il diritto commerciale d’oggi
    II.4– aprile 2003

Giurisprudenza

CORTE DI CASSAZIONE, 10 gennaio 2003, n. 148 – De Musis Presidente – Celentano Estensore – Fall. Centro Alimentare Squarciarelli c. De Santis
     Qualora il curatore fallimentare proponga in un giudizio ordinario domanda per il recupero di un credito del fallito ed il convenuto proponga in tale giudizio domanda riconvenzionale riguardante un credito concorsuale, è improcedibile soltanto quest’ultima domanda, essendo inderogabile il rito previsto per l’accertamento del passivo fallimentare.

Commento di Marco Farina

(Omissis)
     Svolgimento del processo – Comunicato l’intento di sciogliersi dal contratto preliminare di compravendita immobiliare (avente ad oggetto un immobile sito in Grottaferrata, località Squarciarelli) a suo tempo (il 23.12.1988) stipulato dalla fallita società n.c. Centro Alimentare Squarciarelli di Omero Pistoni e c., nella veste di promittente acquirente, il curatore convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma i promittenti venditori Otello De Santis e Marisa Schiraldi per la restituzione della somma di lire 1.747.810.000, che la società fallita aveva corrisposto quale parte del prezzo.
     I convenuti si costituirono in giudizio e proposero domanda riconvenzionale «con la quale richiesero al Tribunale di voler dichiarare la curatela tenuta a riconoscere il valore d’uso dei locali in questione nonché il valore dell’immobile alla data della dichiarazione di fallimento e, in subordine, di condannare la curatela alla restituzione dei locali».
     Con sentenza del 30.07.1998 il Tribunale dichiarò la propria incompetenza per materia «essendo funzionalmente competente il tribunale fallimentare».
     Proposero appello entrambe le parti.
     Con sentenza emessa il 21.03.2000 la Corte di Appello di Roma rigettò entrambi i gravami confermando la sentenza del Tribunale con la precisazione che la pronuncia dello stesso era da intendersi come di improcedibilità delle domande.
     Osservò la Corte che se pur nel caso di specie non v’era questione di competenza, non essendo territorialmente diverso il tribunale ordinario da quello fallimentare, doveva tuttavia farsi applicazione del principio secondo il quale «la diversità di rito non costituisce ostacolo al simultaneus processus», sicché proposta domanda riconvenzionale in sede ordinaria, lo speciale rito dell’accertamento del passivo cui questa era soggetta attraeva anche la domanda principale, restando investito di entrambe le domande il giudice del fallimento.
     Avverso la sentenza, la curatela ha proposto ricorso per Cassazione, al quale le controparti resistono con controricorso.

     Motivi della decisione – La curatela ricorrente denuncia con due motivi:
     1° – La violazione e falsa applicazione artt. 36, 39, 40 cod. proc. civ., 52 e 93 legge fall. nonché omessa, contraddittoria insufficiente motivazione.
     2° – Ancora la violazione delle stesse norme del cod. proc. civ. e degli artt. 93 e 101 legge fall. nonché il medesimo vizio di motivazione, sotto altro profilo.
     Entrambe le censure sono svolte nel senso che erroneamente la Corte di merito non avrebbe imposto la trattazione e decisione separata dalle due cause, per la ragione che la domanda riconvenzionale avrebbe dovuto essere riguardata tanto sotto il profilo della litispendenza, rispetto all’analoga domanda già introdotta nel fallimento come domanda di ammissione al passivo, quanto sotto l’altro del necessario assoggettamento a rito di cui all’art. 93 e ss. legge fall., mentre «ingiustificata e non sorretta da alcuna norma o principio di diritto risultava la dichiarazione di improcedibilità della domanda principale di essa curatela».
     1. La prima censura contenuta nel primo motivo attiene all’omesso rilievo della “litispendenza”, eccepita dalla curatela sul presupposto della già avvenuta presentazione, ad opera dei suddetti convenuti De Santis e Schiraldi, di un istanza di ammissione al passivo di un proprio credito vantato sul fondamento dello stesso titolo.
