|
||
|
||
VIiI.1– gennaio-giugno 2009 |
STUDÎ & COMMENTI
GIUSEPPE B. PORTALE Dalla pietra del vituperio alle
nuove concezioni del fallimento e delle altre procedure concorsuali
* |
1.
Nella più nota, quanto meno a livello locale, delle storie di Biancavilla (alludo a quella del canonico BUCOLO del 1953), nella parte dedicata alle Tradizioni civili (p. 151, § 1), sotto il lemma «Pietra del vituperio», è riportata la seguente testimonianza (confermatami, peraltro, da persone a me vicine):
«I debitori, che non potevano o non volevano pagare, venivano sottoposti alla vergognosa azione di calarsi in pubblico le braghe e battere colle natiche tre volte sopra una balata o pietra del vituperio, collocata nell’aula della Curia Capitaneale, o in una pubblica piazza, alla presenza dei creditori e di molti curiosi, accompagnando l’atto indecoroso colle rituali parole: chi ha da avere, venga a pagarsi. I vecchi ci hanno tramandato questa usanza a Biancavilla, ed anche la persona, che batté il sedere sulla balata posta nella piazza della Matrice».
La notizia – sul piano storico – è abbastanza sorprendente, dato che si accenna al vigore dell’usanza, nella nostra Città, dell’istituto della c.d. pietra del vituperio ancora nei primi decenni del secolo appena trascorso, mentre – a quanto mi consta – l’impiego dello stesso istituto, in altri posti, non riuscì a superare il secolo XVIII: penso alla «Preda Rengadora», detta anche «lapidem arengheriae» di Modena, o alla pietra del vituperio di Aramengo, luogo di pena specializzato in «debitori insolventi» (da dove l’espressione: «va ad Aramengo», ossia «ti auguro il fallimento»).2.
Per comprendere il significato e la funzione di questa «tradizione civile», per usare ancora le parole di Bucolo, è necessario risalire alle origini del fallimento.
È noto a quanti si occupano di storia del diritto che il fallimento e il concordato (sia amichevole che giudiziale: SALVIOLI, p. 621) hanno trovato la loro origine storica nel nostro Paese alla fine del Medioevo, anche se la disciplina emerge ancora in modo confuso dagli statuti delle Città: mi limito qui a richiamare le normative genovesi, fiorentine, milanesi, venete (la più mite, sotto il profilo qui in considerazione). Ma è certo, comunque, che esso ha assimilato alcuni principî del diritto romano.
Si spiega, così, perché il fallimento, originariamente, sia stato una procedura di carattere penale, diretta contro i commercianti o, più in generale (secondo una corrente dottrinale accreditata), contro i debitori insolventi [KOHLER; FERRARA; nell’età intermedia era sicuramente così a Venezia ed anche, forse per imitazione, a Ragusa (l’attuale Dubrovnik): rispettivamente PECORELLA-GUALAZZINI; CARACCI]. Quando il debitore non pagava, se il debito risultava da sentenza o da confessione, il creditore – sempre per diritto romano – aveva il potere di procedere alla manus iniectio, di mettere, cioè, in catene il debitore: e se nessuno si presentava entro un certo termine, il creditore poteva ucciderlo o venderlo trans Tiberim come schiavo (BREßLER; SPANN). In questo modo, il creditore si appropriava del patrimonio del debitore morto o divenuto schiavo. E, stando alla legge delle XII tavole (450 a.C.), se i creditori erano più, come si dividevano le membra del debitore ucciso (partes secanto: dicevano le XII tavole) [1], allo stesso modo si ripartivano il suo patrimonio od il prezzo di vendita. Il risultato era, dunque, che – sebbene l’esecuzione fosse contro la persona – essa necessariamente, come effetto indiretto, finiva con il translarsi sul patrimonio del debitore [v. FERRARA(-BORGIOLI)].
Una siffatta procedura, certo, non poteva trovare applicazione nel caso in cui il debitore si fosse reso latitante, per sottrarsi al giudizio e all’esecuzione. Soccorreva, allora, la possibilità di ottenere un provvedimento del praetor, il quale accordava al creditore la c.d. missio in possessionem contro il debitore qui fraudationis causa latitat: strumento di pressione per indurre il debitore a tornare, tanto che se ciò non accadeva si ricorreva alla finzione di reputarlo morto, in modo che si potesse procedere alla bonorum venditio a favore di un terzo, il quale era tenuto a pagare tutti i creditori nei limiti del prezzo di acquisto.
In questo contesto, non è necessario insistere sui precedenti romanistici del fallimento e delle procedure concorsuali: i superiori richiami possono bastare.3.
