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giugno 2002

Giurisprudenza

CORTE COSTITUZIONALE, 25 febbraio 2002, n. 29 – Presidente Ruperto – Relatore Marini
     La norma del decreto-legge n. 394 del 2000, secondo cui nei mutui bancari la usurarietà degli interessi deve essere valutata con riferimento al momento della loro pattuizione, non è costituzionalmente illegittima, ancorché ne sia prevista l’applicazione pure ai contratti in corso al momento della sua entrata in vigore.
     È costituzionalmente illegittima la norma del decreto legge n. 394 del 2000, nella parte in cui ha stabilito per gli interessi dei mutui bancari l’applicazione – per le rate scadenti in una data successiva di qualche giorno rispetto all’entrata in vigore del decreto-legge, anziché per le rate scadenti lo stesso giorno della sua entrata in vigore – di un tasso di conversione (se più favorevole per il mutuatario).

Nota di Alessia Bruscia

(Omissis) RITENUTO IN FATTO
     1.– Con ordinanza del 30 dicembre 2000, depositata il 2 gennaio 2001, il Tribunale di Benevento – nel corso di un procedimento di opposizione ad un decreto ingiuntivo emesso, in favore di un istituto di credito, per un credito derivante, a titolo di capitale ed interessi, da un contratto di mutuo stipulato in data 4 agosto 1994 – ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 47 e 77 della Costituzione, «questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del decreto-legge 28/12/2000» [recte: decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394 (Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura)].
     Espone il rimettente, in punto di rilevanza della questione, di essere chiamato a decidere su un’istanza di sospensione della provvisoria esecuzione, fondata sull’eccezione di nullità sopravvenuta, ex art. 1815, secondo comma, del codice civile, della pattuizione relativa agli interessi, alla stregua dell’indirizzo giurisprudenziale espresso dalla Corte di cassazione nella sentenza 17 novembre 2000, n. 14899. Aggiunge che, se non fosse intervenuta la norma impugnata – secondo la quale, ai fini dell’applicazione dell’art. 1815, secondo comma, del codice civile, l’usurarietà degli interessi va valutata esclusivamente al momento della pattuizione – egli si sarebbe senz’altro adeguato, nelle decisioni sull’istanza degli opponenti e più in generale sulla successiva istruzione della causa, all’opposto principio di diritto sancito nella suddetta sentenza. Ciò posto, deduce nel merito che il citato art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000 sarebbe innanzitutto lesivo dell’art. 3 Cost. «in quanto [...] contraddittoriamente ed irragionevolmente riserva un ingiustificato trattamento di favore per le banche e gli altri enti creditizi che abbiano commesso usura a danno di coloro che in passato, indiscriminatamente sia prima sia dopo il marzo 1996, hanno contratto mutui alle condizioni dettate dal cartello bancario, i quali non possono più avvalersi delle disposizioni della legge 108/1996 e quindi della nullità delle clausole con le quali sono stati convenuti interessi usurari e consequenzialmente del disposto di cui agli artt. 1339 e 1815 comma 2 cod. civ.».
     Ulteriore lesione del principio costituzionale di eguaglianza deriverebbe poi dalla efficacia retroattiva della norma, solo apparentemente di interpretazione autentica ma in realtà innovativa e contrastante con l’interpretazione della legge n. 108 del 1996 pacificamente accolta in giurisprudenza, così da costituire una sanatoria di rapporti di mutuo obiettivamente usurari.
     Per gli stessi motivi risulterebbe altresì violato l’art. 24 Cost., restando leso il diritto alla tutela giurisdizionale di coloro i quali si sono opposti alle pretese degli istituti di credito «in base al diritto vigente all’epoca della domanda».
     La norma denunciata si porrebbe inoltre in contrasto con l’art. 47 Cost., non tutelando il risparmio bensì l’interesse dei banchieri ed ostacolando l’accesso al credito ed alla proprietà della casa di abitazione, nonché con l’art. 77 Cost. per carenza assoluta dei presupposti di necessità ed urgenza giustificativi dell’emanazione dei decreti legge.

     1.1.– Si è costituita in giudizio la Cassa rurale ed artigiana-Banca di credito cooperativo del Sannio-Calvi s.c. a r.l., concludendo per «la manifesta inammissibilità e/o manifesta infondatezza e, in subordine, l’inammissibilità e/o infondatezza della questione». In una memoria depositata nell’imminenza dell’udienza pubblica la parte deduce – a sostegno dell’eccezione di inammissibilità della questione – che le censure che il rimettente muove alla norma impugnata non si riferirebbero in realtà all’interpretazione autentica dell’art. 1815, secondo comma, cod. civ. – essendo già precedentemente evidente il riferimento di tale norma al solo momento della pattuizione di interessi – ma riguarderebbero esclusivamente gli effetti della norma stessa sulla diversa disposizione di cui all’art. 644 del codice penale, di cui il medesimo giudice non sarebbe chiamato a fare applicazione, nemmeno in via incidentale. Che il regime civilistico della nullità delle clausole contenenti la pattuizione di interessi usurari sia del tutto distinto dal profilo penalistico, ed in sé autosufficiente, sarebbe del resto confermato dal fatto stesso che il legislatore del 1996 ha provveduto a riscrivere tanto la norma di cui all’art. 644 cod. pen. quanto, e separatamente, quella di cui all’art. 1815, secondo comma, cod. civ.
     Nel merito la questione sarebbe comunque – ad avviso della stessa parte – manifestamente infondata o, in subordine, infondata, con riferimento a tutti i parametri evocati. Non sussisterebbe, in primo luogo, l’asserito contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della contraddittorietà e irragionevolezza, in quanto la norma impugnata non avrebbe privato i mutuatari, diversamente da quanto assume il rimettente, del diritto di far valere la nullità delle clausole con le quali siano stati convenuti interessi usurari, ma avrebbe solamente ricondotto a ragionevolezza l’interpretazione della disposizione che tale nullità sancisce, chiarendo che la pattuizione è nulla solo se il tasso di interesse convenuto è superiore al cosiddetto tasso soglia al momento della pattuizione e non anche quando tale limite sia superato nel corso del rapporto, per effetto di successive oscillazioni del medesimo tasso soglia.
     La circostanza che le conseguenze di tale intervento interpretativo siano obiettivamente favorevoli agli istituti di credito non costituirebbe d’altro canto ragione sufficiente per affermare che si sia voluto riconoscere un ingiustificato trattamento di favore alle banche, attesa l’intrinseca ragionevolezza della interpretazione imposta dal legislatore.
     Prive di fondamento sarebbero altresì le censure, del pari riferite all’art. 3 Cost., riguardanti l’efficacia retroattiva della norma. Tali censure sembrerebbero muovere – ad avviso della parte privata – dall’erroneo presupposto che l’interpretazione autentica sia legittima solo in presenza di un contrasto di giurisprudenza e che d’altro canto le norme retroattive a carattere innovativo siano in quanto tali illegittime. Sarebbe vero al contrario, secondo la stessa parte, che il legislatore può emanare norme interpretative indipendentemente da qualsiasi contrasto di giurisprudenza, ed anche al fine di imporre l’interpretazione che egli ritenga corretta, in presenza di una difforme interpretazione giurisprudenziale, così come dovrebbe in ogni caso ritenersi pacifica – alla luce della giurisprudenza della Corte – la legittimità, nei limiti della ragionevolezza, di norme retroattive a carattere innovativo, con la sola eccezione delle norme penali in malam partem.
     La norma impugnata, quand’anche le si volesse attribuire portata innovativa, avrebbe perciò i requisiti per superare indenne lo scrutinio di costituzionalità. Ritiene tuttavia la parte che essa sia effettivamente interpretativa, in quanto ragionevolmente diretta – per quanto riguarda l’aspetto civilistico – ad impedire una interpretazione dell’art. 1815 cod. civ., pur avallata dalla Corte di cassazione, contrastante con l’inequivoco tenore letterale della disposizione stessa, oltreché con numerosi principi costituzionali. L’interpretazione della legge n. 108 del 1996 accolta dalla Cassazione contrasterebbe in particolare – ad avviso sempre della parte – sia con l’art. 3 Cost., perché favorirebbe irragionevolmente una delle parti del rapporto, sia con l’art. 47 Cost., perché introdurrebbe uno squilibrio nel sistema tale da provocare la scomparsa dei mutui a tasso fisso, sia con l’art. 41, primo e secondo comma, Cost., perché si tradurrebbe in una lesione dell’autonomia privata non giustificata da ragioni di utilità sociale, sia infine con l’art. 25, secondo comma, Cost., perché renderebbe possibile, sul versante penalistico, l’assoggettamento a sanzione di una condotta non costituente reato nel momento in cui viene posta in essere.
     Alla norma impugnata dovrebbe coerentemente riconoscersi carattere interpretativo anche per quanto riguarda l’aspetto penalistico – peraltro privo di rilevanza nel giudizio a quo – proprio in quanto le modifiche apportate all’art. 644 cod. pen. dalla legge n. 108 del 1996 non potevano sicuramente attribuire autonomo rilievo penale al momento della corresponsione, quando questa fosse stata attuativa di una legittima convenzione, in quanto ne sarebbe appunto derivata la violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost. Sarebbero del pari non fondate le censure che il rimettente muove alla norma impugnata, con riferimento al parametro di cui all’art. 24 Cost., in relazione al pregiudizio che ne deriverebbe per coloro i quali hanno resistito in giudizio alle pretese delle banche confidando nell’indirizzo giurisprudenziale seguito dalla Cassazione. Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, infatti, l’incidenza delle norme interpretative sui giudizi in corso non determina l’illegittimità costituzionale delle norme stesse, se il loro contenuto non è irragionevole e non altera ingiustificatamente la parità tra le parti.
     La norma impugnata, poi, non contrasterebbe nemmeno con l’art. 47 Cost., in quanto, lungi dallo scoraggiare i piccoli risparmiatori dall’accesso al credito per l’acquisto della casa, avrebbe anzi evitato la scomparsa dal mercato finanziario dei mutui a tasso fisso, più graditi a coloro che dispongono di redditi costanti. La censura riferita all’art. 77 Cost. sarebbe infine superata dall’avvenuta conversione in legge del decreto.

