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giugno 2002

Giurisprudenza

CORTE COSTITUZIONALE, 10 maggio 2002, n. 173 – Presidente Vari – Relatore Neppi Modona
      Non sono costituzionalmente illegittimi per eccesso di delega gli artt. 2 e 127 del T.U. dei beni culturali ed ambientali, in quanto è solo apparente, ma non reale, la modificazione alle disposizioni penali della legge n. 1062/71, che non risultano ristrette nella loro portata applicativa (in particolare, la punibilità non è esclusa in relazione ad opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre 50 anni)

Commento di Fabrizio Lemme

(Omissis) RITENUTO IN FATTO
     1. – Il Tribunale di Piacenza ha sollevato, con riferimento all’art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6, del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali), in relazione all’art. 1 della legge-delega 8 ottobre 1997, n. 352 (Disposizioni sui beni culturali), e all’art. 127 dello stesso decreto.
      Il rimettente – premesso di procedere nei confronti di due persone imputate dei reati di cui agli artt. 110 del codice penale, 3 e 4 della legge 20 novembre 1971, n. 1062 (Norme penali sulla contraffazione od alterazione di opere d’arte), per avere, in concorso tra loro, fatto commercio o, comunque, detenuto per il commercio, opere contraffatte di vari pittori piacentini, nonché nei confronti di altra persona, imputata del reato di cui all’art. 4, numeri 1) e 2), della stessa legge, per aver autenticato le predette opere d’arte – rileva che nelle more del procedimento è intervenuto il decreto legislativo n. 490 del 1999, emanato ai sensi dell’art. 1 della legge-delega n. 352 del 1997, nel quale sono state inserite, tra le altre, sia le disposizioni della legge 1° giugno 1939, n. 1089 (Tutela delle cose di interesse artistico e storico), sia le disposizioni della legge 20 novembre 1971, n. 1062, leggi che sono state contestualmente abrogate dall’art. 166 del medesimo decreto.
      In particolare, pur avendo l’art. 127 del decreto legislativo n. 490 del 1999 riprodotto le disposizioni già contenute negli articoli da 3 a 7 della legge n. 1062 del 1971, l’ambito di applicazione della nuova normativa non sarebbe affatto sovrapponibile alla precedente: mentre infatti la disciplina originaria prevedeva come illecito penale la messa in commercio o la detenzione a fini commerciali ovvero l’autenticazione di qualsiasi opera di pittura, scultura o grafica contraffatta o alterata, a prescindere e indipendentemente dall’epoca in cui l’opera fosse stata realizzata o dal fatto che il suo autore fosse vivente o meno, l’art. 2, comma 6, del testo unico n. 490 del 1999, riprendendo testualmente la disposizione dell’art. 1, terzo comma, della legge n. 1089 del 1939, prevede espressamente che «non sono soggette alla disciplina di questo titolo, a norma del comma 1, lettera a), le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni». Ne consegue, secondo il rimettente, che tali opere «vengono ad essere escluse dall’ambito di operatività del testo unico», e segnatamente dalla disciplina concernente le sanzioni penali, prevista dall’art. 127.
      Il giudice a quo ritiene che la modifica della sfera di applicazione della legge n. 1062 del 1971 sia sostanziale e quindi non autorizzata dai principi e criteri direttivi della legge-delega n. 352 del 1997, il cui art. 1, comma 2, lett. b), prevede che alle disposizioni inserite nel testo unico «devono essere apportate esclusivamente le modificazioni necessarie per il loro coordinamento formale e sostanziale, nonché per assicurare il riordino e la semplificazione dei procedimenti». La norma censurata si porrebbe quindi in contrasto con il disposto dell’art. 76 Cost.
      Considerato inoltre il tenore letterale delle richiamate disposizioni della disciplina dei beni culturali, il rimettente ritiene che l’art. 127 del testo unico non «possa essere interpretato in modo da estenderne l’ambito di applicazione al di là dei chiari limiti posti dal citato art. 2, comma 6».
      Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che, qualora la disciplina censurata fosse ritenuta conforme a Costituzione, gli imputati «dovrebbero essere sicuramente assolti perché il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato con riferimento, quanto meno, alla stragrande maggioranza» dei falsi loro contestati. Ove, invece, la norma fosse ritenuta costituzionalmente illegittima, «occorrerebbe procedere a un approfondito esame della posizione degli imputati con riferimento a ciascuno dei quadri oggetto di contestazione».
      2. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata infondata.
      L’Avvocatura rileva che il rimettente muove da una non condivisibile interpretazione delle disposizioni censurate, la cui esatta lettura dovrebbe essere nel senso che gli illeciti concernenti le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga a oltre cinquanta anni sono tuttora sanzionati penalmente ai sensi dell’art. 127 del decreto legislativo n. 490 del 1999, che in nulla avrebbe modificato la disciplina previgente. Secondo l’Avvocatura, infatti, il decreto legislativo si sarebbe limitato a riprodurre nell’art. 127 gli artt. 3 e 4 della legge n. 1062 del 1971, come peraltro confermato dall’art. 166 dello stesso testo unico che, nell’abrogare la legge n. 1062 del 1971, prevede che rimanga in vigore l’art. 9 che, nel secondo comma, fa obbligo al giudice, nei processi per contraffazione di opere d’arte moderna e contemporanea, di assumere sempre come testimone l’autore cui l’opera è attribuita, rendendo così evidente la volontà del legislatore di non escludere tali opere dalla tutela penale prevista dall’art. 127 del testo unico.

