dircomm.it

giugno 2002

Giurisprudenza

CORTE DI CASSAZIONE, 23 novembre 2001, n. 14865– Presidente Carnevale– Relatore Morelli – Luzi c. Di Gregorio
     I sindacati di voto – accordi atipici volti a disciplinare, in via meramente obbligatoria tra i soci contraenti, il loro esercizio di voto in assemblea – sono validi, siccome il vincolo che discende da tali patti opera su un piano diverso da quello della organizzazione societaria, e ciò vale anche nel caso in cui essi riguardino la nomina degli amministratori.
     Qualora un sindacato di voto sia stato stipulato per una durata indeterminata o eccessiva, non si verifica la nullità di tale patto parasociale, essendo applicabile il principio del recesso unilaterale con effetto ex nunc.

Commento di Francesco Vitiello

     MOTIVI DELLA DECISIONE – Con i tre motivi della propria impugnazione, il Luzi – denunciando violazione degli artt. 112, 113 cod. proc. civ.; 1322, 1343, 1346, 1418 e 2383 cod. civ. e vizi di motivazione – critica i giudici dell’appello per avere, rispettivamente:
     – omesso di pronunciare, prendendo posizione, sulla natura dei patti in discussione (coincidenti con la prevista durata della società, fino al 2050) quali patti a tempo indeterminato ovvero a termine, eccessivamente protratto;
     – erroneamente ritenuto la validità, comunque, dei patti stessi;
     – immotivatamente, infine, respinto la censura relativa alla domanda di reiezione della penale.
     Con i due motivi del ricorso incidentale la “21 Investimenti”, a sua volta, reitera l’eccezione di nullità del lodo – per mancata indicazione della sede dell’arbitrato e del luogo della sua sottoscrizione – e di invalidità dei patti parasociali per cui è causa. I due ricorsi, vanno previamente riuniti ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ. (Omissis)
     Senz’altro infondato, è poi il primo motivo del ricorso principale.
     La circostanza che la Corte di merito, nell’escludere l’invalidità dei patti parasociali in discussione, abbia espressamente ritenuto che tale soluzione s’imponga identicamente quale sia la durata, indeterminata o non, dei patti stessi, esclude evidentemente che, in ordine alla qualificazione dei predetti patti, per il profilo della loro durata, possa configurarsi l’omissione di pronuncia prospettata dal ricorrente. Tale pronuncia risultando viceversa, adottata nel senso, appunto, dalla irrilevanza della dimensione temporale della clausola, ai fini della sua validità e, sostanzialmente, risolvendosi in una doppia pronuncia di esclusa nullità dei patti sub iudice nella loro duplice possibile eccezione dei patti, vuoi a tempo indeterminato che a termine coincidente con la durata stessa della società.
     Il secondo complesso motivo del ricorso del Luzi ripropone la questione centrale sulla validità dei patti di sindacato stipulati tra le parti e si articola su un triplice e gradato livello di contestazione alle affermazioni della Corte di merito sulla validità “in via di principio” dei cd. sindacati di voto; sulla validità del patto di voto anche quando relativo alla nomina di amministratori della società; sulla esclusa nullità, infine di siffatti patti pur ove stipulati, come nella specie, senza prefissazione di termine o di un termine, comunque, ragionevole.
     Sostiene, infatti, in contrario, il ricorrente che nulla siano, invece, “di regola”, i patti parasociali di voto, perché espropriativi delle funzioni e dei poteri dell’assemblea; che nulli siano in particolare i sindacati di voto sulla nomina di amministratori per contrasto con la norma imperativa dell’art. 2383 cod. civ. (che attribuisce all’assemblea il potere di quella nomina), che nulli siano, comunque, patti siffatti ove stipulati a tempo indeterminato od a termine eccessivamente protratto, per l’ulteriore profilo di loro contrasto con il principio generale dell’ordinamento di non tolleranza di vincoli obbligatori a tempo indeterminato.
     Nessuno di tali rilievi critici può, però, essere condiviso.