Si è già accennato che – con l’inizio dell’epoca dei comuni – comincia quella trasformazione del trattamento legale dell’insolvenza che avrebbe condotto ad una modellazione del diritto fallimentare che, nei suoi tratti essenziali, sarebbe rimasta conservata anche nella nostra c.d. legge fallimentare del 1942 (r.d. 16 marzo 1942, n. 267). Si evolve pure l’esecuzione personale. La cattura del debitore per autorità privata e la detenzione in carceri private – come ben sintetizza A. ROCCO – vengono combattute (con l’eccezione della legislazione senese: Costituti del 1202 e del 1309-10, per i quali l’arresto e la detenzione sono lasciati alla facoltà dei creditori che vi procedono – se lo ritengono opportuno – sua auctoritate, senza alcun obbligo di rilascio prima del pagamento integrale; SANTARELLI, p. 138), di tal ché l’esecuzione personale diventa monopolio della pubblica autorità. «I principali mezzi esecutivi contro la persona che il diritto statutario conosce sono: il bando, derivazione dall’analogo istituto di diritto germanico, e la prigionia nelle carceri pubbliche, derivazione dall’esecuzione privata sulla persona. Col bando il debitore era messo fuori dalla legge e chiunque poteva offenderlo nei beni e nella persona: il bando durava finché il debito non fosse stato soddisfatto. Il carcere per debiti, che sostituisce poi anche il bando, andato presto in disuso, aveva ugualmente carattere di mezzo di coazione della volontà» (A. ROCCO) [2].
Questo, tuttavia, non significa che fosse stata del tutto abolita la pena capitale o altre sanzioni cruenti: quanto alla prima, è con una certa sorpresa che il curioso di storia dell’insolvenza scopre l’esistenza di una bolla del 3 novembre 1570, emanata dal Papa Pio V, la quale stabiliva che i bancarottieri fossero perseguiti come ladri e pronunciava contro di essi la pena capitale (ugualmente, in Francia, un editto di Enrico IV del 1609 disponeva che i bancarottieri dovevano essere «exemplairement punis de mort comme voleurs et affronteurs publics»: GUILLON, p. 29). Quanto alle sanzioni cruenti è sufficiente richiamare il dialogo di Shylock con Antonio nel Mercante di Venezia (scena III, 145) di William Shakespeare, dove si parla, per la mancata restituzione di una somma data a prestito, di una possibile penale «indicata in una libra esatta della vostra carne chiara, da tagliare e prendere in quella parte del vostro corpo che piacerà a me».
D’altra parte, non mancano altre sanzioni personali, che oggi possono ben qualificarsi pittoresche: oltre quella della scomunica comminata dalle autorità ecclesiastiche, sono ancora sufficienti due esempi. Il primo è offerto da una norma dello statuto della città di Genova del 1589, la quale vietava al «rotto» (così era anche denominato il fallito, per avere rotto il banco = fatto bancarotta) e alla moglie di vestire di seta e di portare gioielli preziosi: si trattava – come spiega SANTARELLI – di una imposizione di valore, forse, più simbolico che reale, atta a rendere manifesta la ruptio con un pubblico e immediato mutamento del tenore di vita. Il secondo esempio può essere considerato una sorta di anticipazione del c.d. pubblico registro dei falliti (appena abolito in Italia dall’art. 47, comma 1°, d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che ha abrogato l’art. 50 della legge fallimentare). È il caso, precisamente, della c.d. pittura infamante. Istituto tipicamente fiorentino (SANTARELLI, p. 133 s.), consistente nel ritrarre, affrescata in luogo pubblico, l’immagine dei falliti: una sorta, appunto, di registro illustrato, leggibile da chiunque, foss’anche – come sovente ricorreva – un analfabeta. Qui la sanzione – a differenza di quanto accadeva con il vero e proprio registro delle imprese – non aveva solo funzione di pubblicità: essa serviva a togliere al decotto (questo era il termine con il quale era originariamente designato il fallito) ogni residuo di pubblica stima di cui un tempo aveva forse goduto [3].4.
4.1. Il panorama delle sanzioni, appena schizzato, agevola l’inquadramento della tradizione della «pietra del vituperio»: essa può essere considerata un misto di sanzione personale e di sanzione patrimoniale (per così dire: reale). Ma prima di addentrarmi nella sua illustrazione, sembra ancora opportuna una duplice precisazione.
La prima è che – come già implicitamente risulta dal precedente discorso – anche nell’epoca dei comuni perché si avesse il fallimento era necessaria l’insolvenza. Ma il concetto che si aveva allora dell’insolvenza era diverso da quello accolto nella nostra legge fallimentare (art. 5). Le legislazioni dell’epoca e la stessa dottrina configuravano, infatti, sempre l’ipotesi della fuga, intesa come abbandono volontario della propria residenza con l’animus di frodare i creditori. Così come nel diritto germanico la fuga e l’assenza furono considerate come reati, la nostra legislazione statutaria pone la fuga quale principale presupposto del fallimento: essa, anzi, veniva identificata con l’insolvenza [PECORELLA-GUALAZZINI; SANTARELLI; sull’istituto raguseo della «franchisia» (= «diritto di asilo politico e, altresì, … moratoria al debitore fallito, il quale poteva rimpatriare per un periodo previsto dalla legge, con la certezza di rimanere sicuro da ogni aggressione» personale e patrimoniale al fine di trovare un accordo con i creditori): CARACCI; ma v. anche, in generale, SALVIOLI, p. 622]. Norme e regolamenti facevano perno su di essa, continuavano a fare decorrere dalla fuga l’inizio delle misure cautelari e coercitive nei riguardi del fallito, ma non dicevano mai in cosa essa consistesse.