     Porre la questione in termini di “litispendenza” (art. 39 cod. proc. civ.) è improprio ed erroneo giacché la situazione processuale che da luogo alla litispendenza è la proposizione di una stessa causa dinanzi a giudici (organi di giurisdizione) diversi, sicché resta escluso che ricorra una situazione di litispendenza allorché delle cause identiche sia investito lo stesso giudice ovvero giudici diversi dello stesso ufficio giudiziario, soccorrendo in tal caso l’istituto della riunione delle cause (art. 273 cod. proc. civ.).
     2. La Corte di merito s’è attenuta, per il caso di specie, al principio di diritto affermato dalla sentenza S.U. n. 3878 del 1979, secondo il quale tanto la domanda principale proposta dal curatore per il recupero, nei confronti di un terzo, di un credito contrattuale del fallito quanto la domanda riconvenzionale che, in dipendenza del medesimo titolo contrattuale, il terzo proponga rivendicando un proprio credito verso il contraente fallito, da far valere nel procedura fallimentare, debbono essere trasferite – entrambe, dunque, in quanto inscindibilmente devolute alla cognizione di un unico giudice – nella sede concorsuale del procedimento di accertamento e verificazione dello stato passivo.
     Tale soluzione, sempre confermata dalle successive pronunce di questa Corte, ricevette non poche osservazioni critiche (riprese nel testo che segue e in esso immediatamente riconoscibili) delle quali, assieme ad altre considerazioni, si intende ora tener conto nel riesame della questione.
     Detta soluzione delle Sezioni Unite – la cui sentenza subito aveva rilevati come alla Corte di merito fosse apparso evidente che «il sopravvenuto fallimento» della società attrice in giudizio «creava un problema di rito più che di competenza, e, più esattamente, determinava l’improcedibilità delle domande per la necessità della loro concentrazione presso il giudice investito della procedura concorsuale» – risulta ispirata all’esigenza di mantenere il simultaneus processus. Ciò risulta evidente tanto dall’affermazione preliminare, posta come a premessa dello svolgimento argomentativo, e formulata nel senso che «non v’è dubbio, anzitutto, che, dipendendo la decisione della controversia dall’esame di un unico rapporto contrattuale e della valutazione di pretese reciproche e tra loro intimamente connesse, tutte derivanti da quel rapporto, l’intera causa debba essere, unitamente, attribuita alla cognizione di un unico giudice, nell’ambito di un medesimo processo», quanto dalle considerazioni finali secondo le quali, con la soluzione costituita e adottata «l’intera controversia veniva, comunque, ad essere devoluta alla cognizione del tribunale investito della procedura concorsuale, nel rispetto dei principi inderogabili della legge fallimentare ed in armonia con quelli che sono posti dall’art. 36 cod. proc. civ. in tema di domande riconvenzionali».
     2.1. La regola del simultaneus processus posta dall’art. 36 cod. proc. civ. si configura come disciplina del processo allorché sia in gioco, riguardo alla domanda riconvenzionale, una diversa competenza: questa viene “modificata”, appunto con l’applicazione della regola suddetta, sottraendo la cognizione della domanda riconvenzionale al giudice che avrebbe dovuto conoscerne per ragioni di territorio derogabile – in questo solo caso, giacché la regola medesima non è assoluta e non assegna al giudice della domanda principale anche la competenza in ordine alla riconvenzionale nei casi in cui quest’ultima sia attribuita ad un altro giudice per ragioni di materia, di valore (e di territorio inderogabile), facendosi luogo, in questi casi, alla separazione delle cause con rimessione della sola riconvenzionale dinanzi al suo giudice (salvo l’applicazione del disposto dell’art. 295 cod. proc. civ. in ordine alla domanda principale).
