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giugno 2002

Giurisprudenza

CORTE DI CASSAZIONE, 23 giugno 2001, n. 8621 – Presidente Annunziata – Relatore Picone – M. Z. S.n.c. c. B.
     Può configurarsi una cessione di azienda nella aggiudicazione effettuata da un fallimento, anche se questo non abbia proseguito l’attività d’impresa con l’esercizio provvisorio.
     Costituisce valutazione di fatto, incensurabile in Cassazione, l’accertamento se nella aggiudicazione di beni da parte di un fallimento si realizzi un trasferimento di azienda ovvero di beni aziendali non costituenti un complesso funzionale.

Nota di Antonio Giovannoni

     SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – Il Tribunale di Pordenone decidendo sugli appelli – riuniti – proposti da G. B. e dagli altri lavoratori attuali resistenti e ricorrenti incidentali, in riforma della sentenza del Pretore della stessa sede, ha accolto parzialmente le domande proposte dagli appellanti nei confronti della datrice di lavoro “M. Z. s.n.c.”.
     Il Tribunale ha annullato i licenziamenti intimati dalla società al B. ed agli altri litisconsorti, con la condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno nella misura di cinque mensilità di retribuzione per ciascuno di essi. Ha, invece, confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui le stesse domande proposte dai lavoratori contro i soci personalmente, erano state respinte, compensando le spese tra le parti anzidette.
     Il Tribunale ha ritenuto che i lavoratori, tutti già alle dipendenze della fallita E. s.a.s. con mansioni di commessi addetti all’esercizio commerciale sito in Pordenone, erano passati, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2112 cod. civ., alle dipendenze della società Zanchetta a seguito di aggiudicazione, operata in sede di vendita fallimentare, dell’azienda cui erano addetti, ma la nuova datrice di lavoro aveva preteso di considerarli assunti ex novo, con rifiuto di corrispondere le competenze maturate, di regolarizzare la posizione contributiva e con assegnazione a diverse sedi di lavoro, cosicché, giustificatamente ai sensi dell’art. 1460 cod. civ., i lavoratori avevano rifiutate di prendere servizio prima della regolarizzazione della loro situazione. Sulla base di tale premessa, il Tribunale ha ritenuto che, da una parte, i licenziamenti intimati dall’amministrazione fallimentare dopo l’avvenuto passaggio alle dipendenze della società Zanchetta dovevano reputarsi privi di efficacia, senza necessità, quindi, che i lavoratori procedessero alla loro impugnazione; dall’altra, erano illegittimi i licenziamenti intimati dall’effettiva parte del rapporto di lavoro e motivarti con l’assenza ingiustificata dal servizio, dal momento che i lavoratori avevano esercitato il diritto di rifiutare le prestazioni ai sensi dell’art. 1460 cod. civ. Il Tribunale ha, inoltre, limitato il risarcimento del danno al minimo di legge di cinque mensilità di retribuzione; ha respinto le domande proposte contro i soci in proprio perché soggetti estranei al rapporto di lavoro intercorso con la società.
     Per la cassazione della sentenza ricorre con nove motivi la M. Z. s.n.c.; con il medesimo atto propongono ricorso per un motivo i soci. Resistono con controricorso i lavoratori, proponendo, con lo stesso atto, ricorso incidentale per un unico, complesso, motivo, al quale resistono a loro volta, con controricorso, i ricorrenti principali. Le parti hanno altresì depositato memorie ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.

     MOTIVI DELLA DECISIONE – Preliminarmente, la Corte riunisce i ricorsi proposti e dei relativi motivi distinguendo le diverse questione sottoposte allo scrutinio di legittimità.