La seconda puntualizzazione induce a ricordare che – sebbene già la legislazione si muovesse in tal senso – è con STRACCA (XVI secolo) che diventa acquisita la divisione in tre categorie degli insolventi (gli riconoscono questo merito anche gli storici stranieri). Stracca (Secunda pars, n. 2, p. 410) distingueva, precisamente, tra gli insolventi che erano tali fortunae vitio, quelli che erano tali suo vitio e quelli, infine, che erano tali partim suo partim fortunae vitio. Per i primi si doveva attuare la cessio bonorum: essi non erano in nessun modo da considerarsi infami, era vietata la loro persecuzione, la loro cattura, era vietato sottoporli a tortura (PECORELLA-GUALAZZINI).
4.2. L’attestazione di Stracca risulta confermata dallo studio degli statuti (SOLMI, p. 779). Ma di certo non si può dire che le modalità con cui nei vari Comuni doveva essere attuata la cessio bonorum non fossero infamanti (v. lo stesso SOLMI, p. 780). Ed infatti il PERTILE (p. 385 ss.) informa (e bisogna dire che la prassi italiana si diffuse in vari paesi europei: ce ne rende edotti il francese GUILLON, p. 45 ss.) che in numerosi nostri Comuni (fra i quali anche Padova, dove la prassi venne accolta per richiesta, tre mesi prima della sua morte, del Frate Antonio, che così ottenne, nel 1231, la commutazione – con la modifica dello statuto del Comune – del carcere perpetuo del fallito) «il cedente [= il debitore] veniva costretto a compiere la cessione dei beni sulla pubblica piazza, o nel luogo dove si teneva il consiglio, o nel tribunale, acculattando [4] ripetutamente [«l’atto vergognoso» del canonico Bucolo], a suon di tromba, scalzo e seminudo od anche nudo affatto, la pietra del vituperio con dire: cedo bonis … Dopo di che in molti luoghi gli era imposto di portare perpetuamente un berretto giallo, verde o cilestro; cosicché venendo colto senza di esso da uno dei suoi creditori perdeva i vantaggi della cessione e poteva venir tradotto in prigione, a Roma e Napoli persino essere dannato alla fustigazione e alla galera».
Ancor meglio emerge tutto questo da uno scritto (BEDONI, p. 3) dedicato ad una delibera assunta, «unanimiter et in concordia», il 6 giugno 1420 dai sapienti della città di Modena su apposita convocazione del podestà. Essa stabiliva che «nessuna persona possa cedere a li son ben se prima esso non sia menado tri sabadi, zoè zascaduno dì de quali tre dì di sabato alora del merchato tre volte atorno a la piaza con la tromba in anze e con el coraço senza capuzo e conne una mitria in co in la quale sia scripto uno C e dare per ogni volta che elo dava atorno la piaza sia tegnu de dare a culo nudo suxo la preda rengadora la quale sia ben unta de trementina digendo tre volte Cedo bonis, Cedo bonis, Cedo bonis. E che nessuna persona possa cedere a li so ben se prima el non ha observato le predicte cose e chi non observerà le predicte cose non varà ni no tegna cessione nessuna che se faza per alcuna persona. Le qua cose non abbiano logo in li vilani, ni in li forestieri».
Dopo aver precisato che l’uso della trementina era una particolarità della «pietra del vituperio» di Modena (che era rettangolare, mentre, ad es., a Firenze era rotonda), ed avere spiegato (p. 14) che «la trementina serviva … per attaccare saldamente alla lapide i “fiati animali“ espulsi dal cedente, affinché non andassero ad inquinare l’aria e ad infettare il popolo presente», BEDONI (p. 15) considera l’acculattata come «un residuo di un antico rito magico-religioso»: «la cerimonia … fece rivivere temi tratti dal magismo, dalla religiosità pagana, da antiche consuetudini romane, il tutto mescolato e rielaborato in un istituto giuridico». E trova conferma di questa sua tesi nell’analisi degli altri dati che a Modena accompagnarono la cessione dei beni. In particolare del numero tre [lo stesso si riscontra anche nel rito descritto da Bucolo], «che certamente non ebbe una funzione morale, bensì magico-cabalistica: il cedente doveva essere condotto per tre sabati consecutivi in piazza; ogni volta fare tre giri “per plateam“; battere per tre volte le natiche nude sulla Pietra Ringadora; infine urlare, rivolto al Palazzo nuovo per tre volte “cedo bonis”. Tale schema rituale – sempre secondo Bedoni – si uniformò all’idea del potere magico di taluni numeri, come l’uno, il tre, il sette, il dodici, che fu senza dubbio una delle credenze più diffuse e più antiche».5.
