il diritto commerciale d’oggi
    III.12– dicembre 2004

GIURISPRUDENZA

 

CORTE DI CASSAZIONE, 28 agosto 2004, n. 17210 – Saggio Pres. – Gilardi Est. – Consob c. Gildemeister Italiana s.p.a.
   Le spese, sostenute da una società allo scopo di rimuovere un ostacolo alla realizzazione del programma di allargamento dell’attività sociale, non possano annoverarsi fra i costi di ampliamento e, quindi, non possono essere iscritte in bilancio con ammortamento in più anni.

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   Svolgimento del processo – Con atto di citazione notificato il 2 dicembre 1998 la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa-CONSOB conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Bergamo la Gildemeister Italiana s.p.a. per sentire dichiarare la nullità della delibera con la quale l’assemblea della società, in data 15 maggio 1998, aveva approvato il bilancio dell’esercizio al 31.12.1997. A fondamento della domanda l’attrice deduceva l’illegittimità dell’iscrizione, nell’attivo dello stato patrimoniale del bilancio, di “costi di ampliamento” per lire 11.908.000.000 e la correlativa imputazione, nel conto economico dell’esercizio, del solo costo di ammortamento, distribuito in 5 anni. Trattandosi di costi sostenuti dalla convenuta in forza di un accordo transattivo che prevedeva l’anticipata risoluzione del contratto di distribuzione intercorso con la società tedesca DMG-VGD MAHO GILDEMEISTER, ed essendo diretti ad evitare perdite future, piuttosto che a creare utilità pluriennali, essi avrebbero dovuto essere imputati per l’intero all’esercizio 1997 nel corso del quale era avvenuto il relativo esborso. La capitalizzazione del costo, con correlativa distribuzione della spesa nel conto economico dei cinque esercizi, era dunque avvenuta, secondo l’attrice, in violazione dell’art. 2426, primo comma n. 5 cod. civ. e si risolveva nell’indicazione di informazioni non corrette al mercato, con pregiudizio per le determinazioni degli investitori.
   Costituitosi il contraddittorio la convenuta, rilevando che le previsioni di maggior redditività sottostanti alla risoluzione dal contratto con la società distributrice estera avevano trovato positiva conferma nell’esercizio 1998, osservava che la capitalizzazione, quale costo di ampliamento, della spesa sostenuta per quell’operazione costituiva corretta applicazione della regola posta dall’art. 2426 cod. civ., essendo la spesa diretta a creare le condizioni di maggiore redditività dell’impresa negli esercizi futuri grazie all’eliminazione di una struttura di vendita che si era rivelata inadeguata e che doveva quindi essere sostituita con altra più efficiente. Né poteva in alcun modo parlarsi di violazione dei principi di verità e di chiarezza nella redazione del bilancio, dal momento che nella relazione dell’organo amministrativo che accompagnava il bilancio dell’esercizio al 31 dicembre 1997 erano esaurientemente spiegati i presupposti e le ragioni dell’operazione.
   Con sentenza del 29 giugno - 8 luglio 1999 il Tribunale di Bergamo rigettava la domanda della CONSOB; e la decisione veniva confermata dalla Corte d’appello di Brescia con sentenza dell’8 novembre - 18 dicembre 2000 contro la quale la CONSOB ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi.
Ha resistito la Gildemeister Italiana s.p.a. notificando controricorso.

