SOMMARIO: 1. Il fondamento dell’esclusione. 2 L’elemento contrattuale e l’elemento metaindividuale nella società. 3 Il potere d’esclusione del socio accomandante nella società in accomandita semplice.
1.
Con la sentenza 16 novembre 2006, n. 27504, la Corte di Cassazione ha deciso che, «in caso di gravi inadempienze dell’unico socio accomandatario, l’esclusione dello stesso può essere deliberata dalla maggioranza dei soci accomandanti, non computandosi nel relativo numero il socio da escludere». Tale decisione si inserisce nel solco già tracciato da una precedente sentenza della stessa Corte di legittimità (1), la quale si è contrapposta alla prevalente giurisprudenza di merito, sino ad allora esistente, sul problema dell’esclusione dell’unico socio accomandatario nelle società in accomandita semplice. Quanto sostenuto dal supremo collegio appare convincente sulla base di diversi motivi dei quali ora si dirà.
A tal proposito, occorre brevemente riportare le opinioni espresse dalla dottrina in merito al fondamento dell’esclusione nelle società di persone. Come è noto, si distinguono due tipi di esclusione nelle società di persone: una volontaria, prevista per il verificarsi dei casi indicati dall’art. 2286 cod. civ., ai fini della quale è necessaria una deliberazione da parte della maggioranza dei soci, non computandosi nel numero il socio da escludere (art. 2287 cod. civ.); l’altra, ope legis. In questa sede interessa trattare dell’esclusione volontaria con un breve accenno agli altri tipi di esclusione previsti dal codice civile.
In ordine a quanto stabiliva l’abrogato codice di commercio, vi era chi riteneva l’esclusione del socio nelle società di persone un «atto unilaterale della società (…) espressione del potere disciplinare che ogni gruppo ha nei riguardi dei propri membri» (2), ravvisando nell’esclusione il carattere della sanzione ed evidenziando la supremazia del gruppo nell’organizzazione societaria e nella definizione della compagine sociale (3). Ne consegue l’insindacabilità nel merito da parte del giudice del provvedimento di esclusione: questi non farà che «accertare, se adito, la ricorrenza delle cause di esclusione e la regolarità della procedura seguita dalla società» (4). La dottrina citata ricollegava l’esistenza di un ordinamento giuridico nelle società alla personalità giuridica della quale sarebbe dotata la società commerciale in genere, a prescindere dal tipo adottato (5).
Nonostante che il codice attuale abbia riconosciuto la personalità giuridica ad un numerus clausus di enti tra i quali non sono comprese le società di persone, la soggettività generalmente riconosciuta a queste ultime quale autonomo centro di imputazioni soggettive (6) ha consentito che rimanesse in vita la vecchia tesi ascarelliana che ha come corollario la negazione (7) del fondamento meramente contrattuale dell’esclusione (8), tanto che alcuni non hanno esitato a ravvisare una continuità con quanto già espresso dalla dottrina sotto il vigore del codice di commercio. Indice dell’esistenza di un organismo giuridico anche nelle società di persone sarebbe il fatto che l’esclusione viene deliberata a maggioranza dai soci e che l’atto con cui si decide dello scioglimento del rapporto limitatamente ad un socio, in questo caso, è un atto dell’ ente collettivo società (9).
A tutte queste dottrine si contrappongono le impostazioni contrattualistiche che fanno leva sulla qualificazione espressa contenuta nell’art. 2247 cod. civ., che definisce la società come il contratto in cui due o più persone conferiscono beni o sevizi per l’esercizio in comune di un’attività economica al fine di dividerne gli utili: queste giungono alla conclusione secondo la quale l’esclusione del socio non sarebbe altro che un mero riadattamento della risoluzione prevista nella disciplina generale dei contratti, in vista del particolare atteggiarsi del contratto di società. Quest’opinione, già risaputa sotto il vigore del codice di commercio (10), muove dall’idea di una comune ratio nella risoluzione del contratto e in tutte le ipotesi di esclusione: si afferma l’esistenza di un obbligo di collaborazione tra i soci, ulteriore rispetto all’obbligo di conferire, cui corrisponde un contestuale diritto degli altri membri all’esatta esecuzione. Così inquadrato il sinallagma, l’istituto della risoluzione sarebbe presente in tutti i casi di esclusione del socio (sia nell’esclusione volontaria che nell’esclusione di diritto), ma sarebbe stato riadattato dal legislatore in vista del contratto plurilaterale di società commerciale e quindi della conservazione dell’impresa.
Il parallelismo tra risoluzione del contratto ed esclusione è stato riproposto (11) sulla base dell’assunto che vi siano gli stessi elementi che contraddistinguono il potere individuale di risoluzione e la risoluzione automatica. Nel caso dell’esclusione volontaria è sempre il giudice, come per la risoluzione per inadempimento, su ricorso dei singoli soci (che agiscono come la parte che ha provocato la risoluzione del contratto), a pronunciare la risoluzione qualora l’inadempimento risulterà provato. Non varrebbero a rompere il collegamento tra disciplina della risoluzione del contratto plurilaterale e disciplina dell’esclusione del socio né la circostanza che l’iniziativa dell’accertamento giudiziale della causa d’esclusione sia rimessa al singolo socio, né il fatto che dalla stipulazione del contratto di società consegua un effetto ulteriore, ossia la costituzione di un “organismo” (12): a conferma di ciò si riportano gli artt. 2259 cod. civ. e 2287 cod. civ. che prevedono l’iniziativa del singolo socio, riproducendo così la disciplina della risoluzione del contratto.