     Al di fuori dell’ipotesi di modificazione della competenza (v. il titolo della sezione quarta del libro primo), può dirsi che la trattazione unitaria delle cause dipendenti dallo stesso titolo costituisce non più che un principio di massima (al quale certamente va il favor dell’ordinamento processuale).
     2.2. Alla norma dell’art. 36 cod. proc. civ. è estranea, nel senso che non riceve disciplina, l’ipotesi che la domanda riconvenzionale sia soggetta ad un rito diverso rispetto a quello, ad es. ordinario, secondo il quale fu proposta la domanda principale.
     Si è già posto in rilievo come la stessa sentenza n. 3878/1979 esplicitamente affermi che la soluzione processuale che essa delinea (devoluzione dell’intera controversia alla cognizione del tribunale fallimentare) da un lato consentirebbe il rispetto dei principi inderogabili della legge fallimentare (che riguardano, e disciplinano, il modus processuale della sola pretesa creditoria del terzo nel fallimento e dall’altro si porrebbe «in armonia con quelli che sono posti dall’art. 36 cod. proc. civ.» – in altri termini, com’è stato giustamente osservato, la soluzione stessa semplicemente si conforma al principio del simultaneo processo su domande derivanti dal medesimo titolo, esclusa però ogni diretta e inderogabile applicazione della norma stessa, che resta norma sulla competenza e non sul coordinamento dei diversi riti cui le domande siano soggette.
     2.2.a. Nemmeno trova applicazione nel caso di specie la norma dell’art. 40 (nel testo novellato ora vigente) che è anch’essa norma regolatrice della competenza (anche in relazione all’interferenza di un rito speciale con il rito ordinario) per i casi di connessione e che ha posto le regole secondo le quali a) prevale il rito ordinario sul rito speciale (non lavoristico); b) la diversità di rito non ostacola il simultaneus processus nei casi di cui agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 cod. proc. civ. (v., in tal senso, Cass. n. 11297 del 1998).
     Si è già rilevato, comunque, nelle trattazioni a commento della norma, che questa sarebbe destinata ad operare pur sempre in presenza di competenze derogabili e non «a scapito di competenze inderogabili», quale senza dubbio è quella della sede fallimentare ex art. 26 legge fall. Essa dunque non offre una base normativa per la soluzione del problema giuridico processuale che il caso di specie pone nei seguenti termini: se la vis attractiva (non soltanto del foro, ossia del tribunale fallimentare ex art. 24 legge fall., ma anche) dell’inderogabile rito fallimentare previsto per le domande aventi ad oggetto una pretesa creditoria verso il fallito da far valere ai fini del concorso.
     Se mai alla norma in questione volesse farsi riferimento, dovrebbe ricavarsene, quanto meno sul piano di principio e sulla base del favor di essa norma per la prevalenza del rito ordinario, un ostacolo alla soluzione che propone la sottrazione della domanda principale al suddetto rito per il trasferimento di essa, assieme alla riconvenzionale soggetta al rito speciale fallimentare dell’accertamento del passivo, in quest’ultima sede, sicché – come può anticiparsi – la soluzione sarebbe a ricercare nel «senso della separazione dei giudizi e del sacrificio del simultaneus processus», riconoscendosi così fondamento alla opinione in tal senso espressa in dottrina.