   Motivi della decisione. – 1. Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto contraddittorietà e carenza di motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, 1° comma, n. 5, cod. proc. civ. in relazione all’art. 2426, 1° comma n. 5 cod. civ.) dal momento che, costituendo il costo sostenuto dalla Gildemeister per la risoluzione del contratto con DMG un onere straordinario inteso ad eliminare un contratto svantaggioso, in applicazione del principio di competenza esso avrebbe dovuto essere imputato interamente al conto economico del 1997; né tale costo poteva essere inserito tra quelli di impianto e di esercizio per i quali l’art. 2426 cod. civ. consente l’iscrizione nell’attivo e la possibilità di ammortamento entro un periodo non superiore a cinque anni. Il principio della correlazione tra costi e ricavi comporta infatti - come correttamente rilevato nella motivazione della sentenza impugnata - che debbano essere allocati tra le Immobilizzazioni i valori che trovano le corrispondenti utilità in esercizi successivi a quello in cui i costi si sono verificati, per costi pluriennali dovendosi intendere le spese sostenute in un determinato esercizio la cui influenza positiva non si esaurisca in quest’ultimo, ma si espanda verosimilmente ad una pluralità di esercizi successivi. Da tale corretta premessa, tuttavia, la Corte d’appello di Brescia avrebbe dovuto desumere la conseguenza che i costi sostenuti dalla Gildemaister Italiana per la risoluzione del contratto non sono ascrivibili a spesa di “ampliamento”, essendo serviti non a conseguire un’utilità suscettibile di ripercuotersi nei futuri esercizi, ma ad eliminare una diseconomia pregressa. Di qui, secondo la ricorrente, una palese contraddizione tra le premesse interpretative enunciate nella motivazione della sentenza e le conclusioni che ne sono stata tratte nel caso concreto, contraddizione ancor più evidente ove si consideri che la Corte d’appello di Brescia, dopo aver rilevato che l’anticipata risoluzione del contratto di esclusiva con la DMG era stato considerato dalla dirigenza della Gildemeister Italiana come il rimedio alla insoddisfacente espansione delle vendite, non si è avveduta che il costo di tale anticipata risoluzione serviva per ciò stesso ad evitare perdite future, non già a creare utilità pluriennali; e nell’affermare che l’anticipato scioglimento del contratto costituiva la premessa necessaria per la costituzione da parte della Gildemeister Italiana di una nuova rete commerciale ovvero per l’ampliamento quantitativo e qualitativo di quella esistente, non ha considerato che costo d’ampliamento avrebbe potuto essere (non quello relativo alla risoluzione del contratto, bensì) quanto speso dalla società per organizzare e creare la “nuova” rete. In definitiva la corte territoriale pervenendo ad una conclusione da ritenere erronea anche dal punto di vista della dottrina aziendalistica, ha trascurato di considerare che ai fini del prospettato ampliamento il costo della risoluzione di un cattivo affare era da considerare sicuramente prodromico, ma non tale da porsi in rapporto di causa ad effetto, altrimenti tutte le spese d’esercizio sarebbero capitalizzabili in quanto tutte indistintamente prodromiche di risultati positivi futuri.
   Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto falsa applicazione degli artt. 2423, 2423-bis, 1° comma n. 3, 2426, 1° comma, n. 5, cod. civ., in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod. proc. civ. Poiché, infatti, la richiamata norma dall’art. 2426 costituisce una deroga al principio secondo cui, dovendo il bilancio rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società, occorre tener conto (dei proventi e) degli oneri di competenza dell’esercizio, indipendentemente dalla data (dell’incasso o) del pagamento, l’utilità pluriennale cui fa riferimento l’art. 2426, primo comma n. 5 cod. civ. non può non coincidere con il concetto di utilità economica o di ricavo d’impresa. Tutte le operazioni buone sotto il profilo economico possono dimostrarsi utili anche per il futuro, ma non tutte possono essere considerate come produttive di ricavi anche per gli esercizi successivi. Se il costo sopportato per la risoluzione di un contratto si trasformasse, tramite la capitalizzazione di esso, in elemento costitutivo dell’attivo, l’utile dell’esercizio risulterebbe formato dalle spese patite per risolvere cattivi affari pregressi: ciò che costituirebbe non solo un falso, ma anche un assurdo. Allo stesso modo, se il costo sopportato per eliminare cattivi affari pregressi si trasformasse, tramite la sua capitalizzazione, in elemento dell’attivo, si toglierebbe spazio ad eventuali azioni di responsabilità dal momento che (anche) gli errori degli amministratori potrebbero essere qualificati, per assurdo, quali “premesse” per ricavi futuri.
