il diritto commerciale d’oggi
    V.7-8 – luglio-agosto 2006

STUDÎ & COMMENTI

 

ANTONIO GIOVANNONI

La causa del contratto fra nozione codicistica e prassi negoziale

 

Sommario: 1. I termini del problema – 2. Dottrine tradizionali e innovative sulla causa del contratto – 3. La causa come funzione economica del contratto – 4. Critica alla concezione tradizionale della causa e l’individuazione della “causa concreta” – 5. Il caso deciso dai giudici del Supremo Collegio.

 

   1. I termini del problema
    Con la sentenza qui commentata della Cassazione (8 maggio 2006, n. 10490) si consolida nella giurisprudenza di legittimità un preciso indirizzo di pensiero inteso ad accantonare definitivamente la “vecchia” (ancora ben presente) concezione della causa contrattuale, accolta nel codice del 1942.
   Secondo i giudici di Cassazione, infatti, la causa del contratto, statuita dal codice all’art. 1325 quale uno degli elementi fondamentali del contratto, non può più essere concepita come “ragione economico-sociale” del negozio, sul presupposto, scrivono, della oramai irreparabile «obsolescenza della matrice ideologica che configura la causa del contratto come strumento di controllo della sua utilità sociale» in base alla quale si inserisce la causa negoziale stessa in un “modello predeterminato” e astrattamente “tipico”. Questa concezione della causa negoziale, peraltro, non riesce in alcun modo a conciliare il fatto che un contratto tipizzato (ad es., la vendita, il mutuo, lo sconto bancario, ecc.) possa presentarsi con una causa illecita. Se, infatti, la tipizzazione negoziale significa essenzialmente predeterminare una “causa conforme” e uguale per tutti quei “tipi contrattuali”, come è possibile, in termini logici ed ermeneutici, ipotizzare per questi contratti una illiceità causale?
   Ed è per questo che, ad avviso dei giudici di legittimità, che si richiamano peraltro ad altri arresti giurisprudenziali, è necessario prospettare un’altra concezione della causa contrattuale, in riferimento alle ragioni concrete per quel tipo di contratto, svincolando in questo modo, almeno in parte, l’interpretazione del negozio dal “tipo” entro il quale esso può essere classificato. Ciò ovviamente non vuol dire sovvertire gli enunciati tassonomici del codice, né, tantomeno, rinunciare ad un modello negoziale duale (contratto nominato-innominato) ma, più efficacemente, sottolineare come la concezione della “causa concreta” debba essere interpretata come «sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale (…) e non anche della volontà delle parti». Quindi una causa «ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto ma, questa volta, funzione individuale del singolo specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto». Tale concezione sarebbe coerente con la stessa dinamica evolutiva del diritto dei contratti e quindi seguirebbe «un iter evolutivo della funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi di contrattuali, si volga alfine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale».

2. Dottrine tradizionali e innovative sulla causa del contratto
   Le motivazioni dei giudici di legittimità in accoglimento di una diversa concezione della causa negoziale si richiamano ad un indirizzo di pensiero dottrinale che, in realtà, risale perlomeno alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso (1).
   Tali elaborazioni si erano incentrate su una serrata critica all’astrattezza della teoria causale tradizionale, accolta dal codice e sistematizzata sul piano ermeneutica da un’autorevole dottrina, che ne aveva fissato i termini essenziali di riferimento (2). In realtà tale ultima elaborazione era frutto anch’essa di varie concezioni della causa che, provenendo dalla scuola pandettistica (3), si erano dissolte in numerose formulazioni, allontanandosi in tal modo da una visione unitaria di questo elemento. Soprattutto per opera dei grandi giuristi francesi, quali in particolar modo il Domat e il Capitant, aveva prevalso la cosiddetta “teoria soggettiva” secondo la quale la “causa” del negozio doveva rintracciarsi nel “motivo ultimo” che aveva spinto il contraente a concludere l’atto giuridico (4). Più precisamente, la causa si distinguerebbe «per essere il motivo ultimo, che risulta costante in ciascun tipo di contratto giacché nella serie delle rappresentazioni psichiche che precedono ogni dichiarazione di volontà è sempre possibile distinguere l’ultima, che funziona come motivo determinante dell’azione, da tutte quelle che la precedono» (5).
   La teoria soggettivistica della causa si diffuse in Europa e fu accolta dal primo codice civile unitario italiano del 1865. Ma essa, nonostante l’indubbia sapienza del Domat (6) nel riordinare e rielaborare la tradizione romanistica del diritto privato, finiva per disarticolare una visione scientifica della causa negoziale, non distinguendo gli aspetti prettamente psicologici della volontà negoziale da quelli “oggettivi” sui quali si fonda realmente la moderna economia dello scambio (7).
   È in quest’ultimo senso che un’altra autorevole dottrina, il Pothier, ritenne che la causa, invece, dovesse ravvisarsi in senso oggettivo, quale fondamento di ogni singola attribuzione derivante dal contratto (8). Il problema principale di questa ultima impostazione era data dal fatto che tendeva ad un’atomizzazione della causa, anche se la sua recezione nel Code civil (art. 1311) aveva segnato una «tappa importante nella storia normativa della causa perché stava a significare il riconoscimento che non basta obbligarsi ma occorre che l’impegno abbia una sua adeguata giustificazione» (9). Bisogna però sottolineare che fra la teoria soggettivistica e quella oggettivistica della causa i confini risultavano più tenui di quanto potesse pensarsi, in quanto «quale motivo ultimo della parte, la causa viene infatti a cadere normalmente sulla stessa entità indicata come fondamento oggettivo del negozio. La differenza sembra allora ridursi a due diverse visuali del medesimo fenomeno: per la teoria soggettiva tale fattore rileva come contenuto della raffigurazione psichica della parte, e cioè quale ragione determinante della sua volontà; per la tesi oggettiva come requisito che incide sulla giustificazione obiettiva dell’obbligazione» (10).
   In realtà, probabilmente il principale limite di queste costruzioni dottrinali è consistito nello sforzarsi di delineare la causa come un elemento non problematico, risolvibile sul piano della comune ermeneutica, mentre la causa del negozio giuridico si pone su un piano concettuale complesso, che ha attinenza diretta con l’intero modo di concepire gli atti di autonomia privata, quindi una enorme mole di actiones con rilevanza giuridico-patrimoniale compiute dai soggetti che ben difficilmente possono rientrare in un modello astratto onnicomprensivo, nonostante la giusta preoccupazione delle codificazioni di produrre regole di natura generale e sovrastante (11).
   Ma è altrettanto indubbio che la concezione della causa quale elemento unificante varie tipologie negoziali, a volte del tutto differenti, derivi, ad un tempo, da una impostazione tradizionale di derivazione romanistica (12) che si inserisce nella valorizzazione degli atti di volizione compiuti dalla scuola pandettistica, dall’altro, dalle risultanze di quelle dottrine sociali del Novecento, secondo le quali l’ordinamento ha il dovere di operare un controllo oggettivo della libertà e autonomia negoziali, laddove essa può sconfinare in comportamenti socialmente riprovevoli (il riflesso è nelle stesse prescrizioni del codice, quando si fa derivare l’illiceità della causa dalla contrarietà all’ordine pubblico e al buon costume) (13).