     Poiché nel caso di specie non è in gioco una questione di competenza tra fori diversi (tutto risolvendosi in termini di eventuale vis attractiva del rito all’interno del medesimo tribunale di Roma) il Collegio resta esonerato sia dal prendere posizione sui complessi problemi interpretativi che la dottrina ha individuato (se la modificazione del rito per ragioni di connessione, con prevalenza del rito ordinario, secondo il comma 3°, debba operare unicamente tra giudizi “a cognizione piena”, con esclusione dei processi sommari e se dunque in tal caso debba optarsi per la separazione delle cause) sia dal tener conto dei precedenti giurisprudenziali costituiti dalle sentenze n. 11197 del 1998 e n. 15779 del 2000 (quest’ultima – che è così massimata «una causa connessa per una delle ipotesi previste dagli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 cod. proc. civ. con una causa di opposizione allo stato passivo può trasmigrare dinanzi al giudice competente per decidere quest’ultima sia perché in tal casi la diversità del rito, ai sensi dell’art. 40 comma terzo cod. proc. civ. non ostacola il simultaneus processus, sia perché, comunque, ai sensi dell’art. 99 legge fall., il giudice delegato, dopo l’istruttoria, rimette la predetta opposizione per la decisione ai sensi dell’art. 189 cod. proc. civ. si che la medesima non è soggetta al rito speciale»– sembra aver superato, con l’ultima delle sue affermazioni, la prima delle suddette opzioni interpretative, senza aver avuto modo, tuttavia, per la ritenuta inammissibilità, nel contesto della decisione, di quella specifica censura che il problema aveva posto, di approfondire il tema della natura, delle finalità, sempre inerenti ala formazione dello stato passivo, e dei limiti del giudizio di opposizione ex art. 98 legge fall. e, conseguentemente, dei limiti entro i quali nel giudizio medesimo il curatore può introdurre domande riconvenzionali):
     2.2.b. La norma dell’art. 24 legge fall. (vis attractiva del tribunale fallimentare) che qualche autore richiama volendo trarne un principio generale di «prevalenza del rito fallimentare in ogni ipotesi di connessione con riti diversi», non può essere utilmente richiamata al fine di fondarvi, sulla base di quel principio generale che se ne vorrebbe tratte, un soluzione per il caso (come quello di specie) in cui debba ricercarsi la sorte processuale della domanda principale a rito ordinario in presenza di una domanda riconvenzionale, (che non ponga problemi specifici di competenza ma che semplicemente sia) soggetta al diverso rito dell’accertamento del passivo secondo gli artt. 93 e ss. legge fall.
     3. Per tale ipotesi – che è il caso di specie ora all’esame – una soluzione radicale, caldeggiata in dottrina, è nel senso della inammissibilità-improponibilità della riconvenzionale soggetta al rito speciale inderogabile, il che implica, necessariamente, non tanto che le cause restino “separate”, quanto che il giudizio nella sede ordinaria prosegua per la decisione sulla (sola) domanda principale.
     3.1. La diversa soluzione apre la via, in realtà, ad una sola opzione – assorbimento del rito ordinario, in quello speciale fallimentare, con rimessione di tutta la causa presso il giudice del rito speciale – per l’impossibilità della contraria, ossia dell’assorbimento del suddetto rito speciale in quello ordinario.
     Le S.U. del 1979 hanno, infatti, considerato, decisivamente e senza lasciar spazio, sul punto, ad opinioni diverse, che se la domanda riconvenzionale è diretta all’accertamento di un credito verso il fallito, e con effetti verso il fallimento ai fini del concorso, in altri termini, se è proposta al fine di ottenere una pronuncia giurisdizionale opponibile al fallimento e da far valere nel procedimento fallimentare, la potestà cognitiva del giudice adito con la domanda principale non può non essere negata perché, affermandola, si darebbe luogo, al di fuori della sede di accertamento del passivo (art. 52 legge fall.) e ad opera di un giudice diverso da quello fallimentare (art. 93 ss. legge fall.), ad una inammissibile pronuncia idonea ad acquistare efficacia di giudicato nei confronti della massa e dunque di un titolo utilizzabile dal creditore nella sede concorsuale – in contrasto radicale e inammissibile con i principi del diritto concorsuale e con la stessa inderogabile disciplina del procedimento fallimentare.
     3.2. L’opzione dinanzi considerata è quella indicata dalle S.U. del 1979 per l’ipotesi in cui nel giudizio introdotto con il rito ordinario sia stata proposta una domanda riconvenzionale per la quale, inderogabilmente, la norma della legge fallimentare stabilisce un rito speciale (la verifica dei crediti verso il fallito ad opera del giudice delegato ai fini della formazione dello stato passivo e in funzione della liquidazione concorsuale: artt. 93 e ss. legge fall.).