In una posizione intermedia tra le dottrine di ispirazione contrattualistica e quelle che rievocano idee istituzionalistiche, si collocano alcuni autori quali Mario Ghidini (13), il quale ravvisa nei tre tipi di esclusione previste dal codice tre diversi fondamenti. L’esclusione volontaria, secondo l’autore, rientrerebbe nell’istituto generale dell’autotutela; l’esclusione giudiziale prevista dall’art. 2287 cod. civ. nel fenomeno della tutela giudiziale; l’esclusione di diritto darebbe luogo ad un fenomeno di eterotutela. Sempre lo stesso autore, con particolare riferimento all’esclusione volontaria, sostiene che non sia possibile fare ricorso all’azione di risoluzione giudiziale, a causa della lentezza del procedimento e della tardività degli effetti della pronuncia giudiziale. La società può, dunque, con atto unilaterale, estromettere il socio divenuto inidoneo allo svolgimento dell’attività.
Critico nei confronti e dei contrattualisti e degli istituzionalisti ai quali imputa l’accedere a soluzioni estreme è altresì Giuseppe Ferri (14). A suo avviso non sarebbe possibile far ricorso all’istituto della risoluzione contrattuale poiché vi sarebbero cause di esclusione non dipendenti né da inadempimento né da un comportamento colpevole. Neppure l’istituto della difesa del gruppo nei confronti di un componente spiegherebbe il fenomeno dell’esclusione, mancando i caratteri del provvedimento disciplinare. L’istituto in esame, a parere di questa dottrina, sarebbe un mezzo operante ogni qual volta si verificasse una modificazione essenziale tale da incidere sul contratto e sull’organizzazione sociale e fosse necessario consentire la continuazione della società senza il socio da eludere. Elemento comune a tutti i tipi di esclusione sarebbe la “modificazione sostanziale delle basi originarie sulle quali il rapporto sociale era impostato”.
Vi è infine l’opinione di chi (15), dopo aver specificato che nel contratto associativo elemento centrale del fenomeno debba essere ravvisato nell’attività comune ed inteso in senso dinamico (cioè come “rappresentato da una concatenazione di atti…orientati alla realizzazione di un interesse condiviso dal gruppo dei partecipanti”), attribuisce al contratto di società una particolare valenza organizzativa. Essa si esprime nel fatto che gli atti di autonomia privata siano da intendersi, nelle società, come regole dell’attività concernenti la programmazione degli obiettivi, le modalità di esercizio e di percezione dei risultati dell’attività comune da parte dei membri del gruppo. Così intesa, dunque, la posizione del socio nella società non può essere interpretata soltanto in termini di scambio di prestazioni in rapporto di corrispettività con le prestazioni di un altro socio, bensì come diretta ad apprestare i mezzi per lo svolgimento dell’attività comune. L’interesse del singolo socio verrà, allora, soddisfatto soltanto con i risultati dell’attività comune. L’autore sottolinea le diversità tra l’esclusione del socio e la risoluzione come rimedio generale previsto per i contratti e in particolare il fatto che l’esclusione abbia carattere non retroattivo; come, cioè non implichi l’eliminazione dei rapporti tra le parti, bensì imponga la definizione dei rapporti mediante la liquidazione. L’esclusione, nei modi in cui si attua, appare inevitabilmente legata ai risultati dell’attività compiuta (16). L’istituto in esame sarebbe diretta emanazione dell’esercizio in comune dell’attività e della violazione dell’ulteriore obbligo rispetto al conferimento di prender parte alla vita sociale e di rispettarne le regole in funzione del raggiungimento dello scopo cui essa tende. Tratto comune delle diverse ipotesi di esclusione volontaria sarebbe, in conclusione, oltre che lo stretto collegamento con la persona del socio, il loro aspetto organizzativo, rappresentato dall’idoneità ad incidere su modalità di svolgimento, esiti e prospettive dell’attività comune.2.
Ai fini delle considerazioni che verranno espresse sul caso in esame, occorre inquadrare sia l’esclusione, sia il rapporto tra i soci e la società nell’accomandita semplice negli schemi tradizionali elaborati dalla dottrina in ordine alla natura della società in genere e alle situazioni giuridiche riconducibili al gruppo. A tale proposito si deve concordare con quanti affermano che il contratto e l’organizzazione (aspetti entrambi concernenti il modo mediante il quale si palesa la società) sono in un rapporto in cui il primo implica l’esistenza della seconda, e l’esercizio in comune di un’attività economica trova la sua fonte nel contratto. L’organizzazione non è, quindi, qualcosa di staccato dal contratto: il contratto regge l’organizzazione e questa è rappresentata da elementi personali e patrimoniali volti all’esercizio dell’attività in comune.
La società considerata dal punto di vista contrattuale, non si comporta come un contratto commutativo in cui i contraenti rilevano soltanto uti singuli, ma è anche un atto associativo destinato a fondare un regime “metaindividuale” di imputazione. È in funzione dell’interesse di gruppo che viene indirizzata la produzione di atti all’interno della società, interesse che presuppone un’istanza di superamento dell’individuo propria dei contratti associativi (17).
