il diritto commerciale d’oggi
     IX.1– gennaio-ottobre 2010

STUDÎ & COMMENTI

 

FRANCESCO PACILEO

Secondo la Cassazione i fondi comuni di investimento non hanno soggettività giuridica, mentre la società di gestione del risparmio ha la titolarità del patrimonio del fondo*
(nota a Cass., 15 luglio 2010 n. 16605)

 

SOMMARIO: 1. Il caso – 2. La gestione collettiva del risparmio e i fondi comuni di investimento – 3. Sulla natura giuridica dei fondi comuni di investimento e sulla titolarità dei beni del fondo – 4. La sentenza annotata – 5. Osservazioni critiche – 5.1. Sulla legittimazione ad agire in giudizio – 5.2. Sull’intestazione dei beni del fondo – 5.3. Sull’aggredibilità del patrimonio della società di gestione da parte dei creditori del fondo.

   1. Il caso
   La sentenza che si annota costituisce un significativo precedente giurisprudenziale, in quanto affronta in maniera approfondita il tema, discusso solo da dottrina risalente e poco trattato dalla giurisprudenza, della natura giuridica dei fondi comuni di investimento e del rapporto della SGR con il patrimonio di tali fondi.
   Il giudizio di legittimità ha ad oggetto il trasferimento di un immobile alberghiero appartenente ad una società fallita, mediante decreto del giudice delegato al fallimento di detta società, in capo ad una società di gestione del risparmio (SGR), anziché direttamente al fondo comune di investimento immobiliare istituito e gestito da tale società di gestione, a seguito di una vendita all’incanto (si adoperano di proposito espressioni atecniche, posto che il tema della controversia attiene proprio alla natura giuridica di tale operazione, n.d.r.).
   Al riguardo, nel provvedimento impugnato il Tribunale di Bari aveva affermato che il fondo comune di investimento sarebbe dotato di soggettività giuridica distinta da quella della società di gestione, ma che, ciò nonostante, quest’ultima si sarebbe resa aggiudicataria in proprio dell’immobile venduto all’asta, avendo agito per conto, ma non anche in nome, di tale fondo immobiliare.
   Aveva proposto ricorso per cassazione la SGR, la quale sosteneva anch’essa che i fondi comuni di investimento fossero autonomi centri di imputazione giuridica, ma che tuttavia l’acquisto dei beni da parte di un fondo potesse avvenire unicamente mediante atti posti in essere dalla relativa società di gestione. Da tale assunto, la società ricorrente deduceva che tale acquisto, una volta effettuato, non avrebbe richiesto alcuna ulteriore attività negoziale per riversarne gli effetti nella sfera giuridica del fondo, in quanto tali effetti si sarebbero realizzati direttamente in capo a quest’ultimo. In sostanza, per la SGR il decreto di trasferimento sarebbe dovuto essere emesso in favore del fondo.
   Con un’articolata motivazione il Giudice di legittimità confuta entrambe le ricostruzioni appena enunciate, affermando che i fondi comuni di investimento sono patrimoni autonomi privi di soggettività giuridica e che titolare di tale patrimonio separato è la SGR. Conseguentemente, la Suprema Corte rigetta il ricorso sostenendo, da una parte, che legittimata ad agire in giudizio sia la stessa società di gestione “in proprio” e non “in qualità di gestore del fondo”, mentre, dall’altra, che i beni (immobili) acquistati dalla SGR nell’interesse di un fondo debbano essere intestati direttamente alla società di gestione che ha istituito il fondo e non a quest’ultimo.
Desta, inoltre, notevole importanza un obiter dictum, secondo cui i creditori per le obbligazioni contratte nell’interesse del fondo sarebbero abilitati a rivalersi nei confronti della SGR, qualora i beni del fondo non risultassero sufficienti a soddisfare le loro ragioni.

