il diritto commerciale d’oggi
    II.4 – aprile 2003

STUDÎ E COMMENTI

 

MARCO FARINA

L’attesa svolta della Cassazione in tema di rapporti
fra giudizi ordinari e rito fallimentare

 

 

     La Cassazione torna sui suoi passi e a distanza di più di un ventennio dalla celebre sentenza n. 3878 del 1979 resa a Sezioni unite (1), compie un vero e proprio ribaltamento dell’orientamento consolidatosi in seguito a quell’arresto (2).
     La sentenza in esame (Cass. 10 gennaio 2003, n. 148), che si spera non rimanga un isolato precedente, non può che essere salutata con estremo piacere da coloro i quali hanno a cuore sia la teoria che la pratica del diritto posto che troppe erano le contraddizioni ed incongruenze che sul piano dogmatico emergevano dal principio espresso dalle precedenti sentenze del giudice di legittimità e troppo gravi erano le conseguenze pratiche che la tralatizia ed acritica applicazione di detto principio producevano nella gestione delle procedure concorsuali.

1. La sentenza n.3878 del 1979

     Come noto con la sentenza n. 3878 del 1979 le sezioni unite della Corte di Cassazione avevano ritenuto che “quando al curatore che agisce per il recupero di un credito del fallito venga opposta una domanda riconvenzionale di pagamento di somma che si assume dovuta dal fallito e finalizzata alla partecipazione al concorso, entrambe le pretese, in quanto inscindibilmente devolute alla cognizione di un unico giudice, devono essere trasferite nella sede concorsuale di accertamento e verificazione dello stato passivo” e ciò in virtù del principio di esclusività ed inderogabilità del procedimento di cui agli art.93 e ss. della legge fallimentare ed in armonia con il principio di cui all’art.36 del codice di procedura civile.
     Ad avviso della Corte, infatti, la dichiarazione di improcedibilità della domanda riconvenzionale (3) non poteva non comportare anche la dichiarazione di improcedibilità della domanda principale proposta dal curatore e ciò in omaggio all’esigenza del simultaneus processus che ispira il disposto dell’art. 36 del codice di rito (4).
     La debolezza intrinseca della tesi fino ad oggi sostenuta dalla Suprema Corte non tardò ad essere messa in luce dalla dottrina più attenta la quale si espresse in termini fortemente critici con riguardo alla soluzione allora adottata dal Supremo Collegio e oggi, si spera definitivamente, ripudiata (5).
     Non si esitò, infatti, ad evidenziare la contraddittorietà della soluzione adottata dai Supremi Giudici i quali, a detta della dottrina, avevano finito per confondere un mero problema di rito con un problema di competenza e da questo avevano fatto discendere quello che icasticamente era stato definito un mostro giuridico (6).
     Del resto che non si trattasse di un questione di competenza era chiaro alla stessa Corte già nel 1979 quando, per la prima volta, espresse tale principio dal momento che in un passo di quella celebre sentenza si dichiarava, testualmente “che il sopravvenuto fallimento della società attrice creava un problema di rito più che di competenza” e fu dalla stessa confermata negli anni successivi con il regolare rigetto dei regolamenti di competenza proposti avverso le sentenze dei giudici di merito che, impropriamente, si spogliavano dell’intera causa dichiarando la competenza per materia o funzionale) del Tribunale Fallimentare (7).
     In questo quadro pareva quindi inconcepibile che si facesse applicazione di una norma che la stessa Corte riteneva non propriamente confacente alla fattispecie posto che, come correttamente statuito nella sentenza in commento, alla norma di cui all’art.36 cod. proc. civ. è estranea l’ipotesi dell’assoggettamento della domanda riconvenzionale ad un rito speciale e diverso da quello secondo cui fu proposta la domanda principale.
     Non minori critiche sollevò il ragionamento operato dalla Corte con riguardo al meccanismo da seguire al fine di ottenere una decisione sul merito della domanda principale del fallimento: i giudici di legittimità, infatti, in risposta all’obiezione sollevata con riferimento alla possibilità di stasi processuale ingenerata con una pronuncia di improcedibilità di entrambe le domande (8) considerò che il problema poteva essere agevolmente superato sulla base del semplice rilievo per cui la riassunzione della causa può avvenire ad istanza di entrambe le parti, a nulla rilevando la posizione processuale da essi rivestita nel processo da riattivare, e che, pertanto, il curatore ben avrebbe potuto, per evitare l’inerzia del convenuto, adire il giudice delegato eventualmente nella sede di cui all’art.101 legge fall.