     1. Nella eccezione emersa, ed imposta, dalla prassi (sulla spinta di esigenze, tra l’altro, di assicurazione di nuclei stabili di soci in grado di ispirare la strategia imprenditoriale delle società) e poi, comunque, considerata per acquisita o presupposta da varie discipline di settore (v. legge n. 223/1990, art. 26; legge n. 1/1991, art. 1; D.Lgs. n. 127/1991, art. 26; legge n. 149/1992, artt. 7,10; D.Lgs. n. 385/93, art. 23; e v., da ultimo il D.Lgs. n. 58/98, sulla intermediazione finanziaria, il cui art. 123 non applicabile ratione temporis e ratione materiae, alla fattispecie, stabilisce ora una durata avente per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle s.p.a. quotate in borsa, con automatica riduzione, in tali limiti, dei termini stipulati per durata superiore) i patti parasociali e, in particolare i così detti sindacati di voto sono, nella loro varia tipologia (che non ne consente, allo stato, la riconduzione ad uno schema tipico unitario) accordi (quindi) atipici volti a disciplinare, in via meramente obbligatoria tra i soci contraenti, il modo in cui dovrà atteggiarsi (su vari oggetti) il loro diritto di voto in assemblea (non dissimilmente dall’accordo, ad esempio, sul contenuto del voto che preventivamente intervenga tra più comproprietari delle medesime azioni, ex art. 2347 cod. civ.).
     Il vincolo, che da tali parti discende, opera, pertanto, su un terreno esterno a quello della organizzazione sociale (dal che, appunto, il loro carattere parasociale), per cui non può dirsi, senza confondere i due diversi piani del rapporto parasociale e del rapporto sociale; né che al socio, stipulante un tal patto, sia in alcun modo impedito di determinarsi all’esercizio del voto in assemblea come meglio creda, né, quindi, che il patto stesso ponga in discussione il funzionamento dell’organo assembleare.
     Come ben chiaro dalla sentenza n. 9975/1995 (che si è motivatamente discostata da alcuni precedenti di segno contrario), «il fatto che il socio si sia, in altra sede, impegnato a votare in un determinato modo ha rilievo solo se l’eventuale responsabilità contrattuale nella quale egli incorrerebbe – ma unicamente verso gli atti firmatari del patto parasociale – violando quell’accordo».
     Sicché il vincolo obbligatorio, così assunto, opera non dissimilmente da qualsiasi altro possibile motivo soggettivo che possa spingere un socio ad esprimere il suo voto in assemblea in un determinato modo. Senza che nessuno possa impedire a quel socio di «optare per il non rispetto del patto di sindacato, ogni qualvolta, a suo personale giudizio, l’interesse ad un certo esito della violazione assembleare prevalga sul rischio di dover rispondere dell’inadempimento del patto» (9975/95 cit.).
     Non sussiste il paventato effetto di svuotamento dei poteri assembleari riconducibili al patto parasociale e ciò conduce ad escludere (come correttamente ha fatto la Corte milanese) che possa per quel motivo sostenersi la tesi della invalidità, «per principio» dei patti parasociali.

     2. Neppure, per altro, poi sussiste l’ipotizzato contrasto con la norma imperativa dell’art. 2383 cod. civ. da cui si vorrebbe, in via gradata, far discendere la nullità di sindacati di voto sulla nomina di amministratori della società.
     L’inderogabilità della norma attributiva del potere di nomina, di detti organi, all’assemblea non è posta, infatti, in discussione dall’eventuale accordo di voto che, per il già rilevato suo effetto interamente interno al rapporto parasociale, non incide su quel potere assembleare, cui il patto non pone (per come dimostrato) limiti od ostacoli sul piano dell’organizzazione societaria. Dal che l’esclusione, del pari correttamente ritenuta dai giudici a quibus, di una ragione generale di invalidità della subcategoria di patti in esame.