Così impostato in termini generali il problema, l’esclusione volontaria per gravi inadempienze sembra anch’essa assumere una duplice veste allo stesso tempo metaindividuale e contrattuale. Essa presenta elementi riconducibili al contratto, discendenti dal fatto che è l’accordo lo strumento attraverso il quale i soci decidono di creare il gruppo e di disciplinare i loro rapporti, senza che esso ne rappresenti l’unica ragione d’essere. E’ vero che l’esclusione viene deliberata in conseguenza di un inadempimento all’obbligo di collaborazione (18) a svolgere attività in comune, tuttavia è pur sempre il gruppo che decide in ordine alle vicende principali della vita della società e soprattutto alle regole attraverso le quali si eserciterà attività in comune; regole incidenti, a seconda dei casi, su aspetti soggettivi (la composizione della compagine sociale), od oggettivi (l’esercizio dell’attività in comune e la predisposizione dei mezzi mediante i quali questa attività verrà svolta).
Il rilievo che assume nelle società di persone, sia il momento contrattuale, che quello “metaindividuale” emerge dalla stessa disciplina legislativa dell’esclusione in questo tipo di società. Nella fattispecie di cui all’art. 2287 1° comma cod. civ. è previsto che sia il gruppo a decidere delle sorti della compagine sociale (prospettiva “metaindividuale”) e che il giudice non possa che sindacare la regolarità formale della deliberazione di esclusione, così lasciando intatta la valutazione sul merito che compete ai soci (non importa ora se a maggioranza o all’unanimità). In presenza, però, di una società composta di due soli soci riprende vigore la prospettiva contrattuale del rapporto tra soci e si attenua quella visione “metaindividuale”. Il giudice vede qui notevolmente ampliata la propria sfera d’intervento che quasi arriva a muoversi sul piano dell’opportunità (19) di una deliberazione di scioglimento del rapporto limitatamente al socio. La ragione di questo differente trattamento sta nel fatto che nel secondo caso, pur esistendo un gruppo, esso, per la sua composizione subisce un limite funzionale, tale che non gli consente di poter esprimere delle scelte se non ricorrendo all’unanimità dei consensi. Il criterio della maggioranza, scelto dal legislatore al fine di comporre i conflitti riguardanti la permanenza di un soggetto nella compagine sociale non può operare e le vicende giuridiche sono più difficilmente riadattabili in vista della presenza del gruppo: esse finiscono con l’essere più facilmente assimilabili al diritto comune e alle problematiche legate a singoli individui e non alla pluralità dei soci. Sussiste un gruppo, ma questo non può vivere se non con il consenso di tutti i suoi partecipanti e le decisioni fondamentali riguardanti aspetti oggettivi e soggettivi dell’organizzazione societaria sono rimesse all’unanime consenso dei due soci. Nel caso in cui i soci siano più di due, invece, ciascuno di essi ha diritto a deliberare e la volontà espressa dalla maggioranza dei soci si identificherà con quella dell’ente collettivo, cosicché, una volta escluso un socio, i rapporti non intercorreranno tra quest’ultimo e gli altri soci di cui si compone la società, ma tra il socio e la società stessa.
Alla luce di questo primo ordine di considerazioni emerge con chiarezza che non vi è soltanto un fondamento contrattuale nell’esclusione deliberata in una società composta da più di due soci: proprio nel caso in cui il gruppo non è in grado di deliberare se non con il consenso di tutti, l’esclusione appare in una veste spiccatamente contrattuale, presentando maggiori affinità con la risoluzione per inadempimento prevista come rimedio generale per i contratti, in cui è il singolo a chiedere al giudice lo scioglimento del rapporto, ed è il giudice a decidere della gravità dell’inadempimento e dei suoi riflessi sulla compagine societaria.
Altro elemento rivelatore della prospettiva “metaindividuale” nella quale agisce in simili casi la società consiste nella natura dell’atto con cui si decide l’esclusione: la deliberazione prevista dall’art. 2287 1° comma cod. civ. è un atto della società (20). La valutazione dell’interesse comune, prima che la volontà sociale si formi, è compito, invece, dei singoli soci (21); un interesse comune presuppone che i singoli creino un’organizzazione diretta al perseguimento del fine comune. Nel momento in cui si forma la volontà comune e, in particolare, nel momento in cui si tratta di effettuare le scelte necessarie alla realizzazione del fine comune, il principio di maggioranza e quello di unanimità sono i criteri di organizzazione del gruppo e consentono la riconducibilità delle singole dichiarazioni al gruppo. Nelle società a base personale per l’esclusione del socio è prevista la deliberazione a maggioranza poiché questa è stata ritenuta dal legislatore una modalità sufficiente ai fini dell’imputazione della volontà al gruppo e al tempo stesso non eccessivamente rigido quale sarebbe stato il criterio dell’unanimità che avrebbe comportato distorsioni nel corretto funzionamento della società e dei rapporti tra i soci.3.
Quanto sinora affermato non può non valere anche per le società in accomandita semplice. In queste ultime sono ravvisabili due gruppi di soci: i soci accomandanti i quali, pur partecipando alla società attraverso un conferimento, tuttavia non assumono responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali e non partecipano alla gestione della società (22); i soci accomandatari i quali, in virtù della loro illimitata responsabilità, sono gli unici che, salvo patto contrario, partecipano alla gestione della società.
