il diritto commerciale d’oggi
    III.12– dicembre 2004

GIURISPRUDENZA

 

CORTE DI CASSAZIONE, 24 agosto 2004, n. 16707 – Losavio Pres. – Rordorf Est. – Fiorini c. Scotti finanziaria s.p.a.
   Nelle società per azioni si verifica la responsabilità dell’amministratore, quando le modalità del suo agire denotano la mancata adozione di quelle cautele o la non osservanza di quei canoni di comportamento che il dovere di diligente gestione ragionevolmente impone, secondo il metro della normale professionalità, a chi è preposto ad un tal genere di impresa, ed il cui difetto diviene perciò apprezzabile in termini di inesatto adempimento delle obbligazioni su di lui gravanti.
   L’amministratore di una società per azioni, qualora compia un atto in contrasto con gli interessi di tale società ed a vantaggio di altra società facente parte del medesimo gruppo, non è esente da responsabilità, per la mera appartenenza della società ad un gruppo e, quindi, per la possibilità di “vantaggi compensativi”, spettando al medesimo amministratore l’onere di provare i benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta.

Vedi il commento di R. Gismondi »»»

   Svolgimento del processo. – Tra l’aprile ed il luglio del 1993 La Scotti finanziaria s.p.a. citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano i propri ex amministratori, sigg. Florio Fiorini, Tiziano Mantovani, Fabio Serena e Ratiber Philippe Bogislaw Peter Von Wussow. Li accusò di avere mal gestito la società, nel periodo compreso tra la fine del 1988 ed il 1991, e di aver sacrificato l’interesse della Scotti Finanziaria a beneficio sia della controllante Sasea Holding s.a., di cui il medesimo sig. Fiorini era stato amministratore, sia di ulteriori società del medesimo gruppo in cui anche gli altri convenuti avevano rivestito cariche. Chiese perciò la condanna di detti convenuti al risarcimento dei danni, che inizialmente quantificò in £. 756.540.000.000, per poi, subito prima della decisione collegiale, ridurre al minor importo di £. 1.000.000.000.
   La domanda fu rigettata in primo e secondo grado.
   La Corte d’appello di Milano – per la parte che qui ancora interessa – ha preliminarmente puntualizzato che quella esperita dalla società contro i propri ex amministratori era da qualificare come un’azione volta a far valere la responsabilità contrattuale dei medesimi amministratori, ai sensi dell’art. 2393 cod. civ., dovendosi escludere che l’originaria domanda implicasse anche l’accertamento di profili aquiliani di responsabilità e che un tale ampliamento potesse realizzarsi in grado d’appello.
   La corte ha poi osservato, in termini generali, che l’esito infausto della gestione dell’impresa non prova che gli amministratori siano venuti meno al dovere di operare con la diligenza del mandatario, essendo la loro un’obbligazione “di mezzi” e non “di risultato”; che l’appartenenza della società ad un più vasto raggruppamento d’impresa impone a chi riveste la carica di amministratore, sia della società controllante che della controllata, di tener conto dell’interesse del gruppo, al pari di quello di ciascuna singola società, ed impedisce di configurare una situazione di conflitto d’interessi quando l’apparente sacrificio imposto alla controllata, a beneficio di altra società del gruppo, si risolva in un vantaggio derivante dall’appartenenza al gruppo della controllata stessa; che la deduzione di un difetto di vigilanza, imputabile ai componenti del consiglio di amministrazione, postula la prova dello specifico comportamento cui, nell’occasione, il singolo amministratore avrebbe invece dovuto attenersi.
   La corte quindi, dopo aver passato in rassegna le singole operazioni in relazione alle quali era stato imputato agli amministratori di aver violato i doveri inerenti alla loro carica, ha escluso la possibilità di desumerne elementi obiettivi di responsabilità, non risultando provato che dette operazioni fossero preordinate al depauperamento della controllata Scotti Finanziaria, né che quest’ultima ne avesse sofferto danno, ed in quale eventuale misura, o che le conseguenze sfavorevoli delle medesime operazioni non fossero state compensate da benefici derivanti dall’appartenenza al gruppo.
