti coloro che si muovono nel suo ambito: l’imprenditore, i lavoratori, creditori, i terzi e più in generale i c.d. stakeholders (12).
In questa ottica la tradizionale concezione basata sulla contrapposizione tra gli interessi relativi alla conservazione dell’azienda e alla tutela del ceto creditorio (13), può considerarsi in fase di superamento, come emerge dagli stessi principi ispiratori di “tutti” i tentativi di riforma elaborati negli ultimi anni. D’altra parte le analisi comparative con gli altri ordinamenti dimostrano che più è attivo il ruolo attribuito dalla legislazione ai creditori, più rapidamente e proficuamente avviene la liquidazione dell’impresa fallita. Né si può ormai concepire l’interesse dei creditori in modo univoco ed omogeneo, considerato che questi ultimi sono spesso portatori di interessi divergenti e quindi occorrono soluzioni che tengano conto della graduazione delle diverse categorie o classi di creditori (14).2. L’ultimo schema di legge delega di riforma delle procedure concorsuali c.d. Trevisanato (15) non a caso enuncia come principi direttivi innanzitutto: a) perseguire l’obiettivo della valorizzazione degli organismi produttivi e dei patrimoni assicurando il miglior soddisfacimento possibile dei creditori; b) favorire l’emersione tempestiva della crisi d’impresa e l’attivazione delle iniziative volte a porvi rimedio (art. 2, lett. a e b).
Non v’è dubbio che l’attuale sistema economico ed il paradigma di altri ordinamenti concorsuali già riformati indicano chiaramente questa direzione (16). Non ci pare tuttavia che i vari tentativi di riforma, compreso l’ultimo, prevedano un armamentario idoneo di per sé a realizzare tali obiettivi. Le opzioni di fondo dei vari progetti che si sono succeduti, senza fortuna, tutto sommato si assomigliano anche perché richiamano, con dosaggi diversi, esperienze straniere più o meno riuscite (17). Il problema vero è sviluppare i principi di massima in un contesto di procedimenti efficaci ed efficienti idonei a ridurre gli insopportabili costi della crisi.
L’impressione è che però il dibattito sia troppo sbilanciato su interessi di retrobottega piuttosto che concentrarsi sulle concrete misure di recupero dello svantaggio competitivo del nostro Paese che derivano dall’inefficienza e dalla durata delle procedure concorsuali. Tant’è che paradossalmente le probabilità di vedere la luce che ha la bozza Trevisanato, o sue varianti, sono connesse più alla riduzione, accentuata o meno, dei vari termini per l’esercizio delle revocatorie nell’interesse del sistema bancario (18), piuttosto che all’analisi dell’impatto economico dei principi e delle norme da elaborare. Peraltro per le stesse banche un ordinamento concorsuale più efficiente darebbe benefici complessivi (anche in termini di impieghi) ben più rilevanti che la riduzione quantitativa dei pagamenti e delle rimesse revocabili. L’accorciamento del periodo sospetto può rappresentare anche una linea condivisibile ma esige come naturale contrappeso la drastica riduzione della durata della fase prefallimentare, che spesso si trascina per molti mesi in uno stillicidio di udienze giudiziali non finalizzate ad una reale funzione conoscitiva (19).
Si scorge tuttavia in positivo la tendenza all’orizzonte ad attenuare finalmente l’imperante panprocessualismo del sistema vigente e ad aprire, se pure a piccole dosi, ad una qualche forma di contrattualismo (20). In particolare si tratta di far evolvere il processo di fallimento, in processo di parti (21) (si pensi in particolare alla composizione concordata della crisi), in cui vengono recuperate ai giudici quelle funzioni di controllo e mediazione degli interessi che la procedura concorsuale è diretta istituzionalmente a tutelare, e che in Italia sono state loro sottratte per le imprese più rilevanti nella convinzione che ad essi fossero esclusivamente riservate funzioni garantiste identificate con la realizzazione coattiva dei crediti e negate funzioni di mediazione dei rapporti sociali (22). Ed infatti le imprese dove più forti sono gli interessi collettivi connessi alla crisi, sono state storicamente sottratte al giudice fallimentare e assoggettate all’intervento spesso scoordinato dell’Amministrazione, sia per la convinzione che i magistrati per mentalità e cultura fossero inidonei ad affrontare tali problemi e sia perché gli stessi soggetti lesi dal dissesto preferivano scaricare il costo della crisi sulla collettività socializzandola. Tuttavia, sottrarre al giudice il compito di tutelare certe istanze equivale a chiedergli di non applicare la legge fallimentare o meglio di applicarla solo alle microimprese che hanno minori responsabilità sociali degradando così la stessa legge ad un codice di bottegai (23) nel contesto di un fallimento inteso come mero processo esecutivo speciale, insensibile alle istanze complessive del sistema.
Si tratta insomma di incentivare soluzioni concordate in un contesto giurisdizionale deformalizzato, a differenza di quanto accade nell’attuale ordinamento in cui le rinegoziazioni stragiudiziali si fanno solo a prezzo di gravi rischi di revocatoria e imputazioni di bancarotta (24).
La spinta alla giurisdizionalizzazione dell’insolvenza, anche delle imprese di grandi dimensioni, in un’ottica di attenuazione di un’anomalia dell’ordinamento (25), risulta confermata dalla Prodi-bis, in cui è contemplato un sostanziale rovesciamento dei poteri decisori in ordine all’ammissione alla procedura nelle varie fasi e alla sussistenza dei presupposti economico-finanziari, prima spettanti all’autorità amministrativa e ora attribuiti al tribunale.
Chiaramente la funzione di garanzia e controllo deve fisiologicamente accompagnarsi ad un’accentuazione della terzietà del giudice (26), il che significa che il legislatore della riforma dovrà uscire dallo stato di agnosticismo su temi quali il fallimento d’ufficio (27). La soluzione al riguardo non può essere tipo quella suggerita recentemente dalla Corte costituzionale densa di equilibrismi (28), ma deve essere chiara, attribuendo eventualmente solo al pubblico ministero, come parte in senso proprio, in un processo inter partes, l’iniziativa (29) e lasciando al Tribunale il compito di iurisdicere super partes in ossequio al principio del ne procedat iudex ex officio. D’altra parte lo schema Trevisanato nel prevedere l’istituzione di sezioni specializzate, afferma, sul piano generale, la necessità di uniformare la tutela giurisdizionale in materia ai principi della terzietà del giudice, della domanda, del contraddittorio e del diritto alla prova (art. 7, lett. a e b).3. L’abbassamento dei costi dell’insolvenza deve passare innanzitutto attraverso una rapida riallocazione dei valori aziendali e dei rischi e quindi attraverso una istruttoria preconcorsuale invasiva e tempestiva, che prescinda dall’iniziativa e dalla collaborazione del debitore, in grado di garantire il reale monitoraggio del tipo di impresa, del tipo di crisi e conseguentemente di articolare in modo flessibile le ipotesi di soluzione e di scegliere, laddove sia opportuno, gli strumenti funzionali alla conservazione e valorizzazione degli assetti produttivi.
L’attuazione dei principi direttivi indicati nell’ultimo disegno di legge, esige innanzitutto un sistema in cui gli organi del fallimento, dopo aver valutato le caratteristiche dell’impresa sul piano dimensionale, strutturale, dell’astratta redditività e del mercato di riferimento, e diagnosticato il male, assumano, in tempi rapidi, scelte decisive in ordine alla direzione da seguire (30). A tal fine i giudici devono tra l’altro essere in grado di individuare l’origine strutturale ovvero congiunturale della crisi in modo da poterne valutare la portata ed orientarla secondo le più idonee strategie di intervento (31).
Nell’attuale ordinamento è proprio a seguito della dichiarazione del dissesto, quando l’impresa viene sottratta all’imprenditore, infatti, che si determina il maggior danno economico e sociale dell’insolvenza specie per mancanza di rapidità dell’azione che richiederebbe una reale ed approfondita conoscenza della fattispecie. È determinante, allora, a questo specifico fine l’uso della istruttoria preconcorsuale, cui il tribunale dà luogo di fronte al sospetto dell’insolvenza (32), cercando anche in via autonoma le relative prove e disponendo eventualmente d’ufficio perizie, ispezioni e consulenze tecniche (33).
Ma i limiti che si pongono già oggi ad una valida istruttoria sono più organizzativi che normativi, specie per la carenza di strumenti e personale da un lato (34) e la difficoltà oggettiva di consulenze tecniche d’ufficio e di ispezioni dall’altro (35), a differenza di quanto avviene ad esempio in materia di indagini penali, ove peraltro vengono assorbite le maggiori risorse pur essendo le ragioni dell’economia, in quella sede, certamente meno pregnanti.
L’utilizzazione dell’istruttoria prefallimentare, che pur ha visto arricchire negli ultimi anni il suo ruolo in relazione all’esercizio del diritto di difesa del debitore, dovrebbe essere orientata a funzioni di monitoraggio, analogamente ad esempio a quanto avviene per il c.d. periodo di osservazione previsto dalla legislazione francese sull’insolvenza.
