1.
La (ormai non più recente) riforma del diritto societario (operata con il D. Lgs. n. 6 del 2003 in attuazione delle disposizioni della legge delega n.366 del 2001, d’ora in avanti per brevità anche “Riforma”) ha, tra l’altro, inciso sul concetto di rappresentanza “sociale”, intendendosi per tale quella – individuata dal nostro legislatore nel Capo V, Libro Quinto (“Del lavoro”) del codice civile – precipua della realtà dell’attività di impresa. Si specifica “Libro Quinto” (del codice civile) perché, in generale, con il termine “rappresentanza” si è soliti indicare varie specie di “sostituzione” nell’attività giuridica in nome altrui.
Anticipando, in breve, il risultato della presente analisi, ciò che preme evidenziare è come con la medesima definizione si indichino, ed a volte impropriamente, diverse fattispecie. La stessa definizione assume cioè diversi connotati a seconda del contesto in cui opera: vi è infatti differenza tra la rappresentanza “sociale” (quella appunto del Libro Quinto), propria delle imprese, e la rappresentanza in senso tecnico, quella che in un certo senso potremmo definire “civilistica”, propria, invece, del Libro Quarto (“Delle obbligazioni”) del codice civile.
Storicamente, ed il riferimento più lontano non può che ricercarsi nel diritto romano, la rappresentanza era addirittura sconosciuta: non vi è nelle fonti giuridiche del diritto romano un termine che individui il concetto di “rappresentanza” o di “rappresentante”. In tale periodo le esigenze pratiche che l’istituto era chiamato a svolgere erano assolte dalla stessa organizzazione familiare (1).
Il Codice Civile del 1865 (2) ed il Codice del Commercio del 1882 non contenevano una disciplina della “rappresentanza” la quale poteva essere ricostruita solo sulla base di una ricognizione delle fattispecie di sostituzione: è il caso, ad esempio, della patria potestà, della tutela dell’incapace, della curatela fallimentare, dell’eredità giacente e della gestione dell’affare altrui.
Il concetto di rappresentanza, che prima si è definito “civilistica” ovvero di “rappresentanza in senso tecnico”, viene introdotto nel Codice del 1942. Nel codice del 1942 si individua la rappresentanza (capo VI, Titolo II, libro IV, artt. 1387 e ss.) distinta in legale e volontaria. Diversa, ma ci si tornerà a breve, è la rappresentanza “sociale” delle imprese, che lo stesso codice civile individua nel Libro V.
È solo la rappresentanza in senso civilistico ad essere “legale” quando il potere del rappresentato trova la sua fonte nella legge (quando cioè il potere del rappresentato è eterodeterminato) (3), mentre è “volontaria” quando vi è la volontà dell’interessato (in tal caso è un potere autodeterminato) ad avvalersi di un altro soggetto per il compimento di determinati atti: in tale ultima ipotesi non è la legge ad individuare la fonte di legittimazione del potere ma è uno specifico atto, quale è la procura (4).
È immediata conseguenza di ciò la notazione per la quale nella rappresentanza legale si avranno determinate situazioni tipiche, proprio perchè individuate dalla legge (un esempio è l’incapacità d’agire) (5), mentre nella rappresentanza volontaria si avranno, per diverse ragioni, una serie indefinita di situazioni.
La scelta del legislatore del 1942, quale è quella di regolare insieme la rappresentanza volontaria e legale, è di particolare importanza specie se si considera che – come si legge nella Relazione al codice stesso (6) – la rappresentanza, nel senso più generale del termine, “è stata distaccata dalla sede del mandato perché la rappresentanza può aderire a rapporti diversi dal mandato: essa può estendersi dalla patria potestà, alla tutela, alla locazione d’opere, alle società…”.
Comune ad entrambe le specie di rappresentanza civilistica (legale e volontaria), è l’operatività, individuata dall’art. 1388 cod. civ., in base al quale: “il contratto concluso dal rappresentante in nome e nell’interesse del rappresentato, nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato”: essenziale, per entrambe, è “agire in nome e nell’interesse del rappresentato”. Se non si realizzano entrambi i presupposti citati (agire in nome e nell’interesse del rappresentato) si rientra in un’altra fattispecie: la sostituzione.