Non ho la competenza – non essendo uno storico del diritto – per stabilire se sulla cerimonia della «pietra del vituperio» sia più corretta l’interpretazione proposta da altro (importante) storico del diritto (SALVIOLI, riportato anche da BEDONI, p. 15), a parere del quale detta cerimonia ebbe lo scopo di manifestare in modo popolare e chiaramente visibile a tutti che il cedente era stato un pessimo pagatore e perciò tutti dovevano guardarsi per prudenza da lui. E che da tali formalità sarebbe derivata l’espressione «ridursi in camicia» o «ridursi al verde» (dai berretti che erano obbligati a portare i falliti), oppure il detto marchigiano «alla à batut al cul», alludendo a colui che è pieno di debiti (BEDONI, p. 15). È certo, comunque, che nell’epoca intermedia – e poi anche dopo: praticamente fino ai giorni nostri – al fallimento è stato sempre legato un disvalore, quale che sia stata la sua causa [5]: e ciò malgrado la ragionevolezza della ricordata distinzione operata da Stracca.
Che così è stato è testimoniato, nel commentario dedicato al fallimento, da Gustavo Bonelli, il maggiore studioso della materia sotto la vigenza del nostro codice di commercio del 1882, il quale annotava tra i cruenti segni rivelatori dell’insolvenza: il discredito, la confessione del debitore, la fuga, il trafugamento delle merci, «gli spedienti» (ossia stratagemmi, ripieghi e artifici per conservare il credito, suddivisi in tre categorie: dilatori, rovinosi, fraudolenti). Nel pensiero di Bonelli, dove si rifletteva la cultura liberale del tempo, l’insolvenza è prodotta dal discredito, il quale, a propria volta, travolge l’immagine intera della persona: «il commerciante oberato che si toglie la vita – scriveva l’illustre autore – esprime nel modo più solenne la più completa sfiducia nelle proprie risorse e nel proprio credito. Come potrebbe conciliarsi questa sfiducia di sé stesso colla fiducia dei creditori?» (p. 95). Lo stesso Bonelli – spiegando la norma dell’art. 697 cod. comm. 1882 (dedicata al c.d. Albo dei falliti) – rimarcava che «la sentenza dichiarativa [di fallimento] importa … questa conseguenza immediata d’ordine penale, che il fallito è messo in certo modo in una condizione d’inferiorità sociale, incorre in una specie di deminutio capitis, che lo inabilita a parecchie funzioni della vita pubblica e lo abbassa nella estimazione morale degli altri cittadini. A simbolo materiale di siffatte conseguenze, il suo nome viene scritto in un apposito albo che sta affisso nelle sale del tribunale e in quello di tutte le borse di commercio dello Stato. Per sé stessa l’iscrizione in quest’albo è una specie di marchio impresso sul nome, allo scopo di ricordare alla persona che lo porta l’obbligo di riacquistare la pubblica fiducia con raddoppiata attività e onestà, e ai terzi la necessità di usare con essa quelle maggiori cautele che sono suggerite dalla prudenza» (p. 366).
Questo connotato di disvalore del fallimento non era solo un convincimento nostrano (del legislatore, cioè, è della giurisprudenza teorica e pratica italiana): lo si trova attestato anche nella letteratura straniera. Rammento, ad esempio, che il grande e bizzarro romanziere francese Honoré de Balzac – il quale ben si intendeva di fallimenti per averne subito la vergogna, a causa delle sue tante e rovinose attività extraletterarie (PIERROT, 144 ss.) – ce lo rappresenta, in termini drammatici, nel suo Eugenié Grandet. Precisamente nella lettera che il nipote Carlo consegna, da parte dello sfortunato padre Guglielmo Grandet, allo zio Felix Grandet, un classico avaro che tiene tutto sotto chiave, con la quale il primo preannuncia al fratello il proprio suicidio: «Quando ti giungerà questa lettera io sarò morto; poiché nella posizione in cui mi trovavo, non ho voluto sopravvivere all’onta di un fallimento. Mi sono tenuto fino all’ultimo sull’orlo dell’abisso sperando di vincere la vertigine, ma mi accorgo che bisogna cadervi. La bancarotta contemporanea del mio agente di cambio e del mio notajo, Roguin, mi tolgono le ultime risorse, non mi lasciano più nulla, e confesso con dolore di non potere offrire che il venticinque per cento su un debito di quattro milioni…Fra tre giorni Parigi dirà che il signor Grandet era un briccone, avvolgendo così la mia probità in un lenzuolo d’infamia. Ed io penso a mio figlio, penso che vengo a macchiare il suo nome…» (p. 52 s.).6.