Invece, l’istruttoria viene utilizzata sostanzialmente, allo stato, solo per verificare l’esistenza dell’insolvenza, visto che in un procedimento comunque sommario, qual è quello per la dichiarazione di fallimento, viene escluso che normalmente possa darsi luogo a mezzi di prova di lunga indagine (36). Peraltro una osservazione preconcorsuale più ampia richiedebbe attività preventive di indagine ed analisi che obiettivamente non sono praticabili in tutti i fallimenti e per tutti i tipi di impresa. Anche perché questo tipo di ispezione, esigerebbe la reale collaborazione dell’imprenditore (37), il quale spesso non ha alcun interesse a collaborare all’esame di una situazione da cui potrebbe emergere inequivocabilmente il suo stato di insolvenza. Non a caso una delle ragioni dello scarso successo delle procedure concorsuali minori è stata la necessità d’impulso alle stesse ad opera del debitore, potenzialmente insolvente.
Tuttavia, anche nell’attuale sistema, dal carattere sommario dell’accertamento non deriva, almeno in linea di principio, alcuna preclusione in termini di ampiezza dell’istruttoria e di ricorso a prove, dovendo peraltro il giudizio di rilevanza e ammissibilità essere condotto sotto il profilo dell’utilità effettiva e della compatibilità con le esigenze di speditezza del procedimento, specie per le prove di lunga indagine (38). Quest’ultima categoria non ha alcuna base dogmatica, esprimendo viceversa il «criterio della durata, riferito alla tipicità modale della loro assunzione, un dato di prassi più che di sistema codificato» (39). Il carattere d’urgenza insomma permette l’accesso a tutti gli atti di istruzione, ma non consente una dilatazione temporale incompatibile con la durata circoscritta voluta dal legislatore attraverso la semplificazione propria della sommarietà (40).
La collocazione della legittima tutela del credito in una sfera di rilevanza giuridica non strettamente privatistica, ma piuttosto connotata da un interesse pubblicistico, principalmente ravvisabile nella regolazione dei rapporti economici di mercato, pone il giudice incaricato dell’istruttoria nella condizione di delibare, nel contesto procedimentale deformalizzato, a trattazione tendenzialmente celere, la situazione di crisi dell’impresa nella sua più ampia e variegata sfera di manifestazione, non strettamente legata alla pretesa creditoria del ricorrente (41). Peraltro, in virtù di queste caratteristiche della procedura, il tribunale fallimentare può sempre autonomamente disporre, anche ai sensi dell’art. 738, terzo comma, cod. proc. civ. (42), l’acquisizione di qualsiasi elemento di giudizio (43).
D’altra parte le principali fonti di prova sono di natura documentale, essendo rappresentate dai bilanci, dalla contabilità in genere, dalle dichiarazioni fiscali, dai libri giornali con relativi inventari di chiusura di esercizio, dai libri matricola, dai registri dei cespiti ammortizzabili, dalla documentazione bancaria e commerciale in genere. Per cui il problema non è rappresentato dall’ampiezza delle prove o dall’ammissibilità dell’assunzione, considerate le fonti citate, ma dagli strumenti nella concreta disponibilità del giudice per la materiale acquisizione e soprattutto per la c.d. riclassificazione delle stesse (44).
Quindi sarebbe già praticabile un uso per così dire alternativo dell’istruttoria per l’osservazione preconcorsuale mediante atti di istruzione tipici, contemplati per il processo di cognizione (cui aggiungere i mezzi codificati per i procedimenti camerali, ivi compresi quelli di natura ispettiva), con modi di assunzione atipici strumentali alla ratio dell’accertamento (45). Ed il modello corrisponde sostanzialmente a quello introdotto dalla legge per la disciplina della Amministrazione straordinaria ed alla funzione istruttoria e di indagine attribuita nella prima fase ai Commissari, e a quanto concepito ormai da vent’anni dal legislatore francese (46).
La loi du 25 janvier 1985, ampiamente modificata nel 1994, disciplina una procedura di risanamento giudiziario affidata al tribunale di commercio se il debitore è commerciante, od in caso contrario al tribunal de grande istance, che si basa proprio su un piano redatto a seguito di un periodo di osservazione di tre mesi, prorogabile una sola volta per altri sei, sull’andamento dell’azienda. Nel piano può essere prevista la continuazione dell’impresa o in alternativa la cessione dell’azienda (47), e se nessuna delle due ipotesi è percorribile, il tribunale può disporre la liquidazione giudiziaria (48). In pratica il legislatore francese ha concepito un’unica procedura divisa in due fasi in cui vengono esplorate le opportunità di salvataggio dell’azienda prima di abbandonare l’impresa alla liquidazione (49) anche se la liquidazione giudiziale può essere disposta immediatamente, senza passare attraverso la preliminare fase istruttoria, qualora il redressement judiciaire appaia subito impossibile.
Il precedente disegno di legge di riforma riproduceva questo modello contemplando un periodo di osservazione di novanta giorni (50). Nello schema Trevisanato questa impostazione viene superata, e pur mantenendo le c.d. procedure di allarme si accoglie un modello più simile alla Insolvenz Ordnung (51) e per alcuni versi al c.d. Chapter eleven statunitense (52), antesignano e ispiratore delle scelte normative adottate da gran parte dei Paesi UE negli ultimi quindici anni. L’unico riferimento alla fase preliminare rimane nel progetto di riforma quello del favor per la costituzione di istituzioni pubbliche e private con compiti di analisi delle situazioni di crisi delle imprese e di supporto alla loro soluzione (art. 3, lett. d).
Il “Chapter 11” favorisce gli accordi tra creditori e debitore, lascia immutato e di norma senza la supervisione di un curatore il management, permette la rinegoziazione dei debiti sia per l’importo che per il contenuto, fino a consentire anche la conversione del debito in capitale di rischio da riallocare tra i creditori per dare modo all’impresa di ripartire alleggerita di tutti, o di buona parte, dei suoi debiti. In verità non si vede perché questa impostazione delineata non possa convivere nel nostro ordinamento con una fase tempestiva ed invasiva di monitoraggio, non necessariamente avviata da debitore, che garantirebbe una scelta sicuramente più consapevole e calcolata delle soluzioni da adottare.4. Passando al “principio-aspirazione”, sbandierato in tutti i progetti di riforma, della valorizzazione degli organismi produttivi compatibilmente col soddisfacimento dei creditori, risponde al dato oggettivo che nelle fasi di crisi conclamata l’azienda come complesso di beni e persone organizzati mediante l’attività di coordinamento dell’imprenditore deve comunque essere trattata come una realtà che si estingue solo a causa della concreta ed effettiva disgregazione dei fattori della produzione e non certo per effetto dell’evento concorsuale in sé (53).
Ecco che anche la procedura concorsuale deve consentire la salvaguardia del complesso organizzato di beni e persone, laddove sia meritevole di essere conservato, evitando distruzioni di ricchezza, purché ciò sia compatibile col migliore soddisfacimento dei creditori. L’interesse dei creditori che nell’attuale sistema è la finalità prioritaria se non addirittura unica (54) sembrerebbe evolvere nei vari progetti di riforma, anche in virtù dell’attribuzione agli stessi di un ruolo più attivo in conformità a quanto accade negli altri ordinamenti. Il nodo è quello di equilibrare i sacrifici imposti alla tutela di determinati interessi individuali o di categoria in funzione dei vantaggi che ne possono derivare per il sistema economico nel suo complesso. Si è rilevato che si tratta di un «criterio di composizione di interessi confliggenti cui spesso si è fatto ricorso» nel diritto commerciale, ed in particolare societario e cartolare, ove il sacrificio di un interesse individuale può giustificarsi «in vista di un beneficio per l’intera categoria di appartenenza del soggetto il cui interesse individuale viene sacrificato». I creditori del fallito sono spesso «anch’essi imprenditori: pertanto, il sacrificio che sopportano nella loro tutela individuale può essere compensato dal beneficio che la disciplina adottata comporta per l’intero sistema delle imprese di cui sono partecipi» (55).
Al fine di evitare la dispersione dei valori aziendali, la legge fallimentare contempla soltanto l’istituto dell’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito, che a sua volta riveste funzioni diverse a secondo della fase del procedimento in cui viene disposto (56). La continuazione temporanea rientra in una sorta di gestione pubblica processuale (57) in cui viene sostanzialmente dissociato l’esercizio dell’impresa dalla responsabilità e dal rischio, normalmente concentrati nello stesso soggetto, e che quindi può essere autorizzata solo in situazioni eccezionali (58).
Già da tempo tuttavia la meritoria opera della prassi giurisprudenziale, seguita da interventi normativi settoriali “lavoristici”, hanno delineato strumenti in grado di realizzare meglio lo stesso fine consentendo al tempo stesso di evitare soluzioni di continuità nell’esercizio dell’attività economica ed oneri ulteriori per il fallimento. Si tratta dell’affitto dell’azienda endoconcorsuale (59), utilizzato in funzione della successiva vendita, nell’ambito di un tipico programma unitario ove funziona da giuntura la prelazione legale riconosciuta solo in funzione della protezione di interessi di rilievo costituzionale (60).
In passato, la mancata previsione di tali rimedi in sede normativa ha suscitato dubbi sulla loro ammissibilità e sulla disciplina eventualmente applicabile. Poi la legge n. 49, del 27 febbraio 1985, e poi la legge n. 223, del 23 luglio 1991, seppure in modo incidentale e per taluni versi speciale, hanno cominciato a dare inquadramento normativo alla fattispecie e si è usciti da quello stato di agnosticismo legislativo che aveva caratterizzato il tema (61). Il legislatore, con l’art. 14 della legge n. 49 del 1985, ha previsto a favore di cooperative di lavoratori dipendenti da imprese soggette a procedure concorsuali, ammessi al trattamento della cassa integrazione guadagni e che abbiano in affitto, e più in generale in gestione, anche parziale, le aziende di appartenenza, un diritto di prelazione in caso di vendita coattiva delle stesse. Ma soprattutto con la legge n. 223 del 1991, ha sancito espressamente l’ammissibilità dell’affitto e della vendita unitaria del complesso aziendale nel fallimento di imprese dotate dei requisiti dimensionali per accedere al trattamento di cassa integrazione straordinaria (62), ed ha legato funzionalmente i due istituti utilizzando come giuntura il diritto di prelazione a favore dell’affittuario in funzione della successiva alienazione.