La differenza è nell’analisi dell’attività posta in essere: si ha sostituzione quando si agisce esclusivamente per conto altrui. Tra gli esempi di “sostituzione”, da tenere distinti dalla rappresentanza in senso tecnico, vi sono: la rappresentanza indiretta (7), la gestione d’affari altrui (8) e la cd. rappresentanza organica.
Ecco allora che la sostituzione richiama all’attenzione dell’interprete una particolare (e per certi versi dibattuta) fattispecie: la rappresentanza organica. In particolare si ha rappresentanza organica in riferimento all’attività degli organi delle persone giuridiche: tanto gli organi interni (di deliberazione e di esecuzione) quanto gli organi esterni (cioè coloro che sono preposti all’attività giuridica di relazione) svolgono un‘attività che è da imputare direttamente alla persona giuridica. In tal caso il rapporto tra organo e persona giuridica consiste in una compenetrazione, identificazione (o immedesimazione) che esclude la duplicità dei soggetti, ovvero dei centri di interessi.
Nella rappresentanza organica è impossibile identificare, a priori, un soggetto che assuma la veste di “rappresentante”: il rapporto organico non è un rapporto intersoggettivo, non dà luogo allo “sdoppiamento” fra attività giuridica imputata all’agente e gli effetti della medesima imputati all’interessato. La persona giuridica esprime la sua capacità d’agire attraverso i suoi organi e risente nella sua sfera giuridica degli effetti di un’attività che è sua, nel senso che è ad essa imputata, come se fosse una persona fisica (9).
Il concetto di rappresentanza “organica“ è noto all’interprete; la giurisprudenza e la dottrina (10) che hanno maggiormente analizzato – nel contesto dell’esercizio dell’attività di impresa - la fattispecie affermano che quest’ultima possa essere individuata in quanti hanno per statuto o per legge il potere di compiere attività giuridicamente vincolanti per la società stessa (lo stesso dicasi per tutte le persone giuridiche dotate di personalità giuridica).2.
Delle species di rappresentanza sopra brevemente descritte la rappresentanza organica è quella più vicina al mondo delle imprese, al concetto cioè di “rappresentanza sociale”.
In tale contesto si deve rilevare come la Riforma sembri riconoscere agli amministratori delle società per azioni (11) una rappresentanza simile (ma non uguale) a quella organica. A parere di chi scrive, invece, sarebbe stato più corretto parlare di rappresentanza “sociale”, considerando tale fattispecie una tipologia “autonoma e distinta” da quella civilistica.
Analizzando la rappresentanza degli amministratori, così come strutturata nelle norme del codice dopo la Riforma, si osserva come sia la precedente formulazione che la nuova formulazione dell’art. 2384 cod. civ. (12) riconosca agli amministratori un “potere di rappresentanza”.
Più precisamente, in precedenza la norma disponeva che «gli amministratori che hanno la rappresentanza della società possono compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale» (a tale disposizione si aggiungeva l’art. 2328, punto 9 in base al quale «le società devono indicare quali tra essi hanno la rappresentanza”), la Riforma ha ribadito tale concetto, prevedendo che il “potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dallo statuto o dalla deliberazione di nomina è generale».
In dottrina sì è tuttavia a lungo dibattuto sulla “fonte” di tale potere di rappresentanza interrogandosi cioè sulla possibile assimilazione di tale realtà alle bipartizioni della rappresentanza in senso tecnico (legale o volontaria).
Vi è chi ha sostenuto che tale fonte fosse individuabile nella legge, «in quanto funzione necessaria in vista dell’attuazione del programma sociale» (13) e chi diversamente sosteneva che tale fonte fosse individuabile nella volontà della società stessa (statuto o delibera di nomina) (14).