     La sentenza n. 3878/79 afferma infatti che «quando al curatore che agisce per il recupero di un credito del fallito venga opposta una domanda riconvenzionale (di pagamento di somma che si assume dovuta dal fallimento) finalizzata alla partecipazione al concorso, tale domanda è materia di competenza del giudice investito della verifica del passivo fallimentare e va esaminata nel contesto unitario delle contrapposte pretese da tale giudice, nella cui materia ricade l’intera controversia».
     La stessa sentenza fa rilevare la coerenza di tale soluzione con la disciplina dettata dall’art. 36 cod. proc. civ.
     3.3. sorgono, a questo punto, i problemi della cui disamina si è fatta carico la stessa pronuncia delle Sezioni Unite:
     a) se la soluzione costruita comporti, in relazione alla domanda principale proposta dalla curatela nei confronti del terzo, l’attribuzione al giudice delegato di competenze estranee alla funzione da lui esercitata nel procedimento di verificazione dei crediti (ma identiche, per contenuto della cognizione e per efficacia della pronuncia, a quelle delle quali disponeva il giudice originariamente adito dal curatore con la domanda principale) ossia l’accertamento di una ragione di credito del fallito, e della curatela, nei confronti di un terzo.
     b) quello (il problema) del “trasferimento” dell’intera causa (domanda principale proposta in via ordinaria dal curatore per il recupero di un credito del fallito, domanda riconvenzionale del convenuto avente ad oggetto una pretesa creditoria verso il fallito, e il fallimento), dinanzi al giudice delegato.
     3.4. Tale “trasferimento” (le modalità del) fa sorgere immediatamente una questione di rito (già individuata in dottrina) nei termini del seguente interrogativo: può farsi ricorso all’istituto della riassunzione oppure, dovendo la pronuncia del giudice nella sede ordinaria essere resa in termini di improponibilità-improcedibilità (rispettivamente della domanda riconvenzionale e della domanda principale, conseguentemente alla divisata necessaria trattazione delle cause nel simultaneus processus), il trasferimento non implica che le domande siano autonomamente traslate dinanzi al giudice del fallimento?
     Ora, se è vero che, ponendosi (con riguardo alla domanda riconvenzionale) non già una questione di competenza bensì semplicemente una questione di interferenza del rito speciale dell’accertamento del passivo cui la legge fallimentare sottopone la domanda riconvenzionale, la norma dell’art. 36 cod. proc. civ. non sia destinata a trovare diretta e necessaria applicazione, e dunque ponendosi l’esigenza (determinata dalla connessione tra le due domande derivanti dallo stesso titolo contrattuale) dal simultaneus processus alla stregua di un semplice principio, la dichiarazione di improcedibilità della domanda principale della curatela necessiterebbe di un diverso (da quello dell’art. 36) fondamento normativo, che non è dato rinvenire.
     Inoltre, il trasferimento dell’intera causa non può avvenire attraverso il mezzo tecnico della riassunzione (art. 50 cod. proc. civ.), che risulterebbe impropria con riferimento al tenore della pronuncia del giudice adito (di improcedibilità/improponibilità delle domande) e, ancora e di più, del tutto estranea alla fattispecie perché implicherebbe o, quando servisse a trasferire la causa direttamente dinanzi al tribunale fallimentare, l’inammissibile (perché in contrasto con il sistema fallimentare) eliminazione della fase di verifica dei crediti e dei provvedimenti del giudice delegato ex art. 95 legge fall. sulla pretesa creditoria dell’attore in riconvenzionale, ovvero, quando volesse ipotizzarsi, con eguale deviazione dal sistema processuale, una riassunzione dinanzi al giudice delegato, la difficile, ardua, applicazione di istituti connessi al suddetto mezzo tecnico, ad esempio, quello dell’eventuale declaratoria di estinzione del processo ex art. 307 cod. proc. civ. che dovrebbe essere richiesta al, e pronunciata dal, giudice delegato al fallimento.