     1.2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità o infondatezza della questione. In via preliminare, la parte pubblica eccepisce il difetto di motivazione in punto di rilevanza «con riferimento sia all’aspetto degli interessi moratori sia alla configurabilità di clausole di pattuizione di interessi usurari nel caso di fonte contrattuale del rapporto antecedente all’entrata in vigore della L. 108/96».
     Nel merito, quanto alle censure riferite all’art. 3 Cost., l’Avvocatura sottolinea il carattere strutturalmente e funzionalmente interpretativo della norma denunciata, «in quanto destinata a combinarsi in sede applicativa con le immutate disposizioni interpretate, con le quali forma, rispettivamente, un unico plesso precettivo». Essa avrebbe lo scopo di eliminare ogni dubbio in ordine alla funzione sanzionatoria, e non riequilibratrice del rapporto sinallagmatico, dell’art. 1815, secondo comma, cod. civ., escludendo del tutto ragionevolmente che la valutazione del carattere usurario degli interessi possa effettuarsi con riferimento ad un momento successivo a quello della stipulazione della relativa clausola.
     Del tutto insussistente sarebbe la lamentata violazione dell’art. 24 Cost., operando la norma denunziata sul piano sostanziale della disciplina dei rapporti e non su quello processuale della tutela dei diritti, così come prive di fondamento dovrebbero ritenersi le censure riferite all’art. 47 Cost., discendendo proprio dalla norma costituzionale la necessità di assicurare, nell’interesse dei risparmiatori, l’equilibrio finanziario delle imprese esercenti il credito a medio e lungo termine e di tutelare l’affidabilità del settore assicurando certezza alle relazioni giuridiche.
     Quanto infine al parametro di cui all’art. 77 Cost., l’Avvocatura rileva come gli interventi di cui all’art. 1, comma 2, del decreto-legge n. 394 del 2000 – finalizzati al riequilibrio dei rapporti di mutuo a tasso fisso – rendessero parallelamente necessaria una corretta definizione del normale quadro applicativo degli artt. 644 cod. pen. e 1815, secondo comma, cod. civ., soggetto a forzature in sede giurisprudenziale a causa delle avvertite esigenze di tutela delle situazioni di squilibrio determinate da eventi eccezionali.

     2.– Con ordinanza del 18 marzo 2001, depositata il 4 aprile 2001, il Tribunale di Trento ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 28 febbraio 2001, n. 24, avente ad oggetto la conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge n. 394 del 2000. Il rimettente premette, quanto alla rilevanza della questione, di essere chiamato a decidere, tra l’altro, su una domanda di accertamento della nullità della pattuizione di interessi relativa ad un contratto di finanziamento stipulato in data 26 gennaio 1993, avanzata nel corso dell’anno 1998 per violazione delle norme di cui alla legge n. 108 del 1996, e precisa che, in difetto della intervenuta normativa di cui al decreto-legge citato, egli si sarebbe senz’altro uniformato alla giurisprudenza della Cassazione, secondo cui deve ritenersi illegittima la pattuizione di interessi moratori a tasso divenuto usurario a seguito della legge n. 108 del 1996, anche se stipulata anteriormente all’entrata in vigore della legge, «con conseguente sostituzione di un tasso diverso a quello divenuto ormai usurario, limitatamente a quella parte di rapporto non ancora esaurito all’entrata in vigore della legge 108/96».
     Ai mutui a tasso fisso stipulati anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, ed ancora in essere alla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 394 del 2000, si applicherebbe invece la disciplina dettata dall’art. 1, comma 2, dello stesso decreto-legge, con la conseguente sostituzione del tasso pattuito con quello indicato al comma 3 dello stesso articolo. Tale sostituzione, peraltro, in quanto limitata alle rate che scadono successivamente al 2 gennaio 2001, comporterebbe che per il periodo intercorrente tra l’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996 e la suddetta data del 2 gennaio 2001 il debitore sarebbe tenuto a corrispondere gli interessi nella misura pattuita, ancorché eccedente il cosiddetto tasso soglia. Si verificherebbe in tal modo, ad avviso del rimettente, una ingiustificata disparità di trattamento tra cliente e banca (oltre che tra singoli clienti in relazione alle specifiche situazioni) con un trattamento di favore nei confronti di quest’ultima in danno di coloro che abbiano contratto mutui a tasso fisso prima del 1996 e – per il periodo intercorrente tra l’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996 ed il 31 dicembre 2000 – non possano giovarsi del cosiddetto tasso di sostituzione.