   Con il terzo motivo la ricorrente ha dedotto falsa applicazione dell’art. 2426, 1° comma, n. 5, cod. civ., contraddittorietà e carenza di motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, 1° comma, n. 5, cod. proc. civ. in relazione all’art. 2426, 1° comma. n. 5. cod. civ.) per avere la Corte d’appello trascurato di considerare che il criterio seguito dalla Gildemeister Italiana per la capitalizzazione dell’importo di £ 11.098 milioni, illegittimamente spesato in bilancio in cinque anni, contrastava con il criterio seguito per l’imputazione dell’esborso di £ 2.800 milioni, pagato dalla società - nell’ambito dei complessi accordi del 1997 – per risolvere anticipatamente il contratto di agenzia con Gildemeister AG, esborso interamente e correttamente appostato in bilancio tra i ricavi del conto economico 1997.
   Con il quarto motivo, infine, la ricorrente ha dedotto falsa applicazione degli artt. 158 e 161 cod. proc. civ. in relazione all’art. 48 R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, come modificato dall’art. 88 della legge n. 353/1990, nonché omessa motivazione su una questione di rito per avere la Corte d’appello di Brescia qualificato come nullità relativa, e non assoluta, la circostanza che la sentenza di primo grado venne pronunciata dal Tribunale di Bergamo in composizione monocratica, anziché collegiale e, in relazione a ciò, per aver considerato tardiva l’eccezione al riguardo sollevata dall’attuale ricorrente nella comparsa conclusionale depositata nel giudizio di secondo grado. (omissis)

   2. Sono invece fondati il primo ed il secondo motivo di ricorso.
   Com’è noto, dalle norme relative ai principi ed ai criteri di redazione del bilancio si desume che quest’ultimo deve essere redatto con chiarezza e che deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria delle società ed il risultato economico dell’esercizio (art. 2423, secondo co. cod. civ.). Poiché la funzione essenziale del bilancio è quella di fornire alla pluralità dei destinatari cui è rivolto ed alla molteplicità dei potenziali operatori esterni un’informazione precisa ed oggettiva dei fatti di gestione della società relativi al periodo di esercizio, solo i concorrenti requisiti della veridicità e della correttezza e, insieme, della chiarezza espositiva sono ritenuti dal legislatore idonei a soddisfare le indicate finalità: che in tanto possono essere conseguite, in quanto il bilancio sia redatto secondo logiche puramente conoscitive e con funzione di oggettiva informazione, esulando da esso valutazioni e classificazioni non limitate ad una neutrale rappresentazione dei fatti gestionali verificatisi nell’esercizio, ma rivolte ad orientare i giudizi conformemente ai fini perseguiti dagli amministratori nella redazione del bilancio.
   Nell’ambito del generale principio delineato dall’art. 2423 cod. civ., l’art. 2423-bis, 1° comma, n. 3, dello stesso codice dispone poi che, nella redazione del bilancio, si deve tener conto dei proventi e degli oneri di competenza dell’esercizio, indipendentemente dalla data di incasso o di pagamento, con la conseguenza che i costi e i ricavi maturati nell’esercizio debbono essere in esso interamente contabilizzati. Al criterio di competenza economica, costituente il principale indice di riferimento per determinare il reddito dell’esercizio, si fa eccezione per quei costi che, essendo idonei a produrre utilità pluriennali, possono essere “spesati” in più esercizi e, comunque, entro un periodo non superiore ai cinque anni. Tra tali costi rientrano quelli di impianto e di ampliamento, da indicare nell’attivo dello stato patrimoniale sotto la voce “immobilizzazioni immateriali” (art. 2424, primo comma lett. B cod. civ.) e per i quali – al pari dei costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità aventi utilità pluriennale - l’art. 2426, primo comma n. 5 cod. civ. prevede la possibilità di iscrizione nell’attivo con il consenso del collegio sindacale e l’ammortizzazione entro un periodo non superiore, per l’appunto, a cinque anni. Ciò, a ben vedere, solo apparentemente costituisce una deroga al principio di competenza, posto che - ove determinate operazioni fossero destinate a produrre utili non solo nell’esercizio in cui è stato sopportato il relativo costo, ma anche in esercizi futuri - l’iscrizione dell’intero costo in un unico esercizio a fronte dell’iscrizione degli utili ripartita in più anni non sarebbe idonea ad assicurare un corretto equilibrio economico ed una rappresentazione adeguata della realtà. A fronte di utili che continuano a prodursi negli anni per effetto dell’operazione, il costo verrebbe infatti a gravare interamente - penalizzandolo - su un unico esercizio.