     Le modalità del trasferimento appena descritte erano del resto in sintonia con il (voluto ?) equivoco di considerare la questione come di competenza dal momento che, effettivamente, l’art. 50 cod. proc. civ. (9) non differenzia le posizioni dei contendenti processuali ai fini della legittimazione alla riassunzione del processo ma ciò, si fece notare, non aveva alcuna rilevanza nel caso di specie poiché la pronuncia che concludeva il processo da riattivare non era una pronuncia sulla competenza ma una pronuncia di mero rito con la conseguenza che qualsiasi evento processuale che seguisse quella pronuncia non avrebbe mai potuto essere considerata la prosecuzione del processo conclusosi in rito.
     L’avere quindi concesso al curatore la facoltà di presentare al G.D. domanda di ammissione nella forma del ricorso (erroneamente qualificato alla stregua di un ricorso per riassunzione) al fine di ottenere un esame anche della propria pretesa creditoria finiva con il creare un ulteriore squilibrio a livello dogmatico in quanto se l’atto del curatore era più esattamente da definire come riproposizione delle domande, era palese la violazione dell’art. 81 cod. proc. civ. in base al quale nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio se non nei casi espressamente previsti dalla legge.
     Ancora più inappaganti erano le ulteriori considerazioni della Corte in merito alla sorte della pretesa creditoria del fallito fatta valere in via sostitutiva dal curatore in seguito al “trasferimento” dell’intera causa in sede fallimentare.
     A giudizio del Supremo collegio, infatti, nel caso in cui la pronuncia di improcedibilità fosse avvenuta nelle more della verificazione dello stato passivo, ossia quando la domanda di ammissione era ancora tempestiva, il curatore avrebbe potuto provocare l’esame nel merito della sua pretesa, in seguito al provvedimento di diniego di ammissione assunto dal G.D. della pretesa del convenuto, o nella sede ordinaria (attesa la mancanza di poteri decisori del G.D. su tale materia) qualora il provvedimento non fosse stato impugnato dal creditore escluso con l’opposizione ex art.98 legge fall., oppure, nel caso di proposta opposizione, nel giudizio di cognizione che in seguito a tale “impugnazione” (10) si apriva.
     In merito a tale ricostruzione poteva (può) obiettarsi che nel caso di mancata opposizione allo stato passivo, che aprirebbe al curatore la via ordinaria per il recupero del credito del fallito, nulla impedirebbe al convenuto di riproporre la medesima domanda riconvenzionale in quanto, come noto (11), il provvedimento di rigetto emesso dal G.D. in sede di verifica dei crediti ex art. 93 e ss. legge fall. ha efficacia meramente endoconcorsuale e, pertanto, nessun ostacolo si sarebbe frapposto alla riproposizione della domanda riconvenzionale riguardante il medesimo credito fatto valere in sede concorsuale.
     A ben vedere la tenuta del ragionamento operato dalla corte si sarebbe dovuta confrontare proprio con questa ipotesi dal momento che riproposta dal curatore nella sede ordinaria la domanda principale e riproposta dal convenuto la domanda riconvenzionale, non ostacolata da alcuna preclusione ex iudicato, la sentenza che in applicazione del medesimo principio avesse dichiarato l’improcedibilità di entrambe le domande avrebbe provocato, questa sì, un vero e proprio congelamento della pretesa creditoria fatta valere dal curatore il quale, se avesse voluto ritentare la via del ri-trasferimento nella sede concorsuale (anche a voler prescindere dai problemi di legittimazione che esso pone), sarebbe stato destinato ad un sicuro insuccesso.
     Egli, infatti, in aderenza all’insegnamento fino ad oggi consolidato della Cassazione avrebbe dovuto, questa volta, seguire il procedimento ex art.101 legge fall., presentando ricorso al giudice delegato facendo così valere anche la pretesa del convenuto ma questo procedimento non avrebbe potuto che essere dichiarato inammissibile proprio in virtù dell’efficacia preclusiva endofallimentare che assiste il decreto di rigetto del giudice delegato (12).
     Quid iuris della domanda del curatore allora?
     Non più convincente era del resto la soluzione offerta dalla Suprema Corte nel caso in cui la pronuncia di improcedibilità fosse giunta quando la domanda tempestiva era preclusa poiché se è vero che in tal caso la semplice contestazione del curatore apre un vero e proprio giudizio di cognizione in cui far valere, anche, la pretesa creditoria del fallito è anche vero che, anche a prescindere dall’evidente violazione del principio di cui all’art. 81 cod. proc. civ. e anche a voler tacere dei problemi che solleva la possibilità per il curatore di proporre in questo tipo di giudizi domande riconvenzionali (13), la genuinità di una soluzione deve essere verificata tenendo presente ogni ipotesi possibile con la conseguenza che la dimostrata insostenibilità di tale soluzione con riferimento anche ad una sola delle ipotesi che si possono presentare avrebbe dovuto sconsigliare la corte dal seguirla.