Questo complesso sistema di liquidazione dell’azienda, in sede concorsuale, è divenuto uno strumento ordinario di soluzione dell’insolvenza per imprese che abbiano un consistente numero di lavoratori dipendenti e, laddove possibile, una scelta privilegiata fra quelle a disposizione degli organi della procedura, al preciso scopo di contribuire al mantenimento dell’occupazione quale interesse costituzionalmente tutelato (art. 4 Cost.). Nello stesso sistema si innesta l’art. 47 della legge n. 428 del 1990, che prevede proprio per il trasferimento di aziende in crisi appartenenti alla stessa tipologia di impresa contemplata dalla legge n. 223, un complesso procedimento di informazione e consultazione sindacale diretto a favorire la continuazione dell’attività economica a tutela del lavoro, pur sacrificando alcune garanzie individuali dei singoli lavoratori (63).
L’istituto nasce nel quadro di un nuovo tipo di intervento pubblico nell’economia e rappresenta una forma evoluta di socializzazione del dissesto, che a differenza del passato, non scarica i costi sulla collettività ma eventualmente sui creditori dell’impresa. Questi ultimi, tuttavia, non necessariamente vengono pregiudicati dalla procedura speciale che può rivelarsi per loro anche più vantaggiosa del normale sistema di liquidazione in funzione della conservazione del plusvalore aziendale. L’impostazione è in linea peraltro con le direttive del legislatore comunitario e le reiterate sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità europee dirette ad impedire gli aiuti di Stato alle imprese decotte che consentono alle stesse di mantenersi artificiosamente sul mercato falsando la concorrenza.
È come se si fosse concepita, accanto alla grande impresa assoggettabile all’Amministrazione straordinaria (64), un tipo di impresa intermedia qualificata dal punto di vista occupazionale ossia con più di quindici lavoratori dipendenti. Questo requisito numerico rappresenta tradizionalmente la linea di confine a partire dalla quale l’impresa è considerata socialmente rilevante (65), ed è per questo tipo di impresa che il legislatore ha introdotto il sistema in oggetto (66), diretto a conservare i valori aziendali, a incentivare l’occupazione reale ed a disincentivare il ricorso agli ammortizzatori sociali in un’ottica evoluta di job creation (67).
Questa dovrebbe essere la nuova frontiera del diritto delle imprese in crisi, anche in chiave di analisi economica, come procedura potenzialmente in grado di salvaguardare l’interesse dell’impresa, l’interesse dell’economia l’interesse dei creditori e l’occupazione riducendo altresì i costi sociali del dissesto. E la scelta del legislatore di limitarla alle realtà produttive di un certo rilievo sociale, è in linea con le esigenze effettive dell’economia e del mercato, in quanto, salvo alcune rare eccezioni, che non fanno testo, solo per imprese di una certa dimensione, dotate di un certo avviamento oggettivo, si pone effettivamente, in caso di fallimento, il problema e l’opportunità di un procedimento di conservazione e salvaguardia della res azienda.
Si tenga conto al riguardo che la bozza Trevisanato, non a caso, segnala al legislatore la necessità di riservare l’Amministrazione straordinaria solo alle crisi di “rilevanza nazionale” reintroducendo un limite più elevato di occupati al fine dell’ammissione (art. 1 lettera b). E questo significa ampliare il novero di aziende comunque meritevoli di istanze conservative.
Il disegno di legge, in tema di salvaguardia dei valori aziendali, prevede che in caso di accesso alla procedura di composizione concordata il debitore mantenga la gestione dell’impresa (art. 3 lett.f) sotto il controllo dei commissari giudiziali.
Nel caso in cui il debitore, poi, non sia ricorso alla procedura di crisi, è contemplata la possibilità di un piano di regolazione dell’insolvenza alternativo alla liquidazione endoconcorsuale di un gruppo di creditori o terzi interessati avente ad oggetto la conservazione anche parziale dell’impresa (art. 5, comma 4 lett. a). È previsto altresì l’esercizio provvisorio, anche parziale ossia di un ramo aziendale, se compatibile con la conservazione del valore del patrimonio (art. 13 lett. d, rubrica liquidazione e ripartizione della attività). Viene poi espressamente contemplato l’affitto endoconcorsuale, anche per rami con determinazione dei casi di possibile concessione all’affittuario della prelazione all’acquisto (lettera f) ed il conferimento in una o più società, anche di nuova costituzione e con procedura semplificata di beni, crediti o complessi aziendali con i rapporti contrattuali in corso, escludendo la responsabilità dell’alienante in base all’art. 2560, cod. civ.
Nulla viceversa si dice sulla fase successiva di vendita dell’azienda, eccezion fatta per il generale riferimento alla semplificazione delle modalità di liquidazione dell’attivo secondo modelli di speditezza, flessibilità e trasparenza (lett. b). Rimangono aperti, almeno sul piano del diritto positivo, i problemi legati alle procedure di alienazione dei complessi aziendali, specie di quelli comprensivi di beni immobili, del loro coordinamento con le procedure di informazione e consultazione sindacale e con l’eventuale esercizio della prelazione da parte dell’affittuario. Rimane aperto il problema dell’applicazione alla vendita unitaria della norma di cui all’art. 2560, cod. civ. (ossia all’accollo cumulativo ex lege all’acquirente dell’azienda dei debiti risultanti dalle scritture contabili), decisiva rispetto all’effettiva commerciabilità e derogata invece espressamente nell’ipotesi di conferimento in società di organismi produttivi (68).
NOTE(1) La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha recentemente condannato per l’ennesima volta l’Italia per la eccessiva durata delle procedure (si tratta della sentenza del 17 luglio 2003 Appl. n. 32190/96 caso Luordo c. Italia, n. 56298/00 e caso Bottaro c. Italia in www.dirittiuomo.it).(2) I Paesi che assicurano una maggiore tutela ai creditori garantiti sono Belgio, Finlandia, Grecia, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti. Italia e Francia sono quelli che offrono il grado di tutela più basso. Nella soddisfazione dei crediti precedenza assoluta va alle spese legate alla procedura e al compenso del curatore, solo successivamente verranno soddisfatti i creditori garantiti, seguiti da quelli chirografari. Le implicazioni di questa disciplina sono rilevanti, negli ultimi anni mentre la somma delle spese di procedura e di retribuzione del curatore è stata di una proporzione di circa 4 a 100 con il passivo dei creditori, il peso in termini di distrazione dell’attivo è stato in media del 22 per cento circa.(4) D. Marchesi, Anche la legge fallimentare scoraggia gli investimenti, in www.lavoce.info.(5) Al riguardo F. Di Marzio, Stato e mercato nella legge fallimentare e nell’evoluzione dell’ordinamento (brevi osservazioni sulla istruttoria prefallimentare), in Dir. fall., I, 2003, p. 651, che rinvia a N. Irti, Il diritto della transizione, in L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1998, p. 105.(6) D’altra parte il fallimento è una creazione propria del diritto dell’età intermedia che prescinde da qualsiasi influenza del diritto romano. La procedura nasce nel basso medioevo, con gli statuti comunali e delle corporazioni mercantili del XIII secolo, per «soddisfare le esigenze di autodisciplina interna della classe mercantile, in cui emerse il concetto di commerciante, come soggetto capace di realizzare per sé il massimo profitto, rimanendo irrilevante l’appartenenza formale degli strumenti da lui utilizzati, contesto nel quale appariva decisivo il credito di cui il mercante godeva, più che il suo patrimonio inteso in senso romanistico» (A. Bonsignori, Introduzione al diritto fallimentare, Torino, 1993 p. 8 s.; ID., Inattualità del fallimento, in Dir. fall., 1978, I, p. 429 s.; U. Santarelli, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia, Padova, 1964, p. 118 s.). Con il decadere dei Comuni e quindi del ruolo politico dei mercanti, il fallimento perde la sua natura di strumento corporativo per entrare a far parte del diritto dello Stato. La procedura non tutela più l’interesse della classe mercantile, ma della collettività, o meglio delle classi dominanti, tradizionalmente detentrici di ricchezza, che dall’insolvenza vengono pregiudicate (F. Galgano, La costituzione economica, Padova, 1977, p. 35 s.). Con l’avvento della rivoluzione industriale, poi, il fallimento, pur conservando l’antica struttura, assume la nuova funzione di tutelare l’ordine pubblico in materia economica e di «introdurre, sia pure a posteriori, un controllo sull’operato dell’imprenditore» (V. Greco, Il fallimento da esecuzione collettiva ad espropriazione dell’impresa, Milano, 1984, p. 6; A. Bonsignori, Il Fallimento, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia diretto da F. Galgano, Padova, 1986, p. 94 s.). La concezione del fallimento, quale istituto volto ad assicurare, non solo il concorso dei creditori, ma anche la repressione del dissesto a tutela degli interessi della collettività, si delinea chiaramente col passaggio dal particolarismo del diritto intermedio alla fondazione dei diritti nazionali e si precisa ulteriormente in concomitanza con l’affermarsi delle teorie liberali nel campo politico ed economico (G. Zanarone, Il requisito della meritevolezza nel concordato preventivo delle società, Milano, 1974, p. 77). Il fallimento finiva così con l’apparire come la naturale e necessaria conseguenza della selezione operata dal mercato ed implicava l’espulsione dal sistema del commerciante che, essendo caduto in stato di insolvenza, si era per ciò stesso rivelato inidoneo ad esercitare proficuamente l’attività economica ed a concorrere per questo verso alla realizzazione del benessere della collettività. Nella medesima prospettiva si pone la legge fallimentare, che accentua anzi la tutela pubblicistica dei creditori (restringendo al contempo i margini della loro diretta influenza sulla procedura) e considera, oltre agli interessi dei creditori coinvolti nel dissesto (che hanno un rilievo preminente), anche quelli dell’economia creditizia o se si preferisce dell’intera classe dei creditori (così A. Maisano, La tutela concorsuale dei creditori tra liquidazione e riassetto delle imprese in crisi, Milano, 1989, p. 26; sul tema cfr. anche G. Buongiorno, L’ingiusto processo di fallimento, in L’impresa in crisi tra liquidazione e conservazione, Roma 2002, p. 51 s.).