   2. La gestione collettiva del risparmio e i fondi comuni di investimento.
   Occorre innanzi tutto premettere che la normativa primaria che individua le fattispecie “gestione collettiva del risparmio” e “fondi comuni di investimento” e ne traccia la relativa disciplina (trattasi del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58/1998, ossia il Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, T.U.F.) è stata di recente modificata. Ciò non è di secondario rilievo, per cui di seguito si farà in un primo momento riferimento alle disposizioni previgenti, applicate dalla sentenza annotata.
   Secondo l’art. 1, comma 1, lettera n), T.U.F., dunque, per “gestione collettiva del risparmio” s’intende «il servizio che si realizza attraverso:
   1) la promozione, istituzione e organizzazione di fondi comuni di investimento e l’amministrazione dei rapporti con i partecipanti;
   2) la gestione del patrimonio di OICR, di propria o altrui istituzione, mediante l’investimento avente ad oggetto strumenti finanziari, crediti, o altri beni mobili o immobili».
   Secondo la successiva lettera o), poi, la “società di gestione del risparmio (SGR)” è «la società per azioni (...) autorizzata a prestare il servizio di gestione collettiva del risparmio», mentre la lettera m) del medesimo comma inquadra nel genus “organismi di investimento collettivo del risparmio (Oicr)” i fondi comuni di investimento e le Sicav. Segnatamente, il “fondo comune di investimento” viene definito nella lettera j) come «il patrimonio autonomo, suddiviso in quote, di pertinenza di una pluralità di partecipanti, gestito in monte».
   In sostanza, la gestione collettiva del risparmio consiste nell’organizzazione e/o nella attuazione di un investimento avente ad oggetto un patrimonio composto dagli apporti di una pluralità di investitori. Tale investimento è impersonale ed avviene secondo criteri obiettivi, stabiliti dall’intermediario nell’interesse di tutti i partecipanti (“in monte”).
   Il principale vantaggio di questo sistema consiste nella maggiore possibilità di diversificazione dell’investimento e, dunque, del rischio, specie per coloro che hanno un patrimonio di modeste dimensioni da investire.
D’altra parte, la mancanza di un potere decisionale sulle scelte di investimento e l’“impersonalità” dell’operazione comportano la necessità di una stringente tutela degli investitori, da parte dell’ordinamento giuridico.
   I fondi comuni di investimento, poi, costituiscono una species di organismi di investimento collettivo del risparmio. Rispetto ad essi, la gestione collettiva del risparmio si realizza mediante la relativa promozione, istituzione, organizzazione ed amministrazione dei rapporti con i partecipanti, ovvero mediante la gestione, ovvero ancora mediante l’esercizio contestuale di tutte queste attività da parte di una o più SGR.
   Tali fondi vengono dunque definiti in maniera neutrale come un “patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione del risparmio”, suddiviso in quote, gestito in monte, rispetto al quale i partecipanti perdono ogni collegamento con gli apporti da essi forniti. Gli investitori acquistano il diritto al rimborso della quote a loro attribuite, al valore che deriva dal prezzo di mercato delle attività finanziarie in quel momento comprese nel patrimonio del fondo comune, per una somma pari alla frazione del valore di tale patrimonio, rappresentata dal numero delle quote presenti nel portafoglio del singolo investitore. Il rimborso avviene mediante richiesta effettuabile in qualsiasi momento (nei fondi “aperti”) o a scadenze predeterminate (nei fondi “chiusi”).
   Al fine di tutelare la delicata posizione dei partecipanti, insieme ad un meccanismo di deposito e subdeposito di strumenti finanziari e di disponibilità liquide mediante una banca “depositaria”, l’art. 36, comma 6, T.U.F. (previgente, si ripete) prevede che «Ciascun fondo comune di investimento, o ciascun comparto di uno stesso fondo, costituisce patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione del risparmio e da quello di ciascun partecipante, nonché da ogni patrimonio gestito dalla medesima società. Su tale patrimonio non sono ammesse azioni dei creditori della società di gestione del risparmio o nell’interesse della stessa, né quelle dei creditori del depositario o del sub depositario o nell’interesse degli stessi. Le azioni dei creditori dei singoli investitori sono ammesse soltanto sulle quote di partecipazione dei medesimi. La società di gestione del risparmio non può in alcun caso utilizzare, nell’interesse proprio o di terzi, i beni di pertinenza dei fondi gestiti».

