1. Prospettive di riforma
In un recente congresso di professionisti, dedicato alla riforma delle procedure concorsuali, è stato fatto il punto sullo stato dei lavori e sulle possibili prospettive di tale riforma, muovendo dalla proposta di legge delega, elaborata dalla Commissione Trevisanato (in un duplice versione: una di maggioranza ed una di minoranza della commissione) e rassegnata al Ministro della Giustizia nel giugno 2003.
In concomitanza con quel congresso, nel quale è emersa l’indifferibilità della riforma a causa delle disfunzioni dell’attuale legge fallimentare, è stata annunciata la costituzione di un gruppo di lavoro al fine di presentare rapidamente un disegno di legge per la riforma del diritto fallimentare, sulla base di «indicazioni precise» fornite dal Governo – come dichiarato dall’avv. Trevisanato, presidente del gruppo di lavoro – per «consentire di arrivare a soluzioni equilibrate».
Non è dato conoscere quali siano state quelle “indicazioni precise”, resta il fatto che il gruppo di lavoro ha concluso rapidamente i lavori, consegnando un testo che ricalca, salvo l’attenuazione di qualche soluzione normativa ed il maggior approfondimento delle disposizioni (sono previsti ben 232 lunghi articoli, oltre alle disposizioni transitorie), le linee del precedente progetto.
Nel frattempo, per la crisi delle grandi imprese una riforma parziale è stata fatta, con l’istituzione di una speciale procedura concorsuale per affrontare il crac del Gruppo Parmalat (decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito nella legge 18 febbraio 2004), procedura da ultimo rivisitata (decreto-legge 3 maggio 2004, n. 119, in corso di conversione). Sempre nel frattempo ed ugualmente con decretazione d’urgenza, è stata modificata la disciplina circa gli effetti del fallimento sui contratti di leasing in corso, innovazione presentata con l’esigenza di evitare il declassamento nel rating per operazioni di cartolarizzazione relative a contratti di quel genere (art. 7 del decreto-legge 24 dicembre 2003, n. 354, convertito nella legge 26 febbraio 2004, n. 45).
In definitiva, sembra che soltanto ragioni di estrema urgenza riescano a far legiferare in tema di procedure concorsuali. Ma serve davvero una qualunque riforma in materia ovvero la riforma è necessaria soltanto se porta un mutamento di rotta, rispetto alla disciplina vigente? È un dilemma presente in qualsiasi riforma, ma che nel caso di specie è particolarmente rilevante, poiché si va a regolamentare un fenomeno – la crisi di impresa – che, per i suoi effetti estensivi, può incidere negativamente sullo sviluppo generale dell’economia.
2. Le innovazioni proposte
Nella proposta del gruppo di lavoro ci sono molte innovazioni, rispetto alla disciplina attuale. Tra esse si segnalano le seguenti, che peraltro riprendono, per la massima parte, soluzioni già presenti nelle versioni della precedente commissione ministeriale:
– previsione di istituti volti a dare l’allerta ed a prevenire le crisi, disponendo obblighi di comunicazione circa gravi inadempimenti o situazioni di difficoltà delle imprese;
– sostituzione delle attuali procedure concorsuali con due nuove procedure, la composizione concordata della crisi e la liquidazione concorsuale;
– applicazione delle procedure concorsuali, sia pure con diverse modalità, a tutte le imprese, comprese quelle piccole, individuali e collettive;
– possibilità per il debitore di proporre, nella composizione concordata o nel corso della liquidazione concorsuale, un piano per il pagamento dei creditori, anche in modo differenziato per gruppi o classi di creditori;
– estensione della liquidazione concorsuale, oltre che ai soci illimitatamente responsabili delle società di persone, anche ai soci “tiranni” o illimitamente responsabili delle società di capitali;
– attribuzione al curatore nella liquidazione concorsuale di ampi poteri, esercitabili autonomamente o con il parere del comitato dei creditori;
– applicazione del processo societario (d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5) a tutte le controversie in materia concorsuale;
– soppressione dell’albo dei falliti e riduzione degli effetti personali a carico dell’imprenditore sottoposto alla liquidazione concorsuale;
– esclusione della revocatoria concorsuale per taluni pagamenti e previsione di una revocatoria “aggravata” per talune situazioni;
– esdebitazione del debitore, qualora la liquidazione concorsuale soddisfi i creditori in una percentuale minima e vi sia stato un comportamento collaborativo dello stesso debitore.