2. La sentenza n. 148 del 2003

     Come già detto in precedenza la Corte dopo più di un ventennio dall’inaugurazione dell’orientamento sopra descritto si è dimostrata molto sensibile alle critiche ad essa rivolte e con una sentenza tanto attesa quanto inaspettata (14) ha concordato nel ritenere l’inapplicabilità dell’art. 36 cod. proc. civ. ed ha conseguentemente accolto il ricorso avverso una sentenza della Corte d’Appello di Roma che, in parziale conferma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto di dover dichiarare l’improcedibilità di entrambe le cause.
     La parte ricorrente aveva affidato la critica della sentenza impugnata a due complessi motivi: il primo attinente all’omesso rilievo da parte del giudice di primo grado prima e della corte d’appello poi della litispendenza fra domanda riconvenzionale proposta dal convenuto nel giudizio ordinario e domanda di ammissione al passivo dallo stesso in precedenza proposta in sede fallimentare, il secondo contenente, a quanto dato desumere dalla motivazione della sentenza, più in generale una critica al principio sopra descritto.
     La Corte ha ritenuto fondato il secondo dei due motivi proposti ritenendo erroneo ed improprio il richiamo all’istituto della litispendenza la quale non ricorre allorché le domande siano proposte dinanzi a giudici dello stesso ufficio giudiziario nel tal caso operando le norme di cui agli articoli 273 e 274 cod. proc. civ. (15).
     In relazione, invece, alla dichiarazione di improcedibilità non solo della domanda riconvenzionale ma anche della domanda principale proposta dal curatore la Corte ha giustamente ritenuto che non esiste nessuna norma che imponga tale declaratoria poiché la norma di cui all’art. 36 cod. proc. civ. non è utilmente invocabile configurandosi essa come norma disciplinante il processo allorché per la domanda riconvenzionale venga in rilievo una diversa competenza e non un rito diverso.
     Secondo le parole dei giudici di legittimità «alla norma di cui all’art. 36 cod. proc. civ. è estranea, nel senso che non vi riceve disciplina, l’ipotesi che la domanda riconvenzionale sia soggetta ad un rito diverso, rispetto a quello, ad es. ordinario, secondo il quale fu proposta la domanda principale».
     La corte esclude anche che nella questione dedotta alla sua attenzione ci sia spazio per l’applicazione dell’art. 40 cod. proc. civ., così come novellato dalla legge n. 353/1990, che è, a dire dei giudici di legittimità, anch’essa norma regolatrice della competenza per i casi di connessione.
     L’affermazione della corte sul punto, pur non costituendo un passaggio logicamente e giuridicamente necessitato della motivazione della sentenza, merita un approfondimento.
     Come noto l’art. 40 cod. proc. civ. in seguito alla novella del 1990 ha visto inseriti al suo interno tre commi i quali hanno contribuito ad allargare le possibilità del simultaneus processus, nel senso che esso è ora possibile anche quando due cause, da riunire o già riunite, siano soggette a riti diversi (16).
     I primi commenti (17) alla novella del codice di rito avevano da subito evidenziato l’efficacia dirompente che tale norma avrebbe potuto avere nella questione dibattuta e risolta dalla sentenza in commento in quanto se la diversità di rito non è di ostacolo al simultaneus processus e nel caso di processo cumulativo è il rito ordinario a prevalere su quello speciale, la domanda riconvenzionale (ipotesi di connessione espressamente ricompresa nell’ambito di applicazione della norma de qua) avrebbe potuto essere trattata secondo le forme del giudizio ordinario instaurato dal curatore per il recupero di un credito del fallito.
     Tale soluzione, apparentemente di piana evidenza stando alla lettera della legge, apparve però del tutto incompatibile con le finalità ed in principi delle procedure fallimentari in quanto si sarebbe sottratto al giudice fallimentare una delle funzioni preminenti nello svolgimento delle procedure concorsuali, ossia l’accertamento del passivo.
     A tal proposito ritiene la corte che l’art. 40 cod. proc. civ. non offra una base normativa per fornire risposta alla sorte processuale del giudizio incardinato dal curatore ed in cui si è innestata la domanda riconvenzionale del convenuto creditore del fallito.
     Il ragionamento della corte, tuttavia, non convince appieno in quanto, in effetti, la norma sembrerebbe dare soluzione proprio al problema descritto in precedenza.
     La trattazione della domanda riconvenzionale secondo il rito ordinario, come già detto supra, costituisce un effetto in netto contrasto con i principi della concorsualità che devono assistere l’accertamento di ogni credito del fallito e pertanto è necessario procedere ad una lettura della norma che impedisca il prodursi di tale “perversione” sistematica.
     Secondo i giudici di legittimità la norma non trova applicazione nella questione in commento in quanto è anch’essa, al pari del’art.36 cod. proc. civ., norma regolatrice della competenza con la conseguenza che l’avere disegnato i rapporti fra cognizione ordinaria e cognizione fallimentare in termini di rito e non di competenza non consente di farsi applicazione né dell’art.36 né dell’art. 40 cod. proc. civ.
     L’argomentazione vale per l’art. 36 cod. proc. civ. ma non per l’art. 40 cod. proc. civ. che è norma in parte regolatrice della competenza ed in parte regolatrice del rito: nella parte che regola il rito essa dispone che il rito ordinario prevale e, pertanto questa volta occorre accertare non se le due cognizioni siano in rapporto di competenza ma se il rito ordinario possa prevalere sul rito fallimentare.