   3. Sulla natura giuridica dei fondi comuni di investimento e sulla titolarità dei beni del fondo
Prima dell’entrata in vigore sia del T.U.F., sia della normativa ad esso previgente in tema di fondi di investimento, in mancanza di una disciplina che prevedesse un regime di separazione patrimoniale, era sorto un vivace dibattito dottrinario sulla natura di tali fondi e sulla titolarità dei beni ad essi inerenti.
   Così, secondo alcuni i partecipanti sarebbero stati comproprietari dei beni del fondo, mentre la società di gestione sarebbe stata mandataria degli investitori (T. ASCARELLI, L’Investment trust, in Banca borsa ecc., 1954, I, 178 ss. 178; B. LIBONATI, Holding e investment trust, Giuffrè, 1959, 627).
   Secondo altri, invece, il fondo avrebbe fatto parte del patrimonio della società di gestione e, dunque, la relativa titolarità sarebbe appartenuta a quest’ultima (P. RESCIGNO, Il patrimonio separato nella disciplina dei fondi comuni d’investimento, in Aa.Vv., I fondi comuni d’investimento nella L. 77/1983, Giuffrè, 1985, 85 ss., 90; P.G. JAEGER, Prospettive e problemi giuridici dei fondi comuni d’investimento mobiliare, 1 ss., 28 ss. e G. CASTELLANO, Per una qualificazione giuridica dei fondi d’investimento mobiliare, 89 ss., 93 ss., entrambi in L’istituzione dei fondi comuni d’investimento, a cura di L. Geraci e P.G. Jaeger, Giuffrè, 1970, sebbene questi ultimi due Autori parlino di “proprietà-funzione”).
   Un altro orientamento, poi, sosteneva la soggettività giuridica del fondo di investimento, “titolare di se stesso” alla stregua di una sorta di fondazione non riconosciuta (R. COSTI, La struttura dei fondi comuni d’investimento nell’ordinamento giuridico italiano e nello schema di riforma delle società commerciali, in Riv. società, 1968, 242 ss., 300 ss., sebbene in alternativa con un’altra soluzione interpretativa), ovvero di una associazione non riconosciuta costituita fra i partecipanti (A. NIGRO, I fondi comuni di investimento mobiliare, Giuffrè, 1970, 87 ss., spec. 92; Id., I fondi comuni di investimento mobiliare: struttura e natura giuridica, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1969, 1522 ss., 1568 ss., spec. 1595 ss.).
   Un’ulteriore tesi, infine, definiva il fondo come un patrimonio senza soggetto, proprietà di nessuno (R. COSTI, op. loc. cit., come altra soluzione alternativa).
   In seguito all’introduzione della disciplina compiuta in tema di fondi di investimento, sancita prima dalle leggi nn. 77/1983, 344/1993, 86/1994 e poi dal T.U.F., la dottrina è stata unanimemente dell’avviso che la disputa sulla natura giuridica dei fondi di investimento e sulla titolarità di tale patrimonio non avesse più ragion d’essere, in quanto la relativa soluzione non aveva più alcun rilievo pratico.
   La previsione del regime di separazione patrimoniale, infatti, aveva risolto le problematiche concernenti le possibili pretese sui beni del fondo dei creditori della società di gestione, del depositario e del subdepositario, nonché dei creditori personali dei partecipanti (per tutti, M. MIOLA, sub art. 36, in Testo unico della finanza, Commentario diretto da G.F. Campobasso, Intermediari e mercati, UTET, 2002, 314 ss., 320).
   Circa la natura di patrimonio “autonomo”, “separato”, “distinto” o “destinato”, poi, la dottrina è sostanzialmente concorde nel ritenere che il legislatore ha impiegato questi termini in maniera promiscua, per cui essi possono essere utilizzati come sinonimi, senza alcuna particolare implicazione.
   In sostanza, rileva la sottrazione al regime dell’art. 2740, 1° comma, c.c. dei beni del fondo, a beneficio dei partecipanti e dei “creditori del fondo” (espressione quest’ultima atecnica, se si ritiene che il fondo non abbia soggettività) e, quindi, la non aggredibilità di tali beni da parte dei soggetti indicati dalle disposizioni prima enunciate.
A latere di tali dispute, inoltre, la mancata previsione esplicita di una separazione patrimoniale del fondo anche a beneficio della società di gestione fa sorgere l’interrogativo sulla aggredibilità o meno del patrimonio di tale società da parte dei creditori del fondo, nel caso in cui costoro non si siano soddisfatti integralmente sui beni del fondo.

