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giugno 2002

Giurisprudenza

TRIBUNALE MILANO, sez. pen., ordin. 23 aprile 2002 – Presidente Arienti – Giudici Busacca e Cairati – Varasi ed altri imp.
     Esiste una
continuità normativa tra l’attuale e la precedente normativa relativa al reato di false comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622 cod. civ.), con la conseguenza che, in un processo in corso al momento dell'entra in vigore del D. Lgs. 11 aprile 2001, n. 61, non può essere disposto il proscioglimento degli imputati ex art. 129 cod. proc. pen.

Commento di Alessia Montonese

     SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – La seconda sezione penale del tribunale di Milano sulla richiesta, avanzata dalle difese all’udienza del 17 aprile 2002, di sentenza di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. perché i fatti contestati di falsità nelle comunicazioni sociali non sarebbero più previsti come reato a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61;
     sentito il parere del pubblico ministero, che ha chiesto la reiezione della richiesta;

OSSERVA

     La richiesta in esame è stata avanzata sul presupposto che non sarebbe ravvisabile continuità normativa tra il reato previsto dall’art. 2621 cod. civ. nella precedente formulazione e le fattispecie di cui agli attuali artt. 2621 e 2622, come introdotte dal decreto legislativo sopra citato: in particolare, secondo la tesi difensiva, il reato di false comunicazioni sociali è ora sdoppiato in una fattispecie contravvenzionale, che come tale rompe la continuità con la precedente ipotesi, e una delittuosa, la quale vede mutata, rispetto al passato, sia la natura oggettiva del reato (laddove si prevede l’idoneità della condotta a indurre in errore i destinatari delle comunicazioni sociali e il cagionamento di un danno patrimoniale ai soci e ai creditori), sia la natura soggettiva (laddove è ora richiesto un dolo specifico particolarmente intenso, consistente nell’intenzione di ingannare i soci o il pubblico e nel fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto) sia, infine, la tutela giuridica (essendo ora prevista un’ipotesi di perseguibilità a querela).
     Occorre fin da subito rilevare come le difese abbiano posto la questione sul piano di confronto formale tra le diverse norme giuridiche in considerazione, a prescindere dalle caratteristiche in concreto delle imputazioni contestate nel giudizio: a questa prospettazione si atterrà evidentemente il collegio, che in questa sede non valuterà quindi la questione se i singoli fatti contestati quale reato possano continuare a esserlo in concreto alla stregua della nuova disciplina.
     La soluzione del quesito sottoposto all’esame del tribunale non può che prendere le mosse dalla vigenza nel sistema penale di tre concorrenti principi, enunciati nell’art. 2 cod. pen. e in parte costituzionalizzati nell’art. 25 Cost., dell’irretroattività delle nuove norme incriminatrici (comma 1 del citato art. 2), della retroattività della successiva abolitio criminis (comma 2) e, per il caso di successione nel tempo di diverse leggi, dell’applicabilità di quella più favorevole (comma 3), tenendo conto che la ratio di tali principi va colta nell’esigenza di certezza del diritto e di garanzia della libertà personale del cittadino, assicurandogli che non potrà essere punito, o non potrà essere punito più gravemente, in conseguenza di una norma che non esisteva nel momento in cui ha commesso il fatto e della quale quindi non poteva venire a conoscenza e che non potrà essere punito per un fatto che al momento dell’applicazione della sanzione non sia più valutato dall’ordinamento come meritevole di sanzione penale.
     I principi in esame comportano pertanto la necessità di indagare se dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 61/2002 sia o meno configurabile una continuità normativa tra la previgente disciplina penale avente a oggetto le false comunicazioni sociali e quella risultante dagli artt. 2621 e 2622 cod. civ. nuovo testo.
     A questo fine deve anzitutto escludersi che sia intervenuto un sostanziale mutamento della natura dell’interesse protetto: invero la Suprema Corte ha costantemente affermato la natura plurioffensiva del reato di false comunicazioni sociali, il quale offendeva sia l’interesse generale al regolare funzionamento delle società commerciali nell’ambito dell’economia del paese, con particolare riferimento alla pubblica fede, sia gli interessi patrimoniali dei soci e dei terzi che entravano in rapporto con la società.