Gran parte della dottrina ritiene che ai soci accomandanti, per i quali vige il divieto di partecipare alla gestione della società (art. 2320 cod. civ.), sarebbero preclusi anche atti concernenti la direzione dell’impresa sociale (atti quali l’approvazione del bilancio, la nomina e la revoca degli amministratori) (23). Anche chi afferma da un lato che essi hanno, in generale, il potere di escludere gli altri soci, e, ai fini che qui interessano, l’unico socio accomandatario di società in accomandita semplice, dall’altro invece puntualizza come il diritto di controllo sulla gestione (art. 2261 cod. civ.) e il diritto di ottenere comunicazione annuale del bilancio (art. 2320 3° comma), rappresentano una progressiva riduzione dell’estensione dei poteri sulla base del collegamento con altre componenti, quali la responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali, l’esistenza o meno di un obbligo di astenersi dalla concorrenza con la società di appartenenza e la riservatezza sul contenuto delle informazioni ricevute nell’esercizio del diritto di controllo (24).
Occorre, però, chiarire che anche i soci accomandanti partecipano alla società, conferiscono beni per l’esercizio in comune dell’attività e, in definitiva, prendono parte al gruppo. Essi, uti socii hanno il potere di deliberare quantomeno in ordine alla composizione soggettiva della compagine sociale e, dunque, privarli di prerogative che rappresentano le tipiche conseguenze del solo fatto di essere un membro del gruppo sociale significa considerare i soci accomandanti meri finanziatori dell’attività degli accomandatari.
Ciò stride con il fatto che anche i loro beni conferiti entrino a fare parte del patrimonio sociale; è in contrasto con il principio secondo il quale il rimborso della loro quota è postergato rispetto alle pretese dei creditori. Ritenere il socio accomandante un mero finanziatore dell’impresa sociale significa spingere tale figura verso i confini dell’associazione in partecipazione, dalla quale la società differisce per il fatto che si venga a creare con il conferimento un patrimonio comune a tutti i soci e che questi partecipino tutti quanti all’esercizio in comune di un’attività (anche se non prendono parte attiva alla gestione dell’impresa sociale) (25).
I soci accomandanti pagano la limitazione della propria responsabilità con un divieto d’ingerenza nella gestione della società. Essi, secondo la dottrina prevalente, possono essere considerati esclusi dalla direzione dell’impresa sociale. Ma negare ad essi il potere, in quanto membri del gruppo, di partecipare agli atti che competono ai soci in ordine alle scelte fondamentali sulla composizione della compagine sociale o, quantomeno, il diritto di essere considerati paritariamente rispetto ai soci accomandatari, appare in contrasto con la posizione tipologica della società. A questo principio si è ispirata la Suprema Corte nella sentenza in commento, poiché il potere di controllo sulla gestione (art. 2261 cod. civ.) (26) che spetta ai soci accomandanti come generalmente anche ai soci di società semplice, prolungato alle sue conseguenze estreme, comporta la facoltà di decidere in merito alla permanenza del controllato nella compagine sociale. Non si tratta, quindi, di un’attività gestoria impropriamente rimessa all’accomandante, ma di attività di controllo che si fa pregnante solo se essa include il potere di sciogliere il rapporto limitatamente ad un socio (27)
Note
(1) Si veda in tal senso Cass. 29 novembre 2001 n. 15197 la quale era giunta alle stesse conclusioni, sulla base di argomentazioni diverse. Allora la Suprema Corte non aveva specificato, come invece ha fatto il collegio in quest’occasione, se il potere del socio accomandante di partecipare alla deliberazione di esclusione dell’unico socio accomandatario sia una prerogativa sua propria (in quanto volto ad incidere sulla composizione della compagine sociale), ma si era limitata a contrastare l’indirizzo giurisprudenziale di merito sino ad allora formatosi, affermando che il potere di escludere l’unico socio accomandatario è insito nell’esercizio del potere di controllo, al pari del socio nelle società semplici. A sostegno di questa tesi, la S.C. richiamava l’art. 2261 cod. civ. che fa riferimento ai soci i quali, pur non partecipando alla gestione, sono comunque investiti del potere di controllo sulla gestione societaria. Nella pronuncia appena citata, la Corte di legittimità riteneva invero mal posto da parte dei ricorrenti il richiamo all’art. 2319 cod. civ., che invece prevede il concorso di entrambe le categorie di soci per la revoca del socio amministratore. Secondo il supremo Collegio si rendeva necessario rimarcare la diversità, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, tra esclusione del socio e revoca dell’amministratore.
La suindicata distinzione si era resa opportuna in virtù del fatto che le sentenze di merito arrivavano a conclusioni diametralmente opposte, sostenendo l’applicabilità alla fattispecie richiamata dell’art. 2287, 3° comma cod. civ., in base al quale, in caso di compagine societaria formata esclusivamente da due soci, il socio che voglia escludere l’altro dalla società debba ricorrere al giudice chiedendo che sia questi a provvedere. I giudici di merito, invero, avevano ritenuto compatibile, in forza del dettato dell’art. 2315 cod. civ. , la norma prevista dall’art. 2287, 3° comma cod. civ., in conseguenza del fatto che si venga a creare una situazione nella quale si fronteggiano due gruppi d’interessi contrapposti (sul punto si vedano: App. Milano, 18 gennaio 2000, in Foro it. 2000, pp. 2970 e ss.; Trib. Milano, 25 gennaio 1998 in Foro it. 1998, pp. 1653 ss., con nota di COTTINO; Trib. Milano, 16 dicembre 1993, in Società 1994, pp. 945 ss.). Inoltre, le citate sentenze desumevano dall’ art. 2319 cod. civ. (in base al quale la revoca e la nomina degli amministratori richiedono il consenso di tutti soci accomandatari e di tanti accomandanti che rappresentino la maggioranza del capitale da essi sottoscritto) l’obbligatorietà del consenso dei soci accomandatari non solo per la revoca, ma anche per l’esclusione dell’unico socio accomandatario. In senso contrario si vedano: Trib. Roma 1997, in Foro it. Rep. 1997, voce Società, n. 821; Trib. Roma 9 gennaio 1997 n. 823, ibid. e in Impresa 1997, 701; Trib. Torino 12 gennaio 1981, in Foro it. Rep. 1993, voce Società n. 450 (tutte citate in COTTINO, v. supra).(2) Così T. ASCARELLI, Appunti di diritto commerciale, Società e associazioni commerciali, Roma , 1936, pp. 133 ss.