     3.5. Detto trasferimento dovrà necessariamente attuarsi mediante la riproposizione della domanda dinanzi al giudice delegato.
     Ora, riproposta la domanda (nelle forme rituali di cui all’art. 93 legge fall.) dal preteso creditore del fallimento, certamente in tale sede il curatore sarebbe legittimato, al fine di contrastarla, ad opporre le contrapposte ragioni creditorie del fallito (e del fallimento) derivanti dal medesimo titolo.
     Qui effettivamente il tribunale fallimentare risulterebbe munito della piena cognizione dell’intero rapporto in quel giudizio di opposizione ex art. 98 legge fall. che il creditore del fallito avrebbe diritto di introdurre in conseguenza di una pronuncia a lui sfavorevole che il G.D. avesse reso anche sulla base delle contrapposte ragioni fatte valere dal curatore – il quale, in tale giudizio, sarebbe, infatti, legittimato ad opporre ogni sorta di eccezioni, intese a paralizzare la domanda del creditore.
     L’ipotesi considerata dalle Sezioni Unite del 1979: «il preteso credito del curatore in dipendenza del medesimo contratto cui si ricollega anche la domanda riconvenzionale, non è materia di causa autonoma, perché … appartiene ad un thema decidendum unitario, per cui l’accertamento di esso credito non è altro che uno dei momenti della complessa indagine necessaria per l’esame della domanda della controparte, di ammissione al passivo “così che” se tale indagine si concludesse con l’accertamento di un saldo attivo a favore del suddetto creditore, il giudice delegato emetterebbe un provvedimento di ammissione del relativo credito al passivo (provvedimento soggetto all’impugnazione di ogni creditore o ad istanza di revocazione ex art. 102 legge fall. anche da parte del curatore); se invece l’indagine ponesse in evidenza un saldo attivo a favore della società fallita, lo stesso giudice si limiterebbe a rigettare la domanda di ammissione, con la possibile eventualità dell’opposizione del creditore allo stato passivo (e conseguente devoluzione dell’intera materia al tribunale, con ampia possibilità di cognizione e decisione da parte sua riguardo ad entrambe le pretese creditorie) o dell’onere del curatore di adire la sede ordinaria per ottenere l’accertamento del residuo credito della fallita e la conseguente condanna della controparte al pagamento».
     Quest’ultima proposizione della sentenza n. 3878 del 1979 («o dell’onere del curatore di adire la sede ordinaria …») contiene già il riconoscimento di come il giudice dell’opposizione allo stato passivo (che è giudizio nel quale sono attori «i creditori esclusi o ammessi con riserva», che ha ad oggetto la pretesa creditori del terzo nei confronti del fallito, riguardata anche con riferimento alle eccezioni e contestazioni che il curatore opponga al fine di paralizzarla, ma nel quale non sono ammissibili domande riconvenzionali vere e proprie da parte del medesimo curatore: in tal senso Cass. n. 6963 del 1996) non disponga di poteri di cognizione né di poteri di pronuncia analoghi per ampiezza e contenuto a quelli dei quali normalmente disponeva il giudice ordinario originariamente adito dal curatore per l’accertamento del credito del fallito nei confronti del terzo per la condanna di quest’ultimo al relativo pagamento. È dunque, nel caso di saldo attivo a favore del fallito, esaminato tutto il rapporto sul quale si innestano la domanda proposta dal terzo preteso creditore e le eccezioni del creditore, il giudice delegato avrebbe poteri di pronuncia limitatamente alla domanda (di ammissione al passivo) del preteso creditore, non di accertamento o di pronuncia (di condanna in favore del fallimento) in ordine al credito del fallito fatto valere dalla curatela – per il quale si ritornerebbe alla sede giurisdizionale ordinaria, come la stessa sentenza, n. 3878 del 1979 riconosce.