     Tale impostazione appare nella novella formalmente mantenuta attraverso lo sdoppiamento della fattispecie in un reato contravvenzionale a tutela del menzionato interesse generale e in un delitto a tutela dell’interesse patrimoniale dei singoli: infatti nella relazione al D.Lgs. n. 61/2002 si precisa che la prima fattispecie (rubricata “False comunicazioni sociali”) «continuerà a salvaguardare quella fiducia che deve poter essere riposta da parte dei destinatari nella veridicità dei bilanci o delle comunicazioni dell’impresa organizzata in forma societaria», mentre la seconda fattispecie (rubricata “False comunicazioni sociali in danno dei soci e dei creditori”) è posta «a tutela esclusiva del patrimonio».
     Ciò stabilito, l’indagine dell’interprete deve ora essere focalizzata sul confronto tra le strutture delle fattispecie vecchie e nuove, onde accertare se tra i rispettivi elementi costitutivi sussista o meno sufficiente omogeneità sul piano della tipicità formale.
     Come è noto, l’art. 2621 previgente configurava un reato proprio, di pericolo e a dolo specifico il quale, espresso dal ricorso all’avverbio “fraudolentemente”, era costituito dalla volontà di trarre in inganno i soci o i terzi in ordine all’effettiva situazione patrimoniale della società, accompagnata dal proposito di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri, senza peraltro che occorresse lo scopo di cagionare un danno, essendo sufficiente la previsione di questo come correlativo al profitto: su quest’ultimo punto, tuttavia, la giurisprudenza più recente ha espresso un diverso orientamento, richiedendo il dolo di danno per la società.
     La nuova normativa, lasciando quasi invariato l’ambito dei soggetti attivi dell’illecito (ne vengono esclusi solo i promotori e i soci fondatori, non essendo più previste, tra le comunicazioni punibili, quelle concernenti la costituzione della società), ha mantenuto fermo il riferimento alle relazioni ai bilanci, mentre ha fornito una specificazione delle «altre comunicazioni sociali oggetto dell’incriminazione, che ora possono essere costituite solo da quelle «previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico», e includendo espressamente tra le stesse quelle contenenti informazioni sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria del gruppo, nonché le informazioni rese in riferimento a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi; si prevede inoltre che tra «i fatti materiali non rispondenti al vero» devono comprendersi anche le valutazioni, così recependo l’orientamento formatosi in dottrina e giurisprudenza in relazione al vecchio testo.
     La novella ha poi, come si è detto, sdoppiato l’incriminazione, introducendo:
– una contravvenzione (art. 2621 cod. civ.), che resta reato di pericolo, divenuto concreto in quanto tra i requisiti oggettivi viene compresa l’idoneità ingannatoria delle condotte integranti le false comunicazioni sociali;
– un delitto di danno (art. 2622 cod. civ.), posto che la norma prevede il cagionamento del danno patrimoniale ai soci o ai creditori quale elemento costitutivo del reato; all’interno di questa fattispecie sono previste due ipotesi, a seconda che il reato concerna società non quotate o quotate, che si differenziano in ordine alla procedibilità del reato (a querela nel primo caso, officiosa nell’altro) e al trattamento sanzionatorio (più severo nel caso di società quotata); anch’esso prevede una concreta idoneità ingannatoria delle condotte in esame (requisito di dubbia interpretazione attesa la configurazione del delitto come fattispecie di danno e non di pericolo). Sia la contravvenzione sia il delitto sono a dolo specifico, costituito dal «fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto» e intenzionale, consistente nella «intenzione di ingannare i soci o il pubblico». Sono infine introdotte soglie quantitative di punibilità del fatto (art. 2621, commi 3 e 4 e art. 2622, commi 5 e 6, cod. civ.).
