il diritto commerciale d’oggi
     VI.2 – luglio-agosto 2007

STUDÎ & COMMENTI

 

FULVIO LO CICERO

La “riforma della riforma”:
il nuovo ambito di assoggettabilità alle procedure concorsuali

 

1. Le correzioni apportate alla riforma contenuta nel d. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5
   È oramai diventata una prassi del legislatore introdurre nel corpo di un testo legislativo complesso – quale indubbiamente risulta essere quello sulle procedure concorsuali – una norma che deleghi il Governo ad apportare la revisione del corpo normativo stesso entro un anno. Si tratta di una norma di garanzia del procedimento legislativo, in materie considerate delicate e soggette soprattutto al giudizio della “pratica”, cioè al giudizio di quegli operatori del diritto (soprattutto, giudici e professionisti) i quali sono la “cartina di tornasole” della equità ed efficacia di un modello normativo nel momento in cui esso si trasfonde nella prassi giurisdizionale.
   Anche la legge di delegazione legislativa per l’emanazione della riforma delle procedure concorsuali (comma 5-bis della legge n. 80 del 2005, aggiunto dall’articolo 1, comma 3, della legge 12 luglio 2006, n. 5) ha previsto che, entro un anno dalla data di entrata in vigore della riforma (16 luglio 2006) il Governo, nel rispetto dei principi e criteri direttivi già disposti dal legislatore, avesse la possibilità di emanare norme integrative e correttive delle disposizioni entrate in vigore.
   Tale possibilità è stata esercitata dall’attuale Esecutivo con delibera del 16 giugno scorso e la sua entrava in vigore è prevista per il 1° settembre.

2. L’ambito oggettivo di applicabilità delle procedure concorsuali
   Indubbiamente, l’aspetto più rilevante del nuovo decreto legislativo è quella che modifica significativamente l’ambito oggettivo di applicabilità delle procedure concorsuali.
   Ricordiamo che nel testo entrato in vigore nel 2006, il legislatore aveva operato una significativa riduzione dell’ambito di applicabilità delle procedure concorsuali, introducendo due parametri di riconducibilità delle norme al “soggetto imprenditore”, ma ancorando nuovamente tale ambito alla nozione – fra le più discusse in dottrina e in giurisprudenza – di “piccolo imprenditore”, così come statuita dal diritto comune (art. 2083 cod. civ.). Il risultato era stato quello di precisare meglio la nozione di “piccolo imprenditore” ai fini delle procedure concorsuali ma creando, inevitabilmente, un conflitto concettuale fra la nozione del diritto comune e quella del diritto speciale (di derivazione concorsuale). La conseguenza era che, per il diritto comune, si aveva una nozione di “piccolo imprenditore” (valida, tutt’al più, nell’ambito delle norme civilistiche in materia di tenuta di libri contabili ma già non più valida per le norme di origine fiscale e tributaria, che impongono comunque al piccolo imprenditore specifichi obblighi) e, per il diritto concorsuale, si aveva una nozione del tutto differente, legata a tipologie quantitative desunte dalla dottrina aziendalistica.
   Il modo più semplice per superare questo “empasse” era quello di eliminare, nelle procedure concorsuali, ogni riferimento alla categoria del “piccolo imprenditore” e creare ex novo una diversa tipologia dimensionale di soggetti imprenditori commerciali (rimanendo l’esclusione degli enti pubblici, categoria, peraltro, oggi giuridicamente assai controversa, data la perdurante assimilazione delle imprese pubbliche alle società per azioni) sottoposti al fallimento e al concordato preventivo.

3. I nuovi parametri dimensionali per l’assoggettabilità
   Il primo elemento di significativa novità che occorre mettere in evidenza è quello relativo al fatto che i parametri di tipo oggettivo per l’assoggettamento non debbono più presentarsi disgiuntamente. Nella precedente versione della riforma, sia il dato relativo agli investimenti, sia quello relativo ai ricavi medi lordi potevano sussistere disgiuntamente. In altri termini, perché un imprenditore ricadesse nell’area di assoggettabilità era sufficiente il superamento di uno dei due limiti dimensionali. Con l’attuale art. 1 della legge fallimentare, invece, i tre parametri di soglia che escludono l’assoggettabilità devono presentarsi congiuntamente. Il che evidentemente significa che anche il superamento di uno di essi comporta l’assoggettamento dell’imprenditore alle procedure concorsuali.
   Il secondo elemento significativo della riforma del 2007 è quello relativo alla quantificazione dei parametri di soglia. I parametri del 2006, sottoposti a integrazione normativa erano i seguenti:
   A) investimenti nell’azienda per un valore superiore a trecentomila euro;
   B) ricavi lordi medi (calcolati nei tre anni precedenti o comunque dall’inizio dell’attività) superiori alla soglia dei duecentomila euro.
   Di questi parametri, nel testo della riforma del 2007, è rimasto unicamente quello sub B), in quanto il parametro costituito dagli investimenti è stato sostituito da quello rappresentato dall’attivo patrimoniale, e se ne è aggiunto un altro, relativo all’indebitamento totale (che, secondo noi, deve essere considerato il vero elemento strategico della nuova legge fallimentare). Il legislatore ha dunque accolto le numerose critiche della dottrina aziendalistica, la quale aveva ravvisato nel primo parametro un indice del tutto inadeguato a ravvisare la dimensionalità attiva dell’azienda, in funzione della sua propensione al fallimento. Ma soprattutto si era sottolineato come il concetto stesso di “investimenti” fosse ambiguo e di difficile quantificazione. Anche se, in linea del tutto teorica, gli investimenti possono comunque fornire un’informazione abbastanza esaustiva sulle grandezze d’ordine impegnate dall’azienda (nella loro doppia veste di attività o impieghi circolanti e di attività o impieghi immobilizzati), tuttavia essi si prestano ad un’analisi troppo generica e non certo facile in sede giurisdizionale per decidere l’assoggettabilità o meno dell’imprenditore alle procedure concorsuali.
   I parametri introdotti dalla riforma del 2007 sono, invece, i seguenti:
   A) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;
   B) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;
   C) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.

