il diritto commerciale d’oggi
    III.12 – dicembre 2004

STUDÎ & COMMENTI

 

RITA GISMONDI

Responsabilità degli amministratori di società e teoria dei vantaggi compensativi (nota a Cass., 24 agosto 2004, n. 16707)

 

   1.
   La sentenza della Corte di Cassazione n. 16707 del 24 agosto 2004 si segnala per una articolata motivazione in merito alla nota tematica dei vantaggi compensativi nell’ambito di fenomeni di aggregazione societaria ed offre, inoltre, l’occasione di ripercorrere, sia pure in modo sintetico, i principi generali in tema di responsabilità degli amministratori.
   In primo luogo, appare opportuno accennare alla vicenda concreta, che ruota intorno ad una operazione di cessione dalla società Alfa ad altra società della intera partecipazione detenuta nella controllata Beta, per il prezzo di Lire 200.000.000. Pochi mesi prima, tuttavia, la società Alfa aveva trasferito alla società Beta immobili per un valore pari a ben Lire 65.000.000.000, senza ricevere alcun corrispettivo né alcuna specifica garanzia.
   La società Alfa citava successivamente in giudizio i propri ex amministratori, sul presupposto che gli stessi avessero mal gestito la società, sacrificando l’interesse della stessa a beneficio sia della holding, sia di altre società del medesimo gruppo. La domanda, tuttavia, veniva rigettata in primo ed in secondo grado. La Corte d’appello, in particolare, rilevava quanto segue: (i) l’azione esperita dalla società è volta a far valere la responsabilità contrattuale degli amministratori, ai sensi dell’art. 2393 cod. civ., ed un ampliamento dell’originaria domanda, tendente ad accertare eventuali profili aquiliani di responsabilità, non può realizzarsi in grado d’appello; (ii) l’esito negativo della gestione dell’impresa non è sufficiente, di per sé, a dimostrare che gli amministratori siano venuti meno al dovere di agire con la diligenza del mandatario, di cui all’art. 2392 cod. civ. (1); (iii) l’appartenenza della società ad un più vasto raggruppamento di imprese impone agli amministratori di tener conto non solo dell’interesse della singola società amministrata, ma anche dell’interesse del gruppo, dovendosi escludere una situazione di conflitto di interessi quando il sacrificio imposto alla controllata, a beneficio di altre società del gruppo, sia in realtà soltanto apparente, alla luce dei vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo; (iv) la deduzione di un difetto di vigilanza, imputabile ai componenti del consiglio di amministrazione, richiede la prova dello specifico comportamento cui l’amministratore avrebbe dovuto attenersi; (v) le singole operazioni poste in essere dagli amministratori e censurate dalla società Alfa non consentono di individuare profili di responsabilità in capo agli stessi, non essendo provato che le suddette operazioni siano state preordinate al depauperamento della società, né che la stessa abbia subito un danno, né che il danno non sia stato compensato da benefici derivanti dall’appartenenza al gruppo.
   La società Alfa proponeva quindi ricorso per Cassazione avverso la decisione d’appello, sulla base delle seguenti censure: (a) l’eventuale esistenza di un interesse di gruppo non può in nessun caso comportare l’esenzione dell’amministratore dall’obbligo di diligenza nei confronti della singola società amministrata; (b) anche in presenza dei presupposti per un bilanciamento tra le operazioni pregiudizievoli per la singola società ed i benefici derivanti dall’appartenenza al gruppo, deve essere in ogni caso fornita la prova che i vantaggi compensativi siano stati in concreto realizzati; (c) l’onere della suddetta prova, infine, contrariamente a quanto affermato nella impugnata sentenza, non potrebbe essere posto a carico della stessa società attrice, in quanto si tratta di circostanza che solo il convenuto può addurre e dimostrare.

