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La modifica dell’art. 6 legge. fall., operata dal d. lgs. n. 5 del 2006, ha comportato il venir meno della possibilità per il Tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento. Si è a lungo discusso se tale potere fosse precluso al Tribunale anche in caso di inammissibilità o di mancata omologazione del concordato preventivo. Sul punto sembra aver fatto chiarezza lo schema di decreto correttivo della stessa legge fallimentare recentemente approvato.2.
Conseguenza naturale dell’immobilismo legislativo che ha caratterizzato per più di un sessantennio una materia tanto importante per il mondo delle imprese, quale è quella del diritto fallimentare, non poteva che essere, nel momento in cui sono stati realizzati i primi interventi normativi, quella della generazione di un coacervo di soluzioni interpretative contrastanti tra loro alla cui base sono posti i diversi interessi coinvolti nel panorama della crisi di impresa.
A più di un anno dall’entrata in vigore della nuova legge fallimentare, una delle questioni interpretative più dibattute, tra le altre, è stata quella relativa al potere del Tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento.
La spinosa questione (oggi parzialmente risolta dallo schema di decreto correttivo approvato dal Consiglio dei Ministri, di cui di seguito si dirà), sorgeva dal fatto che all’eliminazione dall’art. 6 legge fall. del Tribunale dal novero dei soggetti che possono presentare istanza per la dichiarazione di fallimento, realizzata con il d. lgs. n. 5 del 2006, non aveva fatto seguito un coordinamento con il testo, rimasto immutato degli artt. 162 e 173 legge fall. Tali articoli prevedevano, infatti, che qualora la proposta di concordato fosse stata dichiarata inammissibile per difetto delle condizioni previste dal primo comma dell’art. 160 legge fall., ovvero, qualora quelle stesse condizioni fossero venute meno, il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare d’ufficio il fallimento del debitore.
La scelta singolare del Legislatore aveva determinato il sorgere di due correnti di pensiero, dottrina e giurisprudenza si divisero, infatti, tra chi sosteneva la permanenza in capo al Tribunale di questo storico potere, seppur solo nelle circostanze indicate dai suddetti articoli, e chi d’altro canto lo riteneva invece superato.
Prima di analizzare le argomentazioni che hanno sostenuto sia l’una che l’altra tesi, e di vedere come è stato risolto il problema con il nuovo intervento normativo, occorre osservare come già dalle prime pronunce giurisprudenziali in materia era emersa, tendenzialmente, la ritrosia dei giudici ad abbandonare lo strapotere ad essi riconosciuto dalla vecchia legge fallimentare, giustificato peraltro dalla passata concezione del fallimento e dalla connotazione pubblicistica dello stesso.
Con il progressivo sviluppo di un’economia di mercato è, tuttavia, mutato l’interesse posto alla base della gestione della crisi d’impresa: non più l’interesse pubblico – che si traduceva in un dirigismo eccessivo da parte dell’autorità giudiziaria nella gestione della crisi, e nella stigma sociale per il fallito – ma l’interesse privato, e in particolare, l’interesse privato dei creditori. Le nuove prospettive hanno portato, dunque, alla ribalta il principio di autonomia privata, aprendo così la strada ad una gestione privatistica della crisi d’impresa.
In tale ottica si giustificava già un interpretazione evolutiva delle norme che tenesse conto della necessarietà del superamento della dimensione pubblicistica nella quale le procedure concorsuali sono state finora inserite.3.
Nella vigenza della legge fallimentare come riformata dal d. lgs. n. 5 del 2006, due sono le correnti di pensiero sorte in relazione ai limiti di intervento del Tribunale per la dichiarazione del fallimento del debitore.
Ferma restando l’impossibilità per il Tribunale stesso di mettere in moto autonomamente la macchina giudiziaria, in ragione della modifica dell’art. 6 legge fall., in relazione alle ipotesi residuali, quelle cioè disciplinate dagli artt. 162 e 173 legge fall., per le quali il Legislatore ha omesso, in un primo momento per scelta o per errore di intervenire, i primi commentatori si sono divisi tra coloro che rimettono ancora al Tribunale tale potere e coloro che precludono all’autorità giudiziaria ogni possibilità di intervento che non sia richiesto.