     In altri termini impostata correttamente la questione in termini di rito e non di competenza ne deriva che, da un lato, non può farsi applicazione dell’art. 36 cod. proc. civ. e dall’altro che la prevalenza del rito fallimentare su quello ordinario, attesa la sua esclusività ed inderogabilità, impedisce l’applicazione anche del terzo comma dell’art. 40 cod. proc. civ. con la conseguenza che la trattazione cumulata delle due domande non è praticabile almeno ab initio.
     Riassumendo può quindi dirsi che proposta dal curatore domanda per il recupero di un credito del fallito e proposta dal convenuto domanda riconvenzionale avente ad oggetto un credito concorsuale, e quindi soggetta ad un rito speciale, la dichiarazione di improcedibilità di entrambe le domande è impedita dall’inesistenza di una norma che la preveda e la sancisca (tale non è, come abbiamo visto, l’art. 3 6 cod. proc. civ.) così come la trattazione simultanea di entrambe le domande secondo il rito ordinario è preclusa dall’impossibilità di ritenere operante il terzo comma dell’art. 40 cod. proc. civ. in virtù dell’esclusività e inderogabilità del rito previsto per l’accertamento del passivo fallimentare.
     Il giudice, pertanto, dovrà decidere la domanda principale nel merito e riservare alla domanda riconvenzionale una pronuncia di improcedibilità.
     Non si tratta, quindi, tanto di separare le due cause, la principale e la riconvenzionale, quanto piuttosto di deciderle entrambe anche se una nel merito e l’altra puramente in rito con la conseguenza che allorquando si legge in numerose pronunce che il giudice dovrà procedere alla separazione delle cause e, nel caso di pregiudizialità-dipendenza della riconvenzionale, provvedere a sospendere il giudizio, deve concludersi, più correttamente, che la dedotta “separazione” è da intendersi in un’accezione atecnica, ossia come dichiarata non influenza della spiegata domanda riconvenzionale sulla sorte della domanda principale, e non come rimessione della stessa domanda al giudice competente.
     Ciò, ovviamente, si ripercuote sulla possibilità di sospensione della causa sulla domanda principale nel caso di pregiudizialità rispetto alla controdomanda del convenuto poiché tale provvedimento potrà essere adottato solamente quando la pretesa fatta valere in via riconvenzionale sia proposta secondo il rito inderogabilmente prescritto.
     Occorre ora chiedersi se il medesimo ragionamento sia valido anche nel caso in cui il giudice adito dal curatore non sia quello che ha dichiarato il fallimento, ossia se anche nel caso in cui la domanda riconvenzionale proposta dal convenuto oltre a presentare una questione di rito involga anche una questione di competenza (il caso classico è quello del curatore che instaura il giudizio dinanzi il Tribunale del luogo ove ha la residenza il convenuto, secondo i criteri di competenza previsti in generale per le persone fisiche dal codice di rito, che sia diverso da quello che ha dichiarato il fallimento) si imponga la soluzione caldeggiata dalla dottrina e fatta propria dalla sentenza in commento.
     Non ostante aleggi nella motivazione della sentenza in commento una certa prudenza nel esprimere a chiare lettere la non interferenza tra le regole sulla competenza e quelle sul rito (18) in ogni ipotesi di pretesa creditoria fatta valere in un ordinario giudizio di cognizione v’è da ritenere che anche nel caso in cui il Tribunale adito in sede ordinaria dal curatore e il Tribunale che ha dichiarato il fallimento non coincidano ugualmente si dovrà dichiarare l’improcedibilità della sola domanda riconvenzionale.
     La circostanza, infatti, appare ai fini della risoluzione della questione del tutto ininfluente poiché anche in questo caso l’applicabilità dell’art. 36 cod. proc. civ. deve essere recisamente esclusa in virtù della prevalenza e pregiudizialità (19) che caratterizza la questione di rito rispetto alla questione di competenza di cui indubbiamente sussistono alcuni profili che rischiano però di essere fuorvianti.
     La prevalenza della questione di rito su quella di competenza potrebbe farsi derivare dalle conseguenze che dall’una o all’altra qualificazione deriverebbero in ordine al regime processuale della domanda proposta nel giudizio ordinario dal creditore del fallito, sia in via principale che riconvenzionale.
     Qualora, infatti, si privilegiasse l’aspetto di competenza presente nella fattispecie si correrebbe il rischio di vanificare l’esigenza, insita nel sistema, di sottrarre alla concorsualità l’accertamento del credito fatto valere in un ordinario giudizio di cognizione.
     Come noto, infatti, e a voler ritenere operante nel caso di specie il dettato dell’art. 24 della legge fallimentare (20), l’art. 38 cod. proc. civ. dispone che l’incompetenza per materia, quella per valore e per territorio inderogabile sono rilevate, anche di ufficio, non oltre la prima udienza di trattazione con la conseguenza che la mancata rilevazione in termini della questione precluderebbe una pronuncia in rito sulla causa riconvenzionale consentendo l’emanazione di una sentenza astrattamente spendibile nel concorso.
     Evidenti ragioni sistematiche nonché di parità di trattamento di situazioni identiche impongono, in definitiva, di considerare prevalente e pregiudiziale la questione di rito rispetto a quella di competenza non operando, quindi, la preclusione di cui all’art. 38 cod. proc. civ. ed essendo la questione rilevabile ex officio in ogni stato e grado del processo, salve le regole generali in tema di impugnazioni e giudicato interno (21).
     Pare lecito, in conclusione, sostenere che il cambiamento di rotta operato dalla Cassazione consenta una più agevole gestione del contenzioso fallimentare in genere dissipando in tal modo qualsiasi dubbio in ordine alla conformità della soluzione fino ad oggi seguita ai canoni di un “giusto processo”, ossia di un processo di cui non solo sia assicurata la “ragionevole durata” ma che sia connotato dalla “semplicità” intesa quale tendenziale rifiuto ad ogni tipo di complicazione interpretativa (22).