   4. La sentenza annotat
   La sentenza che si annota prende invece posizione proprio sulla questione relativa alla natura dei fondi comuni di investimento, mostrando di attribuire notevole rilievo ad una problematica che sembrava appunto superata.
   Segnatamente, due sono i punti che la Suprema Corte esamina, incentrandosi sulla natura del fondo e sul rapporto con la SGR: la legittimazione ad agire in giudizio e l’intestazione dei beni (nella specie immobili) acquistati dalla società di gestione nell’interesse del fondo.
   Così, il Giudice di legittimità ripercorre tutte le tesi adottate in dottrina prima dell’emanazione della normativa sui fondi di investimento, finendo per propendere per la mancanza di soggettività giuridica da parte del fondo e per la titolarità del patrimonio del fondo in capo alla società di gestione.
   Al riguardo, tale decisione si pone esplicitamente in contrasto con l’orientamento manifestato in passato dal Consiglio di Stato in tema di fondi immobiliari, che aveva dato seguito ad una significativa prassi applicativa soprattutto in tema di trascrizioni (infra § 5.2).
   In particolare, l’organo di giustizia amministrativa aveva affermato che il massimo grado di autonomia patrimoniale riconosciuto dalla legge ai fondi immobiliari faceva sì che la titolarità dei beni dei fondi dovesse essere riferita agli stessi fondi, «quali centri autonomi di imputazione di interessi», tenuto conto della peculiare disciplina normativa (Cons. St., sez. III, parere 11 maggio 1999, n. 608, in Cons. St., 1999, I, 2216 ss.).
   Per la Cassazione, invece, sebbene il legislatore non fornisca indicazioni specifiche in merito, il fondo sarebbe privo di soggettività giuridica, in quanto non dotato di una struttura organizzativa minima, di rilevanza anche esterna, a differenza di quanto avviene per altri enti privi di personalità giuridica (come, ad esempio, le associazioni non riconosciute, le società di persone e i fondi speciali per la previdenza e l’assistenza di cui all’art. 2117 c.c..).
   Effettivamente, anche se l’art. 37, comma 2-bis, T.U.F. ora prevede che le deliberazioni dell’assemblea dei partecipanti possano vincolare in alcune materie la società di gestione e possano determinare la sostituzione della SGR gestore, tuttavia tali poteri attribuiti agli investitori rimangono del tutto marginali rispetto al concreto esercizio dell’attività di gestione collettiva del risparmio, esercitata integralmente dagli intermediari. Invero, è il regolamento redatto dalla SGR istitutrice a disciplinare il funzionamento del fondo, il quale peraltro non può porsi direttamente in relazione con i terzi, necessitando dell’intervento della società di gestione. A tutto ciò, la sentenza in commento aggiunge che, ai sensi dell’art. 36, comma 6, T.U.F., il gestore risponde del proprio operato direttamente nei confronti dei partecipanti e non nei confronti del fondo, come sarebbe invece stato se quest’ultimo fosse stato centro d’imputazione di situazioni giuridiche soggettive.
   Secondo la Suprema Corte, allora, la soggettività giuridica del fondo complicherebbe il perseguimento dell’interesse degli investitori e, pertanto, il fondo comune di investimento sarebbe da considerarsi come un mero patrimonio separato. In base a tale ragionamento, invero, la separazione tutelerebbe la posizione dei partecipanti, i quali sarebbero “i proprietari sostanziali dei beni di pertinenza del fondo”, mentre la “titolarità formale” e l’intestazione dei medesimi beni, oltre che la legittimazione processuale, apparterrebbero alla società di gestione che lo ha istituito (e non alla SGR gestore, in caso di distinzione tra questa e la SGR promotrice).
   Da tale impostazione, inoltre, deriva l’obiter dictum secondo cui se il fondo avesse soggettività giuridica, ciò pregiudicherebbe la tutela dei partecipanti, in quanto, inter alia, la SGR non risponderebbe col proprio patrimonio nei confronti dei terzi creditori del fondo, nel caso in cui il patrimonio del fondo fosse insufficiente a soddisfare integralmente le loro pretese creditorie.

