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V.7-8 – luglio-agosto 2006 |
GIURISPRUDENZA
CORTE DI CASSAZIONE, V sez. pen., 31 luglio 2006, n. 26943 – Calabrese Presidente – Nappi Estensore; imp. G. ed altri
XXXXXXXX XXXXX XXX
Nota >>
(Omissis)
Motivi della decisione. – 1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Brescia ha confermato la dichiarazione di colpevolezza di … (imputato) in ordine al delitto di abuso di informazioni privilegiate, contestatogli per avere comunicato a … (imputato 2) informazioni relative ai piani di ristrutturazione della C.M.I. s.p.a. all’interno del gruppo imprenditoriale Falck e al progetto di costituzione della Investimenti mobiliari Lombarda s.p.a. mediante scissione della suddetta C.M.I., con la cessione del pacchetto di controllo della nuova società alla G.P. Finanziaria s.p.a. e/o alla H.O.P.A. s.p.a., di cui … (imputato 1) era amministratore. Con la stessa sentenza la corte bresciana, pur prosciogliendo … (imputato 2) per sopravvenuta abolitio criminis e pur revocando la confisca disposta in primo grado, ha respinto la richiesta di restituzione dei titoli azionari sequestrati a … (imputato 2), … (imputato 3) e … (imputato 4), disponendone la trasmissione alla Consob per l’eventuale confisca in relazione all’illecito amministrativo di sua competenza.
Ricorrono per cassazione … (imputato 1), … (imputato 2), … (imputato 3) e … (imputato 4). La Consob è intervenuta con memoria ai sensi dell’art. 93 c.p.p.
2. I … (imputati 2-4) censurano la decisione relativa al mantenimento del sequestro delle azioni di loro proprietà, lamentando l’esercizio da parte dei giudici del merito di un potere riservato dalla legge a un organo amministrativo, vale a dire alla Consob, competente a irrogare le sanzioni amministrative comminate per gli illeciti depenalizzati, e la violazione dell’art. 323 comma 1 c.p.p., che impone la restituzione delle cose sequestrate quando venga pronunciata sentenza di proscioglimento cui non segua la confisca. Aggiungono che l’art. 20 della legge n. 689 del 1981, cui la corte d’appello ha fatto riferimento, non è applicabile quando, come nel caso in esame, il giudice penale non sia competente a conoscere per connessione anche dell’illecito amministrativo cui possa conseguire il provvedimento di confisca.
… (imputato 1) propone sei motivi d’impugnazione.
Con il primo motivo il ricorrente ripropone l’eccezione di nullità del decreto di citazione a giudizio, per indeterminatezza dell’accusa, e conseguentemente dell’intero giudizio di merito. Rileva che nel decreto di citazione a giudizio notificatogli non risultava enunciata l’imputazione contestata a … (imputato 2), cui pure rinviava l’imputazione a lui contestata; sicché risultava incompleta la contestazione del fatto. E aggiunge che l’indeterminatezza della contestazione risulta vieppiù dalla mancata indicazione del luogo e del tempo della pretesa rivelazione indebita, posto che, come riconoscono gli stessi giudici del merito, l’effettivo significato dell’addebito si sarebbe potuto desumere solo dalle indicazioni di contesto enunciate nella sola imputazione contestata a … (imputato 2), risultando errata la qualificazione del reato contestato come reato di evento anziché di mera condotta.
Con il secondo motivo il ricorrente ripropone una questione di legittimità costituzionale del d. lgs. n. 58 del 1998, già sollevata dalla corte bresciana in relazione all’entità della pena comminata in ritenuta violazione della legge delega, e lamenta che i giudici del merito non abbiano ottemperato all’ordinanza con la quale la Corte costituzionale aveva loro demandato una riconsiderazione della rilevanza della questione in seguito alla sopravvenuta legge n. 62 del 2005, modificativa del decreto. Deduce che erroneamente i giudici del merito hanno ritenuto irrilevante la questione in ragione della sanzione in concreto irrogata, contenuta entro i limiti della previgente legge n. 157 del 1991, che si assume illegittimamente modificata dal d. lgs. n. 58 del 1998. Infatti la pena in concreto applicabile risulta determinata sulla base della cornice edittale che gli stessi giudici del merito riconoscono illegittimamente modificata dal d. lgs. n. 58 del 1998.
Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 2 c.p., lamentando che erroneamente i giudici del merito abbiano ritenuto applicabile anche al fatto già contestatogli la nuova fattispecie criminosa introdotta dalla legge n. 62 del 2005 in sostituzione di quella prevista in precedenza dal d. lgs. n. 58 del 1998. Sostiene che la fattispecie illecita attualmente prevista dall’art. 184 del d. lgs. n. 58 del 1998, sostituito dalla legge n. 62 del 2005, si differenzia da quella prevista in precedenza dall’art. 180 dello stesso decreto per i soggetti attivi, per le condotte tipiche, per l’oggetto materiale del reato. Sicché non v’è continuità normativa tra le due fattispecie succedutesi e la nuova fattispecie non è applicabile ai fatti commessi in precedenza. E se una continuità normativa si voglia nondimeno riconoscere, essa dovrebbe essere limitata a una parte soltanto della fattispecie precedente, perché la nuova fattispecie prevede come punibile solo la condotta di chi abbia un ruolo all’interno della società emittente dei titoli cui l’informazione privilegiata si riferisce. Sicché egli, essendo estraneo alla società emittente dei titoli cui l’informazione si riferiva, si trova nella stessa posizione di … (imputato 2), che per questa stessa ragione è stato prosciolto dalla corte d’appello.
Con il quarto motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 180 comma 1 lettera b) d. lgs. n. 58 del 1998 e dell’art. 192 c.p.p., vizi di motivazione della decisione impugnata in ordine all’effettiva sua comunicazione a … (imputato 2) delle informazioni controverse.
Con il quinto motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 180 comma 1 lettera b) d. lgs. n. 58 del 1998 e delle norme anche costituzionali in tema di prova, vizi di motivazione della sentenza impugnata in ordine all’elemento psicologico del reato contestato.
Con il sesto motivo infine il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena.
3. Risulta preliminare l’esame dei motivi del ricorso proposto da … (imputato 1).
3.1 – Il primo motivo è manifestamente infondato, perché nell’imputazione elevata a carico del ricorrente risultano enunciati tutti gli elementi necessari e sufficienti a identificare con precisione l’addebito mossogli: la sua qualità di amministratore delle società H.O.P.A. e G.P. Finanziaria e la comunicazione a … (imputato 2) di informazioni privilegiate riguardanti l’imminente trasferimento di un ramo di azienda del gruppo Falck alle società da lui rappresentate, con abuso perciò di questo suo ruolo. Erano pertanto superflui i reciproci richiami contenuti nelle imputazioni rispettivamente contestate a … (imputato 2) ed … (imputato 1), avendo tali richiami solo la finalità di enfatizzare la duplicità di prospettive in cui una stessa vicenda finanziaria assumeva rilievo penale. Né ha alcuna rilevanza nel contesto di tali imputazioni la mancata indicazione del luogo e del tempo della comunicazione incriminata, perché ciò che rileva sul piano cronologico è il fatto, specificamente contestato, dell’intervento della comunicazione prima che l’informazione comunicata fosse divenuta di pubblica conoscenza.
3.2 – Il secondo motivo del ricorso è inammissibile per mancanza di interesse.