Al codice di commercio del 1882 (e alla riforma attuata con la legge del 10 luglio 1930, n. 995) è subentrata la c.d. legge fallimentare del 1942 (r.d. 16 marzo 1942, n. 267), la quale – a parte i ritocchi imposti dagli interventi della Corte Costituzionale – è rimasta sostanzialmente immutata fino alla legge 14 maggio 2005, n. 80, cui avrebbero fatto seguito ulteriori interventi legislativi. La legge del 1942 non si è lasciata apprezzare per l’assunzione di concezioni più avanzate del fallimento e delle altre procedure concorsuali. Per cui essa è stata oggetto di critiche severe e quasi sempre condivisibili: è stato persino scritto che detta legge ha addirittura irrigidito alcuni profili del sistema precedente, in quanto – oltre a conservare una visione ancora decisamente afflittiva delle procedure in discorso (pensare agli artt. 48-50) – risulta «rigidamente informata ad un principio autoritario, per cui i creditori, che in definitiva sono gli interessati, sono tagliati fuori dalla procedura non potendo influirvi che in limiti assai ristretti [v., ad es., art. 90: esercizio provvisorio dell’impresa] e dovendo attenderne passivamente i risultati», aggiungendo che essa detta «un regolamento teorico, senza aderenza agli interessi in gioco, che pure a mezzo di esso si vogliono soddisfare: questo regolamento ha disorientato e disorienta dottrina e pratica, che affannosamente vanno alla ricerca di un interesse pubblico tutelato dal fallimento, interesse che sia diverso da quello dei creditori» [FERRARA(-BORGIOLI), p. 61 s.].
Le censure più appropriate risalgono, tuttavia, a dopo i primi anni ’70 del secolo appena trascorso (fra tanti: ABBADESSA; BONSIGNORI; LIBERTINI), specialmente quando – tenendo presenti le indicazioni provenienti dal sistema inglese e, soprattutto, da quello statunitense (in particolare dal noto Chapter 11 del Bankruptcy Code degli Stati Uniti, che avrebbe influenzato il diritto dell’insolvenza di altri importanti paesi europei come la Francia, e la Germania, sia pure con diversità di prospettiva: per tutti, C. FERRI e l’intelligente volume di STANGHELLINI) – si sottolinea la mancanza di adeguatezza della legge fallimentare del 1942 di fronte ai profondi mutamenti della realtà socio-economica del paese e, quindi, la sua inefficienza a fronteggiare le nuove esigenze del mercato. Funzione di una moderna legge sull’insolvenza – si dice – deve essere quella di portare all’evoluzione da una concezione soggettiva, afflittiva e sanzionatoria tesa ad espellere dal mercato l’imprenditore insolvente (a prescindere dalle cause della crisi) ad una diversa configurazione oggettiva, incentrata sull’attività di impresa e diretta a realizzare un migliore contemperamento della istanza di tutela dei creditori dell’imprenditore insolvente, da un lato, e di salvaguardia dell’organismo produttivo e di valorizzazione delle attività e della pluralità di interessi che esso coinvolge, dall’altro.
L’impatto di critiche siffatte e l’esempio delle nuove legislazioni francese e tedesca sull’insolvenza (per diritto francese: RIPERT et ROBLOT; per quello tedesco: BECKER, dove anche una breve sintesi storica, § 1, Rdn. 4 ss.), hanno da noi portato: da un canto, ad affiancare alla legge fallimentare del 1942 due nuovi testi legislativi, diretti a fronteggiare le crisi delle imprese di maggiori dimensioni, che coinvolgono interessi di rilievo pubblico. Il primo di essi concerne la procedura di amministrazione straordinaria comune, disciplinata dal d.lgs. n. 270/1999 (c.d. legge Prodi-bis), il cui obiettivo primario è indicato nelle «finalità conservative del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali» (art. 1 d.lgs. n. 270/1999). Il secondo testo legislativo concerne, per contro, la c.d. procedura di amministrazione straordinaria speciale delle imprese insolventi di più rilevanti dimensioni, introdotta – per fronteggiare il grave dissesto industriale e finanziario del «Gruppo Cirio» e del «Gruppo Parmalat» – dal d.l. n. 347/2003 (c.d. decreto Marzano), convertito nella l. n. 39/2004 (da poco modificata, per tenere conto del caso «Alitalia», dal d.l. n. 134/2008 convertito dalla l. n. 166/2008): le sue regole sono applicabili solo se l’impresa intende perseguire il recupero dell’equilibrio economico attraverso un programma di ristrutturazione (art. 1 d.l. n. 347/2003), e non se si vuole realizzare un programma di cessione. D’altro canto, le critiche e l’esempio sopra ricordati hanno condotto ad una profonda riforma – realizzata in progress: d.l. 14 marzo 2005, n. 35 (convertito dalla l. 14 maggio 2005, n. 80); d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5; d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 – della legge fallimentare del 1942.7.