     2.1.– Si è costituita in giudizio la s.p.a. Mediocredito Trentino-Alto Adige, convenuta nel giudizio a quo, concludendo per la declaratoria di manifesta inammissibilità o manifesta infondatezza, ovvero di inammissibilità o infondatezza della questione. Ad avviso della parte, la questione – come viene illustrato in una memoria depositata nell’imminenza dell’udienza pubblica – sarebbe inammissibile sotto diversi profili. In primo luogo, per difetto di rilevanza, nella parte in cui il rimettente sembrerebbe prospettare una disparità di trattamento tra i singoli clienti degli istituti di credito. Secondariamente, per indeterminatezza della questione, non essendo chiaro se lo stesso rimettente si dolga di una disparità di trattamento, nei rapporti tra cliente e banca (quanto ai mutui a tasso fisso), ponendo a confronto la situazione di tali rapporti prima e dopo l’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, come interpretata dal decreto-legge n. 394 del 2000, ovvero se egli invochi una pronunzia additiva volta a retrodatare l’applicabilità dei tassi di sostituzione. Sotto altro aspetto, ritenuta come vera la prima delle due ipotesi sopra prospettate, per incomparabilità delle situazioni messe a confronto, derivando la loro diversità di disciplina dal normale fenomeno della successione temporale delle leggi. Da ultimo perché il rimettente o vuole censurare il merito della scelta legislativa, ma pone allora una questione politica e non di legittimità costituzionale, ovvero intende invocare – riferendosi al secondo comma dell’art. 1 del decreto-legge – una pronuncia additiva in virtù della quale l’applicabilità del cosiddetto tasso di sostituzione venga fatta retroagire, ma in tal caso si prefigurerebbe la possibilità di diverse alternative, tali da rendere evidente come la scelta si collochi sul piano tipico della discrezionalità legislativa.
     Nel merito, ed ipotizzando comunque che l’oggetto della questione di legittimità costituzionale sia il secondo comma dell’art. 1 del decreto-legge, la parte privata deduce che il legislatore, intervenuto con la norma di interpretazione autentica contenuta nel primo comma dello stesso articolo, al fine di riequilibrare la gravosa situazione che si era venuta a creare per le banche a seguito della erronea interpretazione della legge del 1996 operata dalla Cassazione, ha poi ritenuto opportuno venire incontro – pur senza esservi tenuto ed in un quadro di complessivo bilanciamento degli interessi contrapposti – alle aspettative che erano insorte nei mutuatari a tasso fisso «in considerazione dell’eccezionale caduta dei tassi di interesse avvenuta in Europa ed in Italia», prevedendo, appunto ai commi secondo e terzo, una sostituzione autoritativa in senso riduttivo dei tassi, al fine di riportarli ad una soglia inferiore al tasso usurario.
     Si tratterebbe dunque – ad avviso della parte – di un intervento non dovuto, ma giustificato da ragioni meramente equitative che renderebbero non irragionevole la fissazione della sua decorrenza da data prossima a quella di entrata in vigore del decreto-legge e della successiva legge di conversione piuttosto che dalla data di superamento del tasso soglia o da quella di stipula dei mutui.

     2.2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità o infondatezza della questione.
Ad avviso dell’Avvocatura, l’ordinanza sarebbe innanzitutto carente di motivazione in punto di rilevanza nella parte in cui prende a riferimento, al fine di valutare l’usurarietà sopravvenuta del tasso pattuito, il tasso soglia relativo ai mutui con garanzia reale piuttosto che quello, più elevato, riferito alle aperture di credito in conto corrente. La medesima ordinanza sarebbe inoltre ambigua quanto all’individuazione delle disposizioni oggetto di censura, non essendo chiaro se il dubbio di legittimità costituzionale si riferisca al comma 1 dell’art. 1 del decreto-legge ovvero ai successivi commi 2 e 3.
     Ulteriore profilo di inammissibilità sarebbe rappresentato dal fatto che il rimettente sembrerebbe invocare un’inammissibile sentenza manipolativa «che recuperi al sistema della stessa legge antiusura 108/86 [recte: n. 108 del 1996] il diverso parametro rappresentato dal tasso definito dal comma 3 dell’art. 1 del DL 394/2000, così incidendo sulle scelte di sistema (soluzioni e parametri) operate dal legislatore nella sua discrezionalità».
Sarebbe da ultimo non chiaro se nella specie si discuta di interessi corrispettivi o moratori.
     Nel merito, la non fondatezza della questione è argomentata sulla scorta di considerazioni del tutto analoghe a quelle svolte nel precedente giudizio.

     3.– Con ordinanza emessa e depositata in data 4 maggio 2001, il Tribunale di Benevento, nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 35, 41 e 47 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 28 febbraio 2001, n. 24, di conversione dell’art. 1, comma 1, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394.
     Il rimettente espone, in punto di rilevanza, di doversi pronunciare sull’istanza, avanzata dall’opponente, di nomina di un consulente tecnico contabile per il calcolo degli interessi effettivamente dovuti in virtù di un contratto di mutuo stipulato dopo l’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, sul presupposto della nullità della originaria pattuizione alla stregua dell’indirizzo giurisprudenziale di cui alla sentenza della Corte di cassazione 17 novembre 2000, n. 14899. Precisa, in fatto, che il tasso pattuito e richiesto dalla banca in via monitoria, corrispettivo del 21% e moratorio del 2%, risulterebbe usurario sia in riferimento al tasso effettivo globale medio da ultimo rilevato per i finanziamenti bancari a medio termine, sia in riferimento a quello ancor più basso delle rilevazioni precedenti. Muovendo dall’esplicito presupposto che la norma impugnata trovi applicazione anche in ipotesi di pattuizione di interessi già in origine usurari, il rimettente assume violati gli artt. 3, 24 e 47 Cost. In base ad argomentazioni sostanzialmente identiche a quelle svolte nella precedente ordinanza del 30 dicembre 2000.
     La medesima norma, riconoscendo al prestito del denaro una redditività eccessiva e sproporzionata rispetto alla media stabilita dal libero mercato, contrasterebbe altresì con l’art. 35, primo comma, Cost., che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, e con l’art. 41, secondo comma, Cost., secondo cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

     3.1.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità o infondatezza della questione.
Premesso che il contratto dedotto nel giudizio a quo risulta stipulato dopo l’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, la parte pubblica rileva in primo luogo che il rimettente non avrebbe indicato a quale categoria di operazioni creditizie si riferisca il contratto stesso, ai fini della individuazione del tasso soglia, né avrebbe chiarito se il tasso convenuto – come in realtà sembrerebbe desumersi da taluni passi dell’ordinanza – fosse superiore al tasso soglia già al momento della stipula, dal che deriverebbe l’irrilevanza della questione. Osserva inoltre che l’ordinanza risulterebbe priva di motivazione anche con riguardo alla problematica relativa all’applicabilità delle norme antiusura agli interessi moratori.
     Nel merito, in riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 24 e 47 Cost., l’Avvocatura ribadisce le argomentazioni svolte nell’atto di intervento nel primo giudizio promosso dal medesimo rimettente. Quanto poi agli ulteriori parametri di cui agli artt. 35, primo comma, e 41, secondo comma, Cost., ne deduce la non pertinenza «data la sottolineata essenzialità del momento della pattuizione ai fini della qualificazione della condotta dell’operatore economico».