(7) All’inizio del secolo, in questa visione darwiniana del diritto delle imprese in crisi, Luigi Einaudi scriveva che la soluzione più giusta per risolvere le crisi industriali «è di far, anzi di lasciar fallire coloro che meno sono in grado di vivere», ossia liberare la ricchezza immobilizzata in un’impresa che non produce avviandola sul mercato verso imprese in grado di produrre meglio, «evitando di mantenere in vita i deboli con scarso vantaggio e con molto danno dei forti e dei prudenti i quali possono sperare un ritorno a condizioni normali solo quando il terreno sarà liberato dalla vegetazione parassitaria che l’intristisce» (L. Einaudi, Intorno al credito industriale - Appunti, in Riv. Soc. Comm., 1911, p.119-120; il noto precetto è richiamato tra gli altri da: F. Caffè, Diritto ed economia: un difficile incontro, in Giur. comm., 1982, I, p. 6; V. Greco, Il fallimento da esecuzione collettiva cit, p.2; G. Bavetta, Il diritto dell’impresa in crisi, in Dir. fall., I, 1988, p. 355; A. Jorio, Le procedure concorsuali tra tutela del credito e salvaguardia dei complessi produttivi, in Giur. comm., 1994, I, p. 493, n. 2). La concezione neoclassica dell’impresa, vista come elemento del mercato e che non lascia alcuno spazio ad una sua valenza come organizzazione o come istituzione sociale e politica, si adatta benissimo ad una visione del fallimento inteso come conseguenza di una errata valutazione del mercato da parte dell’imprenditore e quindi come sanzione economica della sua cattiva o sbagliata gestione.(8) Nell’economia moderna l’insolvenza non è necessariamente il prodotto di una condotta dolosa od irresponsabile dell’imprenditore, o di una cattiva organizzazione aziendale, o, ancora, di errate speculazioni, ma può anche dipendere da eventi del tutto imprevedibili, talvolta derivanti da cause connesse all’andamento dei sistemi macroeconomici e a crisi economiche congiunturali o cicliche.(9) G.C. Rivolta, Gli atti di impresa, in Riv. dir. civ., 1994, p. 107 s., tende a scindere gli atti di impresa dalla titolarità dell’azienda, così come dall’esercizio dell’impresa, dalla sua direzione, dal governo, dal controllo, dalla sovranità, dall’assunzione del rischio, dalla spendita del nome: l’imputazione dell’attività imprenditoriale non è altro che il riflesso e la conseguenza dell’imputazione degli atti di impresa.(10) F. Corsi, Impresa e mercato in una nuova legge fallimentare, in Giur. comm., 1995, I, p. 332, proponeva una riforma della legge fallimentare rivolta all’impresa: «si dovrebbe scindere il binomio imprenditore-debitore, e, da un lato sancire che l’apertura della procedura concorsuale consegue all’accertata evenienza di una crisi dell’impresa, mentre dall’altro lato, andrebbe poi disciplinata la responsabilità di impresa imputandola secondo i criteri di politica legislativa non condizionati dalla necessità di identificare il responsabile nel soggetto (in tal caso necessariamente unico) imprenditore-debitore. Perciò, da un lato si avrebbe la procedura concorsuale, che si aprirebbe nei confronti dell’impresa; dall’altro si avrebbe la procedura (non sempre necessaria) che si aprirebbe nei confronti di uno o più soggetti ai quali per legge fosse addebitata la responsabilità d’impresa (come, ad esempio, al titolare persona fisica) o ai quali comunque fosse imputabile (per negligenza o per dolo nel loro comportamento) il danno rappresentato dal dissesto». D’altra parte già il datato progetto di riforma della legge fallimentare elaborato da Renzo Provinciali, Francesco Ferrara e Luigi Bianchi d’Espinosa (in Dir. fall., 1971, I, p. 148 s.) evidenziava che il baricentro del fallimento andava spostato dall’imprenditore all’impresa secondo un modello di ispirazione tipicamente francese.(11) Questa visione dell’impresa è comunque diversa da quella c.d. istituzionalistica, secondo cui essa sarebbe un soggetto distinto dalla persona dell’imprenditore e dotata di autonoma rilevanza per il diritto, pur, secondo alcuni, rimanendo oggetto di diritti (al riguardo si veda: F. Santoro Passarelli, L’impresa nel sistema del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1942, I, p. 376 s.; ID., Soggettività dell’impresa, in Impresa e Società. Scritti in memoria di A. Graziani, V, Napoli, p. 1772 s.; A. Asquini, Profili dell’impresa, in Riv. dir. comm., 1943, I, p. 1 s.; V. Spagnolo Vigorita, Gli usi aziendali, Napoli, 1961 p. 41 s.; V. Panuccio, Teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1974, p. 63 s.; G. Santini, Le teorie sull’impresa, in Riv. dir. civ., 1970, I, p. 429 s.; G. Oppo, Realtà giuridica globale dell’impresa nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. civ., 1976, I, p. 599). A metà degli anni ’80 fu elaborato un progetto di «Statuto dell’impresa» in cui venivano enunciati i principi che avrebbero dovuto presiedere alla disciplina della temporanea difficoltà e dell’insolvenza. Per lo Statuto, le procedure liquidatorie dovevano essere regolate in modo da preservare in tutto o in parte l’integrità del complesso aziendale ove ne fossero sussistite le condizioni (al riguardo M. Sandulli, La crisi economica dell’impresa, in Giur. comm., 1986, I, p. 973 s.).(12) Come noto la concezione tradizionale dell’impresa ovvero del modello input-output che descrive azionisti, dipendenti e fornitori quali soggetti che forniscono gli input alla scatola nera che li trasformerà in output per i clienti, è stata da tempo superata da una più complessa configurazione che tiene conto degli altri soggetti che hanno interesse alle vicende dell’impresa: gli stakeholder, primari ossia coloro che hanno una formale relazione contrattuale con l’impresa (fornitori, i lavoratori, i clienti e più in generale i titolari di ragioni di credito) e quelli secondari, ossia tutti gli altri soggetti e/o gruppi che influenzano o sono influenzati in modo indiretto dell’impresa (lo stato, la comunità, i sindacati, i creditori involontari, etc.). Quelli primari in particolare sono soggetti chiave del processo di gestione strategica dell’impresa e quindi occorre valutarne diritti, ragioni, esigenze, aspettative ed interessi nell’orientare il corso e le vicende dell’attività, a cominciare appunto dai mutamenti organizzativi del patrimonio sociale. Il termine stakeholder venne utilizzato per la prima volta nel 1963 in un memorandum interno allo Stanford Research Institute (SRI) per indicare quei gruppi senza il cui appoggio l’organizzazione cesserebbe di esistere. Intorno a questo ceppo si è sviluppata una vera e propria stakeholder theory su quattro diversi filoni: la pianificazione strategica, la teoria dei sistemi, l’approccio della responsabilità sociale e la teoria organizzativa (cfr. sul tema R.E. Freeman, Strategic Management. A Stakeholders Approach, Londra, 1984). In quest’ottica, gli stakeholder rappresentano l’estensione del raggio di responsabilità del management, tradizionalmente limitata alla sfera degli stockholder (Shleifer A., Vishny, Large Shareholders and Corporate control, in Journal of political economy, 1986, p. 461 s.). La relativa tutela specie nei mutamenti dell’assetto patrimoniale è fattore quindi assai rilevante.(15) La Commissione Trevisanato, istituita nell’ambito del Ministero di Grazia e Giustizia con il D.I., 28 novembre 2001, ha approvato “a maggioranza” il progetto di legge delega, dopo diciotto mesi dalla sua istituzione e dopo ben cinque decreti che hanno disposto integrazioni e proroghe (in www.filodiritto.com). Le dichiarazioni del suo stesso presidente riflettono una commissione sostanzialmente divisa, che non è riuscita a elaborare un testo condiviso da tutti i suoi componenti. Sulle parti controverse è stato sottoposto al ministro un articolato bifronte, con un testo di maggioranza ed un testo di minoranza. Di quest’ultimo, di impostazione più liberista ed orientata al mercato, sono autori (anche) i rappresentanti di Banca d’Italia, ABI, Confindustria che avevano peraltro condiviso i progetti di riforma presentati nella passata legislatura, quello governativo (Ddl 7458) e l’altro del gruppo parlamentare Ds (Ddl 7497).