Quelle qui sinteticamente esposte non esauriscono l’ampia e minuziosa disciplina proposta dal gruppo di lavoro. Esse, tuttavia, rappresentano le soluzioni più innovative, alle quali sembra affidato il compito di superare le attuali disfunzioni della legge fallimentare, in particolare, sotto il profilo dell’efficienza.
3. Alle origini delle attuali disfunzioni
In Italia, attualmente, la stragrande maggioranza dei fallimenti si chiude, dopo una durata media quasi decennale, senza soddisfare per intero talvolta neppure i creditori privilegiati. D’altro canto, l’amministrazione controllata ed il concordato preventivo normalmente non evitano il fallimento, ma ne sono semplicemente l’anticamera, allungando semmai i tempi dell’intera procedura.
Inoltre, una percentuale elevata dell’attivo fallimentare viene impiegata in spese della procedura, senza contare le spese sostenute dai creditori per ottenere il riconoscimento del loro credito, sovente destinato a rimanere del tutto insoddisfatto.
Non si vede, tuttavia, come l’attribuzione di maggiori poteri al curatore o l’applicazione del rito societario alle controversie concorsuali ovvero altre innovazioni proposte dal gruppo di lavoro possano migliorare l’efficienza delle procedure. Al contrario, c’è il rischio che talune innovazioni (in particolare, l’ampliamento della platea di imprese assoggettabili alla liquidazione concorsuale, nonché il riconoscimento di una maggiore tutela delle parti nei procedimenti concorsuali) possano ingolfare i tribunali, rallentando lo svolgimento delle singole procedure. Così pure gli istituti di allerta possono far precipitare in insolvenza situazioni di mera difficoltà dell’impresa.
Peraltro, la strada ora seguita di far predisporre da un ristretto gruppo di lavoro una proposta, anziché di legge delega, di un disegno di legge, suscita di per sé perplessità. Infatti, per riforme di tale portata solitamente si ricorre ad una legge delega (così è avvenuto da ultimo per la riforma del diritto societario e, in precedenza, per l’intermediazione finanziaria, nonché per la disciplina bancaria e creditizia), per evitare che l’esame parlamentare delle singole disposizioni della riforma porti a risultati non sufficientemente coordinati, eventualmente sotto la pressione delle diverse categorie interessate.
Aver imboccato la strada del disegno di legge significa allora lasciare che il dibattito parlamentare finisca per investire gli aspetti minuti della regolamentazione, con una comprensibile difesa delle posizioni e degli interessi favoriti dall’attuale disciplina. In definitiva, sulle specifiche soluzioni della riforma sembrerebbe che il Governo abbia scelto di non scegliere, affidando al Parlamento il compito di comporre i vari interessi in gioco, ovvero di trovare un compromesso tra di essi.
In ogni caso, non basta ricercare l’efficienza delle procedure concorsuali (tempi più rapidi, maggiore soddisfazione dei creditori, ecc.), se non si comprende preliminarmente quale sia l’origine delle stesse disfunzioni. Al riguardo, l’attuale legge fallimentare sembra l’optimum in tema di efficienza: sono fissati termini brevissimi (ancorché non rispettati nella pratica) per le varie fasi della procedura; gli istituti concorsuali riguardano soltanto le imprese medio-grandi, con un procedimento semplificato per le imprese di medie dimensioni (invero, l’affievolimento dei requisiti di piccolo imprenditore e di imprenditore medio ha reso, con il passare del tempo, applicabile il fallimento a qualsiasi impresa, anche se di minime dimensioni); non opera la sospensione dei procedimenti durante il periodo feriale (invero, viene visto con sospetto il giudice delegato che fissi una udienza ad agosto); e così via.
L’inefficienza del sistema attuale delle procedure concorsuali non deriva tanto dalle modalità di regolamentazione dell’istituto fallimentare in sé, ma da una funzione che questo ha assunto da tempo nel nostro ordinamento e che le proposte di riforma intendono tutte tenere ferma.
Più precisamente, con la legge 10 luglio 1930, n. 995, seguita sul punto dalla legge fallimentare del 1942, è stato riservato al tribunale il potere di nominare il curatore fallimentare (fino a quel momento, invece, i creditori avevano il diritto di surrogare al curatore nominato dal tribunale un curatore di loro fiducia). Lo spostamento del potere di nomina, dai creditori all’autorità giudiziaria (o a quella amministrativa, nella liquidazione coatta amministrativa), rivela la subordinazione che il legislatore ha voluto disporre per gli interessi dei creditori e del debitore, rispetto agli interessi pubblici.