3. La causa come funzione economica del contratto
   Nella Relazione al codice civile il legislatore ha chiaramente indicato quale debba essere l’interpretazione della causa, dato che essa viene inserita negli elementi fondamentali del contratto. Secondo il legislatore del 1942 la causa è «la funzione economico-sociale che il diritto riconosce ai suoi fini e che solo giustifica la tutela dell’autonomia privata». La causa non solo deve essere conforme ai precetti di legge, all’ordine pubblico e al buon costume ma deve anche rispondere «alla necessità che il fine intrinseco del contratto sia socialmente apprezzabile e come tale meritevole della tutela giuridica» (14).
   Questa impostazione è stata accolta in dottrina, anche in modo autorevole, in un significato essenzialmente sociale. Si spiega, così, che la causa deve necessariamente collegarsi al “tipo” individuato dal legislatore (c.d. “causa tipica”). In altri termini, la legge tiene conto «degli interessi che i vari intenti sono atti a realizzare e, secondo i casi, l’idoneità della volontà privata a produrre conseguenze, che l’ordinamento rende giuridiche, può essere stabilita o in relazione a funzioni determinate della volontà privata o genericamente in relazione a tutta una serie di funzioni possibili, purché si spieghino in un certo modo e in un certo ambito» (15). Ciò, porta, peraltro, parte della dottrina a ritenere che, nella causa, rinvengano sia un elemento oggettivo (la “realtà sociale”, proprio di quell’ambiente e di quel determinato contesto storico), sia un elemento soggettivo, «in quanto la volontà deve in concreto essere mossa da una causa, cioè tendere ad uno scopo, in conformità della legge» (16). Ma ciò, per taluni, non è sufficiente a definire la causa. Infatti, secondo altre autorevoli opinioni, la realtà sociale, nel suo dato meramente economico, si associa, nella causa, ad un “motivo ultimo”, anche se «distinto dai fattori propri, soggettivi, della concreta volizione»; in altri termini, la causa «può presentarsi anche come un ultimo elemento, costante, nella determinazione psicologica» (17).
Più nettamente, altri autori sottolineano l’essenza di «giustificazione economico-sociale dell’atto» che connoterebbe la causa quale elemento fondamentale del negozio giuridico e sottolineano come la causa concepita in questo modo possa spiegare benissimo anche la nullità del contratto tipico per mancanza di causa: ad esempio, il caso in cui l’acquirente compri un bene che è già di sua proprietà, ovvero il caso di una fideiussione nulla per inesistenza del debito garantito, ovvero ancora la nullità del contratto di assicurazione per assenza del rischio (18).
   In questo modo emerge un’altra caratteristica propria di questa concezione della causa: quella di “limite esterno” all’efficacia degli atti di autonomia privata. Dato che la causa deve essere concepita quale ragione giustificatrice (di tipo economico) che legittima l’utilizzazione non solo del “tipo” contrattuale ma anche del negozio atipico (o di negozi collegati o misti, tipici-atipici), essa funge anche da strumento di tutela delle ragioni deboli del contraente minore. Se, ad esempio, un soggetto è costretto a vendere un bene di alto valore economico senza corrispettivo e senza manifestare l’intento di liberalità, perfezionando un’attribuzione patrimoniale a favore di altro soggetto, l’ordinamento deve considerare tale atto nullo, perché nessun principio di razionalità economica giustifica l’efficacia di questo negozio (19).
   D’altronde, a giustificare tale prospettiva ermeneutica è la stessa dottrina che con più forza e con migliori argomentazioni ha teorizzato la concezione della causa quale funzione economico-sociale del contratto. Secondo questa dottrina, infatti, si deve parlare di causa nel senso di «interesse sociale oggettivo e socialmente controllabile, cui il regolamento contrattuale deve rispondere». Conseguentemente, la causa «è la funzione di interesse sociale dell’autonomia privata» (20). Risulta dunque evidente come questa interpretazione si accordi perfettamente con le intenzioni del legislatore del 1942, laddove quest’ultimo rimarca che la causa consente di verificare «se il risultato pratico che i soggetti si propongono di perseguire si ammesso dalla coscienza civile e politica, dall’economia nazionale, dal buon costume, dall’ordine pubblico» (21). In questo modo, l’esistenza della causa permette di considerare negativamente quei contratti finalizzati ad una gestione antieconomica o distruttiva di un bene, soggetto alla libera disposizione del proprietario «senza una ragione socialmente plausibile ma solo per soddisfare il capriccio o la vanità della controparte» (22).