     Alla luce di questo raffronto risulta difficile contestare che le nuove condotte siano strutturalmente assimilabili a quelle della normativa previgente, in quanto il nucleo centrale del fatto permane fondamentalmente il medesimo pur essendo la nuova formulazione evidentemente tesa a ridurre l’area dell’illecito penale, attraverso le modifiche sopra esaminate. Può dirsi in sintesi che le attuali incriminazioni aggiungono agli elementi costitutivi della fattispecie precedente alcuni elementi specializzanti, realizzando così uno dei modelli tipici di successione nel tempo di fattispecie incriminatrici delineati da dottrina e giurisprudenza.
     Quanto all’elemento soggettivo, si noti infatti che la novella ha introdotto il dolo di danno (peraltro già richiesto dalla giurisprudenza più recente), limitandosi per il resto a recepire l’interpretazione corrente dell’avverbio “fraudolentemente” contenuto nella vecchia norma. Così anche il cagionamento del danno, elemento cui le difese hanno attribuito particolare rilievo nell’ottica della loro tesi, non era del tutto avulso dal precedente contesto normativo ma era contemplato, se di gravità rilevante, quale circostanza aggravante, ex art. 2640 cod. civ. Su questo punto è evidente il ridisegnamento della fattispecie operato dalla novella che, lungi dall’introdurre un elemento eterogeneo rispetto al passato, ha inserito il cagionamento del danno nella struttura del reato previsto dall’art. 2622 cod. civ., modificando in tal modo la precedente fattispecie complessa (reato base più aggravante); contestualmente si è eliminata la previsione dell’aggravante in precedenza contemplata nell’art. 2640, articolo che nella nuova formulazione contempla la circostanza attenuante dell’avere cagionato un’offesa di particolare tenuità.
     Quanto agli altri elementi di novità introdotti dalla novella, si rileva che, secondo l’insegnamento dottrinale e giurisprudenziale, le innovazioni legislative relative ai profili della punibilità, al mutamento del titolo del reato, alla degradazione del fatto da delitto a contravvenzione sono pienamente compatibili con il fenomeno della successione di leggi meramente modificative. Deve pertanto concludersi che la tesi interpretativa proposta dalle difese collide con la formulazione della disciplina positiva, che ha ridisegnato il reato di false comunicazioni sociali.
     Ma la prospettazione difensiva contrasta anche con l’inequivoca volontà del legislatore, palesata dai seguenti indici: il riferimento nel testo non già l’abrogazione bensì alla sostituzione di fattispecie; il mantenimento della medesima collocazione normativa, pur con lo sdoppiamento del reato in due articoli di legge contigui; l’utilizzazione dello stesso nomen iuris (“false comunicazioni”) con differente specificazione secondo la duplice impostazione di cui si è parlato; e soprattutto la previsione di un regime transitorio assolutamente incompatibile con l’introduzione di un’incriminazione nuova, laddove è stata contemplata espressamente la possibilità di proporre querela in ordine ai «reati perseguibili a querela ai sensi del presente decreto legislativo, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso» (art. 5).
     In proposito, non può non rilevarsi come le Sezioni unite, allorché hanno escluso la sussistenza di continuità normativa tra alcune fattispecie di reato a seguito della novella in materia tributaria, lo hanno fatto attribuendo rilievo fondamentale alla volontà del legislatore, che in quell’occasione avrebbe palesemente inteso disegnare il fenomeno normativo in termini di radicale alternatività rispetto al pregresso modello (cfr. sent. 25 ottobre 2000, n. 27 e 13 dicembre 2000, n. 35).
     Si vuole infine sottolineare come la presente decisione si collochi sulla linea tracciata dalle Sezioni unite in materia di successione di leggi penali nel tempo: si veda per esempio la sentenza 20/6/1990 che, occupandosi della riforma dei reati d’interesse privato e abuso innominato d’ufficio attuata con la legge 86/90, ha ritenuto la sussistenza di continuità normativa tra vecchie e nuove ipotesi sulla base di indici analoghi a quelli qui considerati.
     Ne consegue che la richiesta avanzata dalle difese in questa sede non può essere accolta: conformemente a quanto affermato in premessa, rimane allo stato impregiudicata ogni valutazione in ordine alla conformità al nuovo modello normativo delle concrete fattispecie contestate nel giudizio.

P.Q.M.

Visto l’art 2 cod. pen. e il D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61,
RIGETTA
Le richieste di applicazione dell’art. 129 cod. proc. pen., come sopra proposte dalle difese.

 

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