     4.– Il Tribunale di Taranto, con ordinanza emessa e depositata in data 27 giugno 2001, nel corso di un giudizio di opposizione all’esecuzione ha sollevato questione di legittimità costituzionale della stessa norma, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24, primo e secondo comma, Cost.
     Il rimettente espone, in punto di rilevanza, che il credito azionato in via esecutiva, derivante da un contratto di mutuo stipulato anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, è in parte costituito da interessi convenzionali ad un tasso che – per un periodo di oltre due anni, dal marzo 1997 all’agosto 1999 – risulta superiore al tasso soglia fissato ai sensi della stessa legge. Quanto alla non manifesta infondatezza, assume innanzitutto che le modifiche apportate all’art. 644 del codice penale dall’art. 1 della citata legge n. 108 del 1996 avrebbero portato a configurare due diverse tipologie di fatti di usura: il farsi promettere interessi usurari ed il farsi dare interessi usurari.      Il decreto-legge n. 394 del 2000, nell’escludere la rilevanza penale della ricezione di interessi divenuti usurari, per il superamento del tasso soglia, successivamente alla pattuizione, avrebbe in realtà abrogato, con norma dunque innovativa e non meramente interpretativa, la seconda delle due figure di usura, con efficacia retroattiva anche agli effetti civili. Siffatta retroattività agli effetti civili si porrebbe in contrasto, sotto diversi aspetti, con il principio generale di ragionevolezza.
     In primo luogo, la norma introdurrebbe infatti una irragionevole disparità di trattamento tra coloro i quali sono ora tenuti a corrispondere somme che precedentemente non erano dovute ed i percettori delle stesse, «ora ingiustificatamente avvantaggiati, oltre che in sede penale, anche in sede civile». Ulteriore disparità di trattamento sussisterebbe poi tra gli operatori del settore creditizio che abbiano correttamente ricondotto i tassi di interesse pattuiti nei limiti del tasso soglia e coloro che ciò non abbiano fatto e, parallelamente, tra le rispettive controparti.
     La norma impugnata, infine, frustrerebbe la possibilità di agire e resistere in giudizio in capo a coloro ai quali la legge n. 108 del 1996 aveva attribuito la possibilità di tutela giurisdizionale.

     4.1.– Si è costituito in giudizio Stefano Scialpi, opponente nel giudizio a quo, concludendo per l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale. In aggiunta ai profili di contrasto con l’art. 3 Cost. prospettati dal rimettente, la suddetta parte privata individua un’ulteriore lesione del principio di eguaglianza nella irragionevole disparità di trattamento che la norma realizzerebbe tra i contraenti di mutui a tasso fisso stipulati prima dell’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996 – che si vedrebbero negati i rimedi di tutela negoziale di cui agli artt. 1339 e 1815, secondo comma, cod. civ. – ed i contraenti di rapporti di credito diversi da quelli interessati dalla sanatoria governativa (come le aperture di credito in conto corrente), i quali potrebbero continuare a giovarsi della normativa antiusura. Con un trattamento, dunque, irragionevolmente deteriore proprio per quella tipologia di relazioni – i mutui a tasso fisso – più direttamente interessata allo strumento di tutela del contraente debole offerto dalla legislazione antiusura.
     La medesima norma si porrebbe altresì in contrasto con il principio di ragionevolezza in quanto restringerebbe anche il campo di applicazione del delitto di cui all’art. 644 cod. pen., privando la collettività di uno strumento di lotta alle forme più subdole di usura. La parte assume poi che la norma censurata sarebbe ulteriormente in contrasto con gli artt. 3, 24, 101, 102 e 104 Cost. sotto il profilo della violazione dei limiti costituzionali al potere del legislatore di emanare disposizioni interpretative.
     Dovrebbe in primo luogo escludersi che si tratti di norma interpretativa in senso stretto, proprio in quanto essa si riferisce non già all’intero complesso delle operazioni di credito regolate dalla legge n. 108 del 1996 bensì solamente ai rapporti di mutuo a tasso fisso. Difetterebbero poi, nella specie, i presupposti stessi per l’emanazione di norme interpretative, quali individuati dalla stessa giurisprudenza costituzionale, attesa la mancanza di qualsiasi contrasto interpretativo.
     Risulterebbe in ogni caso violato il principio dell’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, contrastandosi d’autorità, a distanza di oltre cinque anni dalla entrata in vigore della legge, un indirizzo interpretativo ormai consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, mediante l’introduzione di una disciplina derogatoria riguardante, irragionevolmente, i soli mutui a tasso fisso. Ne conseguirebbe, sotto altro aspetto, la violazione delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario, difettando la norma dei necessari requisiti di generalità ed astrattezza, nonché la lesione del diritto dei cittadini alla tutela giurisdizionale.
     La stessa norma, infine, violerebbe l’art. 77 Cost., per carenza assoluta dei presupposti di necessità ed urgenza giustificativi della decretazione d’urgenza, nonché gli artt. 3 e 47 Cost., In quanto obiettivamente finalizzata a convalidare una pratica dannosa per l’economia e contrastante con il principio di tutela del risparmio.

     4.2.– Si è altresì costituita in giudizio la Banca nazionale del lavoro s.p.a., convenuta nel giudizio di opposizione all’esecuzione, concludendo per «la manifesta inammissibilità e/o la manifesta infondatezza e, in subordine, la inammissibilità e/o la manifesta infondatezza della questione». A sostegno della eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza la parte deduce – in una memoria depositata nell’imminenza dell’udienza pubblica – che la prospettazione del rimettente risulterebbe incentrata sulla asserita illegittimità costituzionale di quella parte della norma impugnata recante l’interpretazione autentica dell’art. 644 cod. pen., di cui il rimettente stesso non dovrebbe fare sicuramente applicazione.
     La questione, nei termini proposti, sarebbe comunque infondata nel merito. Ad avviso della parte, infatti, il rimettente muoverebbe da una premessa interpretativa erronea, in quanto l’art. 644 cod. pen., come modificato dalla legge n. 108 del 1996, non prevedeva come autonoma figura di reato la percezione di interessi, superiori al tasso soglia, che non fossero tuttavia usurari al momento della pattuizione. Il riferimento, contenuto nella norma, al farsi dare, oltre che al farsi promettere, interessi usurari, avrebbe avuto unicamente lo scopo di rendere punibili i comportamenti consistenti nella percezione di interessi usurari non preceduta da una autonoma pattuizione. Ne resterebbe perciò confermata la funzione autenticamente interpretativa della norma impugnata.
     Deduce ancora la parte – sulla scorta di argomentazioni identiche a quelle svolte dall’istituto di credito costituito nel procedimento promosso dal Tribunale di Benevento con l’ordinanza del 30 dicembre 2000 – l’erroneità dell’interpretazione data dalla Corte di cassazione alla legge n. 108 del 1996 e contesta altresì la tesi del rimettente secondo la quale la norma impugnata avrebbe introdotto una ingiustificata disparità di trattamento in danno di coloro i quali sarebbero ora tenuti a corrispondere somme che non erano dovute prima che la norma stessa intervenisse. Quand’anche, infatti, volesse attribuirsi a detta norma carattere innovativo e non interpretativo, essa risulterebbe comunque giustificata dalla finalità di riequilibrare «la clamorosa disparità di trattamento che si era venuta a determinare tra le parti del contratto di mutuo per effetto della applicazione di norme per le quali (sul piano civilistico in evidente contrasto con l’art. 1815 cod. civ. come modificato dalla legge del 1996) il momento della corresponsione degli interessi doveva essere quello cui far riferimento per la determinazione della soglia usuraria, pur se tale corresponsione fosse attuativa di una convenzione lecita al momento della pattuizione».
     Parimenti infondato o addirittura inammissibile sarebbe l’assunto relativo alla disparità di trattamento che si sarebbe verificata tra le banche che avessero ricondotto spontaneamente la pattuizione nei limiti della non usurarietà e quelle che non si fossero invece indotte a tale rinegoziazione e, parallelamente, tra i mutuatari che avessero beneficiato di rinegoziazione e coloro che non l’avessero ottenuta. L’asserita disparità tra banche sarebbe infatti irrilevante nel giudizio a quo mentre quella tra mutuatari sarebbe una disparità di mero fatto, dovuta a comportamenti del tutto eventuali, in quanto tale irrilevante ai fini del giudizio di costituzionalità.
     Non sussisterebbe, poi, la prospettata violazione del diritto di agire in giudizio, né la conseguente lesione di un affidamento legittimamente sorto, proprio in considerazione della natura interpretativa della norma, in virtù della quale deve escludersi che nel patrimonio giuridico dei mutuatari sia mai entrato il diritto ad ottenere l’abbattimento del tasso di interesse divenuto superiore al tasso soglia.
     La censura sarebbe d’altro canto priva di pregio anche se alla norma si attribuisse carattere innovativo, tenuto conto degli effetti, contrastanti con numerosi principi costituzionali, della norma modificata.
     In via ulteriormente subordinata, la parte eccepisce infine l’inammissibilità della questione «per discrezionalità del legislatore».