     A) Sulla questione del trasferimento di azienda.
     Alla questione in oggetto si riferisce il contenuto dei primi quattro motivi del ricorso principale, nonché del sesto motivo dello stesso ricorso.
     Il primo motivo denunzia violazione e falsa applicazione di legge, con riguardo agli art. 2555 e 2112 cod. civ., nonché insufficienza e contraddittorietà della motivazione, per avere il tribunale affermato che l’oggetto del trasferimento attuato ai sensi dell’art. 570 cod. proc. civ. era costituito da aziende di cui erano titolari le imprese dichiarate fallite, mentre, in realtà, a seguito della dichiarazione di fallimento, era residuato soltanto un coacervo di singoli beni e non vi era organizzazione di impresa né imprenditore, come comprovava il contenuto dell’offerta e dell’autorizzazione alla vendita senza incanto, che elencava ed individuava singoli beni, con uso in senso improprio del temine “aziende”.
     Il secondo motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 570 cod. proc. civ. in relazione all’art. 108 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, con riguardo alle affermazioni del Tribunale circa il mancato recepimento, nel decreto di aggiudicazione ed in quello di trasferimento, della condizione posta dalla società, che non vi fossero rapporti di lavoro in corso, poiché la natura di vendita coattiva esclude qualsiasi esplicazione dell’autonomia privata in ordine all’applicazione, o non, dell’art. 2112 cod. civ.
     Il terzo motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 cod. civ., in relazione all’art. 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428, ed il vizio di motivazione illogica e contraddittoria, perché il dettato normativo è nel senso che, in caso di fallimento e di mancata continuazione dell’attività, l’art. 2112 cod. civ. non trova applicazione, ma il cessionario può raggiungere un accordo per il mantenimento dell’occupazione; in ogni caso, nella fattispecie sarebbe stata acquistata un’azienda cui erano addetti meno di quindici dipendenti, con inapplicabilità delle procedure di consultazione richiamate dal comma 5 dell’art. 47 indicato.
     Con il quarto motivo, è denunziata la violazione delle stesse norme di cui al precedente motivo, anche in relazione all’art. 11 Cost. con riferimento agli art. 177 e 189 del Trattato CEE, perché la procedura fallimentare non consente di ritenere la sopravvivenza dell’azienda ed in tal senso si è espressa la giurisprudenza della Corte di giustizia della CEE, escludendo la continuità dei rapporti di lavoro quando lo scopo perseguito del procedimento giudiziario sia la liquidazione dei beni del cedente l’azienda.
     Con il sesto motivo, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 1326 ed il vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria, si deduce che il complessivo comportamento delle parti comprova l’intenzione di assumere ex novo i lavoratori, attuata con la lettera 28.9.1995, da intendere quale accettazione della risposta da essi formulata.
     La Corte, esaminati congiuntamente i suestesi motivi che, come si è detto, concernono sotto vari profili la medesima questione, li giudica infondati.
     Preliminarmente, deve essere disattesa la tesi di diritto secondo cui, a seguito, della dichiarazione di fallimento, ove l’attività imprenditoriale non sia continuata, non può configurarsi cessione di azienda, ma solo di singoli beni. Per un verso, l’art. 2119 cod. civ., nel segno della spersonalizzazione dell’azienda, stabilisce che il fallimento dell’imprenditore ( o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda) non costituisce giusta causa di risoluzione dei rapporti di lavoro. la cessazione dei rapporti predetti, quindi, può aversi o per effetto dei licenziamenti operati dal curatore o a causa della dissoluzione della realtà aziendale. È vero che datore di lavoro non può essere considerato il curatore e neppure può esserlo il fallito – privato dell’amministrazione dei beni – ma il sistema normativo è chiaramente nel senso che i rapporti di lavoro continuano con l’azienda in quanto tale.
     Ciò posto, non si è mai dubitato che anche quando l’amministrazione fallimentare non opti per l’esercizio provvisorio dell’impresa, può ben permanere il bene giuridico azienda, inteso come il complesso di elementi materiali e giuridici organizzati al fine dell’esercizio di un’impresa, poiché la mera cessazione dell’attività per un periodo più o meno lungo, non implica di per se il venire meno dell’organizzazione aziendale. E appunto, il trasferimento dell’azienda, attuato nell’ambito della procedura concorsuale, ne evita la cessazione e, quindi, la disgregazione del patrimonio aziendale.
     Questione diversa è se il trasferimento dell’azienda insolvente comporti l’applicazione dell’art. 2112 cod. civ., che sancisce imperativamente, al primo comma, la continuità dei rapporti di lavoro in corso con l’azienda ceduta.
     Alla risposta affermativa non osta, innanzi tutto, il fatto che si sia in presenza di un trasferimento coattivo, poiché la fattispecie “trasferimento” prescinde dall’esistenza di un rapporto contrattuale, assumendo esclusivo rilievo non il mezzo giuridico in concreto impiegato ma soltanto che il nuovo imprenditore diventi titolare del complesso organizzato di beni nel suo nucleo essenziale ( cfr., fra le più recenti decisioni, Cass., 27 dicembre, n. 14568).
     In secondo luogo, deve escludersi che una regola contraria possa desumersi dall’art. 47, quinto comma, della legge 29 dicembre 1990, n. 428, perché la norma si limita a consentire modifiche peggiorative del trattamento dei lavoratori, in deroga all’art. 2112 cod. civ., al fine di salvaguardare le opportunità occupazionali, quando venga trasferita l’azienda di un’impresa insolvente, purché – ferma restando la continuazione dei rapporti di lavoro – l’imprenditore cessionario eserciti il potere modificativo sulla base di un contratto collettivo o individuale (Cass. 12 maggio 1999, n. 4724).
     Infine, non è pertinente il richiamo alla direttiva CEE 14 febbraio 1977, n. 77/187, come interpretata dalle sentenze della Corte di giustizia 25 luglio 1991, n. C-362/1989 e 7 dicembre 1995, n. C-472/1993, in quanto precisa i limiti della salvaguardia dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di aziende di imprese insolventi, con il solo effetto di rendere conformi alla direttive le suddette limitazioni ad opera dei diritti nazionali, non certo di impedire che siano previste dalle legislazioni interne livelli di tutela eventualmente maggiori, ancorché comportanti maggiori rigidità del sistema.
     Ciò premesso in diritto, il problema se, nella fattispecie concreta, sia stata trasferita un’azienda ovvero soltanto beni aziendali, costituisce indagine di fatto, riservata al giudice del merito e sottratta al sindacato di legittimità se congruamente motivata (cfr. Cass. 30 dicembre 1999, n. 14755).
     Il Tribunale è giunto alla conclusione che l’oggetto del trasferimento fosse costituito da un complesso funzionale di beni idoneo a consentire la prosecuzione della stessa attività imprenditoriale già svolta dall’impresa insolvente, sulla base dei seguenti elementi: la formale designazione quale “azienda”, dell’esercizio commerciale sito in Pordenone, via Aquileia, n. 8, sia nel bando di asta che nella proposta di acquisto; la considerazione unitaria dell’immobile, attrezzature, arredi e merci, quale “punto vendita”, munito di autorizzazione amministrativa e di un valore di avviamento oggetto di apposita stima; il fatto stesso che l’acquirente avesse condizionato la proposta di acquisto (non recepita nell’aggiudicazione e nel decreto di trasferimento) a che non vi fossero «rapporti di lavoro subordinato in atto», se non poteva precludere l’applicazione della norma imperativa di cui all’art. 2112 cod. civ., confermava l’intento di acquisire un complesso organizzato di beni.
     Si tratta dunque, di una motivazione sufficiente e logicamente plausibile, cui la società ricorrente principale contrappone, inammissibile, la sua – opposta – valutazione dei fatti. In fatto, inoltre, non è controverso che non sia intervenuto l’accordo previsto dall’art. 47, comma quinto, l. 428/1990, sopra citato, la cui conclusione condiziona la possibilità di erogare l’art. 2112 cod. civ., sicché sarebbe del tutto superflua ogni ulteriore indagine diretta a stabilire l’esatta portata della norma, anche sotto il profilo della sua inapplicabilità alla cessione di azienda con meno di quindici addetti.
     Ne discende altresì che risultano prive di rilievo le argomentazione concernenti gli accertamenti compiuti dal Tribunale per escludere che i comportamenti tenuti dalle parti fossero da intendere come intenzione di costituire i rapporti ex novo, che formano specifico oggetto delle deduzioni contenute nel sesto motivo, dal momento che deve escludersi che assumano rilievo decisivo nell’economia di una statuizione fondata sulla continuazione dei rapporti di lavoro ai sensi dell’art. 2112.