7.1. Non è questa la sede per intrattenermi sulle predette riforme, restringo, pertanto, il discorso a qualche breve appunto sulla c.d. nuova legge fallimentare, che sicuramente resterà la procedura di più diffusa applicazione nel nostro contesto socio-economico. Anche a questa nuova legge sono state opposte molte critiche, sulle quali non posso soffermarmi (v., in sintesi, JORIO, Introduzione; PORTALE). Mi limito solo a ribadire il rilievo che essa [a differenza di quanto è già accaduto in Germania con la c.d. Insolvenzordnung (1994) e di quanto si è pure verificato nelle riforme pressoché coeve di Spagna (Ley concursal 22 del 2003 de 9 Julio) e Francia (loi n. 2005-845 du 26 juillet 2005, che ha introdotto un nuovo Livre VI nel Code de commerce: «Sauvegarde des entreprises»], anziché scegliere la strada di riunire tutte le procedure concernenti l’insolvenza in una sorta di «Testo unico» o, se si preferisce, di un «Codice dell’insolvenza», ha preferito optare per la coesistenza delle varie procedure già richiamate (ma bisogna aggiungere anche le norme variamente sparse sulla liquidazione coatta amministrativa). Ribadisco, pure, la censura (alla quale per altro sembra che si stia per ovviare) di un mancato rimaneggiamento delle norme sui reati fallimentari.
Devono, comunque, essere segnalati anche i meriti della riforma: quanto meno i più appariscenti. Ed allora non può essere taciuto che il nostro legislatore sembra avere imboccato con decisione la strada «della privatizzazione» delle procedure (v., ancora, JORIO), portando avanti il tentativo – già emerso dalla riforma del diritto delle società di capitali – di aprire alla c.d. concorrenza degli ordinamenti (ZOPPINI), che, senza smantellare principî e regole pubblicistici, esalta l’autonomia dei privati, che nella materia de qua comporta un’ampia delega nella gestione delle procedure.
Evito di addentrarmi in una prospettiva così stimolante elencando, soltanto, alcuni indizi. Ed al proposito mi basta segnalare [sorvolando sulla modifica delle norme degli artt. 48 e 49 (consegna al curatore della corrispondenza della persona fisica fallita e obbligo di residenza per la stessa), abrogazione dell’art. 50 (iscrizione nel pubblico registro dei falliti), che comportavano – come notava Gustavo Bonelli, già richiamato – una sorta di capitis deminutio]: l’abolizione della dichiarazione d’ufficio del fallimento (v., però, artt. 162 e 179); le varie forme di accordi fra debitore e creditori (piani di risanamento e accordi di ristrutturazione dei debiti: PRESTI); il forte ridimensionamento dei poteri del giudice delegato; l’attribuzione dell’amministrazione dell’impresa al curatore; le nuove incisive competenze dei creditori; il potere di iniziativa per la proposta di concordato fallimentare attribuita, in primo luogo, ai creditori; la possibilità per gli stessi creditori di poter interloquire, quanto meno in seconda battuta, sulla nomina del curatore e sui membri del comitato esecutivo; l’esdebitazione del creditore, persona fisica meritevole, che comporta il beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali, offrendogli, in questo modo, un’ altra occasione. Ma è soprattutto la modernità sottesa alla riforma che va fatta rimarcare. Il nostro legislatore sembra, infatti, avere fatta propria, questa volta, l’ottica del «Garde de sceaux» francese, il quale – nel dibattito che ha preceduto la recente legge di «salvaguardia delle imprese» – ha solennemente dichiarato che «nous quittons définitivement le domaine de la fallite pour entrer dans celui de la sauvegarde» (PÉTEL).
7.2. Tutto questo non mi esonera ancora da due piccole postille:
a) La prima è che il legislatore italiano avrebbe ben potuto anche adeguarsi a quelle numerose legislazioni che ammettono, ormai, il c.d. fallimento civile [come accade da sempre in Germania e accadeva pure in Francia prima del code de commerce del 1807: KOHLER, pp. 2 e 20 s.; FERRARA(-BORGIOLI), p. 60 s.]: il fallimento, cioè, di chi non è imprenditore (SPAGNUOLO, con altri riferimenti), con tutti i vantaggi che questo comporta (evitare che il suo patrimonio possa essere oggetto di un imprevedibile numero di esecuzioni individuali da parte di creditori in concorrenza tra loro; possibilità di usufruire dell’istituto dell’esdebitazione).