(3) Sul punto chiarisce anche M. PERRINO, Le tecniche di esclusione del socio dalla società, Milano, 1997, pp. 78 ss.
(4) T. ASCARELLI, (nt. 2.), 206; A.FERRARA, Riv. Dir. Comm., 1931, pp. 237 ss.
(5) T. ASCARELLI, op. ult. cit., pp. 175 ss.
(6) Come puntualizzano tra gli altri F. FERRARA jr. - F. CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano, 2006, XIII edizione, pp. 183 ss. e G. F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, II, Diritto delle società, Torino, 2006, VI edizione, a cura di M. CAMPOBASSO, pp. 43 ss.
(7) R. BOLAFFI, La società semplice , Milano, 1975, pp. 629 ss.
(8) M. PERRINO, (nt.3), p. 83.
(9) R. BOLAFFI, (nt.7), pp. 629 ss.; conf. A. VENDITTI, Collegialità e maggioranza nelle società di persone, Napoli, 1955, pp. 107 ss., nonché il successivo Nuove riflessioni sull’organizzazione collegiale nelle società di persone, in Studi in onore di Alberto Asquini,, Padova, 1965, 2084 ss., secondo il quale il potere di sciogliere il vincolo particolare tra socio e società spetta alla società. L’esercizio di tale potere, avverrebbe, secondo la tesi da questi sostenuta, mediante un atto della società: per tale atto si può porre il problema della scelta del criterio della maggioranza o dell’unanimità della deliberazione. La legge opera una scelta a favore del criterio maggioritario per l’esclusione, mentre è necessario l’accordo unanime di tutti i soci per lo scioglimento della società. Si specifica, poi, che la scelta tra un criterio e l’altro dipende dalla tendenza della legge a ridurre in più stretti confini fenomeni di subordinazione dei soci e di prevalenza su alcuni da parte di altri. Entrambi i criteri, infine, sarebbero indice dell’esistenza di un’organizzazione collegiale del gruppo.
(10) A. DALMARTELLO, L’esclusione del socio dalle società commerciali, Padova, 1938, pp. 91 ss.
(11) F. GALGANO, Le società in genere, le società di persone, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da CICU e MESSINEO e continuato da MENGONI e SCHLESINGER , Milano, 1982, pp. 334 ss.
(12) Tutte le concezioni non contrattualistiche muovono direttamente o indirettamente da visioni organicistiche, che permettono di superare la frammentazione che inevitabilmente consegue alla valorizzazione massima dell’interesse individuale del socio e dell’interesse sociale, come mera somma aritmetica degli interessi e delle volontà individuali. Il problema della società come Lebender Organismus è affrontato con riferimento alla dottrina tedesca del primo dopoguerra da P. G. JAEGER, L’interesse sociale, Milano, 1964, pp. 31 ss. La visione organicistica della società, però, non è necessariamente da accostare a posizioni non contrattualistiche. Significative a riguardo le parole di G. FERRI, Recensione a P. G. JAEGER, L’ interesse sociale, Milano, pp. 250 , in Riv. dir.comm., 1965, p. 245: “Quando si concepisca un interesse del gruppo come tale al di sopra e in aggiunta a quello dei singoli soci, le differenze tra questa concezione (quella contrattaule) e la concezione istituzionale della “Person in sich” finiscono per annullarsi. In un caso e nell’altro i soci dovranno tendere alla realizzazione degli interessi di gruppo, non di quelli individuali, almeno tutte le volte in cui non vi sia coincidenza tra i due interessi”. Di recente G. COTTINO, Contrattualismo e istituzionalismo, Variazioni sul tema da uno spunto di Giorgio Oppo, Riv. soc., 2005, I, pp. 693 ss. ha puntualizzato che sia le concezioni istituzionalistiche, sia quelle contrattualistiche, non sono così omogenee e che nei vari pensieri degli autori si sono intrecciate componenti generalmente riconducibili ad entrambe.
(13) M. GHIDINI, Le società personali, Padova, 1972, pp. 552 ss.
(14) G. FERRI, Società, in Trattato di diritto civile, fondato da Giuliano Vassalli, Torino, Utet, 1987, pp. 228 ss.; sempre G. FERRI, Delle società, in Commentario del codice civile, a cura di A. SCIALOJA e G. BRANCA, Zanichelli, Roma - Bologna, 1981, pp. 324 ss., sostiene l’impossibilità di attribuire all’esclusione un fondamento unitario: ciò che rileva principalmente nell’esclusione è il verificarsi di un fatto concernente la posizione del socio nella società e la possibilità in capo agli altri soci di estromettere un membro dal gruppo.