     B) Sul licenziamento intimato dall’amministrazione fallimentare.
     La questione è investita dal quinto motivo del ricorso principale, con il quel si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966, per avere il Tribunale ritenuto irrilevante il fatto che i lavoratori non avessero impugnato nel termine di decadenza i licenziamenti ad essi intimati dal curatore del fallimento in data 30 giugno 1995, q, quindi, anteriormente al trasferimento dell’azienda, anche ad ammettere che trasferimento vi fosse stato, avvenuto in data 13 luglio 1995.
     Il motivo è inammissibile nella parte in cui, senza denunziare vizi del procedimento di accertamento di fatto, afferma che i licenziamenti sarebbero stati posti in essere dall’amministrazione fallimentare prima dell’emanazione del decreto di trasferimento, mentre il Tribunale li colloca in un tempo posteriore e precisamente alla data del 17 agosto 1995. L’eventuale errore del Tribunale, perciò, sarebbe motivo di revocazione della sentenza, non di ricorso per cassazione.
     Evidentemente, dovendosi considerare soltanto la data indicata nella sentenza impugnata, è pienamente conforme al diritto l’affermazione che il recesso intimato da soggetto, che non riveste la qualità di datore di lavoro è totalmente privo di effetti e non si configura alcun onere di impugnazione per i destinatari dell’atto.