b) La seconda postilla – trovandomi in presenza di tanti professionisti – consiste nel lamentare pure la mancata imitazione da parte del nostro riformatore della legge francese del 2005 appena citata, la quale ha considerato ormai antiquato e non privo di inconvenienti, l’esonero di chi esercita professioni intellettuali, in forma associata o individuale (si pensi ai grossi studi legali o notarili o di commercialisti o di medici), dalla soggezione alle procedure di insolvenza (MARTIN et NEVEU). Il rischio è quello – per sottrarsi alle insistenze di qualche fastidioso creditore – di dovere ricorrere ad uno degli espedienti che i biografi del sempre fortemente indebitato Honoré de Balzac narrano (in particolare, il suo grande amico T. Gautier, riportato da CURTIUS, p. 23): «Ottenere il suo indirizzo richiedeva un’astuzia magistrale, e una volta arrivati felicemente all’uscio di casa sua non si entrava se non pronunciando una parola d’ordine che cambiava continuamente. Bisognava dire al portiere: “È arrivato il tempo delle prugne”, e bisbigliare al servitore accorrente: “Ho dei pizzi di Bruxelles”, e al cameriere che vi riceveva annunciare finalmente che “la signora Bertrand godeva ottima salute”. Dopo tutte queste cerimonie … si era introdotti» nel lussuoso appartamento dove Balzac viveva, in fuga incessante dai suoi creditori (SCARAFFIA, p. 33; PIERROT, pp. 310 ss. e 513).Bibliografia essenziale
ABBADESSA, Liquidazione dell’impresa in dissesto e terapie alternative dell’insolvenza, in Dir. fall., 1979, I, p. 133 ss.; ABRIANI, in AA. VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, p. 73 ss.; BALZAC, Eugenia Grandet, trad. it., Milano, 1915; BECKER, Insolvenzrecht, 2. Aufl., Köln, 2008; BEDONI, La pietra del vituperio a Modena durante il Medioevo (estratto da Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi) 1984; BONELLI, Del fallimento, seconda ediz., I, Milano, 1923; BONSIGNORI, Inattualità del fallimento, in Studi in onore di Ugo Gualazzini, Milano, 1981, p. 169 ss.; BREßLER, Schuldknechtschaft und Schuldturm. Zur Personalexekution im sächsischen Recht des 13.-16. Jahrhunderts, Berlin, 2004; BUCOLO, Storia di Biancavilla, Arti Grafiche, Biancavilla, 1953; CARACCI, Sulla legge fallimentare di Ragusa [Dubrovnik] (1544), reperibile in www.nobiliragusei.it; CURTIUS, BALZAC, trad. it., Milano, 1998; FARENGA, La riforma del diritto fallimentare in Italia: una nuova visione del mercato, in Riv. dir. comm., 2008, I, p. 251 ss.; FERRARA jr. (- BORGIOLI), Il Fallimento, quinta ediz., 1995, cap. IV, p. 51 ss.; C. FERRI, L’esperienza del Chapter 11. Procedura di riorganizzazione dell’impresa in prospettiva di novità legislative, in Giur. comm., 2002, I, 65 ss.; ID., La «grande riforma» del diritto fallimentare nella Repubblica federale tedesca, in Riv. dir. proc., 1995, p. 176 ss.; GUILLON, Essai historique sur la Legislation Française des faillites et banqueroutes avant 1673. Thèse pour le doctorat, Paris, 1903; JAEGER, Crisi delle imprese e poteri del giudice, in Giur. comm., 1978, I, p. 869 ss.; JORIO, Le procedure concorsuali tra tutela del credito e salvaguardia dei complessi produttivi, ivi, 1994, I, p. 492 ss.; ID., Il Fallimento. Introduzione, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, XI, Padova, 2009; KOHLER, Lehrbuch des Konkursrechts, Stuttgart, 1891; LIBERTINI, (L’uso alternativo delle procedure concorsuali) Intervento, in Giur. comm., 1979, I, 296 s.; MARTIN et NEVEU, L’application à la profession d’avocat de la loi du 26 juillet 2005 sur la sauvegarde des entreprises, in Semaine Juridique, Éd. Entr. et aff., 2006, p. 867 ss.; PECORELLA e GUALAZZINI, voce Fallimento. Premessa storica, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 22 ss.; PERCEROU, Des faillites & banqueroutes, Paris, 1935; PERTILE, Storia del diritto italiano, VI-II, seconda ed., Torino, 1902; PÉTEL, Le nouveau droit des entreprises en difficulté, in Semaine Juridique, Éd. Entr. et aff., 2005, p. 1730 ss.; PIERROT, Honoré de Balzac, Édit. Fayard, senza città, 1999; PORTALE, La legge fallimentare rinnovata: note introduttive, in Banca, borsa, tit. cred., 2007, I, p. 368 ss.; PRESTI, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, ivi, 2006, I, p. 16 ss.; RIPERT/ROBLOT (sous la direction de Germain), Traité de droit commercial, T. 2, 17e éd., Paris, 2005, n. 2792 ss., p. 805 ss.; A. ROCCO, Il fallimento, Torino, 1917; FR. ROCCO, Responsorum legalium cum decisionibus centuria prima [-secunda] ac mercatorum notabilia, Sec. tom., De nauibus & naulo. De assecurationibus. De decoctione mercatorum, Neapoli, M.D.C.LV; ROJO y BELTRÁN, Comentario de la ley concursal, I-II, Madrid, 2004; ROUSSEL GALLE, Reforme du droit des entreprises en difficulté, Paris, 2005; SALVIOLI, Storia del diritto italiano, ottava ed., Torino, 1921; SANTARELLI, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia, Padova, 1964; SCARAFFIA, Il poeta ha fatto crack, in Il Sole-24 Ore del 5 ottobre 2008, p. 33; SOLMI, Storia del diritto italiano, terza ed., Milano, 1930; SPAGNUOLO, L’insolvenza del consumatore, in Contratto e impresa, 2008, p. 668 ss.; SPANN, Der Haftungszugriff auf den Schuldner zwischen Personal- und Vermögensvollstreckung (Eine exemplarische Untersuchung der geschichtlichen Rechtsquellen ausgehend vom Römischen Recht bis ins 21. Jahrhundert), Münster, 2004; STANGHELLINI, La crisi di impresa fra diritto ed economia: le procedure di insolvenza, Bologna, 2007; STRACCA, Tractatus de conturbatoribus sive dectoribus. Secunda pars, in De Mercatura. Decisiones, et Tractatus varii et de rebus ad eam pertinentibus, Lugduni, M.DC.XXI, n. 2, p. 410; THALLER, Des faillites en droit comparé, 1887; ZOPPINI (a cura di), La concorrenza tra ordinamenti, 2004.