     4.3.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della questione. Ad avviso della parte pubblica, la questione sarebbe irrilevante nel giudizio a quo in quanto, secondo l’assunto dello stesso rimettente, l’art. 1815, secondo comma, cod. civ. sarebbe comunque inapplicabile nell’ipotesi, dedotta in giudizio, di clausola di interessi non originariamente illecita.
     Oltre a ciò il rimettente avrebbe comunque omesso di considerare che il mutuo, la cui restituzione è oggetto del giudizio a quo, risulta erogato in franchi svizzeri, e che le operazioni in valuta sono espressamente escluse dalla rilevazione trimestrale effettuata ai fini della legge sull’usura. Risulterebbe infine omessa qualsiasi indicazione sia in ordine alle modalità di calcolo degli interessi moratori, sia in ordine alla applicabilità a tali interessi della legge n. 108 del 1996. Nel merito l’Avvocatura, premessa l’irrilevanza nel giudizio a quo degli aspetti penalistici della normativa in tema di usura, ribadisce l’infondatezza della questione sulla scorta di argomentazioni non dissimili da quelle svolte negli altri giudizi.

CONSIDERATO IN DIRITTO
      1.– Il Tribunale di Benevento, con due distinte ordinanze, ed il Tribunale di Taranto sollevano, in riferimento agli artt. 3, 24, 35, 41, 47 e 77 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394 (Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24, secondo il quale «ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento». Assumono in buona sostanza i rimettenti che la norma, solo apparentemente interpretativa ma in realtà innovativa, costituisca irragionevole sanatoria – ad esclusivo vantaggio degli istituti di credito – di comportamenti obiettivamente usurari, così da porsi in contrasto con gli indicati parametri costituzionali.
     Il Tribunale di Trento censura invece l’art. 1 della legge di conversione assumendo lesiva dell’art. 3 della Costituzione la disciplina dettata dal medesimo decreto-legge nella parte in cui prevede, per i contratti in corso, che la sostituzione del tasso pattuito dalle parti con quello indicato all’art. 1, commi 2 e 3, abbia luogo solamente per le rate con scadenza successiva al 2 gennaio 2001.
     Stante l’evidente connessione oggettiva, i quattro giudizi vanno riuniti per essere congiuntamente decisi.

     2.– La questione sollevata dal Tribunale di Benevento con l’ordinanza del 4 maggio 2001 deve ritenersi inammissibile. Il giudice rimettente – che dichiara accertata, nel giudizio a quo, l’usurarietà del tasso convenuto dalle parti «vuoi considerando l’odierno tasso effettivo globale medio del 10,96, vuoi considerando quello ancor più basso delle rilevazioni precedenti» – muove dalla esplicita premessa che la norma impugnata comporti l’impossibilità di far valere la nullità anche originaria delle clausole con le quali siano stati convenuti, dopo l’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, interessi usurari. Contrariamente a tale assunto, nel caso di interessi originariamente usurari pattuiti dopo l’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, è indubbio che la nullità della relativa clausola ai sensi dell’art. 1815, secondo comma, cod. civ. come novellato dalla suddetta legge del 1996 non è in alcun modo preclusa dall’applicazione della norma impugnata. E ciò rende priva di rilevanza la questione prospettata.

     2.1.– Vanno invece respinte le ulteriori eccezioni di inammissibilità, sollevate sia dalla difesa delle parti private che dall’Avvocatura generale dello Stato ed analiticamente esposte in narrativa.

     2.2.– In particolare, la questione sollevata dal Tribunale di Benevento con l’ordinanza del 30 dicembre 2000 si appalesa rilevante nel giudizio a quo in quanto il rimettente – chiamato a pronunciarsi su una opposizione a decreto ingiuntivo – si duole propriamente del fatto che la norma impugnata – nella parte in cui sarebbe, a suo avviso, modificativa dell’art. 1815, secondo comma, cod. civ. – precluda la declaratoria di nullità sopravvenuta delle clausole di interessi che risultino eccedenti il tasso soglia, contenute in contratti stipulati anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, come nel caso in esame.
     Il difetto di una specifica motivazione in ordine alla applicabilità anche agli interessi moratori dell’art. 1815, secondo comma, cod. civ. risulta ininfluente nella specie, in quanto il credito azionato, essendo costituito da rate di mutuo, è comunque comprensivo anche di interessi corrispettivi, pur essi eccedenti il tasso soglia, rispetto ai quali la rilevanza della questione è assolutamente pacifica. Va in ogni caso osservato – ed il rilievo appare in sé decisivo – che il riferimento, contenuto nell’art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, agli interessi «a qualunque titolo convenuti» rende plausibile – senza necessità di specifica motivazione – l’assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori.
     La dichiarata adesione, da parte del rimettente, all’indirizzo interpretativo seguito dalla Corte di cassazione è infine sufficiente a giustificare l’opzione ermeneutica – da cui il rimettente muove – secondo la quale, in mancanza della norma impugnata, le clausole di interessi eccedenti il tasso soglia sarebbero colpite dalla sanzione di nullità di cui al citato art. 1815, secondo comma, cod. civ., pur se originariamente lecite in quanto contenute in contratti stipulati anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996.