   2.
   Emerge dai fatti di causa che l’operazione sopra delineata ha avuto l’effetto di privare la società Alfa di un ingente patrimonio immobiliare a fronte dell’acquisizione di un credito difficilmente esigibile (la società Beta, infatti, alla quale gli immobili erano stati trasferiti, è stata dichiarata insolvente dopo un breve periodo), privo di garanzie o contropartite e per di più vantato verso una società ormai fuori controllo. La suddetta operazione, inoltre, appare idonea a configurare un grave difetto di diligenza degli amministratori, che non può in nessun caso essere bilanciato da una astratta ed ipotetica prospettazione di eventuali e non meglio specificati benefici futuri.
   Con la decisione che qui si annota la Suprema Corte ha accolto il ricorso proposto dalla società Alfa, svolgendo una panoramica dei principi fondamentali in tema di responsabilità degli amministratori e della nota teoria dei vantaggi compensativi (2) la quale, oltre a trovare applicazione in sede giurisprudenziale (3), è ora espressa anche sul piano normativo, nel novellato art. 2497 cod. civ. in tema di direzione e coordinamento di società. Alla fattispecie concreta, anteriore all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 6 del 17 gennaio 2003, non è applicabile la nuova disciplina societaria ed, in particolare, le norme in tema di responsabilità degli amministratori; la sentenza appare caratterizzata, tuttavia, da una ricostruzione complessiva dell’istituto, comprensiva di brevi cenni alle recenti innovazioni introdotte dal Legislatore.
   Il Supremo Collegio sottolinea come la responsabilità degli amministratori presupponga la violazione di doveri giuridici (di azione o di omissione) previsti a carico degli stessi dalla legge o dall’atto costitutivo, che possono essere ricondotti al dovere di diligenza (duty of care) e al dovere di operare nell’interesse esclusivo della società da essi amministrata (duty of loyalty).
   Il dovere di diligenza di cui all’art. 2392 cod. civ. costituisce espressione del fondamentale dovere di correttezza e buona fede, espresso in via generale negli artt. 1175 e 1375 cod. civ.. L’amministratore sarà chiamato a rispondere del suo operato tutte le volte in cui non abbia adottato le cautele o non abbia osservato i canoni di comportamento che il dovere di diligenza ragionevolmente impone, sulla base di un parametro di normale professionalità.
   La diligenza definisce il modo in cui gli amministratori devono adempiere ai loro doveri, ma non chiarisce quali siano questi doveri, ad eccezione di quelli specificamente previsti dalla legge o dalle previsioni dello statuto sociale (4). In presenza di obblighi aventi ad oggetto una prestazione solo genericamente definibile, la diligenza finisce per assumere una funzione di specificazione dei comportamenti dovuti e, quindi, per identificarsi con l’oggetto stesso dell’obbligazione. La Suprema Corte, tuttavia, non manca di richiamare l’opinione secondo la quale la diligenza dovrebbe costituire il metro per valutare il corretto adempimento dell’obbligo gestorio degli amministratori piuttosto che l’oggetto dell’obbligazione gravante sugli stessi (5).

   3.
   Nella decisione in esame il riferimento è, ovviamente, alla diligenza del mandatario, sulla base della formulazione dell’art. 2392 cod. civ. anteriore alla emanazione del decreto legislativo n. 6/2003. Tra le principali novità della riforma societaria, tuttavia, vi è proprio la specificazione del grado di diligenza esigibile dagli amministratori: non più quella del mandatario, bensì quella «richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze» (6).
   Con riferimento alla diligenza richiesta dalla natura dell’incarico, i primi commentatori sottolineano che la norma appare volta ad escludere che sia fonte di responsabilità per gli amministratori la mancanza di «specifiche competenze in ognuno dei settori dell’impresa». La Relazione di accompagnamento (par. 6, III, n. 4) chiarisce, infatti, che l’obbligo di usare, nell’adempimento dei propri doveri, la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico non significa che gli amministratori debbano necessariamente essere periti in contabilità, in materia finanziaria e in ogni settore della gestione e dell’amministrazione dell’impresa sociale, ma piuttosto che le loro scelte debbano essere informate e meditate, basate sulle rispettive conoscenze e frutto di un rischio calcolato, e non di irresponsabile o negligente improvvisazione (7).
   A tal proposito, appare opportuno rilevare che la giurisprudenza era già pervenuta in via interpretativa a sostenere che la diligenza dell’amministratore è quella richiesta dalla natura dell’incarico, facendo leva sull’art. 1176, co. 2 cod. civ., il quale impone di valutare la diligenza nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale con riguardo alla natura dell’attività esercitata (8). La modifica apportata all’art. 2392 cod. civ. sembra essere, pertanto, sotto questo profilo, più apparente che reale.
   Quanto al riferimento alle specifiche competenze degli amministratori, si può ritenere che il Legislatore abbia preso atto dei diversi livelli professionalità esigibili dagli amministratori nei diversi settori dell’amministrazione societaria. La suddetta previsione va valutata in relazione alla diversificazione di poteri, doveri e connesse responsabilità tra gli amministratori delegati e non delegati (9).
   Con riferimento alla controversa questione, dibattuta sul piano dottrinale e giurisprudenziale (10), se la perizia sia riconducibile alla nozione di diligenza, le nuove previsioni sembrano orientate nel senso della esclusione, in quanto non si potrebbe richiedere agli amministratori che siano periti in ogni settore della gestione, ma solo che agiscano sulla base di scelte informate e meditate e non frutto di irresponsabile improvvisazione (11).