È opinione di chi scrive, sia che si voglia affermare che gli amministratori abbiano la rappresentanza legale sia che si voglia affermare che abbiano una rappresentanza volontaria, come ciò resti comunque un dibattito “sterile”, che riveste un interesse eminentemente teorico: poiché in entrambi i casi si una rappresentanza “diversa” da quella in senso tecnico.
A contraddistinguere fortemente la rappresentanza “organica” da quella “in senso tecnico” è infatti la disciplina: in particolare la differenza risiede nell’opponibilità degli atti compiuti dal rappresentante nei confronti dei terzi. La disciplina della “rappresentanza degli amministratori”, salva l’ipotesi dell’exceptio doli, copre tutti atti che gli amministratori ritengono necessari e che costituiscono attività della società stessa.
La rappresentanza organica, degli amministratori, è una rappresentanza che la nuova disposizione stessa definisce “generale” (e che sarebbe stato corretto e preciso definire “sociale”) (15), ma che, al contempo, può essere limitata dallo statuto o dalla delibera di nomina (16): è “generale” perché il potere di rappresentanza è esteso a tutti gli atti da compiere in nome della società.
Il 2° comma dell’art. 2384 cod. civ. precisa inoltre che «le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che non si provi che questi abbiano agito a danno della società».
Sul punto la Relazione illustrativa alla Riforma osserva che «nei rapporti esterni per tutelare l’affidamento dei terzi – salva l’exceptio doli – sia gli atti compiuti dall’amministratore munito del potere di rappresentanza ma privo del potere di gestione (è il caso dell’atto estraneo all’oggetto sociale o ai casi di dissociazione del potere di rappresentanza dal potere di gestione) sia gli atti che eccedono i limiti – anche se pubblicati – ai poteri di gestione o di rappresentanza, rimangono validi ed impegnativi; nei rapporti interni, invece, la mancanza o l’eccesso di potere o l’estraneità dell’oggetto sociale restano rilevanti quale base per un’azione di responsabilità contro gli amministratori (ex art. 2393 cod. civ. e 2393 bis), quale giusta causa di revoca (art. 2383, 3° comma, cod. civ.) e quale motivo di denuncia al collegio sindacale e tribunale (artt. 2408 e 2409 cod. civ.)».
Schematizzando le ipotesi:
- vi è inopponibilità ai terzi: nel caso in cui gli amministratori violino eventuali limiti convenzionali e legali (17) ai loro poteri di rappresentanza. Si tratta delle limitazioni risultanti dallo statuto o da una decisione degli organi competenti (18). Tali limiti hanno solo riflessi interni e non pregiudicano la validità degli atti compiuti (qualora tale ipotesi si dovesse realizzare la società si potrà rivalere contro l’amministratore e non verso il terzo, potendo ciò comportare la responsabilità degli amministratori per inadempienza ex artt. 2392 e 2476 cod. civ.). La società rimane impegnata anche nell’ipotesi in cui la nomina degli amministratori sia invalida (art. 2383, 5 comma cod. civ.), salvo che si provi che i terzi ne erano a conoscenza;
- vi è opponibilità ai terzi: solo nel caso in cui il terzo abbia agito con dolo.
Tale disciplina non costituisce una novità rispetto al sistema precedente, rispetto al quale si è sicuramente esteso l’ambito operativo. Ciò che muta è che non vi è più la limitazione dell’estraneità dell’oggetto sociale: il potere di rappresentanza degli amministratori si estende a tutti gli atti, anche se estranei all’oggetto sociale (19).3.
Come in passato (20), il rischio derivante dalle violazioni commesse dagli amministratori che non osservano i loro limiti gravano, anziché sui terzi, sulla società che, pertanto, risponderà di tali atti: anche nei casi in cui i poteri sono limitati dalla legge resta l’esigenza di dare certezza ai terzi in buona fede che abbiano concluso negozi con gli amministratori.