Note

     (1) Cass. civ. 6 luglio 1979 n.3878, in Giur. comm. 1980, II, 346 con nota di Ricci.

     (2 ) Tra le più recenti Cass. civ., sez. I, 25 luglio 2002, n. 10912 in Fallimento, 1372; Cass. civ., sez. I, 19 aprile 2002, n. 5725 in Giust. civ., 2002, I, 1813; Cass. civ., 13 dicembre 1999, n.13944 in Dir. fall., 2000, II, 257; Cass. civ., 9 aprile 1997 n. 3068, in Fallimento, 1997, 1012; Cass. civ., 13 maggio 1991, n. 5333, in Dir. fall., II, 684. Le uniche voci dissonante al monolitico indirizzo della corte regolatrice sono venute da alcuni coraggiosi giudici di merito: Trib. Trani, 6 maggio 1999, in Giur. merito, 2001, 93; App. Venezia, 11 luglio 1996, in Giur. comm., 1997, II, 561; Trib. Bologna, 16 gennaio 1995, in Dir. fall., II, 1996, 889; Trib. Vicenza, 30 marzo 1990, in Dir. fall., II, 1990, 1231; Trib. Roma, 20 marzo 1985, in Dir. fall., 1985, II, 858.

     (3) L’improcedibilità/inammissibilità delle domande di condanna che vengono proposte in sede ordinaria nei confronti del curatore è dogma che deriva dall’obbligatorietà per ogni creditore concorsuale che intenda divenire concorrente di seguire le forme e i modi previsti per l’accertamento del passivo dagli art.52, 93 e ss della legge fallimentare ritenute, appunto, inderogabili in quanto strutturalmente idonee ad assicurare il rispetto della concorsualità. In dottrina sul principio di esclusività dell’accertamento del passivo Bozza e Schiavon, L’accertamento del passivo e le cause di prelazione, Milano, 1992, 59; Russo, L’accertamento del passivo nel fallimento, Milano, 1988, 95; Fabiani, L’esclusività del rito dell’accertamento del passivo, in il Fallimento, 1990, 898; Fabiani, Decreto di esecutorietà dello stato passivo e accertamento negativo del credito, in Fallimento, 1997, 1087; Manzo, Improponibilità della (sola) domanda riconvenzionale, in Fallimento, 185, 320; Vassalli, Diritto Fallimentare, I, Torino, 1994, 314.