   4.
   Nella decisione che qui si annota, inoltre, viene richiamato il principio, ormai consolidato, secondo il quale gli amministratori non possono essere chiamati a rispondere per il cattivo esito della gestione (12). La valutazione relativa all’eventuale responsabilità degli amministratori non attiene al merito delle scelte imprenditoriali (cd. business judgement rule), ed il giudice non può sostituire ex post il proprio apprezzamento a quello degli amministratori.
   Il sindacato del giudice si pone, quindi, come limite esterno e negativo all’operato degli amministratori e la diligenza potrà riguardare non le scelte gestionali in sé, bensì l’insieme di quelle procedure (cautele, informazioni, pareri tecnici) necessarie al fine di adottare le suddette decisioni in modo ponderato (13). A tal proposito, è illuminante quanto precisato dalla stessa Corte in una precedente occasione: «la scelta tra il compiere o meno un certo atto di gestione oppure di controllo in un certo modo e in determinate circostanze non è mai di per sé sola suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità giuridica, per l’impossibilità stessa di operare una simile valutazione con un metro che non sia quello della opportunità e perciò di sconfinare nel campo della discrezionalità imprenditoriale; mentre viceversa è solo la eventuale omissione, da parte dell’amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive che normalmente richieste per una scelta di quel genere che può configurare la violazione dell’obbligo di adempiere con diligenza il mandato di amministrazione e può quindi generare una responsabilità contrattuale dell’amministratore verso la società» (14).
   A ben guardare, tale principio sembra essere ulteriormente confermato dalla riforma del 2003, alla luce del novellato art. 2381 cod. civ. che precisa quali debbano essere le cautele, le verifiche e le informazioni preventive poste a carico degli amministratori e definisce il grado di informazione necessaria, nonché i procedimenti tecnici attraverso i quali vi si giunge.
   Pertanto, all’amministratore è richiesto di operare secondo quelle regole procedimentali precisate dalla legge ed ispirate ad un principio di professionalità, al fine di adempiere esattamente alla propria obbligazione: qualora tali regole prestabilite non siano rispettate, potrà ricorrere un difetto di diligenza, la quale dovrà poi essere valutata in relazione al sistema informativo adottato dagli amministratori per l’assunzione delle loro decisioni (15).
   In linea con il consolidato orientamento in tema di responsabilità contrattuale degli amministratori (16), la Suprema Corte afferma che, al fine di accertare la responsabilità degli amministratori, devono essere accertate le seguenti questioni: (i) se le operazioni poste in essere dagli amministratori, non singolarmente considerate ma nella loro concatenazione, siano espressione di un comportamento gestorio privo delle elementari cautele, necessarie per la salvaguardia dell’interesse della società amministrata, o addirittura tali da far presumere l’intento di pregiudicare quell’interesse a beneficio di terzi; (ii) se l’eventuale violazione dei doveri di diligenza e di fedeltà imputabile all’amministratore abbia o meno arrecato un danno di natura patrimoniale alla società; (iii) se la società abbia fornito elementi per una quantificazione e liquidazione di tale danno.
   Dal momento che l’accertamento e la valutazione dei comportamenti idonei ad integrare gli estremi della responsabilità dell’amministratore, per violazione dei doveri di diligenza e fedeltà, compete al giudice di merito, il cui giudizio sui profili di fatto non è censurabile in sede di legittimità se non per eventuali vizi della motivazione (17), nella fattispecie in esame la Suprema Corte individua nella decisione impugnata un profilo di insufficienza e di illogicità in relazione ai vantaggi compensativi, «dei quali una singola società sarebbe in grado di fruire in conseguenza della sua appartenenza ad un più ampio gruppo di imprese e che, in quanto tali, potrebbero quindi neutralizzare l’apparente pregiudizio ad essa arrecato da una operazione vantaggiosa per il gruppo».