   5. Osservazioni critiche
   La decisione in commento ha senz’altro il pregio di voler ricostruire in maniera ragionata e coerente il sistema della gestione collettiva del risparmio mediante i fondi comuni di investimento, cercando di fornire un inquadramento giuridico rigoroso ai fatti sottoposti a giudizio, sia sotto il profilo processuale, sia sotto quello sostanziale.
   In particolare, sono condivisibili le conclusioni a cui la Corte di legittimità giunge in tema di mancanza di soggettività giuridica del fondo (quanto meno prima della modifica dell’art. 36 T.U.B., infra § 5.3).
   Effettivamente, al di là delle generiche definizioni fornite dal legislatore, tale organismo di investimento collettivo del risparmio è privo di una struttura organizzativa idonea a consentire una diretta interrelazione con i terzi (A. LENER, sub art. 3, in Istituzione e disciplina dei fondi comuni di investimento, a cura di A. Maffei Alberti, in Nuove leggi civ. comm., 1984, 398 ss., 408).
   D’altra parte, è altresì sostenibile l’affermazione che i partecipanti non dispongono di incisivi poteri per influenzare l’esercizio dell’attività di gestione collettiva da parte della SGR, per cui è da escludersi una loro proprietà “formale”, anche in considerazione del precipuo scopo economico pratico dei fondi di investimento. Nondimeno, sono criticabili la prospettiva da cui la Suprema Corte affronta la controversia sottopostale e le conclusioni a cui essa perviene.
   La sentenza annotata, invero, tradisce l’impostazione della dottrina tradizionale e della giurisprudenza, che si incentrano soprattutto sull’aspetto strutturale dei soggetti di diritto coinvolti nella fattispecie, sulle correlative posizioni giuridiche soggettive e sulla titolarità dei beni del fondo. Da ciò discende l’excursus, enunciato dalla Corte, sulle varie risalenti tesi contrapposte riguardo alla natura giuridica dei fondi comuni di investimento e sulla posizione giuridica soggettiva della SGR e dei partecipanti.
   In merito a tale ultima questione, poi, la decisione in commento opera una distinzione tra “titolarità formale” dei beni del fondo, in capo alla SGR, e “proprietà sostanziale” a vantaggio dei partecipanti. Così ragionando, tuttavia, si contempla un meccanismo che ricorda quello della proprietà fiduciaria, di non facile inserimento nel nostro ordinamento giuridico, specie se vi si vuole attribuire efficacia erga omnes. Inoltre, nonostante venga adoperata l’espressione “titolarità”, in ogni caso, la sentenza annotata delinea un’impostazione incentrata sul diritto di proprietà, che, ad avviso di chi scrive, mal si addice alla struttura costruita dal legislatore riguardo ai fondi comuni di investimento.
   In questo modo, la pronuncia in oggetto trascura il sistema obiettivo costituito dalla disciplina normativa in tema di fondi comuni di investimento, sistema che aveva portato la dottrina unanimemente a ritenere superata e di scarsa utilità pratica proprio la disputa sulla natura giuridica dei fondi e sulla posizione giuridica dei soggetti coinvolti.
   Tale disciplina, invero, attribuisce primaria importanza al profilo funzionale della realizzazione dell’interesse dei partecipanti. In tal senso, il diritto positivo privilegia l’organizzazione e l’esercizio dell’attività di gestione dei fondi comuni di investimento e la disciplina della responsabilità e della garanzia patrimoniale (cfr. P. FERRO-LUZZI, Le gestioni patrimoniali, in Giur. comm., 1992, I, 44 ss., 53 ss., per una distinzione tra “fiducia”, incentrata sul profilo statico della titolarità, e “gestione”, essenzialmente dinamica).
   Il meccanismo contemplato dal legislatore, dunque, concerne il completo affidamento alla società di gestione di un investimento collettivo di ricchezza, da parte di investitori, i quali si disinteressano della concreta attuazione dell’impiego di tale ricchezza e, nella maggior parte dei casi, non sono in grado di investire i valori conferiti.
   Da una parte il legislatore prevede, allora, l’autonomia/separatezza del patrimonio del fondo, attribuendo così efficacia reale a tale meccanismo, mentre, dall’altra, attribuisce esclusivamente alla SGR il potere di disporre dei beni del fondo, al fine di realizzare l’interesse dei partecipanti.
   Al riguardo, il primo profilo comporta la destinazione del patrimonio del fondo alla realizzazione degli interessi dei partecipanti. Il patrimonio del fondo è “distinto” e “autonomo” non tanto perché è riferito ad altro soggetto o centro di imputazione, o all’insieme dei partecipanti, né perché è “separato” dal patrimonio “generale” di un soggetto, ma perché è “oggettivamente” disciplinato da una norma che lo qualifica in funzione della specifica destinazione ad essere strumento per realizzare l’interesse dei partecipanti (cfr. A. ZOPPINI, Autonomia e separazione del patrimonio nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, in Riv. dir. civ., 2002, I, 545 ss., 550; E. SABATELLI, La responsabilità per la gestione dei fondi comuni di investimento mobiliare, Giuffrè, 1995, 48 ss.) in un’ottica pubblicistica di tutela del risparmio. Le nozioni di “autonomia” e “distinzione” patrimoniale, allora, devono essere intese nel senso che il patrimonio del fondo deve essere utilizzato esclusivamente per l’attività di investimento e nel senso della limitazione della responsabilità e circoscrizione della garanzia patrimoniale, che tiene distinti e rende reciprocamente ininfluenti i rapporti giuridici che intercorrono rispettivamente tra il patrimonio del fondo, da un lato, e i patrimoni dei partecipanti e della SGR, dall’altro (cfr. E. SABATELLI, op. loc. cit.).
   Il fondo, quindi, è oggetto e strumento di un’attività diretta alla realizzazione di un’interesse altrui (G. FERRI jr., Patrimonio e gestione. Spunti per una ricostruzione sistematica dei fondi comuni di investimento, in Riv. dir. comm., 1992, I, 25 ss., 35 ss.; E. SABATELLI, cit., 45 ss.) e la previsione positiva di tale vincolo funzionale comporta la mancata applicazione del regime di responsabilità/garanzia patrimoniale integrale di cui all’art. 2740, comma 1, c.c.. Il secondo aspetto, strettamente connesso al primo (per la connessione tra i due profili, cfr. M. BIANCA, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Cedam, 1996, 29 ss., spec. 35), inquadra la relazione tra SGR e fondo in una prospettiva dinamica e funzionale. La società di gestione è l’unica che può consentire al fondo di relazionarsi coi terzi e viceversa, attuando dunque la destinazione del patrimonio ed implicando la garanzia determinata da tale vincolo di destinazione, anche con riferimento ai creditori del fondo. In tale contesto, allora, non rileva tanto quale sia la posizione soggettiva della SGR, del fondo e dei partecipanti, né il trasferimento della titolarità dei beni interessati nella gestione, ma ancora l’oggettivo funzionamento del sistema contemplato dal legislatore, in cui la società di gestione è l’unica a poter disporre dei beni del fondo, col limite del vincolo di destinazione alla realizzazione degli interessi dei partecipanti, e, pertanto, è l’unica a poter interagire con i terzi che sono o diverranno creditori del fondo (“creditori” sempre in senso lato, s’intende).
   Una sintesi di quanto testé esposto è data dal vigente art. 1, comma 1, lettera j), T.U.F. (come modificato dall’art. 32, comma 1 del D.L. n. 78 del 31.5.2010, convertito in L. n. 122 del 30.7.2010), che ora definisce la fattispecie “fondo comune di investimento” come «il patrimonio autonomo raccolto, mediante una o più emissione di quote, tra una pluralità di investitori, con finalità di investire lo stesso sulla base di una predeterminata politica di investimento; suddiviso in quote di pertinenza di una pluralità di partecipanti; gestito in monte, nell’interesse dei partecipanti e in autonomia dai medesimi».
   E proprio dall’impostazione appena esposta occorre partire per fornire una soluzione alle controversie sottoposte alla decisione in commento.