4. Critica alla concezione tradizionale della causa e individuazione della “causa concreta”
   L’analisi tecnica della causa consente di interpretare le critiche condotte alla teoria della funzione economico-sociale tradizionale alla luce della sopravvenienza delle teorie liberistiche, incentrate sulla necessaria arbitrarietà di ogni intervento normativo sovraordinato inteso a limitare la libera determinabilità dell’autonomia negoziale. Più precisamente, si è obiettato che il tentativo di funzionalizzare la causa si risolve inevitabilmente in una compromissione del rapporto fra ordinamento e libertà individuale /23). Su un terreno più realistico ed estraneo ad una valutazione “ideologica” delle teoria causaliste, si pone quella dottrina secondo la quale il difetto di funzione o di utilità sociale di un contratto lo qualifica automaticamente illecito, senza per questo che sia necessaria una causa socializzante a demolirne l’efficacia (24).
   Ma, sul piano più strettamente giuridico, come in parte rileva la sentenza della Cassazione che ci ha offerto lo spunto per tale ricostruzione, sono due le obiezioni che paiono più convincenti circa la necessità di addivenire ad una teoria della causa maggiormente aderente alla realtà.
   La prima riguarda gli atti di liberalità. In effetti, nel modello tipico di impostazione della causa (sia in quello rigidamente predeterminato dalla Relazione, sia nelle dottrine più flessibili) si ha una qualche difficoltà a spiegare la causa degli atti donativi. Se la causa è la funzione economico-sociale che “giustifica” il complesso unitario delle prestazioni che ruotano intorno al contratto, in che modo si può inquadrare un atto che predispone un’attribuzione patrimoniale unilineare? Dal punto di vista dell’economia capitalistica, la donazione, in effetti, si pone come un’aporia del comportamento utilitaristico di un soggetto. Con il contratto di donazione, infatti, il donante attribuisce un’utilità economica ad un altro soggetto senza ricevere nulla in cambio. Secondo i canoni tradizionali della causa, non c’è ragione per cui un soggetto debba trasferire la proprietà di un bene ad un altro soggetto senza corrispettivo. Le difficoltà di inquadramento della donazione dal punto di vista causale hanno indotto la dottrina a suggerire due diverse prospettazioni della causa donandi. Secondo la prima di queste, la donazione «si distingue da tutti gli altri tipi di giustificazione causale e l’animus del disponente ne è l’elemento necessario e sufficiente» (25). La difficoltà sta nel fatto che l’intento liberale si connette inevitabilmente con l’intento individuale, cioè l’animus, che è tipica espressione del soggetto. Risulta dunque evidente che, nella donazione, la teoria oggettiva della causa lascia il posto alla teoria soggettiva. La dottrina cerca di risolvere questa difficoltà prospettano l’idea di un animus donandi di natura oggettiva, quale causa comune di tutti gli atti donativi. I motivi rappresenterebbero figura diversa, in quanto la donazione potrebbe essere “motivata” per amore o desiderio di fasto, ecc. (26).
   Una parte maggioritaria della dottrina, ben consapevole delle difficoltà incontrate dalla precedente costruzione ermeneutica della donazione, propende per l’applicazione di una teoria oggettiva della causa, che consisterebbe nell’asserire che la ragione giustificatrice di questo contratto risiede nell’arricchimento del donatario, intendendo tale arricchimento non in senso empirico ed economico ma in senso giuridico, cioè come mancanza di corrispettivo dell’attribuzione patrimoniale (27). Ma anche in questo caso, si ottiene senza dubbio proprio il contrario di quello che i fautori della causa quale funzione economica del contratto desiderano dimostrare. Infatti, asserire che la causa in senso oggettivo della donazione debba essere inquadrata alla sola luce del principio giuridico di una prestazione onerosa (del donante) in cambio di una non-prestazione (del donatario) significa esattamente negare validità alla teoria della causa in senso economico-sociale. Se nell’inquadramento della causa negoziale è necessario, in ordine generale, ricorrere anche alla dimensione prettamente economica del rapporto, negare l’applicazione di quest’ultima anche ad un solo contratto fra quelli “tipici”, vuol dire perlomeno ritenere che la teoria causale tradizionale non è universalmente valida.
   Anche chi mette in evidenza questa aporia della concezione della causa, ricorre poi all’individuazione del “negozio gratuito”, per definire e scindere dalla donazione altri atti che prevedono la rinuncia del disponente alla controprestazione (si pensi al mutuo senza interesse, il comodato, il deposito gratuito, ecc.) e finisce per individuare, allo stesso modo, la causa della donazione nell’arricchimento senza corrispettivo del donatario. Così, secondo questa impostazione, lo «lo spirito di liberalità finisce per rappresentare il profilo soggettivo della gratuità oggettiva, cioè dell’arricchimento altrui» (28).