   5.
   Richiamando la riflessione dottrinale maturata in tema di vantaggi compensativi, il Supremo Collegio sottolinea come l’autonomia soggettiva e patrimoniale che caratterizza ogni singola società del gruppo ed il dovere di fedeltà posto a carico degli amministratori imponga agli stessi di perseguire in via prioritaria l’interesse della specifica società cui sono preposti e non consenta di sacrificare l’interesse della stessa in nome di un diverso interesse riconducibile al vertice del gruppo, privo di rilevanza per i soci di minoranza e per i terzi creditori della controllata. Tale circostanza non esclude, tuttavia, «la possibilità di tener conto di valutazioni afferenti alla conduzione del gruppo nel suo insieme, purché non vengano in tal modo pregiudicati ingiustificatamente gli interessi delle singole società».
   Le operazioni poste in essere dagli amministratori, pertanto, non dovranno essere considerate singolarmente, ma nel contesto di strategie economiche e finanziarie più ampie e alla luce di una visione generale: visione in cui, secondo la Corte, «si abbia riguardo non soltanto all’effetto patrimoniale immediatamente negativo di un determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente derivati in conseguenza della partecipazione della singola società ai vantaggi che quell’atto abbia arrecato al gruppo di appartenenza».
   Come anticipato, la teoria dei vantaggi compensativi ha trovato di recente una espressa formulazione nell’art. 2497 cod. civ., che esclude la responsabilità delle società o degli enti che esercitano attività di direzione e coordinamento, nei confronti dei soci e dei creditori delle società sottoposte alla stessa, qualora il danno risulti «mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette».
   Si è osservato, a tal proposito, che l’eterodeterminazione delle scelte gestionali di una società genera possibili abusi degli schemi societari e quindi rende necessario un riequilibrio attraverso il meccanismo della responsabilità della società che esercita attività di direzione e coordinamento. L’esigenza di tutela nasce quando la direzione del gruppo sacrifica in modo non corretto gli interessi della controllata, violando l’affidamento dei terzi (soci e creditori della controllata) a che la stessa non sia asservita a scopi extrasociali. La legittima attuazione di una politica di gruppo comporta la possibilità per la holding di imporre alle società controllate decisioni svantaggiose, ma favorevoli ad altre società del gruppo ed, in ultima analisi, al gruppo stesso, purché anche la controllata possa beneficiare dei vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo (18).
   Pur non essendo possibile, in questa sede, svolgere una trattazione esauriente ed approfondita del tema, va ricordato che l’interesse di gruppo, inteso come perseguimento di interessi comuni alle società che fanno parte dello stesso mediante l’esercizio della direzione unitaria, è stato utilizzato in sede giurisprudenziale, già prima della riforma societaria, come criterio per valutare la sussistenza di un conflitto di interessi in capo agli amministratori o alle maggioranze assembleari delle società controllate, o la conformità di una determinata operazione all’oggetto sociale. Si tratta, pertanto, di un criterio che impone un equilibrio fra l’onere derivante dall’operazione ed un vantaggio, almeno mediato e riflesso, per la società che la compie (19).