     (4) L’articolo 36 cod. proc. civ. esplicitamente rinvia agli artt. 34 e 35 del medesimo codice di rito i quali prevedono sia la soluzione del simultaneus processus (ovviamente nel caso in cui per la domanda principale non venga in gioco una competenza per materia o funzionale) sia la soluzione della separazione delle cause anche utilizzando l’istituto della c.d. condanna con riserva. Sarebbe, quindi possibile, nel caso in cui la domanda principale fosse fondata su titolo non controverso o facilmente accertabile separare le due cause, rimettendo la domanda riconvenzionale al giudice superiore competente, e decidere con condanna pura, nel caso di domande riconvenzionali compatibili, o con condanna con riserva, nel caso di domande (segue) riconvenzionali incompatibili, la domanda principale. Secondo alcuni (Tarzia e Balbi, Riconvenzione (diritto processuale civile), Encicl. del diritto, XL, Milano, 1989, 275) la separazione delle cause sarebbe possibile solo quando per la riconvenzionale venga in gioco una diversa competenza per valore e non per materia ciò argomentando dal fatto che l’art. 35 cod. proc. civ., che prevede l’ipotesi che le due cause proseguano separate, richiama solo il primo criterio di competenza e non anche il secondo. Proprio dal fatto che l’art.36 cod. proc. civ. prevede, tramite il rinvio operato all’art.35 cod. proc. civ., la possibilità di separare le cause si era sostenuto che la rigidità della Corte nell’imporre il simultaneus processus nell’ipotesi di interferenza tra rito ordinario e rito fallimentare non fosse giustificabile dal momento che, si è detto, la trattazione congiunta è solamente auspicata dal legislatore e non imposta in via assoluta. Tale argomentazione, tuttavia, non appare cogliere nel segno poiché, a prescindere dalla considerazione che contrastare l’indirizzo fino ad oggi prevalente basandosi proprio sul modo di operare di una norma che si vuole inapplicabile nella fattispecie, la scelta tra trattazione congiunta e separazione delle cause è soggetta a precise regole desumibili sia dalla norma che dal sistema con la conseguenza che la rimessione dell’intera causa era, invero, soluzione ineccepibile nel contesto delle argomentazioni fino ad oggi adottate dalla corte.

     (5) Ricci, Il sonno della ragione e i suoi mostri, in Giur.comm, 1980, II, 346; Manzo, op. cit., 320; Bozza e Schiavon, op .cit., 164; Fabiani, Domande riconvenzionali, fallimento e reciprocità di posizioni processuali, in Fallimento, 2001, 887 ed ivi ampi riferimenti bibliografici.

     (6) Ricci, op. cit., 346.

     (7) L’impugnabilità di tali sentenze con l’appello e non il regolamento di competenza è sta affermata da numerose pronunce di legittimità tra cui Cass. civ., 1 agosto 1997 n.7154, in Fallimento, 1998, 1026; Cass. civ., 25 marzo 1997 n.2619, in Fallimento, 1998, 233; Cass. civ., 23 gennaio 1997 n.702, in Fallimento, 1997, 517; Cass. civ., 6 dicembre 1989 n.5401, in Fallimento, 1990, 492.

     (8) Il congelamento della pretesa del fallimento, in effetti, derivava dal tipo di pronuncia emessa la quale imponeva di considerare inesistente qualsiasi legame prosecutorio tra giudizio ordinario e giudizio fallimentare dovendosi intendere la riproposizione dell’intera questione nel procedimento di accertamento del passivo quale proposizione ex novo della domanda (su tale punto vedi infra).

     (9) Sottolinea Fabiani, op. ult. cit., 892, che la corte sembra avere utilizzato il termine translatio iudicii in senso atecnico senza rendersi conto della portata profondamente innovatrice della qualificazione della domanda di ammissione (tempestiva o tardiva) come domanda di riassunzione ex art.50 cod. proc. civ. Ed in effetti se veramente fosse applicabile l’art.50 cod. proc. civ., il quale prevede la possibilità di entrambe le parti di provvedere a riassumere il processo, si dovrebbe concludere che il successivo giudizio di accertamento sia una prosecuzione del giudizio conclusosi in rito in sede ordinaria con l’ulteriore conseguenza che si conserverebbero gli effetti sostanziali e processuali in esso generatisi ciò ponendosi, però, in evidente contraddizione con il principio più volte affermato per il quale la domanda di ammissione al passivo non è la riassunzione di un processo pendente. Lo stesso autore evidenzia, altresì, l’ingiustificata disparità di trattamento che si verrebbe a creare se si desse seguito al ragionamento della corte regolatrice: nel caso, infatti, di domanda di condanna del fallimento svolta dal creditore in via principale la Corte ha da sempre sostenuto che essa vada dichiarata improcedibile tout court senza far menzione della (segue) possibilità di attivare lo strumento riassuntivo ex art.50 cod. proc. civ. e, quindi, per coerenza, anche la domanda riconvenzionale dovrebbe essere trattata allo stesso modo.