CONSIDERATO IN DIRITTO
      1. – Il rimettente, chiamato a giudicare alcuni soggetti imputati dei reati di cui agli artt. 110 del codice penale, 3 e 4, comma 1, numeri 1) e 2), della legge 20 novembre 1971, n. 1062 (Norme penali sulla contraffazione od alterazione di opere d’arte), per avere fatto commercio o, comunque, detenuto per il commercio, opere contraffatte di pittori contemporanei, e per avere autenticato tali opere, rileva che nelle more del giudizio è entrato in vigore il decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali), il cui art. 2, comma 6, avrebbe escluso dalla sfera di applicazione delle norme incriminatrici «le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni».
      Ad avviso del giudice a quo la nuova disciplina si pone in contrasto con l’art. 76 della Costituzione, in quanto il legislatore delegato, nel riunire e coordinare nel testo unico, emanato in forza dell’art. 1 della legge-delega 8 ottobre 1997, n. 352 (Disposizioni sui beni culturali), le disposizioni legislative vigenti in materia di beni culturali e ambientali, si sarebbe dovuto limitare, alla stregua del comma 2, lettera b), del predetto art. 1, «ad apportare esclusivamente le modificazioni necessarie per il loro coordinamento formale e sostanziale, nonché per assicurare il riordino e la semplificazione dei procedimenti».
      2. – La questione è infondata.
      3. – Il testo unico n. 490 del 1999 è diviso in due titoli, dedicati, rispettivamente, ai beni culturali e ai beni paesaggistici e ambientali; nel Titolo primo sono inserite, tra l’altro, sia le disposizioni della legge 1° giugno 1939, n. 1089, sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico, sia le norme incriminatrici della legge n. 1062 del 1971, relative alla contraffazione delle opere d’arte, ora contenute nell’art. 127, sotto la rubrica “Contraffazione di opere d’arte”.
      La legge n. 1089 del 1939, trasfusa nel testo unico, recava la disciplina generale dei beni culturali e apprestava le varie forme di tutela del patrimonio storico, archeologico e artistico nazionale. La legge, tra l’altro, classificava i beni culturali e definiva le condizioni per la relativa dichiarazione di interesse culturale, individuava i vincoli da apporre ai beni ritenuti di rilevante o eccezionale interesse culturale, anche ai fini di assicurarne la conservazione e l’integrità, stabiliva divieti e limiti alla loro alienazione – tra cui il diritto di prelazione in favore dello Stato –, determinava le sanzioni in caso di violazione della disciplina vincolistica. In particolare, l’art. 1, terzo comma, stabiliva che «non sono soggette alla disciplina della presente legge le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni».
      La limitazione della sfera di applicazione della legge venne giustificata sia nella Relazione che accompagna il testo legislativo, sia dalla dottrina, in base alle esigenze di non estendere ad opere di autori viventi o di recente esecuzione una disciplina vincolistica che ne avrebbe impedito o comunque notevolmente ostacolato le possibilità di commercializzazione e di utilizzazione economica e di evitare giudizi affrettati sul valore delle opere, che avrebbero potuto essere modificati dal trascorrere del tempo.
      La legge n. 1089 del 1939 non dettava alcuna disciplina sulla contraffazione delle opere d’arte, che, a seconda dei casi, veniva ricondotta dalla giurisprudenza nell’ambito dei reati di truffa, falsità in scrittura privata, frode nell’esercizio del commercio, ovvero delle fattispecie incriminatrici previste dalla legge sul diritto d’autore.
In tale contesto normativo è intervenuta la legge n. 1062 del 1971 che ha sanzionato penalmente la condotta di chi «contraffà, altera o riproduce un’opera di pittura, scultura o grafica, od un oggetto di antichità o di interesse storico od archeologico».
      Il legislatore del 1971 si è mosso in una prospettiva del tutto autonoma rispetto alle finalità di tutela del patrimonio artistico nazionale perseguite dalla legge del 1939: a prescindere dal formale riconoscimento dell’interesse culturale e dal valore artistico dell’opera, la legge si pone l’obiettivo di tutelare l’interesse dell’autore alla salvaguardia della genuinità della propria produzione, nonché l’interesse generale alla regolarità e correttezza degli scambi commerciali nel mercato delle cose d’arte, senza alcun richiamo alla normativa del 1939.
      Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità e la dottrina avevano ritenuto che i limiti posti dall’art. 1, terzo comma, della legge n. 1089 del 1939 alla sfera di applicazione della legge medesima fossero funzionali alla protezione del patrimonio storico e artistico nazionale e che non potessero pertanto estendersi alla disciplina prevista della legge n. 1062 del 1971, diverse essendo le esigenze di tutela connesse alla repressione della contraffazione di qualsiasi opera d’arte, anche contemporanea.