4. Nel segno della conservazione
Passando ai nostri giorni, il “decreto Parmalat” sopra ricordato appare in linea con l’impostazione di quella legge di tanti anni fa: per l’insolvenza delle grandissime imprese il Governo assume tutti i poteri per gestirne la crisi, riducendo ad una funzione notarile l’intervento dell’autorità giudiziaria; mentre quest’ultima mantiene i suoi poteri per la crisi delle imprese medio-piccole. Al riguardo non bisogna farsi ingannare dalla circostanza che, per un mero caso fortuito, il commissario straordinario del Gruppo Parmalat (Enrico Bondi) sia uno solo (solitamente, nelle amministrazioni straordinarie sono nominati tre commissari) e soprattutto un ottimo manager, il quale non è stato scelto, ma semplicemente riconfermato dal Ministro delle Attività Produttive per la gestione della crisi Parmalat (come è noto, Bondi era stato incaricato – prima dell’apertura della procedura concorsuale – di risanare il Gruppo, su designazione delle banche creditrici).
Nelle proposte di riforma della legge fallimentare muta il nome delle procedure concorsuali (invece di amministrazione controllata, si parla di composizione concordata della crisi; invece di fallimento, si parla di liquidazione concorsuale), ne è innovato lo svolgimento, forse semplificandolo; manca, però, l’impostazione necessaria per riallocare in modo tempestivo ed efficiente le risorse rimaste bloccate nella crisi di imprese, ossia le attività produttive ed i crediti dei creditori.
In quei lontani anni Trenta il nostro legislatore aveva costruito un sistema – probabilmente il migliore possibile e, comunque, necessario per quei tempi – di intervento dello Stato nell’economia, attraverso enti pubblici economici e partecipazioni statali in numerose società, sistema che, col mutare dell’economia e del quadro politico-sociale, ha dimostrato la sua inefficienza, cui si sta ponendo rimedio con le privatizzazioni non ancora del tutto completate.
Analogamente, l’ingerenza dello Stato nella crisi delle imprese, attraverso la Pubblica Amministrazione (nella liquidazione coatta amministrativa e nella amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi o in quella speciale della Parmalat) o l’Autorità giudiziaria (nel fallimento e nelle altre procedure) ha portato all’attuale situazione delle procedure concorsuali.
Sia ben chiaro, non è che il potere di nomina del curatore – da parte dei creditori invece che da parte dell’autorità giudiziaria o amministrativa – sia decisivo per decretare l’efficienza o l’inefficienza sostanziale delle procedure concorsuali, ma è un segno di chi governa la crisi dell’impresa: i soggetti interessati ovvero l’autorità pubblica. La indicazione del gruppo di studio (e così pure del decreto Parmalat) è in senso tradizionale, semmai con un rafforzamento dell’intervento pubblico.
5. La scelta del mercato
Le non-scelte (sulla regolamentazione particolare) e la scelta (sulla questione di fondo) in tema di riforma delle procedure concorsuali vanno respinte, non già perché si preferisca “politicamente” un orientamento, piuttosto che un altro, ma perché c’è un principio fondamentale da rispettare e che non lascia spazio a soluzioni differenti. Mi riferisco al «principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza», stabilito dal Trattato della Comunità Europea e che acquista un particolare valore proprio al momento della crisi delle imprese.
In questa prospettiva non è accettabile che la gestione dell’impresa in crisi, il suo risanamento o la sua dissoluzione possano rientrare nelle prerogative dell’Autorità giudiziaria ovvero, salvo specifiche e limitate attività (banche, assicurazioni ed attività analoghe), nelle prerogative della Pubblica Amministrazione, indipendentemente dalle dimensioni della stessa impresa.
Nei tempi di crisi – si potrebbe obiettare – non si può andare tanto per il sottile; quel che importa è che l’intervento sia efficace e sia indirizzato anche nella prospettiva degli interessi generali, che solo lo Stato ed i suoi organi possono curare. Vorrei invitare allora a riflettere sul fatto che l’intervento pubblico, in passato, ha dato qualche risultato positivo (e nemmeno sempre) solo quando lo Stato ha coperto i crac, addossando ai contribuenti le perdite di imprese decotte. Ciò ora non è più possibile; d’altronde, non si vede perché un professionista scelto da organi pubblici (amministrativi o giudiziari) per gestire la crisi di un’impresa abbia più probabilità di successo di quello nominato dai creditori o magari dallo stesso imprenditore.