     3.6. Per l’ipotesi che il creditore del fallito, dopo la pronuncia di improponibilità-improcedibilità, non riproponga, nella sede concorsuale e nelle forme di cui all’art. 93 legge fall., la domanda in origine proposta come riconvenzionale, fu già prospettata alle Sezioni Unite la possibilità che avesse a prodursi una situazione di stallo processuale e di conseguente “congelamento” del credito del fallito fatto valere dal curatore.
     Com’è noto, l’eventualità della paralisi del processo fu esclusa dalla sentenza n. 3878/1979 attraverso la considerazione che «l’opportuno coordinamento del sistema speciale del processo concorsuale con quello generale del codice di rito consente di ritenere che anche il curatore possa riattivare il processo con il ricorso al giudice delegato “eventualmente” nella sede di cui all’art. 10 legge fall.», essendo «pacifico che la traslatio judicii presso il giudice dichiarato competente può avvenire su iniziativa di entrambe le parti» – argomentazione quest’ultima che rende evidente l’implicito riferimento delle Sezioni Unite alla traslatio che ha luogo nel caso di applicazione della norma dell’art. 36 cod. proc. civ., ossia all’ipotesi di rimessione, attraverso il mezzo tecnico della riassunzione (artt. 50 cod. proc. civ., 125 disp. att. e con le possibili conseguenze di cui all’art. 307), di tutta la causa al giudice competente (art. 35 richiamato dall’art. 36).
     Ma, secondo quanto già si è considerato, a) nel caso di (semplice) interferenza di un rito speciale, e al di fuori delle ipotesi di modificazioni della competenza tra le quali si iscrive quella disciplinata dall’art. 36 cod. proc. civ., non in quest’ultima norma è rinvenibile la disciplina in concreto applicabile; b) non di riassunzione in senso tecnico si tratterebbe allorché il giudice ordinario provvedesse in termini di improcedibilità-improponibilità dell’una e dell’altra domanda, per una delle quali (la riconvenzionale) fosse previsto come inderogabile un rito speciale (quello della legge fallimentare), bensì di autonoma riproposizione delle domande ad iniziativa di ciascuna parte.
     Sembra così venir meno, come già la dottrina ebbe ad osservare, il supporto (che di traslatio iudicii abbia a trattarsi e che il mezzo tecnico per farvi luogo sia la riassunzione di cui agli artt. 35 e 50 cod. proc. civ. utilizzabile da entrambe le parti) che la sentenza n. 3878/1979 ha individuato per configurare la possibilità di una riattivazione del processo, in termini appunto di traslatio iudicii, anche ad opera del curatore (il quale, secondo detta configurazione, sarebbe legittimato a rendersi attore dinanzi al giudice delegato al fine di ottenere una pronuncia sul credito del fallito verso il terzo, e provvederebbe in tal senso introducendo presso il giudice anche la pretesa creditoria e la relativa domanda giudiziale del terzo al solo fine di ottenere il rigetto e la conseguente apertura di una fase contenziosa all’interno della quale far valere la pretesa creditoria del fallito).
     Evidente inoltre la forzatura, rispetto al sistema della legge fallimentare, conseguente all’assegnazione al curatore di un ruolo attivo nel procedimento di accertamento dei crediti di cui agli artt. 93 e ss. Nel quale, istante appunto il curatore, dovrebbe provvedersi all’accertamento di un credito del fallito e alla legittimazione dello stesso curatore alla introduzione in tale sede di una pretesa altrui (del terzo che si vanti creditore del fallito) al solo fine di utilizzarla, contrastandola nel merito e richiedendone il rigetto, per far valere una contrapposta, nascente dal medesimo titolo, pretesa creditoria del fallito (ora del fallimento).
     Già in dottrina (una posizione emersa nel lontano 1956 e ripresa in epoca successiva dai critici della sentenza S.U. n. 3878 del 1979) si osservò, contrastando, appunto, una “riassunzione” ad opera del curatore che questi non avrebbe potuto farvi luogo in nessun caso giacché «il curatore non può insinuarsi per un credito … del fallimento».