4. L’attivo patrimoniale
   La ragione principale che ha orientato la scelta del legislatore su questo indicatore economico è il fatto che esso è definito in modo chiaro e preciso dalle stesse norme civilistiche in materia di bilancio. L’art. 2424 cod. civ., infatti, specifica quali siano le voci che compongono l’attivo dello stato patrimoniale. Dunque il riferimento che il tribunale deve considerare (in modo molto più semplice rispetto al precedente parametro degli investimenti) è il risultato dell’attivo dello stato patrimoniale complessivamente considerato. La norma prevede che in nessuno dei tre esercizi precedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento l’impresa debba aver superato la soglia dimensionale pari ad Euro trecentomila. Come si vede, non si fa più ricorso alla media dei tre anni precedenti e ciò traduce inevitabilmente una certa scarsa considerazione da parte del legislatore nei confronti delle medie aritmetiche in generale. Se tale scelta sia positiva o negativa è difficile asserirlo con sicurezza. Certamente, la media aritmetica elimina la possibilità che alcuni eventi temporanei, incidenti sul bilancio (e, in particolare, sullo stato patrimoniale), come, ad esempio, un determinato investimento pubblicitario effettuato straordinariamente in un dato anno per il lancio di un prodotto specifico (“immobilizzazioni immateriali”), possa influire in modo tale da rendere assoggettabile l’impresa al fallimento. Dato che la nuova legge dispone che le condizioni di non assoggettabilità devono presentarsi congiuntamente, il superamento anche di una soglia comporta l’assoggettabilità dell’impresa.

5. I ricavi lordi
   Da un punto economico generale, i ricavi lordi corrispondono alle vendite che l’azienda ha effettuato nel corso dell’esercizio, quindi al fatturato. Ora, bisogna tenere presente che, nello schema di conto economico entrato in vigore con l’introduzione della IV e della VII Direttive CEE, nella voce “Valore della produzione”, si usano distinguere i “Ricavi delle vendite e delle prestazioni” con “Altri ricavi e proventi”. Ai primi afferiscono le attività commerciali specifiche dell’impresa, quindi le vendite di beni e servizi che l’azienda svolge in modo abituale. Ai secondi afferiscono ulteriori ricavi, forniti da attività marginali (ma sovente non trascurabili) e comunque non caratterizzanti l’attività dell’impresa stessa, come, ad esempio, i “fitti attivi”, le “sopravvenienze attive” o “plusvalenze da cessioni di immobili”. È indubbio che ciò che rileva, ai fini dell’imputazione del parametro dimensionale di cui alla legge fallimentare, è il valore dei ricavi lordi totali risultanti dal conto economico. Questi, per essere in linea con il criterio della non assoggettabilità, non devono superare in ciascun anno, nei tre esercizi precedenti, la soglia dei duecentomila euro lordi. Quindi, anche in questo caso, come nel precedente, lo “sforamento” della soglia anche per un solo esercizio, comporta il superamento complessivo del limite di assoggettabilità.
   L’indice rappresentato dai ricavi lordi deve essere messo a confronto con gli altri indicati dalla legge, cioè l’attivo patrimoniale e l’indebitamento complessivo, perché è proprio questa la logica che sembra sottostare all’intervento riformatore, giusta il fatto che i parametri-soglia devono coesistere per consentire l’assoggettabilità. E dunque, se da un lato, rileva l’attivo patrimoniale, inteso quale dimensione positiva dell’impresa nel suo complesso, dall’altro rileva il valore economico della produzione nei suoi elementi caratterizzanti, cioè i ricavi lordi.