   L’utilità pluriennale, costituente il presupposto per la capitalizzazione della spesa e per la sua iscrizione nell’attivo dello stato patrimoniale, con correlativa imputazione al conto economico del solo costo di ammortamento ripartito in più annualità, non si identifica, tuttavia, con il mero vantaggio derivante da un’operazione positiva, da un buon investimento o da un risparmio di spesa, ma deve configurasi quale ricavo d’impresa che si pone in immediata correlazione con il costo e ad esso appare direttamente riferibile. Poiché il bilancio costituisce la rappresentazione della situazione patrimoniale dalla società, redatto a chiusura di ogni esercizio per rilevarne utili e perdite, la utilità cui allude l’art. 2426, 1° comma, n. 5, cod. civ. altro non può essere - come rileva esattamente la ricorrente nella proprie difese - che il ricavo d’impresa direttamente collegato al costo sostenuto in un determinato esercizio e tale da manifestarsi - in termini di utilità economica generata appunto dal costo - anche in esercizi successivi. Non si discostano da tali principi le immobilizzazioni immateriali le quali - come messo puntualmente in luce nella sentenza impugnata - nel sistema del codice fanno riferimento o ai valori di creazioni intellettuali (quali i diritti di brevetto industriale ed i diritti di utilizzazione della opere dell’ingegno, i marchi, le licenze e simili), costituenti veri a propri beni suscettibili di scambio e come tali idonei a formare oggetto di rapporti giuridici, ovvero a costi pluriennali che, non avendo come risultato l’acquisto da parte della società di beni immateriali singolarmente valutabili (quali, appunto, i brevetti, i marchi etc.) sono nondimeno idonei a produrre effetti positivi anche negli esercizi successivi a quello in cui la società li ha sostenuti. È poi nozione comune che, mentre tra i costi di “impianto” rientrano quelli relativi alla costituzione della società e dell’azienda, tra i costi di “ampliamento” – da non confondersi con quelli affrontati per l’ampliamento, l’ammodernamento ed il miglioramento di una singola immobilizzazione, che vanno capitalizzati ad incremento del valore di questa ove si traducano in un aumento significativo e tangibile di capacità o di produttività o si sicurezza o di vita utile - rientrano quelli sostenuti durante la vita della società per incrementare o diversificare la generale capacità produttiva e di mercato dell’impresa. Né ignora il collegio che, secondo la dottrina aziendalistica, la nozione di costi d’ampliamento accoglie, più comprensivamente, tutti i costi sostenuti per l’estensione della società e dell’azienda in direzioni e in attività precedentemente non perseguite oppure per un ampliamento di tipo straordinario costituente vero e proprio allargamento dell’attività sociale.