(15) M. PERRINO, (nt. 3), pp. 112 ss. e pp. 126 ss. L’opinione dell’autore prende spunto da quanto affermato da altri circa il convivere nella società di due elementi, uno metaindividuale, l’altro contrattuale. Si vedano a riguardo: A. SERRA, Unanimità e maggioranza nelle società di persone, Milano, 1980, pp. 36 ss.; P. FERRO-LUZZI, I contratti associativi, Milano, 1971, pp. 319 ss., secondo il quale l’organizzazione, ed ogni sua entificazione, non sarebbe staccata dall’atto. Secondo l’autore citato, elemento materiale del fenomeno societario è il fatto, ed elemento formale il valore giuridico che la norma gli riconosce; C. ANGELICI, La società nulla, Milano, 1975, pp. 55 ss. il quale afferma che nella dialettica fra contratto e organizzazione nel fenomeno societario, si pone un contrasto tra realtà sociale e realtà individuale: interessi irriducibili a quelli individuali dei soci, per loro natura incompatibili e contrastanti con la realtà negoziale; P. ABBADESSA, Le disposizioni generali sulle società, in Trattato dir. priv., diretto da P. RESCIGNO, vol. XVI, Impresa e lavoro, II, Torino, 1985, pp. 7 ss. mette in evidenza la presenza di una pluralità di soggetti nella società in genere e specifica come essa sia strumentale rispetto alla comunione di scopo: questo carattere strumentale evidenzierebbe proprio la valenza organizzativa del contratto plurilaterale, che dà origine alla creazione di una serie non determinata di atti che costituiscono lo “scopo comune dei contraenti”; G. FERRI, (nt. 14), pp. 4 ss., dopo aver affermato essere l’atto costitutivo di società “un atto di organizzazione”, precisa che la società è “un gruppo organizzato unitarimamante e unitariamente operante per la realizzazione di uno stesso interesse” . Secondo C. F. GIAMPAOLINO, Le azioni speciali, Milano, 2004, pp. 73- 74 il contratto sociale è “carenza della previsione di comportamenti delle parti.. e tale carenza determina il riferimento all’attività funzionale”. Si precisa che l’attività è “funzionale” poiché l’ordinamento ammette la “personificazione del gruppo in vista dello scopo comune che costituisce l’unificazione della pluralità soggettiva”.
Seguendo, infine, l’impostazione di G. MARASÀ, Le società, Società in generale, II ed., in Trattato dir. priv., a cura di G. IUDICA e P. ZATTI, Milano, 2000, p. 40, la presenza della componente “causale” e della componente “organizzativa” emerge in tutti i contratti associativi: la prima individua lo scopo che le parti perseguono, la seconda, invece, le regole secondo le quali si svolge l’attività.(16) Sempre M. PERRINO, (nt. 3), p. 126 sottolinea come la liquidazione della quota non sarebbe da considerarsi come una restituzione della prestazione eseguita da parte del socio. Il diritto alla percezione di una somma di denaro come rimborso del valore integrale del conferimento sorge soltanto nel caso in cui le attività superino o pareggino le passività . Nel caso in cui, invece, le passività superino le attività, il socio vedrà decurtato il valore del conferimento nella misura in cui era prevista una partecipazione alle perdite nell’atto costitutivo.
(17) P. SPADA, La tipicità delle società, Padova, 1974, pp. 154 ss.; nonché C. ANGELICI, (nt. 15), pp. 55 ss.; P. FERRO-LUZZI, (nt. 15), pp. 180 ss.; A. SERRA, (nt. 15), pp. 36 ss. Occorre precisare che la società può trovare la sua fonte non soltanto nel contratto, ma anche nella legge. Sul tema, con riguardo alle società per azioni istituite con legge dello Stato, si è soffermato C. IBBA, Le società “legali”, Torino, 1992, pp. 91 ss, il quale afferma che l’effetto della legge è quello di “far sorgere la società vuoi come rapporto fra le parti vuoi come patrimonio autonomo”. La personalità giuridica della quale gode la s.p.a. è conseguenza dell’iscrizione nel registro delle imprese e non di quanto previsto dalla legge costitutiva, facendo sorgere quest’ultima soltanto un obbligo giuridico di procedere all’iscrizione della costituenda società. Lo stesso, ID., op. ult. cit, pp. 9 ss., partendo da quanto riportato in P. SPADA, op. ult. cit., p. 9, (cioè che, per quanto concerne la tipizzazione legale delle società, il tipo negoziale generale [rappresentato dall’art. 2247 cod. civ.] “esprime il profilo funzionale”, mentre i singoli tipi esprimono “il profilo organizzativo”), afferma che una singola fattispecie societaria è data dall’unione di elementi relativi alla fattispecie generale società (art. 2247 cod. civ.) con profili tipologici propri di un singolo sottotipo societario. La mancanza di elementi tipici della fattispecie generale o della fattispecie particolare, renderebbe le società legali società speciali, così che la loro specialità sarebbe data dall’ “appartenere ad un genere senza condividerne tutti i tratti identificanti”.
(18) Costituiscono gravi inadempienze, secondo la giurisprudenza, non soltanto i fatti che siano idonei ad impedire il raggiungimento degli scopi sociali, bensì anche quelle che abbiano reso più difficilmente attuabili i fini sociali (Cass. n. 6200/1991). E’ stata ritenuta grave inadempienza: l’aver assunto obbligazioni in nome della società senza averne i poteri (Cass. n. 2380/1960); l’appropriazione da parte dell’amministratore di utili della società; la condotta del socio consistente nell’omissione della collaborazione nella conduzione dell’esercizio sociale (Trib. Milano 10-6-1999 in Società, 1999, pp. 1479 ss).; il comportamento del socio superstite, il quale anziché proseguire l’attività con gli eredi, abbia chiesto la liquidazione della società (App. Catania 16-9-1980). Le violazioni relative all’attività di amministratore costituiscono causa di esclusione soltanto se integrino inadempimento delle obbligazioni dei soci (Cass. n. 1977/1960).