La personalizzazione della responsabilità penale impone infatti di rinunciare a una predeterminazione rigida della misura della pena e di affidare al giudice un ambito di valutazioni discrezionali, che rendano possibile l’adeguamento della pena alle esigenze del caso concreto, non integralmente predeterminabili in astratto. Sicché il legislatore deve individuare in astratto il tipo di pena irrogabile per un determinato reato; e deve fissare per la sua commisurazione limiti quantitativi minimi e massimi. Ma spetta poi inevitabilmente al giudice la determinazione della misura della pena in concreto adeguata, secondo quanto appunto prevede l’art. 132 comma 1 c.p., laddove stabilisce che «nei limiti fissati dalla legge, il giudice applica la pena discrezionalmente», sebbene richiedendo al giudice anche di indicare i motivi che giustificano l’esercizio del suo potere discrezionale, con riferimento agli elementi della gravità del reato e della capacità a delinquere del colpevole, di cui l’art. 133 gli prescrive di tener conto. Sicché sono la gravità del fatto e la capacità a delinquere del colpevole i criteri di effettiva determinazione della pena, mentre i limiti esterni fissati dal legislatore intervengono solo a contenere nel minimo o nel massimo, ed ex post, le valutazioni del giudice.
Contrariamente a quanto il ricorrente deduce, quindi, la cornice edittale opera solo quale limite, non quale criterio di determinazione della pena. E quindi, nel caso in esame, essendo stata determinata la pena in una misura compatibile con i limiti esterni, minimi e massimi, che risulterebbero dall’accoglimento dell’eccezione di illegittimità costituzionale del d. lgs. n. 58 del 1998, ne consegue che la questione di costituzionalità è irrilevante e che il motivo di ricorso è inammissibile.
3.3 – Il terzo motivo del ricorso è infondato in entrambi i suoi profili.
Tra la fattispecie prevista dal testo originario dell’art. 180 d. lgs. n. 58 del 1998 e la fattispecie prevista dall’art. 184 dello stesso decreto, così come modificata dalla legge n. 62 del 2005, v’è infatti un rapporto di specialità: una specialità per specificazione quanto ai soggetti attivi, che risultano ora qualificati da un ruolo determinato, e una specialità per aggiunta quanto alle condotte, più dettagliatamente descritte nella nuova fattispecie.
Tuttavia, essendo irrilevante ai fini dell’art. 2 comma 3 c.p. la specificazione relativa ai soggetti, risulta evidentemente prevalente, quanto alle condotte, il significato lesivo dell’elemento comune e tipico in entrambe le fattispecie, vale a dire l’abuso di informazioni privilegiate, piuttosto che gli elementi aggiuntivi introdotti nella nuova fattispecie. È infatti l’abuso delle informazioni privilegiate appunto il nucleo di disvalore del fatto; e questo nucleo è rimasto immutato. Sicché v’è certamente continuità nel tipo di illecito, come correttamente hanno ritenuto i giudici del mento; e chi aveva commesso nel vigore della precedente disciplina un fatto penalmente rilevante, ne risponderà comunque, se il fatto allora commesso risulti rilevante anche con la nuova disciplina sopravvenuta.
Quanto alla qualifica soggettiva del ricorrente, amministratore delle società H.O.P.A, e G.P. Finanziaria, correttamente i giudici del merito l’hanno ritenuta idonea a individuarlo come soggetto attivo anche della nuova fattispecie illecita.
Il nuovo art. 184 del d. lgs, n. 58 del 1998 prevede infatti che soggetto attivo del reato di abuso di informazioni privilegiate possa essere non solo chi abbia un ruolo all’interno della società emittente dei titoli cui le informazioni si riferiscono, ma anche chi sia in possesso di tali informazioni in ragione «dell’esercizio di un’attività lavorativa, di una professione o di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio». Ed è indiscusso che debba qualificarsi come ufficio privato il ruolo di amministratore delle società H.O.P.A. e G.P. Finanziaria, che sin dall’origine è stato contestato a … (imputato 1) quale ragione dell’imputazione elevata a suo carico. Come è indiscutibile che tale ruolo del ricorrente sia specificamente rilevante ai fini dell’imputazione di cui è chiamato a rispondere.
Considerata infatti l’autonomia soggettiva delle società di capitali, chi ne abbia l’amministrazione può trovarsi ad avere interessi personali contrastanti o comunque distinti da quelli della società, anche quando ne sia socio di maggioranza. Sicché commette un abuso chi, essendo in possesso di informazioni privilegiate in quanto amministratore della società, le utilizzi a scopo di profitto personale.