   La seconda obiezione che viene mossa all’interpretazione tradizionale della causa riguarda quelle che solitamente sono definite “prestazioni isolate”, consistenti in una varia sequenza di atti la cui funzione non si identifica automaticamente con quella del contratto. Esse, di per sé, «non esprimono alcuna forma di connessione oggettiva con il rapporto economico che si mira a realizzare». Le caratteristiche fondative di tali atti risiedono, dunque, nella mancanza di una loro funzione oggettiva, «nel senso appunto della connessione oggettiva con operazioni economiche-giuridiche» e nella presenza di uno «scopo che soggettivamente a tali atti imprime il soggetto mentre la giustificazione (oggettiva) di tali prestazioni è posta al di fuori di esse» (29). Gli esempi che possono suggerirsi a tal proposito sono, fra gli altri, il trasferimento della proprietà di un bene in conseguenza di un obbligo precedente, i trasferimenti che hanno la loro fonte in un’obbligazione naturale (art. 2034 cod. civ.) o dationes in solutum (art. 1197 cod. civ.), adempimento del terzo (art. 1180 cod. civ.), atti di esecuzione della causa del mandato (art. 1706 cod. civ.), atti di trasferimento da parte dell’onerato, nel legato di cosa altrui (art. 651 cod. civ.), atti di conferma e di esecuzione di negozi nulli (artt. 590 e 799 cod. civ.) e, più in generale atti risarcitori che non si risolvono nel pagamento di somme di denaro (30).
   Come appare evidente, per questo tipo di negozi è difficile individuare una causa oggettiva nel senso tradizionale, dato che, per essi, non c’è una coincidenza fra la funzione del contratto e la causa economico-giuridica. Conseguentemente, in dottrina si è ritenuto di individuare in essi una categoria di “negozi astratti” (31). Secondo altri, si tratterebbe, in realtà, di ammettere l’esistenza di negozi senza causa (32), ciò che dimostra, secondo noi, sopra ogni altra cosa, l’insufficienza della teoria tradizionale della causa come funzione economica del contratto (33).
   Il problema appare in tutta la sua evidenza proprio in uno dei contratti con causa astratta che, oggigiorno, risulta assai diffuso: il contratto autonomo di garanzia. Come è noto, con questo contratto, altrimenti definito nella prassi bancaria “fideiussione a prima richiesta”, si suole indicare un negozio mediante il quale una banca si obbliga a garantire l’adempimento del debitore nei confronti del beneficiario senza poter opporre alcuna eccezione derivante dal rapporto sottostante, con l’esclusione dell’exceptio doli (cioè, il caso in cui la richiesta di escussione della garanzia sia chiaramente fraudolenta, in conseguenza dell’esistenza di prove liquide evidenti). In questo caso abbiamo un’evidente astrazione della causa, per molti versi simile a quella che si presenta nelle promesse unilaterali (titoli di credito), accentuata dal fatto che, nel contratto in questione non vi è alcun collegamento negoziale con il rapporto sottostante, a differenza di quanto avviene per il contratto tipizzato dal legislatore (la fideiussione, artt. 1936 ss. cod. civ.); al contrario, caratteristica portante del contratto autonomo di garanzia è proprio il fatto che le parti derogano a quanto prescrive l’art. 1945 cod. civ.
   In dottrina si è giustamente sottolineato come questo tipo di contratto abbia «stravolto la funzione economica e la stessa posizione del fideiussore, il quale non si accolla più l’obbligo di pagare in caso di inadempimento del debitore principale, ma assume un’obbligazione autonoma di adempiere quella medesima prestazione alla quale è tenuto anche il debitore» (34).
Ora, stante l’oramai acquisita compatibilità del contratto autonomo di garanzia con l’ordinamento giuridico, pacificamente ammessa in dottrina e giurisprudenza, si deve rimarcare come la sua causa sia difficilmente delineabile alla stregua della teoria tradizionale. A differenza della fideiussione, infatti, inquadrabile nell’area dell’adempimento di un terzo per l’obbligazione contratta da altri (che già, come abbiamo visto, pone più di un problema interpretativo per la teoria tradizionale della causa, riferita al modello di contratti con obbligazione del solo proponente), nel caso del contratto autonomo di garanzia ci troviamo di fronte ad una fattispecie simile a quella della cauzione reale o del credito documentario confermato. L’identificazione della causa per questo contratto può essere individuata solamente se ci si astrae da modelli conformi e tipizzati e dalla stessa teoria tradizionale, che non è in grado di far emergere la funzione economica di una attribuzione patrimoniale senza “apparente corrispettivo” (35).
   Pare evidente, sul piano della razionalità e della stessa tecnica economico-giuridica che una differente impostazione concettuale della causa la quale, da un lato, non sia soggetta all’obbligo predeterminato di modelli astratti e, dall’altro, si riferisca strettamente al negozio attualmente posto in essere dai contraenti, sia in grado di spiegare meglio la sua efficacia applicativa.
   È per questo che molta parte della dottrina, pur con notevoli differenziazioni, suggerisce attualmente questo tipo di approccio. La concezione della “causa concreta”, infatti, si riferisce alla «funzione pratica che effettivamente le parti hanno assegnato al loro accordo». Ciò altro non vuol dire che «ricercare l’interesse concretamente perseguito» e, quindi, in base a ciò, è possibile «verificare se lo schema usato dalle parti sia compatibile con uno dei modelli contrattuali», ricercando «il significato pratico dell’operazione con riguardo a tutte le finalità che – sia pure tacitamente – sono entrate nel contratto» (36). Questa impostazione, peraltro, sembra quella più adatta ad individuare la giustificazione causale in contratti complessi, nei fenomeni dei collegamenti negoziali e in quelli astratti. Inoltre, grazie alla “causa concreta” è possibile valutare la meritevolezza dell’operazione, alla stregua di quanto dispone l’art. 1322, 2° comma cod. civ., la qualificazione del contratto, il criterio di interpretazione e, infine, il criterio di adeguamento del contratto (per il regime delle nullità totali o parziali).