(19) Si noti che la giurisprudenza ha affermato che, in tema di esclusione in una società composta di due soli soci, la sentenza di esclusione diviene operante soltanto nel momento in cui passa in giudicato ed ha natura costitutiva (Trib. Milano 7-02-2003, in Società, 2003, pp. 998 ss. con nota di S. TAURINI). Sulla non estendibilità della pronuncia del giudice ex art. 2287 3° comma cod. civ. al caso in cui vi siano due gruppi di soci contrapposti, Cass. n. 153/1998 in Giur. comm., 1999, II, pp. 624 ss. con nota F. PASQUARIELLO. Inoltre, nel senso della natura costitutiva della sentenza con la quale il giudice decide dell’esclusione di uno dei due soci nella società composta da due soli soci, si esprime M. PERRINO, (nt. 3), p. 240. Occorre segnalare che soltanto nel caso in cui l’esclusione è deliberata a maggioranza, in giurisprudenza si sottolinea che i poteri del giudice investano la regolarità formale e non la sostanza dei fatti: questi non può dare valutazioni sull’opportunità dell’ esclusione (Cass. n. 6430/1982). Sul problema se per l’esclusione del socio sia richiesta una maggioranza numerica o di interessi, si veda SPADA, (nt. 18), pp. 420 ss.
(20) Isolata è rimasta la tesi di A. VENDITTI, op. loc. cit., pp. 107 ss., nonché ID. (nt. 9), pp. 21 ss. secondo il quale la collegialità sarebbe lo strumento attraverso il quale ricavare dalla somma di volontà individuali un unico atto. Secondo la giurisprudenza, la delibera di esclusione non avrebbe bisogno di essere presa collegialmente, essendo sufficiente che la decisione di escludere un membro dal gruppo sia comunicata al socio da escludere (nt. 17). Negli organi collegiali di diritto pubblico, invece, una risalente dottrina (S. VALENTINI, La collegialità nella teoria dell’organizzazione, Milano, 1968, pp. 288 ss.) riscontra nel principio maggioritario una ragion d’essere mutevole a seconda della funzione cui accede: nei collegi con funzione di ponderazione esso assurge a strumento d’economia organizzativa al fine di evitare la paralisi del collegio; nei collegi compositori il principio di maggioranza è lo strumento attraverso il quale il collegio realizza la sua funzione di composizione. Si specifica, poi, che il principio di maggioranza non sia necessariamente collegato alla democrazia, ma che esso sia un mero principio organizzativo, ideale al fine di rendere agevole il funzionamento del collegio e, soprattutto, la formazione di una volontà unitaria. Sulla differenza tra società di persone e società di capitali circa la valenza del metodo maggioritario si veda A. GAMBINO, Il principio di correttezza nell’ordinamento delle società per azioni, Milano, 1987, pp. 114 ss.
(21) A. SERRA, (nt. 15), pp. 141 ss.
(22) Sull’origine medievale della società in accomandita semplice F. GALGANO, (nt. 11) pp. 450 ss. il quale ribadisce le analogie esistenti tra questo tipo di società e la commenda o accomanda. La funzione economica appare riconducibile alle prime forme di capitalismo. Sul finire del medioevo, infatti, la ricchezza era in mano all’aristocrazia e al clero, classi alle quali era interdetto l’esercizio di attività economiche. La commenda era il contratto attraverso il quale un capitalista affidava denaro ad un mercante in cambio della partecipazione agli utili che il secondo avesse ottenuto da una spedizione economica d’oltre mare. La società in accomandita, sviluppo della commenda, presentava la peculiarità dell’apporto del capitalista che non entrava nel patrimonio del mercante; quest’apporto assumeva la stessa condizione giuridica dei beni conferiti in una società in nome collettivo. Esso formava un patrimonio sociale autonomo, non aggredibile dai creditori personali di capitalista e mercante e destinato solo ai creditori dell’impresa. La società in accomandita permise, nel corso dei suoi successivi sviluppi, di partecipare ai guadagni offerti dall’esercizio di un’attività commerciale mediante l’assunzione di un rischio limitato ad un apporto. Sull’origine storica dell’accomandita e sul fatto che accomandita e associazione in partecipazione fossero trattate promiscuamente, tanto che nell’ Ordonnance colbertiana tra accomandita e associazione non vi era una netta linea di demarcazione (association en participation e stille Gesellschaft in Germania e in Francia troverebbero posto tra le società), G. COTTINO – M. SARALE - R. WEIGMANN, Società di persone e consorzi, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. COTTINO, III, Padova, 2004, pp. 212 ss.