   È stato anche rigettato il gravame proposto dal sig. Fiorini avverso la pronuncia con cui il primo giudice aveva liquidato, in favore dei convenuti, le spese processuali. A tal riguardo la corte d’appello ha osservato che correttamente le spesa erano state quantificate dal tribunale applicando lo scaglione di tariffa relativo alle controversie del valore di un miliardo di lire, giacché entro tale limite la società attrice aveva ridotto l’importo originario della propria pretesa, né sulla legittimità di siffatta riduzione alcuna censura era stata formulata dalle controparti.
   Avverso tale sentenza, resa pubblica in data 13 aprile 2001, il sig. Fiorini ha proposto un primo ricorso per cassazione (rubricato col n° 22702/01), notificato alla Scotti Finanziaria, la quale ha replicato con un controricorso, contenente altresì un ricorso incidentale articolato in quattro motivi (rubricato col n°26387/01), notificato anche al sigg. Von Wussow, Mantovani e Serena. Solo gli ultimi due hanno, a propria volta, depositato controricorsi, ed il sig. Serena ha formulato anche un ricorso incidentale (cui non è stato assegnato alcun numero di ruolo). Al ricorso incidentale della Scotti Finanziaria ha ulteriormente ribattuto il sig. Fiorini con un controricorso.
   Lo stesso sig. Fiorini ha poi notificato e depositato un secondo ricorso (n° 27045/01) contro la medesima sentenza, cui pure hanno fatto seguito un controricorso (con ricorso incidentale: n° 29877/01) della Scotti Finanziaria ed uno del sig. Serena. Quest’ultimo, infine, ha proposto ancora un autonomo ricorso (n°1166/02), sempre avverso la sentenza sopra indicata. Tutte le parti, ad eccezione del solo sig. Mantovani, hanno poi ulteriormente illustrato con memorie le proprie difese.
   Con ordinanza pronunciata nel corso dell’odierna udienza collegiale tutti i ricorsi sopra menzionati sono stati riuniti, a norma dell’art. 335 cod. proc. civ.
   Motivi della decisione. – (Omissis)
   3.2. Col secondo e terzo mezzo – tra loro strettamente connessi – la ricorrente Scotti Finanziaria denuncia la violazione degli artt. 2391, 2392, 2393 e 2043 e 2697 cod. civ.
   La censura investe il modo in cui la corte d’appello ha posto in relazione l’interesse della singola società controllata e quello complessivo del gruppo di società cui essa appartiene (o apparteneva). La ricorrente contesta che l’esistenza di un qualche interesse di gruppo possa far velo all’obbligo di diligenza che ciascun amministratore pur sempre ha nei confronti della società da lui medesimo amministrata. Anche poi ove si volesse ammettere che gli inconvenienti cagionati a tale società da singole operazioni pregiudizievoli possano trovare bilanciamento nei vantaggi derivanti dall’appartenenza di detta società al gruppo, cui invece quelle medesime operazioni arrechino un qualche beneficio, non potrebbe prescindersi - sostiene la ricorrente - dalla prova che gli ipotizzati vantaggi compensativi si siano davvero in concreto realizzati. Ma l’onere di fornire una tal prova, contrariamente a quanto ritenuto nell’impugnata sentenza, non potrebbe esser posto a carico della stessa società attrice, trattandosi di circostanza che solo il convenuto può addurre e dimostrare, al fine di paralizzare gli effetti di una domanda fondata su elementi altrimenti già di per sé idonei a generare l’obbligo risarcitorio.
   3.3. Pure siffatti rilievi, per come sono formulati e per l’insufficiente modo in cui sono posti in relazione con la materia del contendere, non riescono a configurare ammissibili motivi di ricorso per cassazione.