Secondo i giudici del merito è quanto è accaduto nel caso in esame, perché … (imputato 1), essendo al corrente delle trattative in corso tra il gruppo Falck e le società da lui amministrate, ha utilizzato queste informazioni per agevolare le speculazioni degli amici … (imputati 2-4) sui titoli del gruppo Falck. Né la condanna di … (imputato 1) è in contraddizione con l’assoluzione di … (imputato 2), appunto perché solo … (imputato 1), e non anche … (imputati 2), aveva il ruolo di amministratore delle società che avevano in corso trattative con il gruppo Falck.
3.4 – I rimanenti tre motivi del ricorso di … (imputato 1) sono inammissibili, perché propongono censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata con riferimento a una plausibile ricostruzione dei fatti come manifestazione di un’attività speculativa condotta da … (imputato 1) in proprio e in comunanza di interessi con i … (imputati 2-4), approfittando delle informazioni di cui disponeva quale amministratore delle società contraenti del gruppo Falck. Tale ricostruzione, che si fonda su una ragionevole valutazione delle prove desumibili da testimonianze (in particolare Agarini e Falck) legittimamente acquisite, non è infatti censurabile nel giudizio di legittimità, come non sono censurabili le valutazioni espresse dai giudici del merito circa la gravità del fatto, quale criterio di determinazione della pena in sei mesi di reclusione e in €. 120.000 di multa, certamente più vicina ai minimi che ai massimi edittali, ulteriormente ridotta poi di un terzo per le attenuanti generiche e sostituita, guanto alla pena detentiva, con una sanzione pecuniaria di €. 4.560.
In realtà, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con «i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento», secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass., sez. V, 30 novembre 1999, Moro, m. 215745, Cass., sez. II, 21 dicembre 1993, Modesto, m. 196955). Secondo la comune interpretazione giurisprudenziale, del resto, l’art. 606 c.p.p. non consente alla Corte di cassazione una diversa lettura dei dati processuali (Cass., sez. VI, 30 novembre 1994, Baldi, m. 200842; Cass., sez. I, 27 luglio 1995, Chiadò, m. 202228) o una diversa interpretazione delle prove (Cass., sez. I, 5 novembre 1993, Molino, m. 196353, Cass., sez. un., 27 settembre 1995, Mannino, m. 202903), perché è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati probatori; e l’art. 606 lettera e) c.p.p., quando esige che il vizio della motivazione risulti dal testo dal provvedimento impugnato, si limita a fornire solo una corretta definizione del controllo di legittimità sul vizio di motivazione. Né questa interpretazione può risultare superata in ragione della modifica apportata all’art. 606 comma 1, lettera e, c.p.p., dall’art. 8 l. 20 febbraio 2006, n. 46, con la previsione che il vizio di motivazione può essere dedotto quando risulti non solo dal testo del provvedimento impugnato ma anche «da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame». Questo riferimento va evidentemente interpretato in un senso che non privi di qualsiasi significato il limite della con testualità imposto dalla stessa disposizione; e quindi va interpretato come relativo solo agli atti dai quali derivi un obbligo di pronuncia che si assuma violato dal giudice del merito, come ad esempio la richiesta di una circostanza attenuante o della sostituzione della pena detentiva. Infatti, se il vizio di motivazione deve risultare dal testo della decisione impugnata, come tradizionalmente si riconosce anche quando si attribuisce in via esclusiva al giudice del merito la selezione delle prove, questa selezione non può essere censurata neppure se il ricorso risulti effettivamente autosufficiente, perché il divieto di accesso agli atti istruttori è la conseguenza di un limite posto all’ambito di cognizione della Corte di cassazione, non ha una funzione solo “logistica”, che possa essere soddisfatta mediante la
trascrizione dei verbali di prova nel ricorso.