   5.1. Sulla legittimazione ad agire in giudizio
   Sulla base della criticata distinzione tra “titolarità formale” della SGR e della “proprietà sostanziale” dei partecipanti sui beni del fondo, la sentenza annotata afferma che la società di gestione è legittimata ad agire in giudizio “in proprio” e non “in qualità di società di gestione del fondo”.
   Se, infatti, il fondo non fosse altro che un patrimonio separato di cui è titolare la SGR, non sussisterebbe alcuna alterità tra questa e tale patrimonio, per cui essa sarebbe senz’altro legittimata ad agire in giudizio “in proprio” per far valere una pretesa afferente il “suo” patrimonio, la cui caratteristica sarebbe unicamente quella della separazione dal resto del patrimonio e della destinazione allo scopo di realizzare l’interesse dei partecipanti.
   Sarebbe pertanto pleonastico agire in giudizio anche “in qualità di società di gestione del fondo” e non avrebbe alcun rilievo processuale la “spendita del nome” del fondo.
   Se, però, si ritiene che sia irrilevante sapere chi sia il proprietario “formale” dei beni del fondo, nell’ambito del peculiare meccanismo posto in essere dal legislatore, si deve allora concludere che individuare il soggetto legittimato ad agire in giudizio secondo la prospettiva statica delineata dalla sentenza che si annota potrebbe essere fuorviante.
   Nell’ottica dinamica e funzionale su cui si impronta la disciplina dei fondi comuni di investimento rileva piuttosto il potere di disporre dei beni del fondo, attribuito alla SGR, per cui quest’ultima è legittimata ad agire autonomamente in giudizio non tanto perché proprietaria “formale” di tali beni, bensì in virtù proprio di tale potere di disporre.
   La SGR, dunque, non agisce in quanto è coinvolto un “proprio” patrimonio, quantunque separato, ma in qualità di società di gestione del fondo.
   In questo senso, allora andrebbe intesa l’affermazione della sentenza annotata (condivisibile nella conclusione, ma non nell’argomentazione), secondo cui la società di gestione sarebbe legittimata ad agire in giudizio e titolare dell’interesse a ricorrere per cassazione, in quanto «unico soggetto identificabile come parte in causa...». Da ciò discende che la SGR è legittimata ad agire in giudizio solamente “in qualità di società di gestione del fondo”, quando sussistano controversie che riguardino il fondo.
   Né, d’altronde, si realizza alcuna “spendita del nome” del fondo, come accenna invece la sentenza annotata. La SGR, invero, non agisce “in nome del fondo”, in quanto non sussiste alcuna rappresentanza (sostanziale o processuale), né, all’opposto, una sostituzione processuale. Proprio la peculiare previsione normativa, infatti, consente di inquadrare la posizione della SGR in maniera autonoma, come gestore del fondo e unico soggetto abilitato a porre in relazione coi terzi i beni del fondo, in virtù del potere di disporre di cui essa beneficia ai sensi di legge.
   Correttamente e, anzi, doverosamente, allora, la società di gestione, nel caso esaminato, aveva agito in giudizio “in qualità di società di gestione del fondo”.