   Di alcuni aspetti, tra quelli ora posti in evidenza dalla società ricorrente, in quanto richiamati nel quarto motivo di ricorso, si dovrà tener conto esaminando poi quel successivo e più specifico motivo. Ma, nei termini generali dianzi richiamati, e quindi con riferimento all’insieme degli altri addebiti di mala gestio che la società ha mosso ai propri ex amministratori e che la corte territoriale ha giudicato non fondati, le riferite doglianze appaiono anch’esse prive di decisività. Per tutte le vicende specificamente esaminate, infatti, la corte d’appello ha richiamato si la cosiddetta teoria dei “vantaggi compensativi”, ossia la considerazione dei benefici che la Scotti Finanziaria avrebbe potuto ottenere dalla sua partecipazione al gruppo, ed ha effettivamente affermato che la stessa società attrice avrebbe avuto l’onere di dimostrare l’inesistenza di benefici siffatti, ma tale affermazione si è sempre accompagnata ad una serie di altri rilievi, tesi di volta in volta ad evidenziare il difetto di prova in ordine ad ulteriori indispensabili elementi costitutivi dell’invocata responsabilità (a seconda dei casi: insufficiente ricostruzione dei fatti addebitati ai convenuti in responsabilità, non imputabilità soggettiva di quei fatti all’uno o all’altro dei convenuti, loro mancanza di colpa, mancata o insufficiente prova delle conseguenze dannose del loro agire). La censura che investe unicamente il suddetto tema dei “vantaggi compensativi”, pertanto, potrebbe al più scalfire il fondamento di una delle molteplici rationes decidendi su cui, in ordine a ciascuna delle singole vicende esaminate, la pronuncia impugnata si è basata.
   Ma poiché – salvo per il singolo e specifico episodio di cui si dirà trattando del quarto motivo di ricorso le altre rationes decidendi, tutte autonomamente in grado di sorreggere quella pronuncia, non sono state anch’esse puntualmente censurate, è palese l’inammissibilità di una doglianza la cui ipotetica fondatezza lascerebbe comunque intatte le ulteriori basi sulle quali l’impugnata decisione riposa e non potrebbe perciò mai condurre all’annullamento di essa.
   3.4. Il quarto motivo del ricorso incidentale della Scotti Finanziaria, nel denunciare vizi di motivazione dell’impugnata sentenza e violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., si appunta in modo particolare su una delle vicende evocate in causa per farne discendere la responsabilità degli ex amministratori della società: la vicenda inerente alla partecipazione totalitaria nella Arvedi s.r.l., ceduta dalla Scotti Finanziaria che ne era originariamente titolare ad una terza società, la Genaf s.r.l., del tutto estranea al gruppo facente capo alla Sasea Holding.
   A tale vicenda la difesa della Scotti Finanziaria fa riferimento definendola un “caso emblematico” e sostenendo che la doglianza riguardo ad essa formulata potrebbe estendersi anche a tutti gli altri casi specificatamente esaminati dalla corte d’appello.
   Occorre allora preliminarmente osservare che il requisito di specificità dei motivi di ricorso impedisce, viceversa, di prendere in esame la prospettata doglianza oltre i limiti della singola vicenda cui essa puntualmente si riferisce; e, poiché l’addebito di responsabilità di cui ci si accinge a trattare è stato mosso dalla società unicamente nei riguardi del sig. Fiorini, ne discende che anche quanto in appresso si dirà sarà riferibile unicamente a costui, senza perciò toccare la posizione degli altri amministratori nei confronti dei quali la Scotti Finanziaria ha inizialmente promosso la presente causa.
   3.4.1. La questione in esame, come accennato, si ricollega alla cessione, per il prezzo di £. 200.000.000, da parte della Scotti Finanziaria alla Genaf s.r.l., dell’intera partecipazione di cui la prima era titolare nella Arvedi s.r.l. Ma alla Arvedi – in seguito fallita – la medesima Scotti Finanziaria aveva pochi mesi prima trasferito immobili per £. 65.000.000.000, non ricevendo il corrispettivo (o ricevendone solo una esigua parte) e così rimanendo creditrice della Arvedi per un rilevante importo senza alcuna specifica garanzia. Inoltre, la ricorrente assume che, successivamente, l’amministratore sig. Fiorini aveva rilasciato una falsa attestazione di avvenuto pagamento del suddetto corrispettivo, di cui invece era stata versata solo una rata di entità relativamente esigua, mentre il residuo credito era stato poi costituito in pegno a favore di un terzo creditore verso la Sasea Holding ed altre società del gruppo.
   La corte d’appello non ha ravvisato in questi fatti gli estremi di una qualche responsabilità dell’amministratore della Scotti Finanziaria. Ha infatti osservato: che la falsa attestazione di quietanza non avrebbe potuto avere di per sé effetti negativi, giacché il credito verso la Arvedi era stato dilazionato; che neppure la dilazione poteva di per sé rappresentare un danno, non essendo dimostrato che al momento di tale dilazione la debitrice Arvedi sarebbe stata invece in grado di saldare l’intero suo debito; che la costituzione in pegno del credito di cui si tratta era avvenuta in favore di un istituto bancario verso il quale le società del gruppo avevano esposizioni debitorie; che non era stato spiegato sulla base di quali elementi l’amministratore della Scotti Finanziaria avrebbe dovuto prefigurarsi il danno conseguente all’operazione da lui compiuta, di cui non era dimostrata la negativa incidenza sul patrimonio della medesima società, non essendo stato chiarito se il sacrificio immediato fosse o meno accompagnato dall’aspettativa di un beneficio futuro.