Il legislatore persegue il dichiarato intento – in linea con la normativa comunitaria – di apprestare uno strumento di tutela per i terzi che entrano in contatto con la società. Ciò comporta un’evidente velocizzazione degli affari, in dottrina si è detto che «l’eliminazione delle remore alle conclusioni degli stessi comporta un maggior sviluppo delle contrattazioni ed una più intensa valorizzazione del capitale» (21).
Per consentire la celerità delle trattazioni il legislatore attribuisce agli amministratori un potere generale di rappresentanza e rende irrilevante nei confronti dei terzi eventuali limiti ai poteri di gestione e/o rappresentanza , tutela che non si spinge sino a tutelare i terzi in dolo al fine di evitare abusi (22).
Concludendo con il termine rappresentanza, come già cennato in premessa, si intendono varie species appartenenti ad un unico genus: l’agire nell’interesse altrui. La differenza tra le varie tipologie, ed in particolare tra rappresentanza civilistica e commerciale, è data dalla disciplina, ed in particolare dal regime di opponibilità, regime che la Riforma ha, per gli amministratori di società, modificato significativamente.
Se quanto sinora osservato è condivisibile è una conferma l’affermazione in base alla quale: gli amministratori di società per azioni hanno la rappresentanza “sociale” e possono avere anche la rappresentanza “legale” e per le società quotate ciò sembra rafforzato. Infatti, il nuovo Codice di Autodisciplina della Borsa italiana, adottato nel marzo 2006, considera infatti “esponenti di rilievo” di una società o di un ente: il presidente dell’ente, il rappresentante legale, il presidente del consiglio di amministrazione, gli amministratori esecutivi ed i dirigenti con responsabilità strategiche.
Note
(1) Per un’analisi storica del concetto di rappresentanza si rinvia a PUGLIATTI, Studi sulla rappresentanza, Milano 1965; ORESTANO, Rappresentanza (diritto romano), in Nss. D.I., XIV, Torino 1967 ed alla voce “Rappresentanza” (a cura di DI GREGORIO) nel Digesto, Sez. Priv., 293 e nell’Enciclopedia Giuridica Treccani, a cura di D’AMICO.
(2) Così TARTUFARI, Della rappresentanza nella conclusione dei contratti, Torino 1892.
(3) In dottrina (TARTUFARI, op. cit.) si è giustamente osservato che la rappresentanza legale coincide con la completa ininfluenza della volontà del rappresentato, che non può porre in essere alcun rapporto ma non può esprimere una volontà diversa: è il caso, ad esempio, degli incapaci.
(4) «La rappresentanza volontaria trova la sua espressione nella procura (…) la procura deve essere esibita al terzo che esige la giustificazione dei poteri». Cfr. Relazione al codice civile del Ministro Guardasigilli del 16 marzo 1942.
(5) Al riguardo in dottrina vi è chi ha sostenuto (GALGANO, Il negozio giuridico nel Commentario Scialoja-Branca, 1993) che nella rappresentanza legale il potere non deriverebbe tanto dalla legge ma dalla “qualità” del soggetto: è il caso della qualità di genitore, di tutore, etc.
(6) Cfr. Relazione al codice civile del Ministro Guardasigilli del 16 marzo 1942, punto 634, p. 138.
(7) Senza entrare nel dettaglio della fattispecie (cfr. D’AMICO, op. cit.) basti osservare che la rappresentanza indiretta si ha quando un soggetto agisce in nome proprio ma per conto di altri (l’aggettivo “indiretta” sta ad indicare la necessità di un duplice contratto che deve essere stipulato tra il terzo ed rappresentante e tra il rappresentante ed il rappresentato). La rappresentanza indiretta si attua mediante mandato senza rappresentanza.
(8) Senza entrare nel dettaglio della fattispecie (cfr. SANTORO – NASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1985, 269) basti ricordare che si ha gestione nell’interesse altrui, quando il gestore è obbligato per legge o in base ad un negozio. La gestione si identifica con l’attività per conto altrui mentre la rappresentanza in senso tecnico è l’attività per conto ed in nome altrui.