Non c’è nessuna prova, in realtà, che abbia un significato isolato, slegato, disancorato dal contesto in cui è inserita. Può accadere che una prova abbia un significato determinante; ma per poter stabilire se una prova non considerata dal giudice del merito abbia effettivamente un significato probatorio pregnante, occorre comunque una valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio disponibile.
Sicché, il significato delle prove lo deve stabilire il giudice del merito, non lo può definire il giudice di legittimità sulla base della lettura necessariamente parziale suggeritagli dal ricorso per cassazione.
4. I ricorsi dei fratelli … (imputati 2-4) sono infondati.
Nella giurisprudenza di questa Corte è invero ricorrente l’affermazione che nel prosciogliere l’imputato da un’ipotesi di reato depenalizzata il giudice non può ordinare la restituzione delle cose in sequestro, ma deve trasmettere gli atti all’ufficio amministrativo competente perché provveda all’applicazione della sanzione e della confisca amministrativa (Cass., sez. III, 28 marzo 1996, Faye, m. 205447, Cass., sez. III, 6 febbraio 1995, Kane Malik, m. 201577).
Questa affermazione viene di solito giustificata con riferimento alle disposizioni transitorie delle varie leggi di depenalizzazione succedutesi nel tempo, che hanno per lo più previsto l’obbligo del giudice di trasmettere alle autorità competenti gli atti relativi alle ipotesi di reato trasformate in illeciti amministrativi. Tuttavia quest’obbligo di rapporto non giustificherebbe di per sé il mantenimento del sequestro. La facoltà del giudice di disporre il mantenimento del sequestro già esistente fu previsto esplicitamente solo dall’art. 1 comma 3 della legge 21 ottobre 1988, n. 455, di depenalizzazione degli illeciti valutari (Cass., sez. II, 27 settembre 1989, Breiner, in. 182295). E deve ritenersi che in realtà sia in applicazione analogica di questa disposizione che la giurisprudenza successiva ha riconosciuto al giudice il potere di disporre il mantenimento del sequestro anche in relazione ad altri illeciti depenalizzati.
La legge 18 aprile 2005, n. 62, nel depenalizzare parzialmente il reato di abuso di informazioni privilegiate, ha aggiunto al d. lgs. n. 231 del 2001 un art. 25 sexies, il cui comma 6 prevede che «l’autorità giudiziaria, in relazione ai procedimenti penali per le violazioni non costituenti più reato, pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, se non deve pronunciare decreto di archiviazione o sentenza di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto, dispone la trasmissione degli atti alla CONSOB». Anche questa legge, come altre leggi di depenalizzazione, tende dunque ad assicurare una qualche continuità tra il procedimento penale e il procedimento amministrativo di accertamento degli illeciti depenalizzati. E questa ratio di continuità giustifica l’applicazione analogica dell’art. 1 comma 3 della legge 21 ottobre 1988, n. 455, con la conseguente legittimità del mantenimento del sequestro.
(Omissis)La sentenza, in particolare, affronta il tema della continuità normativa tra la precedente fattispecie di insider trading e la nuova fattispecie prevista dalla Legge Comunitaria. Secondo la Corte tra la fattispecie prevista dal testo originario dell’art. 180 d.lgs. n. 58 del 1998 e la fattispecie prevista dall’art. 184 dello stesso decreto, così come modificata dalla legge n. 62 del 2005, v’è infatti un rapporto di specialità: una specialità per specificazione quanto ai soggetti attivi, che risultano ora qualificati da un ruolo determinato, e una specialità per aggiunta quanto alle condotte, più dettagliatamente descritte nella nuova fattispecie.