   Ma tale motivazione, a parere della società ricorrente, sarebbe insufficiente ed illogica, giacché si soffermerebbe su aspetti di dettaglio, mancando di cogliere invece il punto decisivo: consistente nell’esser stata in tal modo la Scotti Finanziaria privata di un ingente patrimonio immobiliare a fronte di un importo irrisorio, in assenza di garanzie e senza contropartite; una circostanza, questa, che di per sé sola basterebbe a denotare il grave difetto di diligenza ed oculatezza dell’amministratore sig. Fiorini, non certo bilanciato dall’astratta ipotesi di una non meglio individuata aspettativa di benefici futuri.
   3.5. La censura ora riferita, nei limiti che saranno appresso indicati, coglie nel segno.
3.5.1. Nel giudicare sul punto in esame la corte d’appello è partita da premesse giuridicamente corrette, che in linea di principio vanno quindi senz’altro ribadite, con le precisazioni che seguono.
   Non v’è dubbio che la responsabilità di amministratori di società presuppone immancabilmente la violazione di doveri giuridici – di azione o di omissione – posti a loro carico dalla legge o dall’atto costitutivo della società (art. 2392, comma 1, cod. civ.). Si suole talvolta affermare che gli amministratori hanno anzitutto un dovere di diligenza (duty of care) cui è strettamente connesso il dovere di operare nell’interesse esclusivo della società da essi amministrata (duty of loyalty). Che la diligenza costituisca propriamente l’oggetto dell’obbligazione gravante sugli amministratori, piuttosto che il metro per valutare il corretto adempimento dal loro obbligo gestorio, è stato in verità messo in dubbio, giacché anche il già citato primo comma dell’art. 2392 si riferisce (nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dal d. lgs. n. 6 del 2003) alla diligenza del mandatario come alla modalità con cui gli amministratori devono o adempiere i loro doveri. Ciò non toglie che il tema della diligenza resti centrale, proprio perché è evidente che l’obbligo di amministrare in via continuativa una società di capitali, ossia un’impresa creata a fini di lucro, difficilmente si presta ad esser totalmente inadempiuto, ma piuttosto è suscettibile di dar luogo a difformi valutazioni quanto al modo del suo adempimento: cioè, appunto, al grado di diligenza con cui l’amministratore vi ha atteso. Si comprende perciò come la diligenza, in presenza di obblighi aventi ad oggetto una prestazione solo genericamente definibile, finisca per assumere una funzione di specificazione dei comportamenti dovuti e quindi, in questo senso, per identificarsi con l’oggetto stesso dell’obbligazione.
   Quanto appena osservato – è bene sottolinearlo – non implica in alcun modo che gli amministratori possano esser chiamati in responsabilità sol perché la gestione dell’impresa sociale ha avuto un cattivo esito. La valutazione sull’eventuale responsabilità giuridica dell’amministratore, come opportunamente la corte d’appello ha puntualizzato, non attiene al merito delle scelte imprenditoriali da lui compiute. La sua responsabilità giuridica ben può discendere, però, dal rilievo che le modalità stesse del suo agire denotano la mancata adozione di quelle cautele o la non osservanza di quei canoni di comportamento che il dovere di diligente gestione ragionevolmente impone, secondo il metro della normale professionalità, a chi è preposto ad un tal genere di impresa, ed il cui difetto diviene perciò apprezzabile in termini di inesatto adempimento delle obbligazioni su di lui gravanti.