   Tali condizioni, tuttavia, non si ravvisano sussistenti con riguardo agli esborsi effettuati dalla resistente per la risoluzione anticipata del contratto di commercializzazione esclusiva che la legava alla DGM. La circostanza che tale contratto costituisse per la Gildemeister Italiana un ostacolo alla realizzazione di una struttura di vendita che, una volta estesa ai principali mercati europei a mondiali, le avrebbe consentito di presentarsi alla clientela con le caratteristiche più idonee per trattare le speciali macchine da essa prodotte; la prospettiva, a ciò connessa, di una gestione dell’impresa più vantaggiosa e remunerativa, ed il fatto che tali positivi effetti si siano poi concretamente manifestati già a partire dall’esercizio successivo a quello in cui è stato contabilizzato il costo pagato per la risoluzione del contratto, non valgono di per sé a giustificare l’assunzione del correlativo esborso nella categoria dei costi di ampliamento di cui agli artt. 2424 e 2426 cod. civ. È la stessa Corte d’appello a sottolineare, nella sentenza impugnata, che l’anticipato scioglimento del contratto costituiva «la premessa necessaria per la costituzione da parte della Gital di una nuova rete commerciale ovvero dell’ampliamento qualitativo e quantitativo di quella esistente»: la premessa cioè per poter sostenere successivamente - anche se in rapporto di stretta consecuzione temporale - i costi dai quali soltanto sarebbe derivata l’utilità pluriennale cui fanno riferimento le ricordate norme del codice in tema di immobilizzazioni immateriali. Il fatto, cioè, che il prezzo pagato per la risoluzione valesse a rimuovere un ostacolo alla realizzazione del programma di ampliamento, non è sufficiente a ricondurre quel prezzo nel novero dei costi di ampliamento che solo dopo la società avrebbe dovuto affrontare non potendosi logicamente sostenere - è lo stesso giudice d’appello a rilevarlo - che, una volta venuta meno la rete della DGM, «la società avrebbe potuto affrontare il mercato mondiale forte solamente della propria preesistente struttura di vendita, composta di cinque soli addetti»: con la conseguenza che l’ampliamento, quale inteso dalle menzionate norme del codice civile, sarebbe conseguito (non dalla risoluzione del contratto e dagli esborsi sostenuti in dipendenza di tale risoluzione, ma) da quelli affrontati per organizzare e creare una nuova struttura di vendita, di cui è cenno nella stessa sentenza della Corte d’appello laddove si osserva che l’attività di ristrutturazione - di cui sarebbe parte anche la risoluzione anticipata del contratto con la DGM - «cominciò a prender forma in quello stesso anno 1997 attraverso la creazione di una nuova società, la Gildemeister Italiana s.r.l. che, con sede in Francia, era destinata a svolgere attività commerciale e di assistenza tecnica dei prodotti Gital sul mercato francese».
   I costi della risoluzione del contratto hanno dunque costituito non solo la premessa per la realizzazione di una maggiore produttività e per l’espansione della rete aziendale da parte della Gildemeister Italiana, ma la condizione per la stessa effettuazione dei costi di ampliamento, da cui soltanto quegli esiti di maggior produttività sarebbero derivati.
   Ne consegue che il giudice d’appello ha erroneamente interpretato le norme del codice civile relative ai principi ed ai criteri di interpretazione del bilancio e, segnatamente, gli artt. 2423, 2423 bis, 1° comma, n. 3, e 2426, 1° comma, n. 5. Né vale osservare che le ragioni dalla capitalizzazione fossero state adeguatamente illustrate dagli amministratori nella relazione al bilancio, giacché tale circostanza non fa venir meno il contrasto del bilancio con i principi di chiarezza, veridicità e correttezza, a meno di non sovrapporre alla funzione di obiettiva rappresentazione della realtà cui il bilancio deve assolvere le previsioni ed i programmi di politica aziendale elaborati dall’organo amministrativo, trascurando tra l’altro di considerare che quei programmi e quelle previsioni non avrebbero potuto avere alcun esito positivo se ad essi non fosse seguita la realizzazione della nuova rete di vendita: se - cioè - non fossero stati sostenuti i costi che attuavano lo “ampliamento”. (Omissis)

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