   6.
   Sebbene appaia al momento prematuro valutare l’impatto che la disciplina prevista nell’art. 2497 cod. civ. determinerà in concreto, va segnalato che il criterio valutativo adottato è stato da alcuni considerato troppo ampio ed elastico, tale da non assicurare un immediato e rigorosamente proporzionale indennizzo dell’eventuale pregiudizio (20).
   La Corte sottolinea che l’esistenza dei vantaggi compensativi non può essere posta in termini meramente ipotetici, ma deve essere accertata in concreto, dal momento che la mera appartenenza al gruppo non comporta, di per sé, l’esistenza di vantaggi compensativi. Tuttavia, in senso difforme rispetto a quanto statuito nell’impugnata sentenza (che proprio sotto questo profilo appare insufficiente ed illogica, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5 cod. proc. civ.), non è la società che agisce contro il proprio amministratore a dover dimostrare l’inesistenza dei suddetti vantaggi compensativi, bensì è il convenuto che dovrà, eventualmente, provare l’esistenza di benefici indiretti e mediati, nonché la relativa idoneità a neutralizzare e compensare integralmente il pregiudizio immediato derivante dalla singola operazione compiuta.
   Tale orientamento appare pienamente condivisibile e trova conferma in una serie di precedenti giurisprudenziali, oltre che nella prevalente opinione dottrinale. Non a caso, già nei primi commenti alla disciplina contenuta nella legge delega (legge n. 366 del 3 ottobre 2001), si riteneva che all’obbligo di motivazione (poi enunciato nell’art. 2497-bis cod. civ.) dovesse affiancarsi uno spostamento dell’onere della prova in ordine all’interesse di gruppo e al vantaggio compensativo, e che, pertanto, la relativa sussistenza nel caso concreto dovesse essere dimostrata dal soggetto che avesse imposto e/o attuato l’operazione pregiudizievole (21).
   D’altra parte, se la suddetta dimostrazione fosse riferita all’attore, essa finirebbe per risolversi in una prova negativa, come tale di dubbia configurabilità (22). Vero è che la negatività dei fatti non esclude o inverte, di per sé, l’onere probatorio: il giudice, tuttavia, può pur sempre ricorrere alle massime di esperienza per desumere la dimostrazione dei fatti negativi laddove non sia dedotto il loro positivo avverarsi (23).
   Pertanto, l’allocazione in capo al convenuto dell’onere di provare i vantaggi compensativi idonei ad escludere la responsabilità appare la soluzione più conforme al testo normativo, ai principi generali in tema di prova, nonché alla previsione dell’obbligo di motivare l’esistenza dei vantaggi compensativi, con indicazione delle relative ragioni e degli interessi coinvolti: obbligo che è previsto in capo agli amministratori della società controllata, ma pur sempre in relazione ad attività poste in essere in base alle direttive della capogruppo (cfr. art. 2497-bis cod. civ.).

NOTE

   (1) Il riferimento è da intendersi alla formulazione dell’art. 2392 cod. civ. anteriore alla riforma del 2003 che, come è noto, prevedeva in capo agli amministratori il dovere di agire con la diligenza del mandatario.

   (2) Si veda, in particolare, Montalenti, Conflitto di interessi nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, in Giur. comm., 1995, I, p. 710 ss.

   (3) Si vedano, da ultimo, Cass. 5 dicembre 1998, n. 12325, in Giur. it., 1999, 2317, con nota di Montalenti, Operazioni intragruppo e vantaggi compensativi: l’evoluzione giurisprudenziale; Cass. 21 gennaio 1999, n. 521, in Soc. 1999, p. 428.

   (4) È stato osservato che il dovere principale degli amministratori, di cui manca una esplicita previsione, è quello di amministrare la società e gestire l’impresa sociale e può essere qualificato in modo espressivo e sintetico in termini di “buona guida” dell’impresa (Cabras, La responsabilità per l’amministrazione delle società di capitali, Torino, 2002, p. 33).

   (5) Si veda, da ultimo, Vassalli, L’art. 2392 cod. civ. novellato e la valutazione della diligenza degli amministratori, in Profili e problemi dell’amministrazione nella riforma delle società, Milano, 2003, p. 31, secondo il quale le nuove previsioni in tema di amministrazione introdotte con il d. lgs. 6/2003 potrebbero essere in grado di ristabilire il principio secondo il quale la diligenza non può mai costituire oggetto di un obbligo o il contenuto della prestazione dedotta nell’obbligazione, bensì soltanto il modo di adempiere esattamente all’obbligazione. Per una trattazione problematica della questione si veda Dellacasa, Dalla diligenza alla perizia come parametri per sindacare l’attività di gestione degli amministratori, in Contratto e impresa, 1999, p. 209.

   (6) Non è possibile in questa sede dar conto delle rilevanti modifiche, né delle relative implicazioni e ricadute, apportate dalla novella societaria in tema di responsabilità degli amministratori. Va tuttavia segnalato che, oltre alla specificazione del grado di diligenza degli amministratori, assumono particolare rilevanza l’equiparazione delle deleghe di fatto o interne a quelle formali, nonché la delimitazione della culpa in vigilando attraverso la sostituzione dell’obbligo di vigilare sul generale andamento della gestione con l’obbligo di informazione codificato nel novellato art. 2381 cod. civ.

   (7) Si veda, a tal proposito, Bonelli, La responsabilità degli amministratori di società per azioni, Milano, 1992, 61.
Ambrosini, Appunti in tema di amministrazione e controlli nella riforma delle società, in Società 2003, p. 356.