   Non può infatti prescindersi dall’ovvia considerazione che la diligenza è qui, come del resto quasi sempre, espressione del fondamentale dovere di correttezza e buona fede richiamato in termini generali dagli artt. 1175 e 1375 cod. civ. Nel caso degli amministratori di società, come in tutti i casi di gestione di interessi altrui, tale dovere assume ancor più che altrove i caratteri del dovere di protezione dell’altrui sfera giuridica: il dovere di prendersi cura dell’interesse di colui (individuo o ente) che ha incaricato il gestore dell’amministrazione delle proprie attività e, per ciò stesso, lo ha investito di un compito con indubbia connotazioni fiduciarie. Ma gli amministratori di società, pur essendo tenuti alla diligenza del mandatario (secondo l’espressione adoperata nel testo originario del citato art. 2392), non sono in senso proprio dei mandatari della società: sono, invece, titolari di un organo essenziale per l’esistenza stessa dell’ente ed, in quanto tali, impersonano nell’impresa collettiva la figura dell’imprenditore. La loro attività, traducendosi nella gestione di un’impresa commerciale cui è connaturato il carattere professionale dell’esercizio di un’attività economica organizzata (art. 2082 cod. civ.), assume dunque i colori della professionalità che naturalmente si riverberano anche sul parametro della diligenza (come del resto ora conferma anche il nuovo testo del medesimo art. 2392, riformato dal d. lgs. n. 6 del 2003).
   Quanto appena osservato implica anche, con ogni evidenza, la centralità che nell’operato dell’amministratore assume il profilo della fedeltà all’interesse della società da lui amministrata. È suo dovere primario di perseguire tale, sicché ogni sua azione o omissione che sia invece diretta a realizzare un interesse diverso, ed in contrasto con quello, si configura immancabilmente come violazione del dovere di fedeltà immanente alla carica: potenzialmente generatore di responsabilità civile, anche indipendentemente dal vizio che ne possa derivare per la deliberazione consiliare e dal regime della relativa impugnabilità ex art. 2391 cod. civ. Della peculiare curvatura che talvolta può assumere questo dovere di fedeltà dell’amministratore all’interesse sociale, in caso di società facente parte di un gruppo, si avrà modo di far ceno in seguito.
   3.5.2. È ovvio che, nel quadro dei principi così sommariamente richiamati (su cui vedi anche, tra le altre, Cass. 28 aprile 1997, n. 3652; e Cass. 4 aprile 1998 n. 3483), l’accertamento e la valutazione dei comportamenti che, nei singoli casi, sono in concreto idonei ad integrare gli estremi della responsabilità dell’amministratore, per violazione dei doveri di diligenza e fedeltà di cui s’è detto, compete al giudice di merito, il cui giudizio sui profili di fatto non è censurabile in sede di legittimità se non per eventuali vizi della motivazione, riconducibili alla previsione dell’art. 360 n. 5, cod. proc. civ.
   È proprio sotto quest’ultimo aspetto che assume consistenza la censura rivolta dalla società ricorrente all’impugnata sentenza, restando in essa assorbita la doglianza di violazione o falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ., priva invero di un adeguato supporto argomentativo.
   La corte d’appello, nell’esaminare la vicenda di cui specificamente si sta ora trattando, non sembra aver voluto discostarsi dalla ricostruzione dei fatti prospettata dalla difesa della Scotti Finanziaria. Nulla almeno si legge, nell’impugnata sentenza, che valga a porre in dubbio le circostanze dell’avvenuta vendita di un complesso immobiliare di detta società in favore della controllata Arvedi s.r.l., del sorgere di un conseguente ingente debito di quest’ultima per il pagamento integrale del corrispettivo, non assistito da garanzia veruna, e della quasi immediatamente successiva cessione a terzi della partecipazione totalitaria della Scotti Finanziaria nella Arvedi per un prezzo di gran lunga inferiore a quello della precedente vendita immobiliare. Del pari incontestato è che la medesima Arvedi fu in seguito dichiarata fallita, onde è quanto meno ragionevole la presunzione logica che il credito per il pagamento del prezzo di vendita del complesso immobiliare dianzi menzionato, non assistito da alcuna causa di privilegio, sia rimasto (in tutto o in parte) insoddisfatto.
   Questi essendo i fatti addotti dalla società a sostegno della pretesa risarcitoria esercitata nei confronti dell’ex amministratore sig. Fiorini, che si assume essere stato l’autore di tali operazioni, le principali questioni da dirimere erano (e sono): se tali operazioni – non ciascuna separatamente considerata, ma nella loro apparente concatenazione – siano espressione di un comportamento gestorio privo delle elementari cautele, indispensabili per la salvaguardia dell’interesse della società amministrata, o addirittura tali da denotare l’intento di piegare quell’interesse a beneficio di terzi; se l’eventuale violazione dei doveri di diligenza e fedeltà imputabile all’amministratore abbia o meno arrecato un danno patrimoniale alla Scotti Finanziaria; e se siano stati forniti da quest’ultima elementi sufficienti per la quantificazione e liquidazione di tale danno.