(9) Cfr. SANTORO-PASSARELLI, op. cit. 270. Si rinvia anche a D’AMICO e DI GREGORIO, entrambi già citati.
(10) In dottrina SCOGNAMIGLIO, Contratti in generale in Trattato Grosso-Passarelli, IV, 2, Milano 1975 ed in giurisprudenza si rassegnano le seguenti decisioni: i) Cassazione n. 11115 del 1992 (la sentenza, che affronta il tema della rappresentanza organica degli amministratori, è pubblicata in Foro it. 1993, 1915 con nota di FORMICA), ii) Cassazione n. 9131 del 1997 (la sentenza, che analizza il tema della scrittura privata tra rappresentante organico e volontario, tratteggia anche le differenze tra la rappresentanza organica e la rappresentanza commerciale. È pubblicata in Foro it. 1998, 524 con nota di LA ROCCA) e iii) Cassazione n. 17678 del 2004, in Foro it. 2005, 1828 e Cassazione n. 809 del 2002, in Foro it. 2002, I, 691 (entrambi le sentenze affrontano il caso in cui l’atto compiuto dall’amministratore ecceda l’oggetto sociale ovvero sia oltre i poteri ad esso conferiti, e riconoscono l’inopponibilità nei confronti dei terzi).
(11) L’indagine vuole limitarsi alla società per azioni. Basti citare, a titolo esemplificativo, che nelle società semplici la rappresentanza spetta, in mancanza di diversa disposizione del contratto, ai soci amministratori (art. 2266 cod. civ.).
(12) Come risulta dalle modifiche operate dal D.lgs. n. 6 del 2003 (e successivi interventi), avente complessivamente ad oggetto il più amplio tema della Riforma delle società di capitali.
(13) Per tutti CALANDRA – BUONAURA, in trattato Colombo-Portale, vol.4, 1991, pag. 130.
(14) Quest’ultima sembra assimilare la rappresentanza degli amministratori alla rappresentanza “volontaria”: è il dato letterale della norma, nonché un confronto con la corrispettiva per le srl (l’art. 2475-bis cod. civ.) che induce ad affermare ciò. Per tutti PRESTI–RESCIGNO, Capacità della società e rappresentanza degli amministratori, in Armonie e disarmonie nel diritto comunitario, a cura di Campobasso, Milano 2003. Per quest’ultima teoria la rappresentanza non è una qualità intrinseca. Cfr. GISOLFI-LUPETTI, op.cit.; MALBERTI, sostiene che la fonte del potere di rappresentanza individuata nell’art. 2384 cod. civ. in Commento sub art. 2384 cod. civ. nel Commentario alla Riforma a cura di Maffei-Alberti, 2005, 179
Nelle srl il legislatore non utilizza il verbo “attribuire” ma il verbo “avere” (gli amministratori hanno la rappresentanza generale): ciò equivale ad affermare che nelle srl vi è una rappresentanza generale che deriva dalla legge, nelle spa occorre invece un’attribuzione, un atto di investitura ad hoc che assimila la fattispecie alla rappresentanza volontaria.
Ciò confermerebbe che essa non è una qualità “intrinseca” di ogni amministratore ma deriva da una “attribuzione” e l’individuazione in statuto di “chi”, tra gli amministratori, abbia la rappresentanza (art. 2328, punto 9) altro non sembra che una conferma di tale teoria. A sostegno di tale tesi vi è il dato letterale della norma nonché un confronto con la corrispettiva per le srl, l’art. 2475-bis cod. civ.. L’art. 2475- bis cod. civ. non utilizza il verbo “attribuire” ma il verbo “avere” (gli amministratori hanno la rappresentanza generale): ciò equivale ad affermare che nelle srl vi è una rappresentanza generale che deriva dalla legge, nelle spa occorre invece un’attribuzione, un atto di investitura ad hoc che assimila la fattispecie alla rappresentanza volontaria In tal senso M alberti, in Commento sub art. 2384 cod. civ. nel Commentario alla Riforma a cura di Maffei-Alberti, 2005, 179.(15) Cfr. Relazione al Codice Civile del 1942, punto 99, pag. 484.
