il diritto commerciale d’oggi
    III.12 – dicembre 2004

STUDÎ & COMMENTI

 

ORSOLA MILANI

La nozione di “costi di impianto e di ampliamento”: profili problematici
(nota a Cass., 28 agosto 2004, n. 17210)

 

    La sentenza qui annotata (Cass., 28 agosto 2004, n. 17210) affronta la questione relativa all’ambito di operatività del criterio contabile, di cui all’art. 2426, 1° comma, n. 5) cod. civ., a tenore del quale i costi di impianto e di ampliamento, nonché quelli di ricerca, sviluppo e pubblicità, possono essere iscritti, ove presentino un’utilità pluriennale, nell’attivo dello stato patrimoniale del bilancio di esercizio, laddove fra i costi della produzione, di cui al conto economico, figureranno le sole spese di ammortamento, la ripartizione delle quali non potrà, in ogni caso, eccedere i cinque esercizi.
    La norma in parola integra, apparentemente, una deroga al principio di competenza sancito dall’art. 2423-bis, 1° comma, n. 3) cod. civ., secondo cui, in sede di redazione del bilancio, si deve tenere conto dei proventi ed oneri maturati nel corso dell’esercizio di riferimento, a prescindere dalla data dell’effettivo incasso o pagamento.
    Occorre tuttavia considerare come l’applicazione del parametro, costituito dalla competenza economica, debba risultare funzionale, in sede di predisposizione del bilancio di esercizio, all’attuazione del principio di ordine generale, delineato dal secondo comma dell’art. 2423 cod. civ., ai sensi del quale la redazione del bilancio deve essere improntata a chiarezza espositiva e finalizzata ad offrire alla pluralità dei destinatari della comunicazione sociale de qua una rappresentazione veritiera e corretta circa la situazione patrimoniale e finanziaria della società, nonché circa il risultato economico dell’esercizio di riferimento.
    Al fine di poter soddisfare i predetti requisiti, il bilancio dovrà, conseguentemente, essere redatto, limitandosi a rappresentare in modo neutro i fatti gestionali verificatisi nel corso dell’esercizio, e prescindendo da ogni ulteriore valutazione e classificazione.
    Ora, come esattamente rileva la Suprema Corte, nell’ipotesi in cui una determinata operazione si dovesse rivelare idonea a produrre utili non soltanto nel periodo in cui risultano maturati i relativi oneri, ma anche nel corso di esercizi successivi, se l’intera spesa figurasse nel conto economico di un unico esercizio, e le correlative utilità fossero ripartite anche nei periodi successivi, la rappresentazione dei fatti gestionali relativi all’esercizio in parola non risulterebbe veritiera e corretta. Su tale esercizio verrebbe, infatti, a gravare l’intero costo di un’operazione destinata a produrre utili anche in futuro, il che determinerebbe una situazione di forte squilibrio economico, non rispondente, in ultima analisi, alla realtà effettuale.
    Appare a questo punto evidente come il presupposto fondamentale, ai fini dell’iscrizione dei costi di cui al n. 5) dell’art. 2426, 1° comma, cod. civ., nell’attivo dello stato patrimoniale, sia costituito dalla possibilità di dimostrare la sussistenza di un nesso eziologico tra i costi de quibus e l’utilità futura, che l’impresa si attende dagli stessi.
    Occorre, tuttavia, sottolineare come non risulti agevole delineare con sufficiente chiarezza la nozione di “costi di impianto e di ampliamento”, specialmente in relazione a quella di “utilità pluriennale” (requisito che costituisce, come si è appena rilevato, il presupposto per l’iscrizione di tali poste nell’attivo della stato patrimoniale del bilancio di esercizio), posto che lo stesso legislatore non fornisce alcuna precisazione al riguardo, limitandosi ad indicare la voce “costi di impianto e di ampliamento” nell’art. 2424 cod. civ., norma che riproduce lo schema secondo il quale deve essere redatto lo stato patrimoniale.
    A tale proposito appare, comunque, decisiva la circostanza che gli oneri in discorso risultino caratterizzati, rispetto alle altre poste dell’attivo patrimoniale, da un più elevato grado di aleatorietà: al fine di evitare che i redattori del bilancio di esercizio siano indotti a qualificare alla stregua di costi di impianto e di ampliamento elementi di natura eterogenea, al solo scopo di ottenere un differimento di spese o perdite, sembrerebbe necessario interpretare la nozione in parola in senso restrittivo, escludendo dalla stessa quei costi, che non si pongano in rapporto immediato e diretto con le utilità future, che le relative operazioni sono destinate produrre (1) .
    Tale è la conclusione, alla quale sembra pervenire, in difformità rispetto all’orientamento precedentemente espresso dalla giurisprudenza di merito, la Corte di Cassazione: dalla pronunzia in esame emerge infatti una definizione di “utilità pluriennale” – costituente, come si è più volte sottolineato, il presupposto per la capitalizzazione dei costi di impianto e di ampliamento – in termini di ricavo di impresa, che risulti immediatamente e direttamente riferibile al costo relativo.
    Ora, il requisito in parola non può ritenersi sussistente, secondo la Suprema Corte, in relazione ai costi sostenuti dalla società resistente a fronte della anticipata risoluzione di un contratto di commercializzazione esclusiva, che costituiva un ostacolo alla realizzazione di un programma di ampliamento: l’anticipata estinzione del rapporto de quo integrava, infatti, nel caso di specie, un passaggio obbligato ai fini della costituzione di una nuova rete commerciale, laddove soltanto quest’ultima operazione avrebbe comportato dei costi, destinati a produrre l’utilità pluriennale, di cui al n. 5) dell’art. 2426, 1° comma, cod. civ.
    La Suprema Corte ritiene in altri termini che le spese, sostenute allo scopo di rimuovere un ostacolo alla realizzazione del programma di allargamento dell’attività sociale, non possano annoverarsi fra i costi di ampliamento, sebbene costituiscano una condizione necessaria per poterli affrontare in un secondo momento.
    Nell’ambito della stessa dottrina aziendalistica, alla quale la pronunzia in discorso fa riferimento, si sostiene, d’altra parte, che possono qualificarsi alla stregua di costi di ampliamento soltanto quelle spese, direttamente sostenute a fronte di un’espansione dell’impresa in direzioni ed attività in precedenza non perseguite, ovvero di un vero e proprio allargamento dell’attività sociale, esulando dalla nozione in parola i costi affrontati in relazione al semplice accrescimento quantitativo e qualitativo di tale attività, processo che rientra nella normale fisiologia dell’impresa.

NOTE

   (1) Cfr. FERRARA - CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano 1999, pagg. 689 e ss.

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