   3.5.3. La sentenza impugnata; viceversa, non si sofferma in modo esplicito a valutare la correttezza del comportamento dell’amministratore; e non ha torto la società ricorrente nel rilevare criticamente che la corte d’appello sembra aver appuntato la propria attenzione piuttosto su risvolti secondari della vicenda - quale la dilazione di pagamento concessa all’acquirente della partecipazione in Arvedi – che non sull’essenza delle descritte operazioni e sul fatto che, attraverso di esse, si direbbe esser stato sottratto alla Scotti Finanziaria il proprio patrimonio immobiliare senza alcuna effettiva contropartita. In quest’ottica anche la circostanza che il sig. Fiorini (a quanto si assume) abbia poi attestato falsamente l’avvenuto pagamento del prezzo di vendita degli immobili ceduti dalla Scotti Finanziaria alla Arvedi non può essere logicamente accantonata in base al solo rilievo che essa «non avrebbe potuto avere di per sé effetti negativi». Occorrerebbe pur sempre valutare se quella circostanza – ove risponda al vero – non sia comunque indicativa di un comportamento volto ad occultare precedenti responsabilità dell’amministratore; e se dunque essa non assuma rilievo ai fini della prova della consapevole violazione, ad opera dal medesimo amministratore, nel compimento delle consecutive operazioni di vendita immobiliare e di cessione di partecipazioni sociali sopra descritte, del suo dovere di serbarsi fedele all’interesse della società da lui amministrata.
   Mal si comprende, poi, su quale base fattuale e logica riposi l’affermazione per cui non sarebbe stata dimostrata «l’incidenza del comportamento addebitato all’amministratore sul patrimonio della Scotti Finanziaria». Se le circostanze sopra riferite rispondono al vero – e si è visto che la corte d’appello non sembra metterlo sostanzialmente in dubbio – l’incidenza negativa delle descritte operazioni sul patrimonio della società evidentemente consisteva nella perdita di un ingente patrimonio immobiliare a fronte dell’acquisizione di un credito di difficile esazione vantato verso una società ormai fuori controllo; ed il rilievo è tale da rendere logicamente poco pertinente e fianco scarsamente plausibile il dubbio, affacciato nell’impugnata sentenza, se l’amministratore potesse o meno rappresentarsi ex ante il danno conseguente alla scelta intrapresa.
   Non adeguatamente spiegata è altresì la ragione per cui la corte d’appello, ai fini di escludere la responsabilità del sig. Fiorini nel contesto della vicenda sopra riferita, ha reputato rilevante la successiva concessione in pegno al Credit Lyonnais del più volte menzionato credito vantato dalla Scotti Finanziaria nei confronti della (ormai ex controllata) Arvedi per il residuo prezzo degli immobili a quest’ultima venduti. Se la corte territoriale ha inteso ipotizzare che un tale utilizzo del credito dimostrerebbe come la Scotti Finanziaria abbia comunque tratto vantaggio dall’operazione, e come dunque essa non sia stata spogliata senza contropartita del suo patrimonio immobiliare, sarebbe stato almeno necessario chiarire i termini sottostanti la menzionata dazione di pegno. Non è chiaro, invece, in qual modo questa abbia potuto arrecare beneficio al patrimonio della Scotti Finanziaria (ad onta del fatto che il credito dato in pegno, a causa del sopravenuto fallimento della relativa debitrice, è rimasto probabilmente insoluto), dal momento che la medesima sentenza, riferendosi al credito garantito dalla dazione di pegno, si limita a ricollegare la concessione di tale garanzia all’esposizione debitoria che verso il Credit Lyonnais avevano la Sasea ed altre società del gruppo, senza in alcun modo precisare se anche la Scotti Finanziaria fosse tra queste o comunque sotto quale profilo la concessione di quel pegno potesse riflettersi a suo vantaggio.