(18) Da sempre «terreno di scontro nelle aule dei tribunali, la revocatoria lo è stato anche all’interno della commissione. Da un lato, la maggioranza, che vi vede il rimedio contro gli abusi dei creditori più informati, banche in primis, e il mezzo per coinvolgere queste ultime nella soluzione della crisi e nel pagamento del suo costo. Dall’altro, la minoranza, che vede nella revocatoria un istituto importante a presidio della par condicio creditorum, che tuttavia deve essere ricondotto a un ruolo servente, liberandolo dalle ipertrofie che lo hanno caratterizzato gli ultimi anni» (L. Stanghellini, Il tempo delle scelte, in www.lavoce.info, 2003).(19) La prassi dei rinvii, si è osservato, sovente accontenta tutti i soggetti del procedimento, posto che i creditori a volte li chiedono o non si oppongono alla loro concessione. Cfr. al riguardo in particolare M. Ferro, L’istruttoria prefallimentare, Torino, 2001, p.255 s.; e Prassi fallimentare dei tribunali italiani, in Fallimento 2003, p. 711 s. e p. 1038 s.(25) A. Jorio, op. cit., 2003, p. 551, evidenzia che l’intervento dello Stato nelle crisi d’impresa ha rappresentato una costante nello sviluppo della nostra economia e si è tradotto in regole che riconducono sotto il controllo di istituzioni centrali la gestione di qualsiasi crisi nel settore degli intermediari finanziari e delle crisi di qualche rilevanza nei settori industriali e commerciali.(26) Con riferimento al fallimento d’ufficio, si è correttamente osservato che l’interesse di ordine pubblico connesso alla dichiarazione di insolvenza ben può essere assicurato da un’iniziativa di parte rispettosa della dimensione relazionale del mercato e della funzione di garanzia piuttosto che di intervento, del giudice (F. Di Marzio, op. cit., p. 661; cfr. sul tema anche M. Ferro, La fallibilità d’ufficio e la terzietà del giudice nel controllo della crisi dell’impresa commerciale, in Fallimento, 2001, p. 1381; Id., Le problematiche relative all’istruttoria prefallimentare, in Dir. fall., 2002, I, p. 1370 s.).(28) Corte Costituzionale 15 luglio 2003 n. 240, in Fallimento, 2003, p. 104 s. con nota di G. Lo Cascio. Secondo la Suprema Corte il fallimento d’ufficio è compatibile con il valore del giusto processo, e il novellato art. 111, cost., non introduce alcuna sostanziale innovazione o accentuazione (ordinanze n. 75 e n. 168 del 2002). Per i giudici costituzionali la terzietà sarebbe compromessa ove fosse consentito al tribunale fallimentare di promuovere il procedimento sulla base di una “notitia decoctionis” comunque acquisita, ma non può dirsi compromesso ove la conoscenza di una situazione di fatto derivi da una fonte qualificata perché formalmente acquisita nel corso di un procedimento del quale il giudice sia investito. In tal caso se si tratta di un giudice collegiale la legittimazione rispetto alla notitia decoctionis non spetta al singolo componente ma solo al collegio.(30) In tal senso anche G. Minutoli, L’istruttoria prefallimentare nella prassi dei Tribunali e nelle prospettive di riforma, in Dir. Fall., 2001, p. 965, secondo cui va favorita una diagnosi precoce del dissesto, in modo da scongiurare il pericolo che l’intervento terapeutico arrivi quando le condizioni dell’ammalato sono ormai irrimediabilmente compromesse.(31) Le cause congiunturali della crisi si collocano all’esterno dell’impresa e risentono del crescente dinamismo e delle frequenti turbolenze dello spazio e del tempo economico fisico in cui le imprese si trovano ad interagire. I processi di mutamento ambientali maggiormente incidenti sulle condizioni di vita e di sviluppo sono rappresentate dalle variazioni qualitative, economiche e spaziali dei principali fattori produttivi (quali il lavoro, le materie prime, l’energia, il tasso di innovazione tecnologica), nonché dall’instabilità dei cambi monetari e dei tassi finanziari, in conseguenza della globalizzazione del mercato economico (A. Patti, Istruttoria prefallimentare e poteri di controllo sulla crisi dell’impresa, in Fallimento, 1998, p. 940, che richiama Candiotto, L’accertamento dello stato d’insolvenza dall’esame dei bilanci, relazione all’incontro studi C.S.M. 28-30 novembre 1996 sul tema I Bilanci delle imprese). Le cause strutturali, invece, prevalentemente interne alle imprese possono essere di ordine finanziario quantitativo (eccessivo ricorso al capitale di credito rispetto alle risorse patrimoniali interne) o qualitativo (ricorso a forme di finanziamento eccessivamente onerose), di ordine organizzativo, strutturale o manageriale; di ordine informativo, per l’impostazione incompleta e l’utilizzazione non sistematica delle informazioni per la tempestiva individuazione dello scadimento di competitività, di redditività, degli equilibri finanziari, per l’insufficienza dei processi di programmazione dei costi, di pianificazione dei flussi di cassa e di controllo della dinamica monetaria. Sull’argomento L. Guatri, Crisi e risanamento delle imprese, Milano, 1986, p. 11. s.; e V. Coda, Dinamica delle valutazioni e degli indirizzi della gestione nella fase preliminare delle procedure concorsuali, in Atti del convegno S.I.S.CO. su Gestione e alienazione dell’azienda nelle procedure concorsuali, Milano 1991, p. 5 s.(32) Il procedimento può essere attivato, come noto, a norma dell’art. 6 della legge fallimentare, su iniziativa del creditore, del pubblico ministero, del tribunale d’ufficio o dello stesso debitore. Nella maggior parte dei casi viene attivato dal creditore, il quale, tuttavia, considerata la natura sostanzialmente inquisitoria del procedimento che non è inter partes e l’officiosità dei poteri del tribunale fallimentare, non ha l’onere probatorio in senso stretto visto che i giudici possono acquisire altrove e d’ufficio, anche autonomamente elementi di prova.(34) Si è rilevato che la Polizia giudiziaria ed in particolare la Guardia di Finanza è assorbita nella prassi operativa dalle indagini penali, e quindi dedica pochissimo tempo alle richieste provenienti dall’ufficio fallimentare. Spesso perciò i giudici si accontentano di quanto, più o meno spontaneamente, viene prodotto dal debitore e dal ricorrente, salve eventuali integrazioni richieste, attraverso ordini di esibizione, ad uffici finanziari e previdenziali (sull’argomento M. Fabiani, L’istruttoria prefallimentare, in Fallimento, 1994, p. 498 s.).(35) È da ritenere, almeno in linea di principio, ammissibile per i giudici disporre una consulenza tecnica (sul modello di quella prevista per il concordato preventivo in funzione del giudizio prognostico che il Tribunale deve formulare sulla liquidabilità del patrimonio offerto) che può fornire elementi assai rilevanti in ordine alla verifica di attendibilità della documentazione contabile acquisita e alla sua eventuale riclassificazione (in particolare dei bilanci), al fine di poter disporre di un quadro reale (A. Patti, Istruttoria prefallimentare, cit., p. 941). Resta però il problema dell’armonizzazione delle sequenze procedimentali con i tempi del procedimento sommario e dell’individuazione del soggetto correttamente onerabile delle relative spese, che secondo qualcuno può essere il creditore laddove si ravvisi la possibilità di applicazione del principio della soccombenza anche al procedimento fallimentare, secondo un’ottica ricostruttiva di prevalenza in esso dell’interesse privato su quello pubblico (M. Fabiani, op. cit., p. 499; sul punto Trib. Genova 13 novembre 1992, in Fallimento, 1993, p. 873).(37) Si è osservato che mentre in passato il fallito era visto come un fugitivus e l’insolvenza trovava la sua sanzione normale nel bando perpetuo, per cui non poteva essere sentito un problema di collaborazione con gli organi della procedura, l’evoluzione del sistema, specie in alcuni casi, renderebbe possibile in via generale tale collaborazione e per certi aspetti la impone. La collaborazione con l’ufficio fallimentare può estrinsecarsi: a) nel dare informazioni su beni, fatti, atti, rapporti, inerenti o meno all’impresa e comunque coinvolti nel fallimento e sulla loro documentazione (o mancanza di documentazione contabile). A questa fase si ricollegano una serie di norme che contemplano l’audizione del fallito (artt. 23, comma 2, 35, comma 3, 41, comma 4, 87 comma 3, 95, 103, comma 4, l. fall.), l’accesso del curatore alla corrispondenza diretta al fallito (art. 48, l. fall.), l’obbligo del fallito di presentarsi personalmente ogni qualvolta sia chiamato (art. 49, l. fall.), l’intervento del fallito ad atti o fasi della procedura (artt. 87 e 96, l. fall.); b) nella prestazione d’opera personale come coadiutore del curatore (art. 32, comma 2, l. fall.) e quindi con carattere di stabilità, o a diverso titolo, nell’ambito dell’esercizio provvisorio dell’impresa oppure al di fuori di essa, e quindi nell’amministrazione di beni non aziendali o nella ricostruzione contabile delle operazioni pregresse, nella liquidazione dei beni, etc.; c) nel mettere a disposizione beni di