(Omissis)

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Nota di Antonio Giovannoni

     Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione stabilisce alcuni interessanti principi in tema di trasferimento d’azienda in sede fallimentare.
     In via preliminare la Suprema Corte ha deciso che non è accoglibile la tesi secondo la quale non può configurarsi cessione d’azienda ma solo cessione di singoli cespiti, qualora l’attività imprenditoriale della ditta fallita non venga continuata successivamente alla dichiarazione di fallimento, e tale statuizione viene fondata ex art. 2119 cod. civ., il quale stabilisce che non costituisce giusta causa di risoluzione dei rapporti di lavoro il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda. Conseguentemente, gli stessi rapporti possono cessare soltanto a seguito dei licenziamenti operati dal curatore o a seguito della «dissoluzione della realtà aziendale», atteso che «il sistema normativo è chiaramente nel senso che i rapporti di lavoro continuano con l’azienda in quanto tale».
     È indubbio che il bene giuridico azienda, inteso come il complesso degli elementi materiali e giuridici organizzati al fine dell’esercizio dell’impresa, può permanere anche quando gli organi concorsuali non ricorrano all’esercizio provvisorio dell’impresa, in quanto l’organizzazione aziendale non viene meno per la mera cessazione dell’attività per un periodo più o meno lungo, addirittura, la cessazione e, quindi, la dissoluzione del patrimonio aziendale è evitata dal trasferimento dell’azienda posto in essere nell’ambito della procedura concorsuale.
     Risulta inoltre applicabile, anche nell’ambito del trasferimento coattivo in sede concorsuale, l’art. 2112, 1° comma, cod. civ., il quale sancisce che il rapporto di lavoro in corso con l’azienda ceduta continua con il cessionario; tale soluzione si fonda sulla circostanza che la nozione di trasferimento d’azienda prescinde dall’esistenza di un rapporto contrattuale – come nel caso di trasferimento coattivo – in quanto assume «esclusivo rilievo non il mezzo giuridico in concreto impiegato ma soltanto che il nuovo imprenditore diventi titolare del complesso organizzato nel suo nucleo essenziale (cfr. ex pluribus Cass., n. 14568)». Las Suprema Corte ha ritenuto, inoltre, che alla suddetta soluzione non ostano: a) l’art. 47, 5° comma, legge 29 dicembre 1990, n. 428, in quanto tale norma consente modifiche peggiorative in deroga all’art. 2112 cod. civ. per salvaguardare l’occupazione nel caso di trasferimento d’azienda di impresa insolvente, purché l’imprenditore cessionario eserciti il potere modificativo sulla base di un contratto collettivo o individuale, ferma restando la continuazione dei rapporti di lavoro; b) il richiamo alla Direttiva 77187/CE, nell’interpretazione della Corte di Giustizia del 25 luglio 1991 n. C-362/1989 e 7 dicembre 1995 n. C-472/1993, atteso che tale Direttiva precisa i limiti di salvaguardia dei diritti dei lavoratori nel caso di trasferimento di aziende di imprese insolventi, ma non impedisce la previsione da parte delle legislazioni interne di maggiori livelli di tutela.
     La Suprema Corte ha, infine, ritenuta fondata la motivazione del Tribunale, mediante la quale lo stesso era giunto alla conclusione che l’oggetto del trasferimento coattivo fosse costituito da un complesso funzionale di beni idoneo a consentire la prosecuzione della stessa attività imprenditoriale dell’impresa insolvente, alla stregua dei seguenti criteri: la formale designazione quale “azienda” dell’esercizio commerciale ceduto sia nel bando d’asta che nella proposta d’acquisto da parte del cessionario; la considerazione unitaria dell’immobile, delle attrezzature, degli arredi e delle merci quale punto vendita con relativa autorizzazione amministrativa e relativo avviamento, adeguatamente stimato; la circostanza che l’acquirente avesse sottoposto la proposta d’acquisto alla condizione – peraltro non accolta nell’aggiudicazione e nel relativo decreto di trasferimento — che non vi fossero rapporti di lavoro in atto, condizione che, pur non essendo preclusa dall’art. 2112 cod. civ., come sopra rilevato, dimostrava che il proponente aveva inteso acquisire un complesso organizzato di beni.

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