(23) F. GALGANO, Il principio di maggioranza nelle società personali, Padova, 1960, 90 ss., nonché P. MONTALENTI, Il socio accomandante, Milano, 1974, pp. 107 ss.; sui poteri del socio accomandante osserva F. VASSALLI, Responsabilità d’impresa e potere d’amministrazione, Milano, 1975, pp. 180 ss. che il potere insopprimibile in ordine alla predisposizione delle regole di esercizio dell’attività in comune di ogni socio è tipico dei soci con responsabilità illimitata; i soci accomandanti hanno, al pari degli azionisti di s.p.a. e di s.r.l. soltanto un diritto di voto. Sul necessario collegamento tra potere di amministrare e sopportazione integrale del rischio di impresa come principio generale comune alle società di società di persone, G. COTTINO – M. SARALE - R. WEIGMANN, (nt. 23), p. 211. GALGANO, op. loc. cit., pp. 235 ss., lega inscidibilmente il potere di direzione dell’impresa sociale all’illimitata responsabilità per le obbligazioni sociali, ciò in virtù del fatto che al potere economico funga necessariamente da contrappeso il rischio economico. In F. DENOZZA, Responsabilità dei soci e rischio d’impresa nelle società personali, Milano, 1973, 210 ss. si critica quest’opinione ritenendo che essa pretenda di subordinare la disciplina dell’organizzazione dell’impresa a un principio che non trova alcun fondamento ne economico né giuridico. Sempre F. DENOZZA, Società in accomandita. 1) Società in accomandita semplice,in Enc. Giur., vol. XXIX, Roma, 1993 p. 4 ritiene che i poteri del socio accomandante, in forza del divieto previsto dall’ art. 2320 cod. civ., siano tali da ricomprendere tutti gli atti di immediata disposizione del patrimonio sociale, nonché gli atti che, pur non essendo atti di disposizione del patrimonio sociale, siano tali da alterare la struttura data dal legislatore al rapporto tra i soci.
(24) In tal senso si veda G.C.M. RIVOLTA, In tema di società in accomandita semplice, in Giur. comm., 2003, I, pp. 116 ss.
(25) A. VENDITTI, (nt. 9), 2080 ss., nonché in termini parzialmente diversi, M. GHIDINI, L’associazione in partecipazione, Padova, 1959, pp. 59 ss. Sul punto anche P. SPADA, (nt. 18), 192 ss. il quale precisa che se l’attività è in comune, il conferimento del socio acquista i caratteri di una destinazione in funzione della realizzazione del programma di gruppo; la differenza principale tra società in genere ed associazione in partecipazione sarebbe da rinvenirsi proprio nel valore dell’apporto: il socio che destina l’apporto al servizio dell’attività comune trae vantaggio da tutti gli incrementi patrimoniali, “qualunque ne sia l’antecedente economico”. Per l’associato, invece, la partecipazione è limitata agli utili d’esercizio. Sul fatto che ad ogni nome di società non corrisponda un tipo di fattispecie contrattuale, ma una subfattispecie e che la società in accomandita semplice oltre a rappresentare una subfattispecie abbia una precisa identità negoziale, sempre P. SPADA, (nt. 18), pp. 435 ss.
L’esistenza di un fondo comune e di una struttura societaria starebbe alla base della distinzione tra accomandita ed associazione in partecipazione secondo G. OPPO, L’identificazione del tipo “società di persone”, in Riv. dir .civ., 1982, pp. 619 ss. Anche a parere di M. BUSSOLETTI, Società in accomandita semplice, in Enc. Dir., vol. XLII, Milano, 1990, pp. 962 ss., elemento di distinzione tra società ed associazione in partecipazione è la sussistenza di un fondo comune e dell’esercizio in comune di attività economica. Precisa l’autore che l’esercizio in comune dell’attività non significa necessariamente direzione comune: a tal fine, è sufficiente una comunanza di programma nell’attività, o anche un agire per conto di terzi geriti, che non perdano la contitolarità dell’affare. G. F. CAMPOBASSO, (nt. 6), p. 10 specifica che nell’associazione in partecipazione il titolare dell’impresa è solo l’associante in quanto “i singoli atti d’impresa possono e devono essere posti in essere in suo nome ed a lui sono giuridicamente imputabili, anche se compiuti dall’associato”.(26) Secondo G. FERRI, (nt. 14), pp. 179 ss., il diritto di controllo e di informazione nelle società di persone trova fondamento nella organizzazione della società a base personale. Nei rapporti interni non vi sarebbe unificazione della collettività e, per quanto concerne lo svolgimento dell’attività sociale, tutto sarebbe basato sulla contrapposizione tra soci che amministrano e soci che non amministrano. Altri, invece, G. COTTINO – M. SARALE – R. WEIGMANN, (nt. 23), pp. 218 ss., ritengono che la norma di cui all’art. 2261 cod. civ. non sembra trovare applicazione ai soci accomandanti, bensì soltanto ai soci accomandatari non amministratori, sulla base delle norme previste all’art. 2315 cod. civ. e 2318, 2° comma cod. civ.. Il fondamento della non applicazione dell’art. 2261 cod. civ. anche ai soci accomandanti sarebbe da rinvenire nel più grave rischio che sopportano i soci illimitatamente responsabili rispetto a quelli che non rispondono delle obbligazioni sociali anche con il loro patrimonio personale. Secondo M. BUSSOLETTI, (nt. 25), pp. 964 ss., non vi è distinzione per quanto riguarda gli atti consentiti al socio accomandante; si specifica che l’approvazione del rendiconto è comunque un atto di organizzazione della società, rispetto al quale il socio accomandante ha parità di diritti rispetto all’accomandatario. Il potere di controllo di cui all’art. 2261 cod. civ., sarebbe, secondo l’autore, meno intenso rispetto a quello spettante ai soci di società di persone.
(27) Quanto afferamato nel testo non sembra condiviso da G. MARASÀ, (nt. 15), p. 30, il quale non ritiene condivisibile l’opinione secondo la quale anche i soci non amministratori partecipano all’esercizio in comune in quanto possono alternativamente o revocare i soci non amministratori (artt. 2259 e 2319 cod. civ.) o controllare il loro operato (artt. 2261 cod. civ. e 2320 cod. civ.).