Alla base del primo assunto vi è come argomentazione principale la mancata abrogazione degli articoli su indicati. Secondo i fautori di tale tesi, infatti, da un lato, se il legislatore avesse voluto precludere la dichiarazione d’ufficio del fallimento al Tribunale avrebbe eliminato il richiamo alla stessa non solo dall’art. 6 legge fall., ma anche dagli articoli relativi al concordato preventivo, e dall’altro si ricorda che l’abrogazione implicita di una norma è, rimedio residuale al quale si può ricorrere solo in caso di impossibilità di coordinamento ex art. 15 delle Preleggi. Si è, peraltro, osservato che neppure sarebbe corretto parlare di dichiarazione d’ufficio del fallimento in quanto il Tribunale è già investito della procedura a seguito dell’istanza di parte, che può sfociare in fallimento.
Alcuni Tribunali hanno persino utilizzato l’elemento della mancata abrogazione degli artt. 162 e 173 legge fall. per rafforzare la tesi della legittimità di un potere di controllo forte del giudice in sede di omologazione del concordato preventivo.
Secondo un’altra corrente di sostenitori del principio della dichiarazione d’ufficio del fallimento, il fondamento della teoria va ravvisato nel fatto che lo stato di crisi ricomprende anche lo stato di insolvenza. Il presupposto oggettivo della procedura di concordato preventivo è il medesimo di quello posto alla base della dichiarazione di fallimento e, dunque, con la domanda di concordato preventivo il debitore rappresenta una situazione suscettibile in astratto di configurare il presupposto oggettivo anche per la dichiarazione di fallimento. Ciò implicherebbe che, seppur la dichiarazione d’ufficio del fallimento in sede di concordato preventivo rappresenti la fase patologica della procedura concordataria, il Tribunale rilevata la sussistenza dei presupposti non potrebbe esimersi dal pronunciarla.
Le voci diverse dal coro, peraltro quasi unanime, sono quelle di quanti ritengono ormai tramontato il ruolo dirigista del Tribunale e il conseguente potere del Tribunale stesso di intervenire per far affiorare la crisi d’impresa. A sostegno delle ragioni di questi ultimi si pongono considerazioni diametralmente opposte a quelle fin qui esaminate, e dunque, quelle basate sull’avvenuta modifica dell’art. 6 e sulla circostanza che non necessariamente lo stato di crisi ricomprende lo stato di insolvenza.
Sulla base del primo rilievo si è sostenuto che l’eliminazione del Tribunale dal novero dei soggetti legittimati a chiedere il fallimento del debitore, così come indicato nel nuovo testo dell’art. 6 legge fall., prevale sul mantenimento in vita delle altre disposizioni che ammettono ancora la possibilità di un suo automatico intervento. Gli artt. 162 e 173 legge fall., nella parte in cui prevedono la possibilità per il tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento, non rappresentano altro che un retaggio di una concezione passata legata al diverso ruolo attribuito dalla legge del ’42 agli organi della procedura fallimentare, e dunque, devono considerarsi implicitamente abrogati.
Quanto al secondo rilievo, si è osservato che seppur l’ultimo comma dell’art. 160 legge fall. sancisce che per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza, non sempre un iniziale stato di crisi si traduce in una situazione di irreversibilità tale da giustificare il ricorso ad una procedura di tipo liquidatorio, è in tale ottica che si giustifica infatti il riconoscimento della possibilità di seguire una procedura alternativa che attribuisca un forte peso all’autonomia privata delle parti interessate e che miri a traghettare l’impresa verso la prosecuzione dell’attività aziendale, nonché verso una ripresa, senza mai determinarne l’uscita dal circuito economico. Analizzare il concetto di “crisi” in tal modo, implica per i sostenitori di questa seconda tesi, che non si può legittimare la possibilità per il Tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento del debitore facendo leva sul principio per cui tale dichiarazione trova giustificazione nel fatto che lo stato di crisi ricomprende lo stato di insolvenza.
Una soluzione intermedia, rispetto a quelle fin qui indicate, è stata presentata da quei commentatori secondo i quali il fallimento non può essere dichiarato d’ufficio dal Tribunale, pur tuttavia se sussiste lo stato di insolvenza, questo deve essere comunicato al P.M. perché proponga istanza di fallimento. E’ stato, infatti, osservato che l’eliminazione del fallimento d’ufficio non può non spiegare i suoi effetti anche nelle norme in tema di concordato preventivo , sicché il Tribunale, ove accerti la sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 162 e 173 legge fall., dovrà limitarsi a bloccare la procedura e a rigettare la domanda di concordato. Solo se il Tribunale accerta che l’imprenditore è in stato di insolvenza e non di mera crisi dovrà effettuare la segnalazione al pubblico ministero ai sensi dell’art. 7 comma 1° n. 2 legge fall.4.