6. L’indebitamento quale indice della dimensione economica dell’impresa e non quale indice di un suo stato di crisi
   Nella logica riformista del legislatore del 2007, l’indebitamento è senza dubbio un parametro da prendere in considerazione per stabilire l’assoggettabilità dell’imprenditore al fallimento. Il limite di soglia in questo caso è di cinquecentomila euro e si devono prendere in considerazione sia i debiti scaduti sia quelli non ancora scaduti.
   Ora, è necessario considerare il fatto che l’indebitamento, preso come valore assoluto, non esprime un significato del tutto congruo, almeno dal punto di vista della tecnica analitica di bilancio. È pur vero che non si può chiedere al legislatore di scrivere saggi di economia aziendale, ma è difficile non rilevare che, almeno in questo caso, il collegamento concettuale operato ad un ipotetico “indebitamento” – in relazione al quale si dovrebbe stabilire oggettivamente una delle soglie che determinano lo stato di crisi dell’impresa e, quindi, il suo assoggettamento al fallimento e al concordato preventivo – senza tenere conto che questo valore grezzo ha scarsa significatività ove considerato isolatamente, appare perlomeno superficiale.
Un indebitamento pari a cinquecentomila euro per un’impresa può prefigurare due situazioni di ordine opposto:
   A) l’impresa è in sofferenza finanziaria, dato che l’apporto di capitali di terzi (ad esempio, di banche) è predominante rispetto a quello di mezzi propri (capitali) o del patrimonio stesso dell’azienda;
   B) l’impresa, pur presentando un indebitamento complessivo non trascurabile, non è affatto in sofferenza, perché l’apporto di capitali di terzi è ampiamente garantito da un buon rapporto con il capitale proprio (c.d. leverage) e con il patrimonio aziendale nel suo complesso; l’indebitamento, in questo, caso può derivare da decisioni strategiche in ordine alla necessità di operare determinati investimenti per espandere la produzione e cercare maggiori economie di scala, magari su mercati internazionali, dove si registrano significativi aggiustamenti ( al ribasso) del costo della manodopera per unità di prodotto.
   Il ricorso al parametro dell’indebitamento è dunque interpretabile non nel senso della tecnica economico-aziendale ma genericamente nel senso che il legislatore ha fornito a questo parametro, unitamente a quello rappresentato dall’”attivo patrimoniale” e dai “ricavi lordi” nei tre esercizi precedenti, il significato di “soglia”, di tipo dimensionale, oltre la quale l’impresa non può considerarsi “piccola”- anche in ordine ai rapporti economici che ha intrapreso con svariati soggetti – e dunque può essere assoggettata al fallimento.
   Il nodo della crisi dell’impresa permane dunque, per intero, su quanto disposto dall’art. 5 legge fall.,e cioè sul concetto di “insolvenza”, definito dal legislatore quale fenomeno che si manifesta «con inadempimenti o con altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni». Ma sul concetto di insolvenza così tradizionalmente seguito dal legislatore, le interpretazioni critiche della dottrina sono oramai numerose e non è ovviamente questa la sede per poter approfondire l’argomento (vedi la lucida analisi di tale complessa problematica compiuta da D. Galletti,, La ripartizione del rischio di insolvenza, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 176 ss.).

8. L’imprenditore collettivo
   La precedente versione della riforma aveva risolto la risalente questione se potesse ravvisarsi, nel nostro ordinamento, una nozione, giuridicamente protetta, di “piccola società commerciale”, assimilabile a quella di “piccolo imprenditore” e quindi non assoggettabile alle procedure concorsuali. La giurisprudenza aveva ritenuto, fino a quel momento, non giuridicamente qualificabile tale nozione. Conseguentemente, il legislatore del 2006, persistendo l’ancoraggio normativo al concetto di “piccolo imprenditore”, aveva risolto la questione disponendo che (art. 1, comma 2) «non sono piccoli imprenditori gli esercenti un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che (…)», ammettendo, dunque, l’esistenza della nozione anzidetta. Ora, essendo stato abolito del tutto il riferimento al piccolo imprenditore, il legislatore ha ritenuto superflua la specificazione sull’assoggettabilità al fallimento dell’imprenditore individuale o collettivo. Conseguentemente, si deve interpretare la norma nel senso che, a prescindere dalla forma giuridica attraverso la quale è esercitata l’impresa, quest’ultima è assoggettata al fallimento qualora superi le soglie dimensionali che abbiamo analizzato in precedenza, e, ovviamente, svolga un’attività commerciale secondo il disposto dell’art. 1195 cod. civ.
   Una volta definite le soglie attraverso le quali considerare l’impatto sociale ed economico dell’attività di impresa – e, dunque, il rischio imprenditoriale che si manifesta verso i soggetti esterni all’impresa stessa – non rileva, ai fini delle procedure concorsuali, se l’impresa sia esercitata a titolo individuale o collettivo. La scelta ci sembra razionale e logica, perlomeno quanto risultava illogica la decisione giurisprudenziale che sottoponeva sempre e comunque la società commerciale alle procedure concorsuali, a prescindere dalla sua dimensione e dall’impatto sociale che il suo dissesto era in grado di produrre.
   Un’ultima considerazione può essere formulata. I nuovi limiti per l’assoggettabilità tenderanno a restringere o ad espandere il numero delle imprese sottoposte a procedura concorsuale? Considerando che la struttura media delle imprese commerciali italiane è assai piccola, la riforma del 2007 probabilmente produrrà un significativo restringimento del numero di quelle assoggettabili.

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