cui il fallito, oltre che titolare, sia depositario e conoscitore esclusivo o privilegiato (ad es. invenzioni, modelli non brevettati, formule, segreti di fabbrica, elenchi clienti, Know-how, etc.); d) nel mettere a disposizione beni inerenti la persona o diritti della personalità aventi valore economico e disponibili. La collaborazione informativa è da ritenersi doverosa, mentre le altre lo sono quando diventano necessarie o utili per l’acquisizione alla massa o per il miglior utilizzo o realizzo di beni già colpiti dallo spossessamento fallimentare, altrimenti rimangono facoltative (così ad esempio, il fallito non è obbligato a collaborare fino al punto di permettere lo sfruttamento, allo scopo dell’incremento dell’attivo, di suoi diritti della personalità o creazioni intellettuali che non abbia già destinato all’impresa, ma non può opporsi alla continuazione, né ostacolarla, se la destinazione è già avvenuta). Quando la collaborazione è dovuta, il rifiuto della stessa andrà segnalato dal curatore nelle sue relazioni (art. 33, l. fall.), il giudice delegato né terrà conto, negativamente, agli effetti dell’assegnazione del sussidio alimentare (art. 47, l. fall.) e il tribunale agli effetti della concessione della riabilitazione (art. 143, n. 3, l. fall.) ove rileva la buona condotta del fallito. Quando poi la mancata collaborazione si traduce nella sottrazione di cespiti patrimoniali alla massa, essa può configurare la fattispecie delittuosa della bancarotta prefallimentare (art. 216, comma 2, l. fall.) e ciò in quanto anche un comportamento omissivo può dar luogo ad essa (così G.C. Rivolta, La collaborazione dell’imprenditore fallito con l’ufficio fallimentare, in Riv. dir. comm., 1999, p. 211 s.).(38) Per cognizione sommaria si intende quella parte della tutela cognitiva decisoria idonea a dar luogo al giudicato, diversa quindi dalla tutela sommaria cautelare, da quella esecutiva e da quella volontaria. La tutela sommaria contenziosa si differenzia da quella cognitiva ordinaria in quanto mira ad accordare tutela in via anticipata, urgente ed effettiva, mentre si differenzia da quella cautelare, esecutiva e volontaria in quanto tende a perseguire un risultato che possa essere dotato del massimo grado di stabilità (il giudicato) sia a seguito della mancata opposizione della parte che subisce il provvedimento, sia in esito alla definitività del procedimento cognitivo ordinario in cui quello sommario si sia trasformato (M. Fabiani, op. cit., p. 491). Il giudizio che conduce alla dichiarazione di fallimento si distingue da quello a cognizione piena per le modalità più essenziali e snelle, e da ciò non può derivare la preclusione di prove costituende, ma al massimo una compressione meramente temporale dell’istruttoria (Millozza, Procedimento cautelare, diritto di difesa e tutela giurisdizionale ordinaria, in Dir. fall., 1976, I, p. 109). D’altra parte questa impostazione è confermata dall’art. 669 sexies, cod. proc. civ, il quale prevede che il giudice designato alla trattazione possa assumere i mezzi istruttori ritenuti necessari, individuati dalla dottrina nei mezzi tipici previsti per il processo di cognizione (Consolo, Commento all’art. 74 legge 353/90, in Consolo-Luiso-Sassani, La riforma del processo civile, I, Milano, 1991, p. 467). Quindi non può essere escluso alcun mezzo di prova in un procedimento che a differenza di quello cautelare, seppur sommario, si conclude con un provvedimento idoneo a divenire definitivo.(40) M. Ferro, op. ult. cit., p. 271, in questa logica osserva che i due principi dell’officiosità (quanto all’iniziativa) e dell’inquisitorietà (quanto al regime delle prove) sono reciprocamente attivi nell’assicurare effettività ad un primario interesse pubblico: la tempestiva fotografia dei reali sintomi di crisi finanziaria dell’impresa commerciale, che deve tradursi al più presto nel suo accertamento con sentenza, essendo tuttora un valore il monitoraggio dello stato di salute negativo da convertirsi subito dopo in un’ablazione dei poteri direttivi dell’impresa stessa. Si è osservato che in linea di principio qualsiasi attività istruttoria, per quanto complessa sul piano tecnico, si può esaurire in pochi giorni anche a non tener conto degli ampi poteri del giudice (A. Bonsignori, Il Fallimento, in Tratt. Dir. Comm. Galgano, IX, Padova, 1986, p. 540).(41) Così A. Patti, Istruttoria prefallimentare, cit., p. 940. Nel procedimento prefallimentare, connotato da un carattere di sommario accertamento, l’istruttoria ha una struttura deformalizzata, intesa a contemperare in un bilanciato equilibrio, le due diverse esigenze da assicurare, da una parte, un’adeguata garanzia del diritto di difesa del debitore e, dall’altra, un celere accertamento dei presupposti per la sua dichiarazione di fallimento.(42) Anche l’art. 30, del D. Lgs. n. 270 del 1999, di riforma dell’Amministrazione straordinaria prevede che «il tribunale entro trenta giorni dal deposito della relazione, tenuto conto del parere e delle osservazioni depositati, nonché degli ulteriori accertamenti eventualmente disposti, dichiara con decreto motivato l’apertura della procedura di amministrazione straordinaria, se sussistono le condizioni indicate dall’art. 27. In caso contrario, dichiara con decreto motivato il fallimento».(43) È prassi far intervenire, oltre all’avvocato difensore del fallendo, altri consulenti (commercialisti, periti, etc.) che peraltro potrebbero interloquire come qualunque terzo ex art. 739, ultimo comma, cod. proc. civ, e che quindi non possono essere considerati veri e propri testimoni, non prestano il relativo impegno e non sono soggetti alle corrispondenti sanzioni (M. Guernelli, L’istruttoria prefallimentare. La dichiarazione di fallimento, in Dir. fall., 1999, I, p. 318).(44) M. Fabiani, L’istruttoria prefallimentare, in Fallimento, 1994, p. 498 s.; A. Patti, Istruttoria prefallimentare, cit., p. 941 (il quale rileva che spesso il giudice non esercita davvero i poteri di controllo, rimanendo sostanzialmente a rimorchio dell’iniziativa del creditore istante e dei suoi accordi con il debitore, solo in alcuni casi operando invece un sindacato effettivo sulla situazione di crisi dell’impresa. E ciò non sempre dipende da un suo trascurato atteggiamento professionale, quanto piuttosto da una selezione, nella quantità dei procedimenti da trattare e sulla base di alcuni indici di rilevanza).(45) Si pensi all’ispezione giudiziale sul modello di quella prevista all’art. 2409, cod. civ., anche nell’ambito dei poteri di cui all’art. 738, comma 3, cod. proc. civ. Si è osservato sul piano generale che, alla stregua di atti applicativi dei poteri inquisitori, sono sicuramente ammissibili l’ispezione di cose (ex art. 118, cod. proc. civ) e l’ordine di esibizione di documenti (ex art. 118 cod. proc. civ e 2711, comma 2, cod. civ); anche se resta discusso se tali mezzi di prova esigano il rispetto di tutte le norme sostanziali e processuali o se il principio della prova libera influenzi una sorta di deformalizzazione (M. Ferro, op. cit., p. 293). La Ctu, al contrario, implica necessariamente una sequenza procedimentale complessa, caratterizzata da una regolazione del contraddittorio che va dall’udienza di giuramento al possibile intervento con ctp, dalla facoltà di deposito di osservazioni scritte alla rappresentazione al giudice di questioni incidentali, tali da rendere difficilmente compatibile tale mezzo con l’urgenza della decisione e la sommarietà del rito. Non comporta questi problemi, il ricorso, previsto in generale all’art. 68 cod. proc. civ, ad un esperto ausiliario del giudice per chiarimenti e valutazioni tecniche senza peculiari formalismi.(47) Simile già era la struttura concepita nell’ormai datato Progetto di riforma della legge fallimentare dalla Commissione Pajardi. L’art. 6 prevedeva infatti l’unificazione della disciplina per l’apertura delle procedure concorsuali, articolate in due distinte fasi: la prima, davanti al giudice delegato per l’istruttoria, finalizzata all’accertamento dello stato d’insolvenza dell’impresa; la seconda, eventuale, mirata all’individuazione della procedura concorsuale più idonea in relazione allo stato di dissesto accertato (in Prospettive della riforma della legge fallimentare, Milano, 1989, p. 324).(48) È prevista una fase di location-gerance nell’ambito del piano di cessione dell’impresa preceduta eventualmente da un periodo di osservazione. La sentenza che apre il procedimento, nomina pure il giudice-commissario e due mandatari giudiziari con il compito uno di amministrare ed eventualmente liquidare il patrimonio del debitore e l’altro di rappresentare i creditori dopo averli censiti. Nel periodo di osservazione continua l’esercizio dell’impresa, che però il tribunale può interrompere disponendo la liquidazione giudiziaria. La locazione-gestione è il mezzo per il futuro acquirente di conoscere effettivamente le caratteristiche e le potenzialità dell’impresa. Ma comunque egli, soddisfatto o non, che sia, sarà tenuto ad acquisire l’azienda al termine del contratto e non oltre i due anni dallo stesso. Anche se l’art. 98 della legge 25 gennaio 1985, prevede che il Tribunale possa modificare il prezzo inizialmente convenuto per la cessione, se per cause non imputabili al locatore-gestore vi sia stata una obiettiva e verificata riduzione del valore dell’azienda. Sulla location-gérance si veda J. Paillusseau - J.J. Caussain - H. Lazarsky - P. Peyramaure, La cession d’entreprise, 3 ed. , Dalloz Paris,1993, p. 662 s.; Y. Guyon, Droit des Affaires. Entreprises en difficultés. Redressement judiciaire-Faillite, V ed., II, Paris, 1995, p. 355 s.; Y. Chaput, Droit du redressement et de la liquidation judiciaires des entreprises, II ed., Paris Universitaires de France, 1990, p. 201 s.; P. Didier, Droit Comercial. Tome 5. L’entreprise en difficulté. Paris Puf, 1995.