Tuttavia, essendo irrilevante ai fini dell’art. 2 comma 3 c.p. la specificazione relativa ai soggetti, risulta evidentemente prevalente, quanto alle condotte, il significato lesivo dell’elemento comune e tipico in entrambe le fattispecie, vale a dire l’abuso di informazioni privilegiate, piuttosto che gli elementi aggiuntivi introdotti nella nuova fattispecie. E’ infatti l’abuso delle informazioni privilegiate appunto il nucleo di disvalore del fatto; e questo nucleo è rimasto immutato. Sicché v’è certamente continuità nel tipo di illecito, come correttamente hanno ritenuto i giudici del merito; e chi aveva commesso nel vigore della precedente disciplina un fatto penalmente rilevante, ne risponderà comunque, se il fatto allora commesso risulti rilevante anche con la nuova disciplina sopravvenuta.
La Corte ha analizzato la qualifica soggettiva del ricorrente Gnutti, amministratore delle società H.O.P.A, e G.P. Finanziaria. Come nel giudizio di merito la Corte ritiene che la qualifica sia idonea a individuarlo come soggetto attivo anche della nuova fattispecie illecita. Secondo la ricostruzione svolta nella sentenza Gnutti ha posto in essere attività speculativa in proprio ed in comunanza di interessi con i Lonati, approfittando delle informazioni di cui disponeva quale amministratore delle società contraenti del gruppo Falck.
Secondo la ricostruzione della Corte il nuovo art. 184 del d.lgs, n. 58 del 1998 prevede infatti che soggetto attivo del reato di abuso di informazioni privilegiate possa essere non solo chi abbia un ruolo all’interno della società emittente dei titoli cui le informazioni si riferiscono, ma anche chi sia in possesso di tali informazioni in ragione «dell’esercizio di un’attività lavorativa, di una professione o di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio». Ed è indiscusso che debba qualificarsi come ufficio privato il ruolo di amministratore delle società H.O.P.A. e G.P. Finanziaria, che sin dall’origine è stato contestato a Emilio Gnutti quale ragione dell’imputazione elevata a suo carico. Come è indiscutibile che tale ruolo del ricorrente sia specificamente rilevante ai fini dell’imputazione di cui è chiamato a rispondere. Considerata infatti l’autonomia soggettiva delle società di capitali, chi ne abbia l’amministrazione può trovarsi ad avere interessi personali contrastanti o comunque distinti da quelli della società, anche quando ne sia socio di maggioranza. Sicché commette un abuso chi, essendo in possesso di informazioni privilegiate in quanto amministratore della società, le utilizzi a scopo di profitto personale. Secondo i giudici del merito è quanto è accaduto nel caso in esame, perché Emilio Gnutti, essendo al corrente delle trattative in corso tra il gruppo Falck e le società da lui amministrate, ha utilizzato queste informazioni per agevolare le speculazioni degli amici Lonati sui titoli del gruppo Falck. Né la condanna di Emilio Gnutti è in contraddizione con l’assoluzione di Ettore Lonati, appunto perché solo Gnutti, e non anche Lonati, aveva il ruolo di amministratore delle società che avevano in corso trattative con il gruppo Falck.
Nel respingere il ricorso dei Lonati (contro la sentenza di secondo grado con la quale era stata respinta la richiesta di restituzione dei titoli azionari sequestrati) la Cassazione dispone la trasmissione alla Consob degli atti in ragione dell’art. 25 sexies della Legge Comunitaria. La Corte ricorda infatti che la legge 18 aprile 2005, n. 62, nel depenalizzare parzialmente il reato di abuso di informazioni privilegiate, ha aggiunto al d. lgs. n. 231 del 2001 l’art. 25 sexies, il cui comma 6 prevede che «l’autorità giudiziaria, in relazione ai procedimenti penali per le violazioni non costituenti più reato, pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, se non deve pronunciare decreto di archiviazione o sentenza di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto, dispone la trasmissione degli atti alla CONSOB». Secondo la Corte questa legge, come altre leggi di depenalizzazione, «tende dunque ad assicurare una qualche continuità tra il procedimento penale e il procedimento amministrativo di accertamento degli illeciti depenalizzati. E questa ratio di continuità giustifica l’applicazione analogica dell’art. 1 comma 3 della legge 21 ottobre 1988, n. 455, con la conseguente legittimità del mantenimento del sequestro».