5. Il caso deciso dai giudici del Supremo Collegio
   Nel caso deciso dai giudici di Cassazione, è emersa una fattispecie che ha dato modo ai giudici stessi di spiegare la necessità di una diversa impostazione teorica della causa.
   Un professionista stipula una doppia convenzione avente ad oggetto la prestazione di un servizio di consulenza, inquadrabile nell’area del contratto d’opera disciplinato dall’art. 2222 cod. civ. Nel primo contratto è individuato l’oggetto specifico della consulenza; nel secondo, interpretabile come una “prosecuzione” del primo, il compenso pattuito. Il consulente assume l’incarico in qualità di amministratore di una società appositamente costituita, che ha per oggetto la prestazione di servizi di consulenza aziendale, i cui soci sono tutti suoi familiari. Nelle more, lo stesso è nominato membro del consiglio di amministratore in alcune delle società facenti capo al committente.
   Successivamente, il consulente cita in giudizio la società committente per non aver saldato il quantum pattuito. Quest’ultima eccepisce il fatto che, in realtà, l’oggetto delle prestazioni del contratto di consulenza risultavano le medesime che il consulente stesso avrebbe svolto in qualità di amministratore delle società ruotanti nell’orbita del committente. Sia in primo grado, sia in sede di gravame, i giudici di merito hanno rigettato la domanda del consulente, ritenendo che il contratto di consulenza “esterno” fosse privo di una giustificazione economica, quindi di causa.
   In ossequio alla teoria tradizionale, il ricorrente opina che il contratto simulato (cioè quello fra la persona fisica e la società committente, nella realtà dissimulato dal contratto fra la società di consulenza, di cui il ricorrente era il dominus, e il committente), non poteva essere considerato nullo per mancanza di causa proprio perché corrispondeva allo schema legale tipico disposto dall’art. 2222 cod. civ.
   Rigettando questa impostazione, i giudici di legittimità ritengono che il contratto simulato possa considerarsi nullo per mancanza di causa, in quanto quest’ultima deve essere interpretata come “causa concreta”, in relazione a quanto effettivamente i contraenti intendevano ottenere dalla conclusione del negozio. Ora, nel momento stesso in cui il consulente acquisisce lo “status” di amministratore di diverse società facenti capo al committente, con l’incarico di svolgere mansioni aventi un oggetto identico a quello del “contratto esterno” di consulenza (stipulato con la medesima persona fisica), è evidente che, a prescindere dallo schema legale tipico, non può che considerarsi assente qualsiasi funzione economica in un contratto di questo genere, in quanto è inammissibile che il committente adempia due volte alla propria obbligazione in cambio di un’unica controprestazione della parte contraente.
   Mai come in questo caso, ci sembra di poter dire, la teoria della “causa concreta” si dimostra essenziale nella composizione di una lite secondo il canone dell’equità giuridica. Infatti, come suggeriscono chiaramente i giudici di legittimità, l’applicazione rigida del criterio modellistico della “causa legale tipica” avrebbe indotto il giudice a considerare valido il contratto simulato, obbligando la società committente ad un’attribuzione patrimoniale non giustificata da una causa (e qui si sarebbe registrato il risultato paradossale che, anche nei termini tradizionali della causa concepita quale funzione economico-sociale, il doppio contratto avente un oggetto identico non avrebbe spiegato alcuna giustificazione, esattamente sul piano della razionalità economica).
   Si deve aggiungere in questa sede che anche in un altro arresto della Cassazione (37), i giudici hanno fatto ricorso alla teoria della “causa concreta” aderendo alla tesi del giudice del gravame, secondo il quale il contratto di Sale and lease back fra un imprenditore ed una società finanziaria era nullo in quanto in frode alla legge, violando il divieto di patto commissorio disposto dall’art. 2744 cod. civ. Il contratto in questione è pacificamente considerato legittimo dalla giurisprudenza, laddove il suo scopo sia quello di accordare un’immediata liquidità al soggetto che cede la proprietà di un immobile e la sua utilizzazione a titolo di godimento dietro il pagamento di un canone annuo. Analizzando, però, la causa specifica e concreta del caso sottoposto alla sua attenzione, il giudice di merito appurò che la società di leasing aveva addirittura non corrisposto all’imprenditore la metà del prezzo pattuito per la cessione dell’immobile, somma accantonata dalla stessa società presso la banca-madre a titolo di garanzia del pagamento dei canoni. La causa concreta del contratto, quindi, non era più la cessione di liquidità in cambio della proprietà di un bene che rimane vincolato ad un’utilizzazione onerosa da parte dello stesso cedente, ma l’attribuzione di un diritto reale a garanzia del credito, che appunto infrange il divieto di patto commissorio (38).