Lectio tenuta a Villa delle Favare – Biancavilla (CT), nell’ambito di un incontro organizzato dal «Circolo Castriota» e dal Comune di Biancavilla (6 dicembre 2008). Lo scritto sarà pubblicato anche negli Studi in onore di Franco Di Sabato
Note
[1] Tavola III.6: «Tertiis nundinis partis secanto. Si plus minusve secuerunt, se fraude esto». La traduzione di Düll è riportata da SPANN (p. 6): «nel terzo giorno di mercato (i creditori) devono tagliarsi le parti. Se qualcuno ha tagliato troppo o troppo poco, questo deve avvenire senza pregiudizio».
[2] Ricorda FERRARA(-BORGIOLI: p. 55) che le «legislazioni barbariche partono da principi diversi ed in certo senso opposti a quelli del diritto romano. Se il debitore non adempie, il creditore ha diritto di prendere pegno: se non trova beni da afferrare, afferra la persona del debitore. L’esecuzione personale appare dunque un mezzo sussidiario di difesa. Ma sia questa che quella patrimoniale sono dirette a costringere a pagare: il creditore tiene le cose o la persona del debitore fino a che costui paghi. L’esecuzione poteva aver luogo a seguito di sentenza (era preceduta da varie intimazioni e supponeva il decorso di un certo termine)»; v., anche, SALVIOLI (p. 617 s.).
Nella raffigurazione (conservata ad Heidelberg e riprodotta nella monografia di BREßLER, p. 68 s.) del «Sachsenspiegel» (la più importante e più approfondita fonte giuridica germanica del medioevo, redatta dal giudice Eike von Repgon: in gran parte degli anni 20 e 30 del secolo XIII) è rappresentata la consegna da parte del giudice del debitore insolvente al creditore, che può sostanzialmente trattenerlo come schiavo («ingesinde») a causa del suo debito («vor dat gelt»): v. il commento del medesimo BREßLER (p. 61 ss.) dei due primi paragrafi dell’Art. 39 del «Sachsenspiegel».[3] Come rammenta PERCEROU (p. 12), secondo FR. ROCCO (secolo XVII) «Decoctus dicitur qui…a solutione cessat, fugit, vel latitat» (Not. I, p. 431); mentre STRACCA (secolo XVI) spiega (n. 1, p. 410) che «Decoctor a decoquo verbo descendit, quod paulatim diminuere significat et coquendo absumere…Unde decoctores, conturbatores et bonorum consumptores dicuntur, quos recentiores Iurisc.[onsulti] fallitos et cessantes vocant».
[4] REZASCO, Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo, Firenze, 1881, Acculattata: «Gastigo a coloro, i quali fallivano o ripudiavano per atto solenne l’eredità paterna, con farli battere le parti deretane ignude o posarle tre volte sopra un petrone, in Modena unto di trementina; in Salò sopra lo scalino superiore della berlina; a pieno popolo, a suon di trombe, e dicendo eglino tre volte ad alta voce Cedo bonis, o Pagatevi, creditori; il quale atto vituperoso, a cui i Ferraresi sostituirono col tempo il Cappello verde, affrancava la persona del fallito da’ suoi creditori e loro toglieva di poterlo molestare fuorché nella roba»; DEVOTO-OLI, Dizionario della lingua italiana, Firenze, 1971, Acculattata: «Pubblico obbrobrio inflitto nel M.E. ai debitori insolventi: si denudavano e si costringevano a percuotere le natiche per tre volte su una pietra, detta appunto “del vitupero”».
[5] V., ancora, SALVIOLI (p. 620): «Per sfuggire al carcere il debitore doveva spogliarsi di tutti i beni “usque ad sacculum et peram” dice la Glossa, giurare che nulla più ha (iur. manifestationis) e conservava solo una veste “et panicularia quae nuditatem caoperiunt”. Così nudus et discalciatus si sedeva su una pietra posta nella piazza e qui stava a far mostra di sé dicendo: cedo bonis [ivi, nota 4: «e diceva: “Mangiai e birbai e di questo vi pago”»]. Questa procedura ignominiosa durò per tutto il secolo XVI. Se il debitore era un commerciante, facevasi contro di lui la procedura di fallimento (decotio) o bancarotta, sviluppatasi in Italia con molta perfezione. Quest’ultimo nome è allusione all’uso antico di spezzare il banco di chi non manteneva i suoi impegni (e allora i negozianti tenevano banco nella piazza pubblica). Oggi il nome di bancarotta si adopera quando il commerciante è passibile di pena».