     2.3.– La questione sollevata dal Tribunale di Trento è a sua volta rilevante, in quanto il rimettente – dinanzi al quale è proposta domanda di accertamento della nullità sopravvenuta di una pattuizione di interessi contenuta in un contratto di finanziamento stipulato nel 1993 – prospetta il contrasto con l’art. 3 Cost. della disciplina recata dal decreto-legge n. 394 del 2000, come modificato dalla legge di conversione, a motivo della applicabilità del tasso di sostituzione, previsto dal secondo e terzo comma dell’art. 1, alle sole rate aventi scadenza successiva al 2 gennaio 2001, a fronte dell’efficacia retroattiva riconosciuta invece al primo comma in forza della sua dichiarata natura interpretativa.
     La censura di disparità di trattamento tra i singoli clienti – pur volendo ritenerla estranea all’oggetto del giudizio a quo – non rende comunque irrilevante la questione, essendo prospettata come profilo meramente secondario ed aggiuntivo rispetto a quello principale, rappresentato dalla irragionevolezza della norma impugnata. Non sussiste, sotto altro aspetto, alcuna ambiguità nella individuazione della questione poiché lo stesso rimettente, censurando la norma di conversione, invoca la caducazione dell’intero art. 1 del decreto-legge n. 394 del 2000, non ritenendo in diverso modo emendabile il denunciato vizio di legittimità costituzionale.
     Costituisce infine questione di fatto, rimessa all’esclusiva valutazione del giudice a quo, la qualificazione del rapporto contrattuale dedotto in giudizio, al fine della individuazione del tasso soglia ad esso riferibile.

     3.– Per quanto concerne da ultimo l’ordinanza del Tribunale di Taranto, va in primo luogo rilevato che il giudice a quo dà espressamente conto del fatto che l’oggetto del contendere è rappresentato esclusivamente dalla misura degli interessi, non essendovi contestazione alcuna riguardo ai maggiori oneri derivanti per il mutuatario dal mutamento del tasso di cambio tra lira e franco svizzero.
     Il fatto, poi, che il rimettente ritenga inapplicabile alla fattispecie dedotta in giudizio l’art. 1815, secondo comma, cod. civ. non pregiudica la rilevanza della questione. Il rimettente medesimo muove infatti dalla premessa che l’inesigibilità degli interessi eccedenti il tasso soglia, pur se lecitamente convenuti, discenderebbe – in mancanza della norma impugnata, cui egli attribuisce efficacia di abolitio criminis – dalla illiceità penale della percezione di tali interessi, a suo avviso originariamente sancita dalla legge n. 108 del 1996.
     La norma impugnata, abrogando la figura criminosa rappresentata dal farsi dare interessi usurari, avrebbe retroattivamente escluso – ad avviso dello stesso rimettente – anche l’inesigibilità della pretesa creditoria, in tal modo precludendo l’accoglimento della opposizione all’esecuzione sulla quale egli è chiamato a pronunciarsi. È evidente – anche in tal caso – che ogni eventuale valutazione riguardo alla fondatezza di siffatta premessa interpretativa attiene al merito e non già alla ammissibilità della questione.

     4.– Le questioni, pure riguardanti l’art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, sollevate dal Tribunale di Benevento, con l’ordinanza del 30 dicembre 2000, in riferimento agli artt. 3, 24, 47 e 77 Cost., e dal Tribunale di Taranto, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24, primo e secondo comma, Cost., non sono fondate.

     4.1.– Per quanto riguarda il parametro di cui all’art. 77 Cost., evocato dal Tribunale di Benevento sotto il profilo della carenza dei presupposti di necessità ed urgenza, è sufficiente osservare che eventuali vizi attinenti ai presupposti della decretazione d’urgenza devono ritenersi sanati in linea di principio dalla conversione in legge e che deve comunque escludersi che nella specie si versi in ipotesi di macroscopico difetto dei presupposti della decretazione. Ferma restando l’estensione alla legge di conversione delle ulteriori censure riferite al decreto-legge (sentenza n. 400 del 1996).

     4.2.– Con riferimento agli ulteriori parametri evocati, va rilevato che entrambi i rimettenti – pur nella diversità dei rispettivi percorsi argomentativi – muovono dalla comune premessa della applicabilità della legge n. 108 del 1996 anche ai contratti in corso al momento della sua entrata in vigore, da ciò facendo derivare la nullità sopravvenuta delle clausole determinative di interessi (ovvero, secondo la prospettazione del Tribunale di Taranto, l’inesigibilità degli interessi stessi) ogni qualvolta il tasso pattuito risulti, in prosieguo di tempo, superiore al tasso soglia.
     Sulla scorta di tale assunto essi attribuiscono quindi alla norma contenuta nell’art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, un’efficacia irrazionalmente sanante della nullità (o inesigibilità) derivante dalla natura (divenuta) obiettivamente usuraria di rapporti contrattuali intercorrenti con gli istituti di credito, tale da porsi in contrasto sia con il generale canone di ragionevolezza, sia con il principio di eguaglianza, sia con il diritto di difesa, sia infine con il principio di favore per l’accesso del risparmio popolare alla proprietà della casa di abitazione. Siffatta impostazione appare peraltro viziata proprio nelle sue premesse.
     Va innanzitutto considerato che secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte non può ritenersi precluso al legislatore adottare norme che precisino il significato di precedenti disposizioni legislative, pur a prescindere dall’esistenza di una situazione di incertezza nell’applicazione del diritto o di contrasti giurisprudenziali, a condizione che l’interpretazione non collida con il generale principio di ragionevolezza (cfr., da ultimo, le sentenze n. 525 del 2000 e n. 229 del 1999).
     Lo scrutinio di costituzionalità della norma impugnata si sostanzia dunque nella valutazione riguardo alla sua compatibilità con il tenore della norma interpretata, alla ragionevolezza della opzione ermeneutica imposta ed al rispetto dei limiti alla retroattività delle norme extra-penali individuati dalla giurisprudenza di questa Corte.

     4.3.– A tale riguardo occorre muovere dalla constatazione che la ratio della legge n. 108 del 1996, quale risulta con chiarezza dai lavori preparatori, è quella di contrastare nella maniera più incisiva il fenomeno usurario. Siffatta finalità è stata essenzialmente perseguita, per ciò che interessa il presente giudizio, da un lato rendendo più agevole l’accertamento del reato, attraverso l’individuazione di un tasso obiettivamente usurario e la trasformazione dell’approfittamento dello stato di bisogno, di difficile prova, da elemento costitutivo del reato a circostanza aggravante, dall’altro inasprendo le sanzioni penali e civili connesse alla condotta illecita (artt. 1 e 4 della legge).
     Assodato, dunque, che la legge di cui si tratta risulta dettata dall’esclusivo e dichiarato intento di reprimere una specifica fattispecie di illecito, non può non rilevarsi come fosse sorto – in giurisprudenza ed in dottrina – il dubbio (risolto con esiti interpretativi diversi) circa gli effetti, ai fini penali e civili, da riconnettere all’ipotesi in cui, nel corso del rapporto, il tasso soglia discenda al di sotto del tasso di interessi convenzionale originariamente pattuito.
     La norma denunciata trova giustificazione, sotto il profilo della ragionevolezza, nell’esistenza di tale obiettivo dubbio ermeneutico sul significato delle espressioni «si fa dare [...] interessi [...] usurari» e «facendo dare [...] un compenso usurario» di cui all’art. 644 cod. pen., in rapporto al tenore dell’art. 1815, secondo comma, cod. civ. («se sono convenuti interessi usurari») ed agli effetti correlativi sul rapporto di mutuo.
     L’art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, nel precisare che le sanzioni penali e civili di cui agli artt. 644 cod. pen. e 1815, secondo comma, cod. civ. trovano applicazione con riguardo alle sole ipotesi di pattuizioni originariamente usurarie, impone – tra le tante astrattamente possibili – un’interpretazione chiara e lineare delle suddette norme codicistiche, come modificate dalla legge n. 108 del 1996, che non è soltanto pienamente compatibile con il tenore e la ratio della suddetta legge ma è altresì del tutto coerente con il generale principio di ragionevolezza.
     Restano, invece, evidentemente estranei all’ambito di applicazione della norma impugnata gli ulteriori istituti e strumenti di tutela del mutuatario, secondo la generale disciplina codicistica dei rapporti contrattuali.