 Note

   (1) Le ragioni in favore dell’accoglimento di una diversa concezione della causa, maggiormente legata alle esigenze concrete di quello specifico atto, infatti, sono già presenti nel pensiero di G. Gorla (Il contratto, vol. I, Milano, 1955, 199 ss.), ispirato soprattutto alle esperienze giuridiche di Common law. Altra autorevole dottrina italiana, a metà degli anni Settanta (SACCO, Il contratto, in Tratt. Vassalli, Torino, 1975, 580 ss.), criticava la concezione tradizionale della causa (come “funzione economico-sociale”) propendendo per un’impostazione più realistica. D’altronde, già in precedenza, si era autorevolmente sostenuto che “causa”e “tipo” non erano nozioni coincidenti, dato che la prima si riferiva essenzialmente alla struttura economica dell’affare traguardata individualmente e non, dunque, in riferimento ad un “interesse sociale” intorno al quale si muoverebbe la causa stessa in funzione di controllo e di adeguamento. Da ciò conseguiva il fatto che nei contratti tipici era necessario valutare se l’interesse concreto perseguito dalle parti corrispondesse all’interesse tipizzato, quindi allo schema legale disciplinato dal legislatore (così G.B. FERRI, Causa e tipo del negozio giuridico, Milano, 1965, 355 ss.). Come si vede, la serrata critica all’impostazione originaria del codice aveva già prodotto un preciso indirizzo dottrinale, ripreso, a partire dagli anni Ottanta, anche dalla manualistica più diffusa (BIANCA, Diritto civile, vol. III, Il contratto, Milano, 1997, 1a ed. 1984, 425 ss.; TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1986, 221 ss.; TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1988, 171 ss.; SCOGNAMIGLIO, Contratti in generale, in Tratt. Grosso-Santoro Passatelli, Torino, 1972, 128 ss.

   (2) Ci riferiamo a BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1960.

   (3) Vedi, per la teoria pandettistica della causa, BEKKER, System des heutigen Pandektenrechts, vol. II, Weimar, 1889, 117 ss. Per il quadro storico del trapasso della legislazione privatistica italiana ed europea fra Settecento e Ottocento, per quanto concerne in particolare il diritto dei contratti, vedi GHISALBERTI, Unità nazionale e unificazione giuridica in Italia, Roma-Bari, 1979, 111 ss.

   (4) Vedi soprattutto DOMAT, Scelta di leggi tratte dai Digesti e dal Codice con le citazioni delle Pandette riordinate da Pothier, Venezia, 1984, vol. II, 217 ss.; sull’opera di Domat, vedi TARELLO, Sistemazione e ideologia nelle “Loies civiles” di Jean Domat, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», vol. I, Bologna, 1971, 39 ss. Vedi anche CAPITANT, De la cause des obligations, Parigi, 1927, 89 ss.

   (5) ROTONDO, La causa di garanzia nei contratti, in www.diritto.it, 2005, § 1.

   (6) La classica definizione della causa in Domat (richiamata, peraltro, anche dai giudici di legittimità nella sentenza che si commenta) secondo cui la causa è «le but en vue du quel les parties ont contracté» riflette evidentemente questa impostazione volontaristica finalizzata, però, alla salvaguardia dell’interesse di ogni singolo contraente (vedi sull’argomento, FLOUR, Les obligations, Parigi, 1975, 186).

   (7) Secondo un’autorevole opinione (MESSINEO, Il contratto in genere, in MESSINEO-CICU, Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 1973, 109), indicando la causa del contratto di compravendita nello scambio di cosa contro prezzo e individuare nel sinallagma il “motivo ultimo” è operazione ultronea e dunque non riesce a spiegare razionalmente in cosa consisterebbe siffatto “motivo ultimo”.

   (8) Vedi POTHIER, Traité des obligations, Paris, 1891, n. 321.

   (9) C.M. BIANCA, Diritto civile, vol. III, Il contratto, cit., 428, il quale aggiunge che «la codificazione di questo principio consentiva di elaborare la nozione di causa quale ragione dell’obbligazione, il perché di essa» ponendo peraltro «le premesse dell’idea unitaria della causa».

   (10) ROTONDO, La causa di garanzia nei contratti, cit., § 1.