(49) Nel 1994, dopo nove anni di applicazione della nuova procedura, si è avvertita l’esigenza di aggiustare parzialmente il tiro e modificare quegli aspetti che la rendevano troppo protesa verso la tutela delle sorti dell’impresa ed eccessivamente dimentica dei diritti dei creditori come contestato aspramente dalle Associazioni delle Banche e degli industriali che hanno preso l’iniziativa di avanzare una proposta di modifica del regime juridique des procédures collettives nota come rapport de la commission Field-Verny (al riguardo A. Lienard, De nouvelles propositions pour réformer la loi du 25 janvier 1985. Le rapport de la commission Field-Verny, in Rev. des procédures collettives, 1993, p. 1). In particolare, la legge n. 475 del 10 giugno 1994 ed il relativo decreto di attuazione n. 910 del 21 ottobre dello stesso anno (in Giur. comm., 1995, I, p. 825.) hanno sancito che la liquidazione giudiziale può essere disposta immediatamente, senza passare attraverso il preliminare periodo di osservazione, qualora il redressement judiciaire appaia subito impossibile oppure quando vi sia stata cessazione dell’attività prima dell’inizio della procedura. Di conseguenza, il redressement diviene l’eccezione ed il réglement judiciaire, ossia il fallimento, la regola. Sono state, poi, introdotte una serie di altre modifiche dirette ad una sostanziale moralizzazione della procedura: ad esempio per impedire che il debitore insolvente recuperi sotto mentite spoglie, e servendosi di prestanomi, il proprio patrimonio, si fa espresso divieto a parenti ed affini del debitore di rilevare l’azienda, direttamente o indirettamente. Sulle modifiche introdotte dalla legge del 1994: A. Jorio, La riforma delle leggi francesi sull’insolvenza: un modello da imitare?, in Giur. comm., I, 1995, p. 698 s.; ID., Per una riforma della legge fallimentare: soluzioni normative ed esperienze negli USA in Germania e in Francia, in Riv. dir. Imp., 1995, p. 437 s.; M.I. Candelario Macìas, El nuevo derecho francés en materia de Quiebras, in Dir. fall., 1997, I, p. 932 s.; M. Jeantin, Droit Comercial. Instruments de paiement et de crédit entreprises en difficulté, Paris Dalloz, 1995; F. Perochon, Entreprises en difficulté. Instruments de crédit et de paiement, Paris L.G.D.J., 1995; G. P. Rangoni, La prévention des difficultés des entreprises nella legge francese di riforma n. 475 del 10 giugno 1994, in Dir. fall., 1996, I, p. 269 s. Per uno sguardo all’evoluzione della legislazione francese dell’insolvenza a partire da quella precedente alla riforma del 1967 cfr. R. Houin, Permanence de l’enterprise à travers la faillite, in Aspects économiques de la faillite et du réglement judiciaire, Paris, 1970, p. 133 s., e per un commento alla legge del 1985: A. Jorio, La nuova legge francese sull’insolvenza: «ca ira, ca ira, ca ira, les creanciers on les pendra!», in Giur. comm., 1986, I, p. 625 s.; F. Derrida, P. Godé et J. P. Sortais, Redressement et liquidation judiciaires des entreprises, in Recueil Dalloz Sirey, Numero spécial série, 1986; J.C. Pierrel, La Sauvegarde des entreprises en droit francais, in Crisi dell’impresa e salvaguardia dell’azienda, a cura di G. Schiano di Pepe, Padova 1995, p. 219 s.; R. Marinoni, Il redressement judiciaire des enterprises nel diritto francese, Milano, 1989 ; da ultima M. J. Campana, L’impresa in crisi: l’esperienza del diritto francese, in Il Fallimento, 2003, p. 978 s.(50) Art. 2, comma 2, lett. dd) «prevedere l’articolazione della procedura in due fasi: la prima di osservazione della durata massima di novanta giorni, volta all’accertamento della reale consistenza dell’impresa e del patrimonio del debitore ed alla scelta della concreta soluzione da adottare; la seconda di attuazione di un programma di risanamento totale o parziale dell’impresa ovvero, in via alternativa, di liquidazione ed in ogni caso di soddisfacimento dei creditori; prevedere che nel caso di consecuzione dela procedura di crisi in procedura di insolvenza, la fase di osservazione sia facoltativa» (Ddl 7458).(51) Più attenta alla tutela dei creditori è la riforma varata dal legislatore tedesco, entrata in vigore nel 1999 (Insolvenzordnung) e che disciplina sia l’insolvenza dell’imprenditore che quella del consumatore. La fase prefallimentare è strutturata come un vero e proprio processo di parti. La procedura si apre con la dichiarazione dello stato di insolvenza e prosegue secondo uno schema liquidatorio; tuttavia in essa può inserirsi, in ogni momento, e quindi anche sin dall’inizio, la proposta di un piano alternativo c.d. piano dell’insolvenza, dal contenuto più vario (ristrutturazione dell’impresa, cessione totale o parziale dei beni, liquidazione pura e semplice), ma avente comunque lo scopo di offrire una soluzione più appetibile per i creditori rispetto a quella che presumibilmente deriverebbe dalla liquidazione fallimentare. Il piano può essere formulato dal debitore o da una parte degli stessi creditori, ovvero proposto dal curatore in via autonoma o su sollecitazione dei creditori. La presentazione del piano, se ritenuta dal giudice meritevole di essere sottoposta ai creditori, comporta la sospensione delle procedure di liquidazione del patrimonio e anche, ove ritenuto conveniente, la conservazione dell’imprenditore a capo dell’impresa. Nello spirito del legislatore tedesco il piano deve essere caratterizzato dalla più ampia elasticità di soluzioni ed essere in grado di recepire gli stessi contenuti che contraddistinguono gli accordi stragiudiziali. Esso prevede, sulla falsariga del sistema americano, la possibilità della divisione dei creditori in classi in relazione ai diversi interessi che le contraddistinguono e al diverso trattamento offerto. E quindi con la possibilità di operare distinzioni di trattamento anche nell’ambito della grande categoria dei creditori chirografari (al riguardo cfr. L. Guglielmucci, Il diritto concorsuale tedesco fra risanamento e liquidazione, in Il Fallimento, 2003, p. 993 s.; A. Jorio, op. cit, 2003, p. 554 s.; Id., Modelli europei e scelta tra sistemi a gestione giudiziaria o amministrativa, in Fallimento, 1998, p. 952). Le modifiche all’impianto tradizionale del sistema tedesco, introdotte dalla riforma, riflettono alcune caratteristiche tipiche del modello americano della Corporate Reorganization, chapter 11 dell’U.S. Bankruptcy code (L. Lanzalone, op. cit., p. 273). Sull’assetto dei Paesi U.E. in funzione delle prospettive di riforma cfr. I.C. Macias, Il diritto concorsuale in Europa, Padova, 2001 ed in particolare sul sistema inglese cfr. C. Ferri - F. Marelli, Le procedure diverse dalla liquidazione nell’Insolvency Act del Regno Unito: spunti in prospettiva di riforma della legge fallimentare, in Giur. Comm., I, 2003, p. 345 s.; sul progetto di riforma spagnolo I. Candelario Macìas, Aspetti storici ed evolutivi della normativa in tema di risanamento delle imprese in crisi, in Il Fallimento, 2003, p. 1000 s.(52) Nel sistema nordamericano la bankruptcy, disciplinata dalla legge federale, riguarda sia la procedura di liquidazione (Charter 7) sia la procedura di risanamento (Charter 11). Il Capitolo 11 prevede una procedura diretta alla protezione dell’impresa dall’aggressione dei creditori in presenza della crisi e nell’ambito della quale è consentito all’imprenditore , e in difetto di sua iniziativa ai creditori, di formulare un piano di composizione della crisi che passa normalmente attraverso un piano di ristrutturazione, comportante la dismissione di parti dell’impresa stessa, e la negoziazione dei debiti con i creditori mediante un trattamento differenziato per posizione giuridica ed interessi omogenei (A. Jorio, op. cit., 2003, p. 554; R. Di Massa, Il diritto concorsuale statunitense fra risanamento e liquidazione, in Fallimento, 2003, p. 954 s.).(53) Cfr. Cass. 9 giugno 1981, n. 3723, in Giust. civ., 1981, I, p. 2492, secondo la quale «Poiché l’azienda è un complesso di beni e di servizi, capitale, fisso e circolante, e lavoro unificati dalla unitaria destinazione produttiva, in funzione della quale sono organizzati e coordinati dall’imprenditore, essa cessa di esistere quando i vari elementi siano stati dispersi, assumendo i singoli beni destinazioni diverse». Al riguardo cfr. pure G. Ragusa Maggiore, La cessazione dell’impresa commerciale e il fallimento (art. 10 L.F.), in Riv. dir. civ., 1977, I, p. 172 s.