     3. Residua il profilo di doglianza relativo alla mancata predeterminazione di (una ragionevolmente contenuta) durata, dalla quale il ricorrente assume che la Corte del merito avrebbe dovuto, comunque, inferire la nullità dei patti per cui è lite.
     Al riguardo questo Collegio non ignora che la già richiamata sentenza n. 9975/1995 (sul punto invocata dal ricorrente) ha affermato che l’indeterminatezza della durata, o la durata non ragionevolmente contenuta, del patto parasociale ne determina la caduta «nell’area di disfavore che circonda le obbligazioni destinate a durare indefinitamente nel tempo ed impedisce di considerarlo meritevole di tutela e, per ciò, giuridicamente valido, a norma dell’art. 1322, c. 2, cod. civ.».
     Ma ritiene di doversi ora discostare da tale soluzione di principio, per ragioni in primo luogo di coerenza con l’ammessa validità, in via generale, delle convenzioni di voto, non potendo il sottostante giudizio di meritevolezza della correlativa tutela ex art. 1322 cod. civ. essere sovvertito in presenza e in dipendenza di patologie circoscritte al mero profilo della durata (indeterminata od eccessiva) del patto. A fronte delle quali, la sanzione della nullità applicata alla pattuizione nella sua interezza, appare eccessiva, ed anche eccentrica rispetto alla ratio (cui la sanzione sarebbe informata) di evitare, semplicemente, la perpetuità del vincolo negoziale.
     Esistono, ben vero, altri rimedi, dettati dall’ordinamento, per assicurare la temporaneità dei rapporti obbligatori ed in particolare quello, cui anche nella specie può farsi ricorso, dell’applicazione dell’istituto del recesso unilaterale ad nutum, con obbligo di preavviso o per giusta causa.
     La prevalente dottrina e la più recente giurisprudenza (che circoscrive la portata dell’art. 1373 cod. civ. al suo contenuto disciplinatorio del recesso, nei contratti di curata, ove tale facoltà sia prevista dalle parti, senza alcuna implicazione ostativa alla recedibilità anche in caso di mancata previsione pattizia al riguardo: cfr. Cass. n. 4597/93; n. 8360/96; n. 1594/97) concordano, infatti, nell’enucleare, dalle singole disposizioni che ne fanno applicazione con riguardo a specifici contratti tipici a tempo indeterminato, un principio generale di risolubilità ad nutum, individuando nel recesso unilaterale una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, rispondente all’esigenza, appunto, di evitare la perpetuità del vincolo obbligatorio (cfr. n. 6427/98).
     Il riferito principio è agevolmente estensibile ai contratti atipici, a maggior ragione ove gravitanti (come quelli in esame) nell’area del fenomeno societario (cfr. artt. 24, secondo comma, 2285 cod. civ.).
     L’obiettivo di evitare la durata indeterminata od eccessiva dei patti di voto può così ben essere raggiunto – salvaguardando, nel contempo, la validità ed efficacia del vincolo negoziale – attraverso il ricorso ad uno strumento più adeguato e bilanciato, quale il recesso unilaterale, che abiliti le parti a mettere fine ad un rapporto di durata indefinita con effetto ex nunc, in luogo che attraverso la via della eliminazione del rapporto ex nunc (in quanto, in tesi nullo): via (quest’ultima) che potrebbe essere anche artatamente percorsa dal contraente che abbia violato l’impegno assunto.
     Né rileva in contrario la previsione di invalidità dei patti di divieto di alienazione «non contenuti entro convenienti limiti di tempo» di cui all’art. 1379 cod. civ. e la «stretta connessione» (cui fa riferimento la citata sentenza del 1995), che spesso sussiste, «fra il vincolo avente ad oggetto l’esercizio del voto e quello gravante sulla trasferibilità delle azioni a terzi».
     Una tale eventuale connessione non comporta, infatti, necessariamente l’invalidità all’intero patto contratto a tempo indeterminato ma la nullità della sola clausola limitativa del potere di disposizione di azioni sindacate; risultandone, per l’effetto, solo indebolito, ma non anche svuotato di ogni contenuto, il patto di voto che vincolerà comunque i contraenti fino a quando restino proprietari delle azioni.
     Il ricorso allo strumento del recesso ad nutum, per assicurare la temporaneità del vincolo negoziale, nei contratti, anche atipici, a tempo indeterminato (od a termine eccessivamente protratto) risponde, d’altra parte anche ad una non eludibile esigenza di conformazione del contratto a buona fede che si impone in fase esecutiva in virtù del disposto dell’art. 1375 cod. civ. (cfr. sent. n. 8360/90), e per via stessa di integrazione del contratto, in ragione della riconducibilità della clausola di buona fede al dovere costituzionale di solidarietà, operante, come già sottolineato, anche all’interno del rapporto negoziale e con forza di norma inderogabile, immediatamente e direttamente precettiva (cfr. sentenza nn. 3775/1994; 10511/1999).
     Resiste, quindi, a censura la sentenza impugnata anche nella parte in cui ha escluso la nullità del patto di voto pur di durata indeterminata od eccessivamente protratta.
     Dal che conclusivamente l’infondatezza del secondo mezzo impugnatario in ognuna delle tre subcensure.
     Né a miglior sorte può andare incontro la residua terza doglianza del Luzi, in punto di denegata riduzione della penale. Avendo, al riguardo, la Corte territoriale (anche in ragione dei limiti del sindacato devolutole sul lodo impugnato), correttamente escluso l’asserita violazione dell’art. 1384 cod. civ., sul rilievo che gli arbitri avevano respinto la domanda di riduzione sulla base della verificata insussistenza dei correlativi presupposti di parziale esenzione della obbligazione principale e di manifesta eccessività della penale stessa in relazione all’interesse del creditore. circostanze queste, di fatto, evidentemente non suscettibili di riesame in questa sede di legittimità.
     Il ricorso principale va, pertanto, a sua volta integralmente respinto. (Omissis).

 

Top

Home Page