     (10) Sulla natura impugnatoria del procedimento di opposizione vedi, da ultimo, Cass. civ., 8 novembre 1997 n. 11026; Cass. civ., 27 marzo 1995 n. 3592; Cass. civ., 5 settembre 1992, n. 10241. In dottrina alcuni autori contestano la qualificazione di impugnazione attribuita all’opposizione allo stato passivo preferendo assimilare il rimedio oppositorio all’opposizione a decreto ingiuntivo. Cfr. per tutti S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1964; Panzani, Opposizione allo stato passivo, in Fallimento, 1990, 927.

     (11) La questione dell’efficacia delle decisioni emesse nella sede dell’accertamento del passivo è vastissima e tuttora dibattuta. Basti qui sottolineare che la giurisprudenza pare essersi stabilizzata in una posizione di compromesso attribuendo efficacia endofallimentare al provvedimento assunto dal G.D. con decreto ed efficacia extra fallimentare ai provvedimenti emessi dal Tribunale in forma di sentenza all’esito dei giudizi ex art.98 e 101 legge fall.

     (12) Costituisce principio consolidato in giurisprudenza quello in base al quale con l’insinuazione tardiva è possibile far valere solamente un credito diverso, per petitum e causa petendi, da quello fatto valere in via tempestiva. Cfr. Cass. civ., Sez. I , 11 maggio 2001 n. 6543, in Mass., 2001; Cass. civ., sez. I, 24 gennaio 1997 n.7 51, in Dir. fall., II, 974, con nota di Montanari.

     (13) Ad un primo indirizzo che sembrava essersi stabilizzato nel senso dell’ammissibilità incondizionata di domande riconvenzionali da parte del curatore nei giudizi ex art. 98 e 101 legge fall. se ne è contrapposto uno più recente (Cass. civ., 1° agosto 1996, n. 6963. In dottrina vedi per tutti Fabiani, op. ult. cit., 903; Montanari, Opposizione allo stato passivo e limiti dell’ammissibilità della riconvenzionale, in Fallimento, 1997, 471.

     (14) L’estensore della sentenza in commento è, infatti, il medesimo di Cass. civ., sez. I., 25 luglio 2002, n.10912 (vedi nota 2) che, a quanto consta, è l’ultima ad aver ribadito il principio oggi travolto. Come già detto le uniche incrinature al consolidato orientamento della corte regolatrice erano venute da alcuni giudici di merito (vedi ancora nota 2). La dottrina aveva, invero, individuato nell’orientamento nel frattempo anch’esso consolidatosi sulla questione nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo (a partire da Cass. civ., sez. I., 16 dicembre 1993, n. 12436, in Fallimento, 1994, 581, si era, infatti, stabilito che «con riguardo all’opposizione a decreto ingiuntivo, il fallimento del creditore opposto, nei cui confronti sia stata proposta dall’opponente domanda riconvenzionale, non comporta l’improcedibilità del giudizio di opposizione e la rimessione dell’intera controversia al giudice fallimentare, dovendo il giudice dell’opposizione trattenere questa e su di essa decidere, e disporre la remissione della sola domanda riconvenzionale dinanzi al giudice delegato al fallimento, previa separazione dei due procedimenti, e salva la possibilità di sospensione del giudizio di opposizione qualora la definizione della riconvenzionale si presenti come pregiudiziale rispetto alla decisione dell’opposizione medesima» e tale principio è stato sempre confermato dalle successive decisioni di legittimità. Cfr. Cass. civ., 21 novembre 1996, n. 10278; Cass. civ., 22 gennaio 1999, n.562; Cass. civ., 11 agosto 2000, n. 10692) un’apertura verso nuove e più soddisfacenti conclusioni. È da ritenere, però, che tali decisioni non si ponevano in contraddizione con quanto dalla stessa corte sostenuto nel caso di giudizio di cognizione ordinario e da queste, pertanto, non era lecito trarre argomentazioni idonee a scalfirlo. In esse, infatti, si confermava l’impostazione della questione in termini di (quasi) competenza solo che nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo la vis attractiva del rito fallimentare non poteva ritenersi prevalente sulla competenza, anch’essa ritenuta inderogabile e non modificabile per ragioni di connessione (vedi per tutte Cass. civ., sez. un, 8 ottobre 1992, n. 10985, in Foro. it., 1992, I, 3286 con nota di Proto Pisani), del giudice investito dell’opposizione stessa. Ancora una volta, quindi, applicazione dell’art.36 cod. proc. civ. e nessuna rimeditazione della questione.