   5.2. Sull’intestazione dei beni del fondo
   La sentenza che si annota parte dalla pretesa titolarità della SGR sui beni del fondo e sulla natura di quest’ultimo di mero patrimonio separato e non di soggetto di diritto, per inferire l’infondatezza della pretesa della ricorrente di far intestare direttamente al fondo i beni oggetto della vendita all’incanto.
   Secondo la Corte, invero, la titolarità del patrimonio in capo alla stessa SGR e, quindi, la mancanza di un’alienità, comporterebbe che «non si può certo postulare l’esistenza di un mandato o di una rappresentanza tra la medesima società di gestione e il fondo: perché questo implicherebbe una duplicità soggettiva che non è invece ravvisabile».
   Tuttavia, in un’ottica funzionale della disciplina dei fondi comuni di investimento si perviene ad una differente soluzione.
   Effettivamente, si può sostenere che non sussista né un mandato, né tanto meno una rappresentanza. Ciò sia perché il fondo non ha soggettività giuridica, sia perché, se i partecipanti fossero mandanti, comunque non avrebbero i poteri di influenzare l’attività del mandatario contemplati dalla disciplina codicistica, sia perché il gestore deve perseguire un interesse obiettivo ed è assoggettata a controlli pubblicistici, oltre che della banca depositaria (A. LENER, op. cit, 403), sia, infine, perché non si ha alcuna spendita del nome (stricto sensu intesa) da parte della SGR.
   Ma la ricerca di una soluzione di un problema afferente un fenomeno relativamente nuovo concentrandosi esclusivamente sulle tradizionali categorie civilistiche rischia di far perdere di vista quali siano le caratteristiche del sistema dei fondi comuni di investimento.
   Osservando il criterio della prevalenza della sostanza sulla forma, in una prospettiva funzionale, si deve ritenere che rilevi l’esercizio del potere di disposizione della SGR, nel rispetto dei terzi creditori del fondo, i quali debbono poter conoscere che tale società agisce nell’interesse del fondo, che i beni vengono destinati (o erano destinati, in caso di alienazione) al fondo e che essi beneficiano della garanzia di tale autonomo e separato patrimonio.
   Se vengono rispettati questi parametri, allora, l’eventuale intestazione dei beni al fondo, anziché alla società di gestione, non potrà inficiare la validità e l’efficacia del trasferimento.
   Lo stesso discorso vale nel caso in cui i beni vengano intestati alla SGR. In questa sede, invero, non si intende prendere posizione sulla questione relativa all’effettiva proprietà “formale” dei beni del fondo in capo alla SGR. In realtà, anche se così fosse e se si intestassero i beni alla società, anziché al fondo, la possibilità che i terzi conoscano la destinazione al fondo di detti beni consentirebbe egualmente di ritenere rispettato il meccanismo contemplato dal legislatore.
   Ciò che conta, allora, è che non si consideri erronea, con riflessi sulla validità e sull’efficacia del trasferimento, l’opposta ipotesi di intestazione dei beni al fondo (e viceversa).
   È, infine, doveroso chiedersi se una rigorosa applicazione del principio di diritto statuito dalla Cassazione possa incidere sulle trascrizioni relative al trasferimento di immobili nell’interesse di fondi comuni di investimento. In merito, la prassi applicativa è orientata a trascrivere “a favore” del (o “contro” il) fondo, con contestuale annotazione del rapporto gestorio a favore della SGR dei beni immobili oggetto del trasferimento, in considerazione di quanto previsto dalla Circolare del Ministero delle Finanze n. 218/T dell’11 novembre 1999 (la quale si riferisce in particolare ai fondi afferenti alla dismissione dei beni pubblici).
   Al riguardo, tale Circolare prende spunto proprio dal menzionato parere del Consiglio di Stato, confutato dalla sentenza che si annota (infra § 4).
   In merito, i giudici amministrativi, partendo dal presupposto che il fondo sia un autonomo centro di imputazione di interessi, affermano che la sottoscrizione di quote di fondi di investimento immobiliari, essendo subordinata all’apporto di beni immobili, debba essere inquadrata nello schema del negozio bilaterale a prestazioni corrispettive, comportante necessariamente, a seguito dell’acquisizione delle quote dei fondi, effetti traslativi in ordine alla titolarità dei beni destinati all’istituzione dei medesimi fondi. Pertanto, in relazione alle specifiche finalità di tutela degli interessi dei terzi perseguite dalla disciplina delle trascrizioni immobiliari, la titolarità di detti beni dovrebbe essere riferita agli stessi fondi, salve le necessarie annotazioni riguardanti il vincolo gestorio esistente a favore della SGR, espressamente fissato dalla normativa vigente in materia.
   Secondo la Circolare, allora, tale annotazione, garantendo ai terzi l’immediata conoscibilità del particolare rapporto di gestione, strumentale all’autonomia patrimoniale, assolverebbe alla funzione integrativa dell’informazione-base derivante dalla trascrizione a favore del fondo, senza alterarne o snaturarne il contenuto.
   Come si può vedere, dunque, l’impostazione statica, incentrata sulla titolarità dei beni e seguita sia dalla Cassazione, sia dal Consiglio di Stato, sebbene con conclusioni opposte, ancora una volta ingenera incertezze di non poco rilievo anche sul piano applicativo.
   L’interpretazione che si cerca di suggerire in questa sede, invece, non creerebbe complicazioni nemmeno riguardo al regime delle trascrizioni immobiliari, ove rileva la conoscibilità, da parte dei terzi, del trasferimento del bene trascritto, del coinvolgimento della SGR e del fondo, della circostanza che tale società agisce nell’interesse del fondo, con tutto quello che ne consegue, specie in termini di vincolo di destinazione e di autonomia patrimoniale.
   Così, la ratio legis del sistema delle trascrizioni immobiliari verrebbe adeguatamente perseguita sia mediante trascrizione “a favore” (o “contro”) la SGR, con contestuale annotazione del rapporto gestorio e dunque del vincolo funzionale nei confronti di un determinato fondo, sia tramite trascrizione “a favore” (o “contro”) il fondo, con contestuale annotazione del rapporto gestorio da parte della SGR. In tal modo non verrebbe inficiata la prassi invalsa a seguito della citata Circolare.