L’analisi delle interpretazioni sopra riportate non può che proseguire con l’individuazione dei pro e dei contro conseguenti alla scelta dell’una piuttosto che dell’altra soluzione del problema.
Ammettere che il Tribunale possa dichiarare d’ufficio il fallimento nel caso in cui non sussistano le condizioni per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo o qualora queste vengano meno implicherebbe da un lato negare il mutato ruolo dell’autorità giudiziaria in favore dell’affermazione dell’autonomia privata nella gestione della crisi d’impresa, dall’altro però consentirebbe di superare quella che è stata considerata dai più una lacuna del sistema consistente nel problema di come gestire la crisi d’impresa nel momento in cui non possa darsi seguito alla procedura di concordato preventivo e non possa neppure aprirsi quella di fallimento.
Attribuire al Tribunale la possibilità di dichiarare il fallimento nei casi sopra ricordati, d’altro canto, determinerebbe l’effetto più devastante della riduzione del numero delle proposte di concordato preventivo in ragione del timore del debitore di anticipare la declaratoria di fallimento. La grande novità della Riforma, rappresentata appunto dal tentativo del potenziamento delle soluzioni concordate della crisi d’impresa nell’ottica di una gestione privatistica della stessa, sarebbe così vanificata. Senza poi contare che qualora il Tribunale si arrogasse il diritto di dichiarare d’ufficio il fallimento con lo stesso provvedimento che respinge la domanda di ammissione al concordato preventivo, sulla base di un’interpretazione forzata degli artt. 162 e 173 legge fall., ne potrebbe derivare una questione di legittimità costituzionale relativa a quegli stessi articoli per contrasto non solo con l’art. 6 legge fall., ma anche con l’art. 15 legge fall., il quale prevede la convocazione obbligatoria del debitore prima di essere dichiarato fallito.5.
Il problema di cui finora si è trattato, analizzando le correnti di pensiero sorte attorno allo stesso, è stato ormai risolto dallo schema di decreto correttivo che è stato approvato il 15 giugno dal Consiglio dei Ministri.
Il testo approvato prevede, infatti, che se all’esito del procedimento il Tribunale verifica che non ricorrono le condizioni di cui al primo e al secondo comma dell’art. 160 legge fall., dichiara il fallimento, seppur dopo aver dichiarato inammissibile la proposta di concordato preventivo e dopo aver accertato, su proposta del creditore o del pubblico ministero, la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 1 e 5 legge fall.
Ciò implica che il Tribunale non può arbitrariamente arrogarsi il potere di dichiarare il fallimento qualora non sussistano le condizioni per l’ammissione alla procedura di concordato, o analogamente secondo quanto disposto dall’art. 173 legge fall. qualora queste vengano meno, ma può legittimamente dichiararlo, in quanto a ciò autorizzato da una norma di legge, qualora vi sia l’istanza del creditore o del pubblico ministero. Viene affermata, dunque, l’esistenza in capo al Tribunale di un potere azionabile su istanza di parte, quale valvola di sicurezza del sistema a fronte di proposte di concordato inammissibili in quanto infondate e non assistite da effettive garanzie per i creditori destinate ad allungare soltanto i tempi di una dichiarazione di fallimento.
Tale scelta non può, tuttavia, essere pienamente condivisa, in quanto l’immediata conseguenza che ne discende è quella, come già detto, di scoraggiare l’imprenditore che versa anche in un semplice stato di crisi, pienamente recuperabile, e non in una situazione di insolvenza irreversibile, a privilegiare una soluzione concordataria della crisi stessa, in quanto spaventato dallo spettro del fallimento, nel quale potrebbe incorrere in caso di inammissibilità della proposta. Va peraltro considerato che non risulta ancora essere chiaro, nonostante il nuovo intervento normativo, il contenuto del potere dell’autorità giudiziaria. La formulazione della norma lascia, infatti, ancora spazio ad interpretazioni volte ad affermare l’esistenza in capo al Tribunale di un potere di controllo nel merito della proposta di concordato. In tal modo il Tribunale continuerebbe ad esercitare un potere invasivo, azionato, però, non nel momento in cui deve essere dichiarato il fallimento, ma in un momento anteriore, ovvero quello dell’ammissione alla procedura di concordato preventivo. La tematica, pur interessante, deve tuttavia essere rinviata ad altra sede.
Alla luce di questo nuovo intervento non rimane altro che attendere che lo schema di decreto prosegua il suo iter legis per vedere se subirà ulteriori modifiche sul punto.