   3.5.4. Si ricollega a quanto appena osservato anche un’ultima considerazione della corte d’appello: quella secondo cui non sarebbe stato «chiarito se il sacrificio immediato fosse del tutto ingiustificato in quanto non accompagnato dall’aspettativa di un beneficio futuro». Il rilievo riconduce al tema, cui già s’è fatto cenno, dei cosiddetti “vantaggi compensativi” dei quali una singola società sarebbe in grado di fruire in conseguenza della sua appartenenza ad un più ampio gruppo di imprese e che, in quanto tali, potrebbero quindi neutralizzare l’apparente pregiudizio ad essa arrecato da un’operazione vantaggiosa per il gruppo.
   Una siffatta eventualità (oggi espressamente considerata in una disposizione del novellato art. 2497 cod. civ., non però direttamente applicabile a fattispecie realizzatesi in epoca anteriore all’entrata in vigore del d. lgs. n. 6 del 2003) è da ritenersi sicuramente ammissibile. L’autonomia soggettiva e patrimoniale che pur sempre contraddistingue ogni singola società appartenente ad un gruppo impone all’amministratore di perseguire prioritariamente l’interesse della specifica società cui egli è preposto; e dunque non gli consente di sacrificarne l’interesse in nome di un diverso interesse che, se pure riconducibile a quello di chi è collocato al vertice del gruppo, non assumerebbe alcun rilievo per i soci di minoranza e per i terzi creditori della società controllata. Ciò però non esclude affatto la possibilità di tener conto di valutazioni afferenti alla conduzione del gruppo nel suo insieme, purché non vengano in tal modo pregiudicati ingiustificatamente gli interessi delle singole società. E, nel valutare se un siffatto pregiudizio in concreto sussista, è doveroso tener conto che la conduzione di un’impresa di regola non si estrinseca nel compimento di singole operazioni, ciascuna distaccata dalla precedente, bensì nella realizzazione di strategie economiche destinate spesso a prender forma a ad assumere significato nel tempo attraverso una molteplicità di atti e di comportamenti. Sicché è perfettamente logico che anche la valutazione di quel che potenzialmente giova, o invece pregiudica, l’interesse della società non possa prescindere da una visione generale: visione in cui si abbia riguardo non soltanto all’effetto patrimoniale immediatamente negativo di un determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente derivati in conseguenza della partecipazione della singola società ai vantaggi che quell’atto abbia arrecato al gruppo di appartenenza.
   In un simile contesto, tuttavia, l’eventualità che un atto lesivo del patrimonio della società trovi compensazione nei vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo non può essere posta in termini meramente ipotetici. Se si accerta che l’atto non risponde all’interesse diretto della società il cui amministratore lo ha compiuto e che ne è scaturito nell’immediato un danno al patrimonio sociale, potrà ben ammettersi che il medesimo amministratore deduca e dimostri l’esistenza di una realtà di gruppo alla luce della quale anche quell’atto è destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi; ma occorre che una tal prova egli la dia. Non può, viceversa, sostenersi – come sembra fare la corte d’appello - che la mera appartenenza della società ad un gruppo renda plausibile l’esistenza dei suddetti “benefici compensativi” e che, pertanto, competa alla società la quale abbia agito contro il proprio amministratore l’onere di dimostrarne l’inesistenza.
   Viceversa, la società attrice esaurisce il proprio onere probatorio dimostrando l’esistenza di comportamenti dell’amministratore che ledono il patrimonio dell’ente e perciò appaiono contrari al suo obbligo di perseguire lo specifico interesse sociale. È il medesimo amministratore, se del caso, che deve farsi carico di allagare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta.
   4. In definitiva, quindi, la motivazione dell’impugnata sentenza non riesce a dar conto in termini sufficientemente logici e coerenti delle ragioni che hanno indotto la corte di merito ad escludere che il comportamento tenuto dal sig. Fiorini nella vicenda da ultimo riferita possa rivestire gli estremi della violazione dei doveri inerenti, alla sua carica di amministratore della Scotti Finanziaria ed aver recato danno a quest’ultima.
   Il ricorso della Scotti Finanziaria va quindi accolto, limitatamente a siffatto profilo di doglianza e nei riguardi del solo sig. Fiorini, con conseguente cassazione della impugnata sentenza e rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, la quale, nel rispetto dei principi di diritto dianzi richiamati, procederà ad un nuovo esame della vicenda adeguatamente motivando la propria valutazione sui punti posti sopra in evidenza.(Omissis)

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