(54) La Relazione ministeriale al Re, che accompagna il r.d. 16 marzo 1942 n. 267, dopo aver affermato che la legge fallimentare rappresenta l’intenzione del legislatore di non compiere solo una riunione formale di istituti tra loro connessi, ma dare un’impronta sostanzialmente unitaria alla disciplina della crisi economica dell’impresa in relazione ai superiori interessi dell’economia generale, al n. 3, evidenzia che «la nuova legge assume la tutela dei creditori come un altissimo interesse pubblico e pone in essere tutti i mezzi perché la realizzazione di questa tutela non venga intralciata da alcun interesse particolaristico, sia del debitore sia dei singoli creditori» (sul punto cfr. N. Longobardi, Crisi dell’impresa e intervento pubblico, Milano, 1985, p. 12 s.). In generale, le procedure disciplinate dalla legge fallimentare del 1942 tutelano in via diretta soltanto l’interesse dei creditori e dell’imprenditore, sì che l’interesse alla conservazione dell’impresa riceve una tutela soltanto riflessa e limitata, e cioè viene tutelato soltanto nei limiti in cui coincida o non contrasti con gli interessi tutelati in via diretta (così A. Maffei Alberti, La conservazione dell’attività di impresa nelle procedure concorsuali vigenti, in Liquidazione o conservazione dell’impresa nelle procedure concorsuali, Atti del Convegno S.I.S.C.O., 10-11 marzo 1995, Milano, 1996, p. 19).(55) Così V. Calandra Buonaura, op. cit., p. 161 s., il quale aggiunge che la valenza di questo criterio può risultare indebolita dalla presenza rilevante di creditori che non rivestono la qualità di imprenditori, per i quali il beneficio non si produce quanto meno in via diretta. Salvo che questi creditori non godano già di una specifica tutela in ragione della debolezza della loro posizione e/o della natura del loro credito (ad es. il privilegio dei crediti di lavoro previsto dall’art. 2751 bis, cod. civ), in una prospettiva de jure condendo di questa diversità di situazioni occorrerà tener conto mediante la suddivisione dei creditori in classi o categorie omogenee ai fini di una più idonea tutela dei loro interessi.(57) Un aspetto deteriore della procedura fallimentare nella sua evoluzione storica è stato proprio la sua lenta «ma graduale processualizzazione, prodromo logicamente inevitabile dell’assurdo odierno, che è costituito dall’affidare l’amministrazione e la liquidazione di una impresa a giudici e ad avvocati, anziché a managers» (A. Bonsignori, Introduzione cit., p. 14).(58) F. Fimmanò, Fallimento e circolazione dell’azienda socialmente rilevante, cit.. p. 89 s.; G. Bozza, La vendita dell’azienda nelle procedure concorsuali, Milano, 1988, p. 11; sul punto cfr. anche R. Cavallo Borgia, Continuazione dell’esercizio dell’impresa nell’amministrazione straordinaria e nelle procedure concorsuali: profili funzionali, in Giur. comm., 1982, I, p. 762; I. Andolina, Liquidazione dell’attivo ed esercizio provvisorio dell’impresa nel fallimento, in Dir. fall., 1978, I, p. 181; G.C. Rivolta, L’esercizio dell’impresa nel fallimento, Milano, 1969, p. 421.(60 Nel nostro ordinamento giuridico quindi, l’interesse del soggetto titolare di una prelazione normalmente cede innanzi all’interesse dei creditori agenti in executivis, ed allora è evidente che l’attribuzione ad opera del legislatore, del diritto di prelazione all’affittuario endoconcorsuale, in deroga a tale principio, deve fondarsi su una ragione tanto rilevante da meritare una peculiare tutela.(61) Già il vecchio progetto di riforma della legge fallimentare, elaborato su incarico del Ministero di Grazia e Giustizia dal Centro Interdisciplinare Studi di Lissone ed il successivo disegno di legge delega, portati a termine da due diverse Commissioni presiedute da Piero Pajardi nel 1983 e nel 1984, indicavano tra le linee guida la necessità di agevolare, nella liquidazione fallimentare, la conservazione dell’azienda, nell’interesse dei creditori e dei dipendenti e più ampiamente dell’interesse pubblico collegato alla salvezza delle unità produttive, tenuto anche conto (come si legge nella relazione al disegno di legge) della eventuale economicità dell’operazione, sostenuto dalle necessarie norme di deroga alle disposizioni che sanciscono il subentro dell’acquirente nei contratti di lavoro e la sua responsabilità solidale per i debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta (al riguardo cfr. Il progetto di riforma della legge fallimentare, Milano, 1985).(62) L’art. 1, comma 1, della l. 223 del 1991, sancisce che l’impresa che avanza la richiesta di trattamento di integrazione salariale deve essere soggetta alla disciplina dell’intervento straordinario di integrazione salariale, e cioè deve avere un organico superiore alle quindici unità calcolate nella media del semestre precedente la data di presentazione della richiesta di integrazione salariale. Il secondo comma, dell’art. 1, del d.l. 11 dicembre 1992, n. 478, ha esteso l’applicazione delle norme in materia di integrazione salariale straordinaria, di mobilità e di riduzione del personale anche alle imprese industriali che occupino da cinque a quindici dipendenti, costituite ed operanti nelle aree di declino industriale, individuate per l’Italia dall’Unione Europea con il regolamento Cee n. 2052 del 1988 (al riguardo si veda Genghini, Intervento straordinario di integrazione salariale e procedure concorsuali, in Mass. giur. lav., 1991, p. 716).(63) D’altra parte l’art. 47 era originariamente parte dello stesso disegno di legge poi sfociato nella l. 223 del 1991. Infatti il legislatore italiano, dichiarato inadempiente dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee (sentenza del 10 luglio 1986 sulla causa 235/84, in Foro it., IV, c. 12 s.) agli obblighi comunitari per non aver dato attuazione alla direttiva concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative «al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti», pensò di inserire la materia nel progetto di riforma del mercato del lavoro - poi sfociato nella 223/91 - che conteneva un titolo apposito dedicato alla «attuazione di direttive delle Comunità europee». Tuttavia la evidente difficoltà di arrivare in tempi brevi all’approvazione della riforma, spinse il legislatore a stralciare la parte relativa al trasferimento d’azienda e ad inserirla nella legge c. d comunitaria n. 428 del 1990 (F. Fimmanò, op. cit., p. 320). Il d.lgs n. 18 del 2 febbraio 2001 di attuazione della direttiva 98/50, nel riformulare l’art. 2112, cod. civ, ha stabilito all’art. 1 che ai fini e per gli effetti della norma «si intende per trasferimento di azienda qualsiasi operazione che comporti un mutamento nella titolarità di una attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato, ivi compreso l’usufrutto e l’affitto di azienda (cfr. sull’argomento P.P. Ferraro, Circolazione dell’azienda di impresa fallita e tutela dei lavoratori, in Riv. dir. imp., 2001, p. 427 s.).(64) In verità, la legge del 30 luglio 1998 n. 274 ed il d. lgs. n. 270 del 1999, estendono l’area delle imprese assoggettabili alla procedura comprendendo sostanzialmente anche quelle medio-grandi. Il legislatore ha modificato il parametro soggettivo, che prevede la riduzione del numero minimo di dipendenti da trecento a duecento unità (compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni), parametro da associarsi tuttavia necessariamente ad un indebitamento complessivo non inferiore ai due terzi dell’attivo lordo e dei ricavi provenienti dalle vendite e dalle prestazioni (art. 2).(65) Molte delle soluzioni del nuovo sistema sono infatti mutuate dalla vecchia legislazione in tema di amministrazione straordinaria, a partire dalla stessa possibilità di vendita unitaria dell’azienda. L’art. 3, del d.lgs. n. 835 del 1986, convertito nella legge n. 19 del 1987, esclude, in caso di cessione di azienda appartenente ad impresa soggetta ad amministrazione straordinaria, l’applicazione degli artt. 2112 e 2560, comma 2, cod. civ, per il personale non contestualmente trasferito. E soluzioni analoghe la legge n. 223 del 1991 adotta anche rispetto a quelle contemplate dalla legge 22 aprile 1985 n. 143 per le imprese soggette ad amministrazione straordinaria, che in caso di cessazione dell’esercizio dell’attività prevedeva il trattamento di integrazione salariale straordinaria per dodici mesi, al fine di consentire il graduale assorbimento di lavoratori da parte delle imprese cessionarie che ex art. 2, legge 212 del 1984, avevano l’obbligo di assumere i lavoratori nei limiti imposti dall’autorità di vigilanza.(66) Lo spartiacque meramente quantitativo creato convenzionalmente tra piccole imprese e imprese medio-grandi è discusso e distutibile, sia per il criterio selettivo adoperato che per le sperequazioni che introduce, tuttavia è ipotizzabile che qualsiasi altro criterio non sarebbe stato immune da critiche, almeno in questo modo ci si è riferiti ad un parametro tradizionale. Né d’altra parte sarebbe stata ipotizzabile, considerati i caratteri ed i costi della procedura, un’applicazione generalizzata.(67) Intesa come tecnica di creazione di occasioni di lavoro aggiuntive, nella quale certamente non rientrano gli interventi legislativi del passato diretti a prevedere l’assunzione di lavoratori in cassa integrazione, o in mobilità, nelle pubbliche amministrazioni (l. n. 44 del 1985, l. n. 675 del 1977 etc.).