Che il principio di concorrenza sia la stella polare per la riforma delle procedure concorsuali è solitamente trascurato, per la vecchia abitudine di invocare lo Stato quando qualcosa va male nei rapporti economici. Ciò spiega, anche se non giustifica, la richiesta, quasi popolare, di un intervento pubblico per i casi Cirio e Parmalat; bisogna, però, considerare che tale intervento può provocare guasti nell’economia, assai più pesanti delle disfunzioni cui si intende porre rimedio.
Sul punto sarebbe utile che si esprimano gli economisti.
6. Quale regolamentazione
Come giurista ritengo che, per le crisi di impresa una disciplina sia necessaria, non essendo possibile lasciare al mercato la regolamentazione del problema; ma deve essere una disciplina adeguata al fenomeno da regolare (l’impresa in crisi) ed all’ambiente in cui opera (il mercato concorrenziale).
Tenendo conto di queste due esigenze di adeguatezza, nonché del principio di sussidiarietà dell’intervento pubblico rispetto alla regolamentazione privata, indico sommariamente alcuni criteri che possono guidare la riforma della legge fallimentare e che costituiscono i corollari del sistema concorrenziale. In fin dei conti, la crisi delle imprese è una opportunità per il mercato, come una sorta di selezione o, se si preferisce, di legge fisica di trasformazione delle cose. Può sembrare brutale, ma le crisi delle imprese consentono al mercato di essere efficiente ed anche di realizzare la concorrenza nella gestione delle imprese.
È una opportunità, che può essere positiva o negativa; bisogna fare in modo – ed è questo il compito del legislatore – che la crisi diventi un fattore positivo per il mercato e per la collettività, Cò avviene, quando i valori dell’impresa in crisi non si perdono, ma proseguono nella stessa impresa o in altre.
A tal fine ritengo, innanzitutto, che la regolamentazione della crisi deve essere riservata alle imprese medie e grandi, con una disciplina più snella per quelle medie e con un’esenzione totale per le piccole imprese (per non parlare poi dell’imprendotore occulto, socio tiranno, o altri fenomeni, che solo negli anni Cinquanta del secolo scorso potevano apparire rilevanti); in ogni caso, tenendo distinto il destino dell’imprenditore e dei debiti dalla sorte dell’attivo dell’impresa.
7. Autonomia privata e rischio d’impresa
Inoltre, occorre attribuire alle parti interessate, ossia ai creditori ed allo stesso imprenditore, ampi poteri nella gestione della crisi (per l’iniziativa, lo svolgimento e le modalità di chiusura), riservando l’intervento dell’autorità giudiziaria alla constatazione delle fasi della procedura ed alla risoluzione di controversie, non altrimenti risolvibili, nonché privilegiando in qualsiasi momento le soluzioni stragiudiziali.
Un cenno merita, infine, il problema delle azioni revocatorie, presentato sovente come un contrasto tra ceti di creditori (le banche versus i fornitori o i dipendenti).
Anche su questo aspetto, al di là delle soluzioni concrete di contemperamento degli interessi in gioco, sembra inammissibile la revocatoria fallimentare (con le forti agevolazioni probatorie a favore della procedura concorsuale e con la possibilità di revocare anche atti non pregiudizievoli) quando l’impresa insolvente prosegua, in tutto o in parte la propria attività. Diversamente, l’attività di impresa sarebbe finanziata, anziché da coloro che liberamente decidano di erogare credito (valutandone l’opportunità), da espropriazioni compiute a carico di chi abbia avuto rapporti – anche senza trarne benefici ingiustificati – con l’impresa in crisi.
Una tale situazione è chiaramente in contrasto con il principio di concorrenza, perché consente ad imprese insolventi di operare nel mercato, sotto la gestione degli organi della procedura concorsuale, senza che vi sia il freno costituito dal rischio d’impresa e senza neppure il controllo esercitato indirettamente dai finanziatori (di capitale di rischio e di credito). Sotto questo profilo è censurabile il decreto Parmalat che, anche nella versione formulata con la legge di conversione, prevede l’esercizio delle azioni revocatorie fallimentari, purché funzionali, nell’interesse dei creditori, al raggiungimento degli obiettivi del programma di ristrutturazione, anche e soprattutto se l’impresa prosegue l’attività aziendale (nell’amministrazione straordinaria della Prodi-bis, invece, le revocatorie fallimentare non possono essere esercitate quando il programma preveda la ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa).
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