     4.4.– Deve, d’altro canto, escludersi che la norma impugnata si ponga in contrasto con gli ulteriori parametri evocati. Quanto all’art. 24 Cost., è sufficiente rilevare che l’intervento legislativo oggetto di censura, operando sul piano sostanziale, evidentemente non incide sul diritto alla tutela giurisdizionale a cui esclusivo presidio è posta la norma costituzionale invocata (sentenza n. 419 del 2000).
     Egualmente infondato è il richiamo all’art. 47 Cost. che enuncia – secondo la giurisprudenza di questa Corte – un principio al quale il legislatore ordinario deve ispirarsi, bilanciandolo con gli altri interessi costituzionalmente rilevanti, nell’esercizio di un potere discrezionale che incontra il solo limite – nella specie sicuramente non valicato – della contraddizione del principio stesso (sentenze n. 143 del 1995 e n. 19 del 1994).

     5.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 28 febbraio 2001, n. 24, sollevata dal Tribunale di Trento in riferimento all’art. 3 Cost., è fondata, nei limiti di seguito precisati.

     5.1.– Il rimettente censura specificamente la disposizione, contenuta nel secondo comma dell’art. 1 del decreto-legge n. 394 del 2000, come modificato dalla legge di conversione, secondo cui la sostituzione del tasso convenuto dalle parti con quello, eventualmente più favorevole per il debitore, previsto dalla stessa norma «si applica alle rate che scadono successivamente al 2 gennaio 2001».
     Ritiene il giudice a quo che siffatto differimento della operatività della norma sia irragionevole e fonte di disparità di trattamento in danno dei mutuatari rispetto agli istituti di credito, se posto in relazione con la efficacia retroattiva della disposizione di cui al primo comma, in virtù della quale i medesimi mutuatari si vedrebbero preclusa la possibilità – che ad essi, ad avviso dello stesso rimettente, avrebbe dovuto precedentemente riconoscersi – di far dichiarare la nullità sopravvenuta delle clausole di interessi nei casi di superamento del tasso soglia.
     Le considerazioni svolte riguardo alla natura interpretativa della norma di cui all’art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000 ed alla sua conformità al generale canone di ragionevolezza rendono a questo punto palese l’infondatezza dell’assunto, da cui muove il giudice a quo, secondo il quale la suddetta disposizione avrebbe ingiustificatamente avvantaggiato gli istituti di credito mediante una generalizzata sanatoria di clausole contrattuali invalide, rendendo costituzionalmente obbligata una altrettanto generalizzata applicazione del tasso di sostituzione di cui al successivo comma 2 a tutte le rate scadute successivamente all’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996.
     Ciò non esclude, tuttavia, che il differimento dell’operatività del tasso di sostituzione si riveli, sotto altro aspetto, comunque privo di ragionevolezza, così da porsi effettivamente in contrasto con l’art. 3 Cost. Va rilevato, a tale riguardo, che nel citato comma 2 dell’art. 1 del decreto-legge è stata inserita una specifica e puntuale indicazione delle ragioni dell’intervento d’urgenza del Governo sui contratti di mutuo a tasso fisso in corso. Ragioni incentrate sulla constatazione «dell’eccezionale caduta dei tassi di interesse avvenuta in Europa e in Italia nel biennio 1998-1999, avente natura strutturale».
     La norma risulta, dunque, inequivocamente dettata dalla urgente necessità di ricondurre ad equità in maniera generalizzata – ed indipendentemente dall’eventuale esercizio di azioni giudiziarie – i contratti di mutuo a tasso fisso divenuti eccessivamente onerosi, a danno dei mutuatari, per effetto dell’eccezionale caduta dei tassi di interesse verificatasi nel biennio 1998-1999.
     In relazione a siffatta ratio, se non può certo ritenersi costituzionalmente imposta una efficacia retroattiva della norma censurata, risulta invece manifestamente irragionevole la scelta di differirne, di pochissimi giorni, l’efficacia all’evidente scopo di escludere che la norma possa trovare applicazione anche riguardo alle rate in scadenza tra il 31 dicembre 2000, giorno di entrata in vigore del decreto-legge, ed il 2 gennaio 2001. In tal modo, infatti, il legislatore, anziché eliminare, ha finito per protrarre, relativamente alle rate di mutuo in scadenza nel periodo indicato, quella situazione di eccessiva onerosità e, quindi, di sostanziale iniquità per i mutuatari dallo stesso evidenziata ed ha, conseguentemente, reso la norma, in parte qua, manifestamente illogica e contraddittoria e, quindi, lesiva del generale canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione.
     Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394, convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24, nella parte in cui dispone che la sostituzione prevista nello stesso comma si applica alle rate che scadono successivamente al 2 gennaio 2001 piuttosto che a quelle con scadenza a decorrere dal giorno stesso dell’entrata in vigore del decreto-legge. Conseguentemente, va dichiarata l’illegittimità costituzionale del comma 3 dello stesso articolo, limitatamente alle parole «per le rate con scadenza a decorrere dal 3 gennaio 2001».

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,
     1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394 (Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24, nella parte in cui dispone che la sostituzione prevista nello stesso comma si applica alle rate che scadono successivamente al 2 gennaio 2001 anziché a quelle che scadono dal giorno stesso dell’entrata in vigore del decreto-legge;
     2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394, convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24, limitatamente alle parole «per le rate con scadenza a decorrere dal 3 gennaio 2001»;
     3) dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394, convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24, sollevata dal Tribunale di Benevento, in riferimento agli artt. 3, 24, 35, 41 e 47 della Costituzione, con l’ordinanza emessa il 4 maggio 2001.
     4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394, convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24, sollevate dal Tribunale di Benevento, in riferimento agli artt. 3, 24, 47 e 77 della Costituzione, con l’ordinanza emessa il 30 dicembre 2000, e dal Tribunale di Taranto, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24, primo e secondo comma, della Costituzione, con l’ordinanza in epigrafe. (Omissis)