     4. Si impone, in definitiva, quel diverso esito (già prospettato da quella ricordata posizione dottrinale del 1956) secondo il quale l’improponibilità nel giudizio introdotto davanti al giudice competente secondo le regole ordinarie al curatore del fallimento nei confronti di un terzo della riconvenzionale di quest’ultimo che sia soggetta al rito speciale fallimentare, comporta, ancorché le due cause traggano fondamento nel medesimo titolo contrattuale, la “separazione” delle cause stesse, restando quella principale incardinata dinanzi al giudice per essa competente, ritualmente adito dal curatore, e ciò sulla base della considerazione che il principio del simultaneus processus né può derogare al rito speciale fallimentare, né può (al di fuori dell’ipotesi del 36 cod. proc. civ.) sottrarre la domanda principale al giudice che per essa sia naturalmente competente, per devolverla, con travisamento della struttura logica del sistema concorsuale, al giudice fallimentare.
     Del resto, la separazione delle cause è adottata anche in altre differenti ipotesi, in presenza di una competenza funzionale inderogabile per la domanda principale (il giudice del procedimento monitorio per la causa di opposizione) di una eccedenza di competenza (v. S.U. n. 10984 del 1992) o di una diversità di rito (v. Cass. n. 12436 del 1993, n. 10278 del 1996, n. 10692 del 2000) che sia rilevabile per la domanda riconvenzionale dell’opponente, rimediandosi con l’istituto della sospensione (art. 295 cod. proc. civ.) a quelle stesse esigenze che, per l’identità del titolo, spiegavano l’esigenza del simultaneus processus.
     La medesima soluzione può essere dunque adottata nel caso, come quello di specie, in cui soltanto un rito speciale, e non una diversa (di altro giudice) competenza, sottragga la domanda riconvenzionale al giudice della domanda principale e non vi sia una norma che imponga il trasferimento presso quel diverso giudice anche della domanda principale.
     4.1. Può da ultimo rilevarsi come nel caso di specie (e in tutti i casi analoghi) le ragioni di connessione tra le due contrapposte domande della curatela (di restituzione delle somme che la società poi fallita aveva pagato a titolo di acconto sul prezzo di acquisto dell’immobile) e dei convenuti in riconvenzionale (di condanna del fallimento alla corresponsione di un indennizzo per il valore d’uso dell’immobile stesso relativamente al periodo in cui la fallita prima e la curatela poi ne aveva avuto e conservato la detenzione) siano, per così dire, “deboli”.
     Ed invero, il preliminare di vendita che costituì il titolo contrattuale giustificativo della corresponsione, da parte del fallito, delle somme a titolo di acconto sul prezzo e, da parte dei promittenti venditori, dell’anticipata cessione del possesso dell’immobile, appare non più che come l’antecedente storico comune, mentre è la dichiarazione ex art. 72 legge fall., resa dal curatore per lo scioglimento del contratto, che costituisce la più immediata giustificazione degli effetti restitutori della domanda giudiziale (del fallimento) di restituzione della somma quanto della contrapposta domanda di corresponsione dell’indennizzo, sicché tale dichiarazione del curatore, in quanto non costituente materia controversa tra le parti in relazione ai suoi effetti, ben può essere dedotta autonomamente da ciascuna parte, in uno al contratto preliminare, nei giudizi separati.
     5. Il ricorso in esame dev’essere dunque accolto e la sentenza della Corte romana riformata in quella parte in cui, pronunciando l’improcedibilità di entrambe le domande, ha confermato la decisione del primo giudice che anche la domanda principale della curatela restava sottratta alla cognizione del Tribunale di Roma.
     Su tale domanda detta Corte, in sede di rinvio, dovrà pronunciare nel merito (applicandosi l’art. 354 cod. proc. civ.), previa riforma della pronuncia di “improcedibilità” della suddetta domanda principale. (Omissis)

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