   5.3. Sull’aggredibilità del patrimonio della società di gestione da parte dei creditori del fondo.
L’impostazione tradizionale seguita dalla sentenza annotata non coglie la reale essenza della struttura e della disciplina dei fondi comuni di investimento e, pertanto, come accennato, rischia di ingenerare distorsioni interpretative.
   Ciò è accaduto nel menzionato obiter dictum in tema di aggredibilità del patrimonio della SGR da parte dei creditori del fondo, in caso di incapienza di quest’ultimo.
   È questo un tema molto delicato, poco studiato in dottrina e senza precedenti giurisprudenziali, che meriterebbe un approfondimento ed uno sviluppo che non possono essere realizzati in questa sede. Nondimeno, si possono comunque fare tre osservazioni.
   In primo luogo, la Suprema Corte sostiene che se il patrimonio generale della società di gestione non fosse aggredibile dai creditori del fondo, ciò sarebbe contrario alla tutela dei partecipanti.
   Orbene, ad eccezione della mala gestio, i partecipanti non vantano alcun diritto di credito alla restituzione delle somme o del corrispettivo dei valori apportati al fondo, ma hanno diritto al rimborso delle quote a loro attribuite, per una somma pari alla frazione patrimonio del fondo comune, rappresentata dal numero delle quote presenti nel loro personale portafoglio, frazione che dunque potrebbe essere persino pari a zero. Non si comprende, allora, perché i partecipanti dovrebbero vantare pretese sul patrimonio della SGR.
   Già sotto questo profilo, dunque, tale assunto appare contraddittorio, laddove collega l’interesse dei partecipanti alle pretese di terzi creditori del fondo.
   In secondo luogo, a prescindere dalla precedente considerazione, non si comprende perché l’implicazione del patrimonio della SGR come garanzia generica per le obbligazioni dei terzi creditori del fondo gioverebbe ai partecipanti.
   Al riguardo, invero, al di là dell’obbligo di diligenza professionale, se l’intermediario assumesse in prima persona i rischi connessi all’investimento effettuato finirebbe col perdere l’obiettività necessaria per un’operazione così complessa. Si pensi, ad esempio, ai fondi speculativi, o che comunque possono disporre una significativa leva finanziaria, i quali effettuano investimenti ad alto rischio. Se, in tal caso la società di gestione rispondesse col proprio patrimonio verso i creditori del fondo, inevitabilmente opererebbe con una prudenza eccessiva, non richiesta dai partecipanti. A ciò si deve aggiungere che, se così fosse, sarebbe opportuno che la normativa di vigilanza imponesse alla società di gestione maggiori requisiti prudenziali, in tal modo comportando di riflesso maggiori spese per gli investitori.
   Infine, lo stesso legislatore è di recente intervenuto sulla disciplina dei fondi comuni di investimento per chiarire che la SGR non risponde nei confronti dei terzi creditori del fondo.
   Ai sensi dell’attuale art. 36, comma 6, T.U.F. (come modificato dall’art. 32, comma 1 del D.L. n. 78 del 31.5.2010, convertito in L. n. 122 del 30.7.2010), infatti, «per le obbligazioni contratte per suo conto, il fondo comune di investimento risponde esclusivamente con il proprio patrimonio».
   Posto che la disciplina dei fondi comuni di investimento persegue, tra i vari obiettivi, quello della tutela dei partecipanti, è evidente che tale modifica normativa discende dal fatto che il legislatore è dell’avviso che una separazione patrimoniale anche a vantaggio della SGR favorisca e non precluda la tutela dei partecipanti.
   Occorre, tuttavia, osservare che la formula adoperata non è felice. Nella struttura sintattica della citata disposizione, invero, il fondo comune appare come il soggetto che risponde con il “proprio” patrimonio, per le obbligazioni contratte “per suo conto”.
   Anche questa formulazione risente, forse involontariamente, delle influenze della impostazione tradizionale incentrata sul soggetto di diritto e sulle classiche categorie civilistiche, oltre che del condizionamento della struttura sintattica della nostra lingua.
   Ciò nondimeno, dalla lettera della legge sembrerebbe che soggetto di diritto sia addirittura il fondo stesso (anche tale argomento merita un approfondimento non possibile, né opportuno in questa sede).
   Certamente più corretta e coerente con il sistema previsto dal T.U.F. era il testo contenuto nel correlativo disegno di legge, ove si prevedeva che «Per le obbligazioni contratte dalla SGR per conto di ciascun fondo, o di ciascun comparto dello stesso fondo, risponde esclusivamente il patrimonio dello stesso fondo o comparto».
   Ancora più corretto, invero, sarebbe stato il riferimento alle obbligazioni contratte dalla SGR “in qualità di gestore (o istitutore) del fondo”, ovvero “nell’interesse del fondo”, piuttosto che “per conto” del fondo.
   Ciò posto, si è già precisato che la sentenza annotata ha applicato l’art. 36 T.U.F. previgente, ma l’intervento del legislatore è ugualmente utile per evidenziare che la non aggredibilità del patrimonio della SGR da parte dei creditori del fondo non è contraria alla tutela dei partecipanti.

* L’oggetto e le conclusioni della presente nota a sentenza costituiscono parte del tema di una ricerca sull’insolvenza
dei fondi di investimento, che darà luogo ad una pubblicazione ad hoc.

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