   (11) DI MAJO, Causa del negozio giuridico, in Enc. giur. Treccani, vol. VI, Roma, 1990, § 1.3. Questa dottrina intravede nella causa tre ordini di problemi: a) uno di tipo interno, che ha riguardo con le istituzioni stesse dell’economia capitalistica che ha riguardo con le forme di mediazione giuridica, fra le quali la principale è senza dubbio il contratto, e la circolazione dei beni e dei servizi. Il requisito causale si imporrebbe quale strumento di salvaguardia di questa connessione; b) un problema di tutela di un contraente nei confronti dell’altro, data dal fatto che la causa, essendo funzionalizzata alla ragione giustificatrice del negozio, impedisce spostamenti patrimoniali illeciti a danno di un contraente. Come si vedrà altri sistemi giuridici (come quello tedesco, dove il codice non prevede espressamente la causa quale elemento fondamentale del contratto) ricorrono ad altri parametri, quali, ad esempio, la buona fede; c) infine, la causa assolverebbe esplicitamente ad una funzione di «controllo della libertà negoziale», nel senso del significato sociale della causa, che è, come si vedrà subito, l’impostazione fornita a questo elemento dalla dottrina fino ad ora dominante e dallo stesso legislatore del 1942.

   (12) Nel diritto romano dello ius privatum la causa (che i romani non denominavano in tal modo, facendo riferimento piuttosto ai “motivi”) rilevava in un duplice senso: da un lato quale elemento che qualificava il negozio come lecito o illecito; dall’altro ai fini della individuazione del “tipo” negoziale e dunque ai fini del regolamento normativo applicabile. Nel primo caso, dunque, la causa svolgeva una funzione di “controllo” della sua liceità (vedi, per un’esame più approfondito, GUARINO, Diritto privato romano, Napoli, 1988, 342 ss.

   (13) I giudici di Cassazione motivano la loro critica all’impostazione tradizionale della causa anche in base alla difficoltà di concepire un contratto tipico con causa illecita. In realtà, si possono fare alcuni esempi di contratti tipici con causa illecita. La vendita con patto di riscatto (art. 1500 cod. civ.), nel quale il venditore sia in realtà debitore del compratore e il prezzo del riscatto si determinato in misura tale da corrispondere al debito del venditore. Si tratta di una violazione del divieto di patto commissorio. Ed ancora: il contratto con il quale un dipendente diventa socio del datore di lavoro che, in realtà, nasconde un mero rapporto di lavoro subordinato per evadere gli oneri parafiscali. Come suggerisce una dottrina su questo punto, una corretta impostazione della causa illecita nei contratti tipici deve «tendere ad individuare nel profilo della illiceità della causa la funzione di controllo che esercita l’ordinamento sugli atti di autonomia privata» (DI MAJO, Causa nel negozio giuridico, cit., § 9.2). Conseguentemente, si può prospettare una causa tipica illecita laddove i soggetti, pur concludendo un contratto che rientri nello schema legale, sono mossi da un intento contrario a norme imperative, al buon costume, all’ordine pubblico, ovvero il negozio viene stipulato per frodare la legge. I casi presi in esame dalla giurisprudenza sono numerosissimi e non è questo il luogo dove si possa solo pensare di prenderli in considerazione.

   (14) Relazione al codice civile, n. 613. La relazione, peraltro, polemizza proprio con i fautori della causa intesa quale “funzione pratica” del contratto, ritenendo che quello sia un “pregiudizio”. In queste parole sembra di poter scorgere l’intento critico nei confronti di quei sistemi di Common law nei quali la causa è interpretata esattamente come “scopo individuale” delle parti.

   (15) SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1986, 172. L’autorevole dottrina, argomentando dalla necessaria tipizzazione degli atti unilaterali, ricava che, anche per quelli bilaterali, la volontà di diverse parti «non è autorizzata a spiegare i suoi effetti nell’ambito extra-patrimoniale che in relazione a funzioni tipiche: e quindi nominatività dei negozi, ad una o più parti, extrapatrimoniali, in particolare dei negozi familiari».

   (16) SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali, cit., 174. Come si vede chiaramente, l’elemento soggettivo della causa, cioè lo scopo, è simile a quanto teorizzato dalla dottrina francese, ed in particolar modo dal Domat che parla di “risultato”, “fine”. Da ciò si può chiaramente ricavare l’indubbio influsso che la dottrina italiana ha subito dalla teoria volontaristica del negozio giuridico. Vedi in tal senso anche MIRABELLI, Causa subiettiva e causa obiettiva, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1951, 323 ss.

   (17) TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, cit., 168. L’autore, però, poco più avanti parla anche lui della causa quale scopo perseguito in concreto dalle parti, che sarebbe il criterio primo per la determinazione del negozio. Quindi, anche le teorie che si fondano sulla causa intesa quale funzione economico-sociale non escludono una diversa concezione, contrariamente a quanto rigidamente fissato dalla Relazione al codice civile.

   (18) GALGANO, Il negozio giuridico, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu-Messineo, continuato da Mengoni, vol. III, t. 1, Milano, 1988, 88. Altro esempio di negozio nullo per mancanza di causa. Il contratto con il quale una società ceda ad altra società la proprietà di un bene immateriale senza corrispettivo del prezzo e senza indicare lo spirito di liberalità. Il contratto è nullo per mancanza di causa, cioè di una ragione giustificativa dell’attribuzione patrimoniale fra due enti commerciali, lo scopo della cui attività è eminentemente lucrativo.