     (15) È evidente che l’accoglimento di questo motivo avrebbe comportato l’adesione a quel principio, fatto proprio da un’isolata pronuncia del Tribunale di Roma (7 giugno 1993, est. Di Amato, in Dir. Fall., II, p.976, con nota di Di Gravio), per cui il giudice delegato deve essere visto come autonomo organo giurisdizionale, dotato di una propria competenza e, quindi, come organo giudicante diverso dal Tribunale.

     (16) Affermare, come fa la corte, che la norma regola la competenza è senz’altro cosa esatta ma forse non pienamente sufficiente per comprenderne appieno la portata. Se è indubitabile che i primi due commi dell’art. 40 cod. proc. civ. regolano l’ipotesi che due cause connesse siano proposte innanzi a giudici diversi, ossia appartenenti ad uffici giudiziari diversi (e, quindi, in questo senso è corretto ritenere che essi regolano la competenza), lo stesso non può dirsi per i commi 3, 4 e 5 che sembrano in grado anche di poter disciplinare l’ipotesi di cause connesse proposte davanti a giudici dello stesso ufficio giudiziario(segue) e per le quali, pertanto, la riunione si atteggia come provvedimento ordinatorio (art. 274 cod. proc. civ.). I suddetti commi non regolano affatto una questione di competenza ma si limitano solamente a stabilire che due cause connesse, sottoposte a riti differenti, debbano essere trattate secondo il rito ordinario dettando una disciplina cogente anche per il caso di riunione ex art. 274 cod. proc. civ.

     (17) Fabiani, Prime impressioni su alcune interferenze fra la riforma del codice di procedura civile e la legge fallimentare, in Foro it., 1991, I, 2174; Nela, Le riforme del processo civile a cura di S. Chiarloni, Bologna, 1992, 60; Luiso, in Consolo, Luiso e Sassani, La riforma del processo civile, I, Milano, 1991, 26; Capponi, in Corr. giur., 1991, 25 e ss.

     (18) Nel caso deciso i due Tribunali coincidevano. La detta prudenza la si può avvertire laddove la corte ritiene di precisare con l’inciso “come nel caso di specie” la soluzione adottata, come se, almeno così sembra arguirsi dal testo del provvedimento, la medesima soluzione non fosse praticabile allorquando il Tribunale adito in sede ordinaria ed il Tribunale che ha dichiarato il fallimento non coincidano.

     (19) Gugliemucci, Lezioni di diritto fallimentare, Torino, 2000, 96; Fabiani, L’esclusività del rito dell’accertamento del passivo, in Fallimento, 1990, 898.

     (20) ) Pare corretto ritenere che la norma in questione individui una competenza per materia e territorio inderogabile il cui regime non può sottrarsi alla disciplina prevista dal primo comma dell’art.38 cod. proc. civ. e quindi alla preclusione stabilita per il rilievo della relativa questione.Non diversamente dovrebbe opinarsi nel caso in cui si qualificasse la competenza del Tribunale fallimentare per le azioni che derivano dal fallimento come “funzionale” posto che, da un lato, è discussa la stessa configurabilità di un tale tipo di competenza che viene dalla dottrina di solito identificata con la competenza per gradi (Attardi, Le nuove disposizioni del Processo civile, Padova, 1991, 31; Rascio, in Riv. dir. proc. civ., 1993, 136; Proto Pisani, in Foro. it., I, 1992, 3286)e, dall’altro, la stessa dottrina ritiene, in ogni caso, che la competenza c.d. “funzionale” va comunque assimilata alla competenza per materia, valore e territorio inderogabile quanto a regime di rilevabilità. Di contrario avviso Norelli, in Diritto Fallimentare a cura di Greco, I, 440.

     (21) Interessante a tal proposito Cass. civ., 19 aprile 2001 n.5725, in Giust. civ., 2002, I, 1813 in cui si è affermato che la rilevabilità d’ufficio della questione riguardante l’improponibilità-improcedibilità della domanda di condanna rivolta(segue) contro un fallimento per un credito concorsuale va coordinata con il sistema generale delle impugnazioni e con la disciplina del giudicato implicito, e, in particolare, con il principio che impone la conversione delle cause di nullità in cause di impugnazione, di talché l’eventuale nullità derivante dal detto vizio procedimentale non dedotta come mezzo di gravame avverso la sentenza resa dal giudice funzionalmente incompetente resta coperta dall’intervenuto giudicato, con conseguente preclusione della suddetta rilevabilità d’ufficio.

     (22) Fabiani, Domande riconvenzionali, fallimento e reciprocità di posizioni processuali, in Fallimento, 2001, 888.

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