   (8) Cass. 4 aprile 1998, n. 3483, in Giur.it., 1999, 324; Cass. 28 aprile 1997, n. 3652, in Giust. civ., 1997, 2780; Cass. 2 giugno 1989, n. 2887, in Soc. 1989, 1034; Cass. 16 gennaio 1982, n. 280, in Dir. fall. 1982, II, 664. Nella giurisprudenza di merito si veda Trib. Milano 1 dicembre 1988, in Soc. 1989, 173, secondo il quale «il grado di diligenza dell’amministratore non può essere semplicemente equiparato a quello tradizionale per il mandato (1710 cod. civ., ossia la diligenza del buon padre di famiglia): la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata e, quindi, in caso di amministrazione di società di capitali, essere deve venire riferita alla particolare aspettativa della società e dei soci di conseguire un risultato economico positivo, sicché l’amministratore è tenuto a curare con ogni attenzione che questo risultato venga raggiunto, ponendo in essere gli atti gestionali che possono risultare, fra tutti quelli possibili, i più opportuni ed utili». In dottrina, ex multis, Minervini, Gli amministratori di società per azioni, 184; Frè, Società per azioni, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna Roma, 1982, 503; Galgano, Diritto civile e commerciale, III, Padova, 1999, 281-282.

   (9) Si noti che il preesistente obbligo degli amministratori di vigilare sul generale andamento della gestione non è stato riprodotto nell’attuale art. 2392 cod. civ., il quale tuttavia contiene un richiamo all’art. 2381, co. 3 cod. civ..

   (10) La tesi della responsabilità per imperizia, anche se minoritaria, è autorevolmente sostenuta (si veda, ad esempio, Cottino, Diritto commerciale, I, 2, Le società, Padova, 1999, 432, secondo il quale la diligenza richiesta all’amministratore «non può andare disgiunta dall’osservanza delle regole di normale prudenza e perizia»). Sul punto, Dellacasa, Dalla diligenza alla perizia, cit., ove ulteriori riferimenti giurisprudenziali.

   (11) Il requisito della perizia, tuttavia, potrebbe essere inteso non come una speciale qualificazione professionale, tale da richiedere una decisione piuttosto che un’altra, bensì soltanto un particolare modo di comportarsi per giungere alla decisione, secondo regole tali da assicurare che la decisione stessa sia effettuata con il massimo del bagaglio conoscitivo possibile. Si veda Spiotta, in Il nuovo diritto societario (diretto da Cottino-Bonfante-Cagnasso-Montalenti), II, sub art. 2392, p. 768, che riporta peraltro espressioni usate da Vassalli, L’art. 2392 novellato e la valutazione della diligenza degli amministratori, in Scognamiglio, (a cura di), Profili e problemi dell’amministrazione nella riforma delle società, Milano, 2003, p. 31.

   (12) Cass. 28 aprile 1997, n. 3652, in Foro it., 1998, I, c. 3247, secondo cui «All’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 cod. civ. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società; ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione (o le modalità e circostanze di tali scelte), ma solo l’omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità». Si veda anche Cass. 4 aprile 1998, n. 3483, in Dir. fall. 1999, II, 253: «in presenza di un conflitto di interessi, la fonte della responsabilità è costituita dal compimento dell’azione in sé e per sé considerata, dalla sua illegittimità conseguente all’essere stata compiuta in violazione di precisi canoni generali e specifici di comportamento, e dalla dannosità della scelta gestionale, senza che, peraltro, possa rilevare il merito di tale scelta».

   (13) Cfr. Cabras, L’amministrazione, cit., 35, il quale rileva l’esigenza di predisporre protocolli per i processi decisionali degli amministratori, in modo che essi operino mediante apposite procedure, in linea con i valori della trasparenza delle imprese, attualmente riscontrabili solo in alcuni specifici settori (i.e. bancario, assicurativo).

   (14) Così Cass. 28 aprile 1997, n. 3652, cit.

   (15) Vassalli, in Commentario a cura di Niccolini e A. Stagno d’Alcontres, sub art. 2392, p. 676 ss.

   (16) Si veda, ad esempio, Cass. 22 ottobre 1998, n. 10488.

   (17) Cfr. Cass. 28 aprile 1997, n. 3652, cit., e Cass. 4 aprile 1998, n. 3483, cit..