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Nota di Alessia Bruscia

     La Corte Costituzionale, con la sentenza in epigrafe, si è pronunciata sulla questione relativa ai problemi di eventuale illegittimità costituzionale posti dal decreto-legge n. 394/2000 di “Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996 n. 108, recante disposizioni in materia d’usura”, convertito con modificazioni nella legge n. 24/2001.  È utile, prima di esaminare la decisione della Consulta, procedere ad una breve analisi del quadro storico-normativo in cui questa è maturata.
     La legge n.108 del 1996 ha introdotto nell’ordinamento, riformando l’articolo 644 cod. pen. e il secondo comma dell’art. 1815 cod. civ., la nuova disciplina in materia di usura. L’intervento del legislatore è il frutto della necessità, sempre più avvertita nel tessuto sociale del Paese e tra gli operatori del diritto, di prevedere strumenti più incisivi per contrastare il fenomeno dell’usura, capaci di rimuovere quegli elementi che ne hanno ostacolato un’adeguata repressione.
Il novellato art. 644 cod. pen. dispone ora che, commette il delitto di usura chi si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità «interessi o altri vantaggi usurari». La legge, precisa espressamente le condizioni affinché un interesse possa definirsi “usurario”, stabilendo che deve essere considerato tale l’interesse superiore al tasso effettivo globale medio risultante dall’ultima rilevazione effettuata trimestralmente dal Ministro del tesoro e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, relativamente a categorie omogenee di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato della metà. Risultano modificati, in tal modo, i precedenti fattori di individuazione del reato di usura ove si consideri che l’esosità degli interessi è adesso specificatamente determinata, mentre l’approfittamento dello stato di bisogno rileva come circostanza aggravante del reato e non più come elemento costitutivo dello stesso.
     L’ambito di applicazione della legge n. 108 del 1996, per la peculiarità propria del fenomeno disciplinato, non poteva essere limitata esclusivamente agli aspetti penalistici e ha inciso, infatti, anche sotto il profilo civilistico, con la modifica del comma secondo dell’art. 1815 cod. civ. L’originario meccanismo della riduzione del tasso usuraio alla misura legale, è stato sostituito con la previsione secondo la quale l’eventuale convenzione pattizia di interessi usurari viene considerata nulla «e non sono dovuti interessi». Con tale previsione, il legislatore innalza sotto il profilo qualitativo la portata riformatrice della normativa ove si consideri che viene introdotta nell’ordinamento una deroga al principio della naturale produttività di interessi delle obbligazioni pecuniarie.
     Immediatamente dopo l’entrata in vigore della legge n. 108/96, si sono riscontrate interpretazioni antitetiche tra le associazioni dei consumatori e gli istituti di credito in ordine all’immediata applicazione della stessa a quei contratti di mutuo stipulati precedentemente all’entrata in vigore della novella ma i cui piani di ammortamento non erano ancora giunti ad esaurimento.
     I discordanti pronunciamenti resi in merito dai diversi Tribunali aditi hanno trovato il loro naturale momento di sintesi nell’intervento della Corte di Cassazione, la quale, con la sentenza n. 14899/2000, ha stabilito che per individuare quando un determinato tasso di interesse diviene “usurario” rileva, in buona sostanza, il momento del concreto pagamento della somma a tale titolo dovuta e non quello della stipulazione del contratto. Pertanto, nel prendere in esame la nuova disciplina con riferimento ai contratti di mutuo stipulati prima dell’entrata in vigore della legge n. 108/96, ha considerato quest’ultima di «immediata applicazione nei correlativi rapporti, limitatamente alla regolazione degli effetti ancora in corso, quale, per l’appunto, la dazione degli interessi». Per questi ultimi trovano attuazione, dunque, le nuove disposizioni, in quanto trattasi di prestazioni successive all’entrata in vigore della legge.
     Tale orientamento della Suprema Corte ha accentuato il disappunto tra gli operatori del credito, i quali avevano sin dall’inizio evidenziato le lacune di una legge che, non prevedendo una norma di salvaguardia dei rapporti giuridici preesistenti, aveva creato un preoccupante clima di incertezza.
     Allo scopo di evitare le possibili conseguenze negative che anche sul piano patrimoniale si andavano iniquamente profilando per gli istituti di credito, il legislatore è nuovamente intervenuto sulla materia con il decreto-legge n. 394 del 2000, successivamente convertito nella legge n. 24/2001, prevedendo che, ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del cod. pen. e dell’articolo 1815 del cod. civ., «si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento» (art. 1, comma primo); inoltre, per talune tipologie di mutuo a tasso fisso, divenuti eccessivamente onerosi, a danno dei mutuatari, a causa «dell’eccezionale caduta dei tassi d’interesse verificatasi in Europa e in Italia nel biennio 1998-1999», è stato previsto un tasso di sostituzione, più favorevole, applicabile ai ratei scaduti successivamente al 2 gennaio 2001 (art. 1, secondo comma).
     La Consulta, chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale del primo comma dell’art. 1 della legge n. 24/2001 (sollevata dai Tribunali di Benevento e Taranto ), ha ritenuto la stessa infondata. Nel motivare il suo provvedimento di rigetto la Corte si è sostanzialmente rifatta alla propria giurisprudenza, secondo la quale «non può ritenersi precluso al legislatore adottare norme che precisino il significato di precedenti disposizioni legislative, pur a prescindere dall’esistenza di una situazione di incertezza nell’applicazione del diritto o di contrasti giurisprudenziali, a condizione che l’interpretazione non collida con il generale principio di ragionevolezza» (cfr., le sentenze n. 525/00 e n. 229/99).
     In particolare, per quanto concerne i tassi di interesse la Corte ha confermato la piena legittimità dell’interpretazione resa dal legislatore, secondo cui l’usurarietà di questi si misura al momento della stipula del contratto e non al momento della dazione, dunque le sanzioni penali e civili di cui agli articoli 644 cod. pen.. e 1815 cod. civ., comma secondo, trovano applicazione per le sole pattuizioni che sin dall’origine erano da considerarsi usurarie, ritenendola un’interpretazione che si presenta “chiara e lineare”, perfettamente compatibile con la ratio della legge n. 108/1996, che è appunto quella di scoraggiare e sanzionare il fenomeno dell’usura.
     La Consulta ha invece ritenuto illegittima la legge n. 24/2001 nella parte in cui stabilisce che la sostituzione dei vecchi tassi usurari con i nuovi più bassi avrebbe avuto decorrenza dal 3 gennaio 2001. I nuovi tassi si sarebbero, infatti, dovuti applicare per i ratei scaduti al 31 dicembre 2000, data di entrata in vigore del decreto legge n. 394/2000. I giudici costituzionali hanno ritenuto irragionevole che, per i mutui stipulati prima dell’entrata in vigore della legge antiusura del 1996, la norma prevedesse la sostituzione di un tasso più favorevole da applicarsi, però, due giorni dopo l’entrata in vigore del decreto legge in questione. Il legislatore avrebbe in tal modo protratto una riscontrata situazione di ingiustizia per i mutuatari, rendendo la norma lesiva del generale canone di ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Costituzione.
     Nonostante le critiche che da più parti, soprattutto dalle associazioni dei consumatori, si sono mosse nei confronti del D.L. 394/00 prima, e della pronuncia della Consulta dopo, non può essere negato il valore di tali interventi in una materia che stava producendo effetti distorsivi nella certezza dei rapporti giuridici posti in essere dagli operatori del credito. L’intervento della Consulta ha così escluso ogni possibilità di interpretare in maniera retroattiva la legge antiusura del 1996, confermando un principio cardine del diritto sulla base del quale ogni parte contraente potrà fare affidamento su regole certe e sull’osservanza degli accordi reciprocamente assunti.

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