(16) Cfr. GISOLFI–LUPETTI, La rappresentanza generale degli amministratori, in Riv. Notariato 2004, 1229.
(17) Sono esempi di limiti legali le ipotesi di carenza assoluta del potere di rappresentanza (è il caso ad es. di assunzioni in partecipazioni che modifichino l’oggetto sociale o che comportino l’assunzione di una responsabilità illimitata).
(18) L’ipotesi del Consiglio di Amministrazione che conferisce una delega di poteri per determinati atti ad uno dei suoi membri è un esempio di limitazione convenzionale.
(19) In merito al criterio da adottare per la valutazione di pertinenza di un atto degli amministratori all’oggetto sociale la Suprema Corte (14 agosto 2006, n. 17696, in Foro it. 2006, 2040) ha ribadito che non sono sufficienti né l’astratta previsione nello statuto del tipo di atto posto in essere né il criterio della conformità dell’atto all’interesse della società in quanto gli amministratori non possono perseguire l’interesse della società operando indifferentemente in qualsiasi settore economico, ma devono rispettare la scelta del settore in cui rischiare il capitale, scelta fatta dai soci al momento dell’atto costitutivo. Per una rassegna aggiornata sul tema si rinvia a CALANDRA BUONAURA – BONAFINI, Amministrazione e rappresentanza, in Giur. comm. n. 35.1 del 2008, II, 35.
(20) BONELLI, Gli amministratori e la Riforma delle spa, Giuffrè 2004, 79. Al riguardo l’autore cita una nota sentenza della Cassazione (Cass. 7 febbraio 2000, n. 1325, pubblicata su Le Società 2000, 1336 con nota di MANZINI). Nel caso la Suprema Corte fu chiamata a pronunciarsi sull’effetto peri terzi della dissociazione del potere deliberativo dal potere rappresentativo (nel caso in esame il presidente della società, sebbene munito del potere di rappresentanza, disgiuntamente dagli altri amministratori, , non aveva il potere di assumere autonomamente qualsivoglia decisione gestionale per conto della società.Il potere deliberativo era infatti statutariamente rimesso sia per l’ordinaria, sia per la straordinaria amministrazione, al consiglio di amministrazione della società che, nel caso di specie, non aveva autorizzato il presidente a stipulare la transazione con effetti vincolanti per la società, né, successivamente, aveva ratificato tale stipula). La Suprema Corte ribadì che una società per azioni non può opporre ai terzi gli effetti della suddetta dissociazione. La soluzione è ricondotta all'esigenza di garantire la sicurezza dei traffici commerciali, che sarebbero altrimenti pregiudicati nella loro speditezza e nella loro efficacia, con conseguente grave detrimento per l'intero sistema economico, se i terzi, ogni qual volta venissero a contatto per ragioni imprenditoriali e/o commerciali con una società, fossero esposti al rischio di vedersi opporre gli effetti della suddetta dissociazione dalla società stessa, interessata ad eludere le obbligazioni assunte, e che, quindi, per evitare tale conseguenza, essi fossero gravati dell'obbligo di verificare ogni volta l'effettiva distribuzione del potere di rappresentanza e del potere decisorio, nonché la corretta ed effettiva corrispondenza tra quanto espresso e quanto deliberato.
La Suprema Corte ha affermato la riconducibilità della fattispecie dedotta in giudizio alla previsione dell'art. 2384, secondo comma, cod. civ. che pure non prevede esplicitamente l'ipotesi di dissociazione dei due poteri, limitandosi ad affermare l'inopponibilità ai terzi di buona fede delle "limitazioni al potere che risultano dall'atto costitutivo o dallo statuto, anche se pubblicate".(21) BONELLI, op. cit., p. 79.
(22) È evidente il regime di maggior favore rispetto a quello dell’art. 1388 cod. civ., della c.d. rappresentanza in senso tecnico.