   (18) Trattasi, peraltro, dello stesso criterio recentemente utilizzato in relazione a profili di responsabilità penale degli amministratori. Il delitto di infedeltà patrimoniale di cui all’art. 2634 cod. civ., in particolare, prevede che gli atti di disposizione dei beni sociali, in danno della società e nell’interesse altrui, non sono puniti se l’interesse altrui (il profitto della società collegata o del gruppo) sia compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo. Si veda, da ultimo, Badini Confalonieri–Ventura, in Il nuovo diritto societario (diretto da Cottino-Bonfante-Cagnasso-Montalenti), II, sub art . 2497, p. 2152.

   (19) Si veda, ad esempio, Cass. 5 dicembre 1998, n. 12325, in Giur. it., 1999, p. 2317, con nota di Montalenti, Operazioni intragruppo e vantaggi compensativi: l’evoluzione giurisprudenziale, secondo la quale «l’assenza di corrispettivo, se è sufficiente a caratterizzare i negozi a titolo gratuito (così distinguendoli da quelli a titolo oneroso), non basta invece ad individuare i caratteri della donazione, per la cui sussistenza sono necessari, oltre all’incremento del patrimonio altrui, la concorrenza di un elemento soggettivo (lo spirito di liberalità) consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, e di un elemento di carattere obiettivo, dato dal depauperamento di chi ha disposto del diritto o ha assunto l’obbligazione; ne consegue che, quando un atto viene posto in essere da una società «controllata», va esclusa la ricorrenza di una donazione e non è necessaria l’osservanza delle forme richieste dall’art. 782 cod. civ. se l’operazione è stata posta in essere in adempimento di direttive impartite dalla capogruppo o comunque di obblighi assunti nell’ambito di una più vasta aggregazione imprenditoriale, mancando la libera scelta del donante; inoltre, al fine di verificare se l’operazione abbia comportato o meno per la società che l’ha posta in essere un depauperamento effettivo occorre tener conto della complessiva situazione che, nell’ambito del gruppo, a quella società fa capo, potendo l’eventuale pregiudizio economico che da essa sia direttamente derivato aver trovato la sua contropartita in un altro rapporto e l’atto presentarsi come preordinato al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto»; Cass. 21 gennaio 1999, n. 521, in Soc. 1999, p. 428, secondo la quale «il gruppo di imprese deve configurarsi come un fenomeno in cui ad un’impresa unitaria in senso economico corrispondono più società sul piano giuridico; in nome dell’interesse o logica di gruppo non può, pertanto, essere sacrificato il patrimonio della singola società, ove questa non consegua, sia pure in via indiretta, un preciso vantaggio da un’altra operazione posta in essere secondo l’indirizzo economico unitario». Si veda anche Cass. 4 maggio 1991, n. 4927, in Giur. comm. 1991, II, 88 ss., secondo la quale ai fini dell’accertamento del pregiudizio l’operazione o la delibera deve essere valutata «non di per sé sola (quindi in astratto), ma in connessione ai suoi effetti, anche potenziali, diretti o mediati sulla situazione della società e sui riflessi che la situazione modificata dalla delibera produca sulla società».

   (20) In dottrina sono stati elaborati vari orientamenti (obbligo di equa redistribuzione del surplus derivante dall’operazione fra le società del gruppo; indennizzo a favore della società svantaggiata; benefici anche non immediati o relativi a settori di attività diversi da quelli direttamente incisi dall’operazione imposta dalla capogruppo, ma ragionevolmente certi), sui quali più diffusamente si veda Rossi, Relazione introduttiva alla tavola rotonda sui vantaggi compensativi nei gruppi, in Giur. comm., 2002, I, 614. Per alcune riflessioni problematiche in materia di direzione e coordinamento, cfr. Scognamiglio, I gruppi e la riforma del diritto societario: prime riflessioni, in Dircomm 6/2003.

   (21) Secondo Abriani, Gruppi di società e criterio dei vantaggi compensativi nella riforma del diritto societario, in Giur. comm., I, 2002, 620, tale soluzione scaturisce dal principio di maggior vicinanza della prova (e della consapevolezza delle strategie di gruppo) e dalla natura di scriminante del vantaggio compensativo rispetto alla responsabilità penale e civile.

   (22) Cass. 23 maggio 2001, n. 7027, in Foro it., 2001, I, c. 2504; Cass. 14 marzo 2001, n. 3672.

   (23) Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, II, Torino, 1993, p. 151. Nel caso di specie, in particolare, il silenzio dell’amministratore (soggetto interessato a dedurre l’esistenza dei vantaggi compensativi) può essere considerato un elemento sufficiente a far ritenere i suddetti vantaggi inesistenti.

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