      Nella compilazione del testo unico n. 490 del 1999, gli artt. 3, 4, 5, 6 e 7 della legge n. 1062 del 1971, relativi alla contraffazione, al commercio e alla autenticazione di opere d’arte, o di oggetti di antichità o di interesse storico o archeologico contraffatti o alterati, sono stati riprodotti nell’art. 127. L’art. 166 del testo unico ha poi provveduto ad abrogare la legge n. 1062 del 1971, ad eccezione degli artt. 8, secondo comma, e 9, il cui secondo comma stabilisce che nei procedimenti penali per contraffazione di opere d’arte moderna e contemporanea il giudice è tenuto ad assumere come testimone l’autore cui l’opera è attribuita o di cui l’opera stessa rechi la firma.
      4. – Le ragioni che giustificano la diversa sfera di applicazione delle due leggi trasfuse nel Titolo primo del testo unico non consentono di condividere l’interpretazione della disciplina censurata posta dal rimettente a base della questione di legittimità costituzionale.
      La formulazione dell’art. 2, comma 6, del Titolo primo del testo unico n. 490 del 1999, secondo cui – con riferimento al comma 1, lettera a), che indica tra i beni culturali disciplinati dal testo unico «le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o demo-etno-antropologico» – non sono soggette «alla disciplina di questo Titolo […] le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga a oltre cinquanta anni», è frutto della meccanica trasposizione della esclusione che figurava, espressa nei medesimi termini, nell’art. 1, terzo comma, della legge n. 1089 del 1939, ove era però riferita alla disciplina della «presente legge», che a differenza dell’attuale testo unico era dedicata esclusivamente alla tutela dei beni culturali, definiti come «cose di interesse storico e artistico».
      Al di là di questo dato di carattere testuale, quel che importa soprattutto tenere presente è che la legge n. 1089 del 1939 non prevedeva, come già detto, alcuna disciplina penale sulla contraffazione delle cose di interesse storico o artistico.
      Appare dunque evidente che si è in presenza di un mero difetto di coordinamento formale tra l’originario testo della legge n. 1089 del 1939 e l’impianto del Titolo primo del testo unico, come d’altronde emerge dalla constatazione che il legislatore delegato si è limitato a riprodurre il contenuto delle fattispecie incriminatrici già previste dagli artt. da 3 a 7 della legge n. 1062 del 1971, senza apportarvi alcuna modifica sostanziale, nel pieno rispetto dei criteri direttivi posti dall’art. 1, comma 2, lettera b), della legge-delega n. 352 del 1997, che lo legittimava ad apportare esclusivamente «le modificazioni necessarie per il [...] coordinamento formale e sostanziale» delle disposizioni legislative vigenti (nel senso che nell’interpretazione della legge delegata va privilegiato il criterio della conformità alla legge di delegazione, v., da ultimo, sentenze n. 96 del 2001, n. 425 e n. 276 del 2000).
      L’intento di rispettare i limiti posti dalla delega risulta espresso nella stessa Relazione allo schema del testo unico, ove si precisa che le disposizioni penali riproducono quelle previste dalla legge n. 1062 del 1971 in materia di contraffazione di opere d’arte e che «l’unica modifica, sulla base del criterio del coordinamento sostanziale posto dalla legge-delega, riguarda l’adeguamento della disciplina alle norme del codice penale in tema di pene accessorie (commi 2 e 3)».
      La necessità di aderire ad una interpretazione logico-sistematica degli artt. 2, comma 6, e 127 del decreto legislativo, suggerita dalle rispettive sfere di applicazione delle due leggi n. 1089 del 1939 e n. 1062 del 1971, quali erano state individuate prima della trasfusione nel Titolo primo del testo unico, trova infine conferma nell’espressa esclusione dall’abrogazione dell’art. 9, comma 2, della legge del 1971: non avrebbe infatti alcuna ragione continuare a prevedere che il giudice debba assumere come testimone l’autore a cui è attribuita l’opera d’arte contraffatta se le fattispecie incriminatrici contenute nell’art. 127 non si riferissero anche alle opere di autori viventi.
      Si deve pertanto concludere che le norme incriminatrici relative alla contraffazione, al commercio e alla autenticazione di opere d’arte contraffatte o alterate, contenute nella legge n. 1062 del 1971 e trasfuse nell’art. 127 del decreto legislativo n. 490 del 1999, continuano ad applicarsi anche alle opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga a oltre cinquanta anni. Ne consegue che la questione di legittimità costituzionale, essendo stata sollevata sulla base di un’erronea interpretazione della norma censurata, deve essere dichiarata infondata.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6, del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali), in relazione all’art. 1 della legge-delega 8 ottobre 1997, n. 352 (Disposizioni sui beni culturali) e all’art. 127 dello stesso decreto, sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Tribunale di Piacenza, con l’ordinanza in epigrafe.

 

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