   (19) Il discorso vale anche per la simulazione, cioè per la stipulazione di un contratto in luogo di un altro che, in determinati casi, come si vedrà meglio, la giurisprudenza considera in frode alla legge. Ad esempio, la vendita fra padre e figlio, che in realtà nasconde una donazione (simulazione che era sovente esperita per sfuggire alle imposte sulle donazioni, poi abolite); l’adesione al contratto di società del lavoratore dipendente che simula la qualità di socio affinché il datore di lavoro non versi i contributi sociali e previdenziali sulla sua busta paga (anche questo è un contratto considerato nullo perché in frode alla legge). In questi casi, a ben guardare, la simulazione involge proprio la causa, in quanto i contraenti stipulano un tipo contrattuale per aggirare i doveri (quasi sempre tributari o paratributari) imposti dalla legge per il contratto dissimulato.

   (20) BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 183; dello stesso autore vedi Causa del negozio giuridico, in Nss.D.I., vol. VII, Torino, 1957, 32 ss.

   (21) Relazione al codice civile, n. 603.

   (22) Relazione al codice civile, n. X.

   (23) Così G.B. FERRI, Causa e tipo, cit., 254. In senso analogo GAZZONI, Atipicità del contratto, giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli interessi, in Riv. dir. civ., I, 1978, 52 ss., il quale sottolinea il fatto che l’impostazione codicistica della causa riflette inevitabilmente la cultura economica e giuridica del fascismo.

   (24) GORLA, Il contratto, vol. I, cit., 213 ss.

   (25) TRABUCCHI, Istituzioni, cit., 916.

   (26) TRABUCCHI, Istituzioni, cit., 917. Ma anche prospettata in questo modo, con la dicotomia fra animus donandi, intesa quale causa oggettiva comune a tutti i contratti di donazione, e motivazioni, le difficoltà concettuali non sembrano del tutto superate, in quanto l’intento proprio del donante entra a far parte della sua scelta di volizione soggettiva, proprio in quanto la causa giustificativa non predispone un modello abituale di prestazione e controprestazione, che contraddistingue la nozione tradizionale e “tipica” della causa quale funzione economica del contratto.

   (27) TORRENTE, La donazione, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, vol. I, Milano, 1952, 242 ss.

   (28) CARNEVALI, La donazione, I, in Enc. giur. Treccani, vol. XII, Roma, 1990, § 1.2. Conclude questa dottrina sottolineando che «l’interprete, per poter qualificare il negozio come donazione, deve accertare l’esistenza dell’intento di una parte, condiviso dall’altra, di arricchire quest’ultima per spirito di liberalità per spirito di liberalità, mediante la disposizione di un suo diritto o l’assunzione di un’obbligazione».

   (29) In tali termini sono individuati questi atti da DI MAJO, Causa del negozio giuridico, cit., § 3.3. Per le dottrine che hanno sottolineato l’esistenza di tali particolari negozi, vedi: GIORGIANNI, Causa, in Enc. dir., vol. VI, Milano, 1960, 564 ss.; TRIMARCHI, Isitituzioni, cit., 225 ss.; MOSCATI, Pagamento dell’indebito, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, sub. artt. 2028-2042, Bologna-Roma, 1981, 180 ss.

   (30) Vedi su questo punto, GAZZONI, L’attribuzione patrimoniale mediante conferma, Milano, 1974, 214 ss.

   (31) SCALISI, Negozio astratto, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, 106 ss.; SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali, cit., 175 ss.

   (32) LENER, Expressio causae e astrazione processuale, in Studi in onore di Francesco Santoro Passatelli, vol. III, Napoli, 1972, 30 ss.

   (33) Ed ancora, ad avviso di altro dottrina, nel caso dell’adempimento dell’obbligo altrui da parte del terzo (art. 1180 cod. civ.) ci troveremmo di fronte ad un negozio in cui manca la causa in senso tecnico (NICOLÒ, L’adempimento dell’obbligo altrui, Milano, 1936, 187).

   (34) ROTONDO, La causa di garanzia nei contratti, cit., § 2.

   (35) Può dirsi che «la funzione oggettiva del contratto autonomo consiste quindi nel riversare il rischio della non riuscita o non corretta esecuzione della stessa sul garante e concretizza la causa del contratto che ha sede proprio nella copertura del pericolo connesso alla mancata o non puntuale attuazione, per qualsiasi ragione, dell’obbligazione sottostante» (ROTONDO, La causa di garanzia nei contratti, cit., § 2).

   (36) BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, cit., 425.

   (37) Vedi Cass. 16 ottobre 1995, n. 10805, in www.diritto.it, con nota adesiva di Cinquemani.

   (38) Sull’uso anomalo del contratto di sale and lease back, vedi REALMONTE, Stipulazioni commissorie, vendita con patto di riscatto e distribuzione dei rischi, e in Giur agr. it., 1989, II, 422; CESARO, Lease back e patto commissorio, in Riv. not., 1986, 790; CLARIZIA, Lease back e operazioni inesistenti, in Riv. it. leasing, 1989, 521; DE NICTOLIS, Divieto del patto commissorio, alienazioni in garanzia e sale lease back, in Riv. dir. civ., 1991, II, 535; DE NOVA, Appunti sul sale and lease back e il divieto del patto commissorio,in Riv. it. leasing, 1985, 307; GITTI, Divieto del patto commissorio, frode alla legge, “sale and lease back”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, 457; PELOSI, Divieto del patto commissorio, lease back e frode alla legge, in Riv. it. leasing, 1985, 57; ID, Sale and lease back e alienazioni a scopo di garanzia, ivi, 1988, 445; PURCARO, Sulla liceità del sale and lease back in relazione al divieto del patto commissorio, ivi, 1986, 587.

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