il diritto commerciale d’oggi
    V.6 – giugno 2006

STUDÎ & COMMENTI

 

GIOVANNI CABRAS

Dai sigilli alla segregazione dei beni nel fallimento *

 

 

   1.
   L’obbligo di apporre, dopo la dichiarazione di fallimento, i sigilli sui beni del fallito è passato dal codice di commercio del 1882 alla legge fallimentare del 1942 ed ora al d. lgs. n. 5 del 2006. Di nuovo c’è soltanto che a tale adempimento, prima affidato al giudice, adesso dovrà provvedere direttamente curatore fallimentare. Per il resto, sembriamo rimasti fermi a due secoli fa.
   Per la verità, le cose stanno un po’ diversamente, come emerge dal raffronto tra la teoria e la pratica della sigillatura sui beni del fallito.
   La teoria. Nei manuali e negli studi di diritto fallimentare è data grande importanza all’apposizione dei sigilli, come strumento per la conservazione dei beni, per evitare che questi siano sottratti o dispersi. Sebbene gli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito si producano anche senza l’apposizione dei sigilli, tale operazione serve per rendere visibile la condizione giuridica dei beni appartenenti al fallito o presenti nei locali dell’impresa: beni di cui il fallito perde la disponibilità (si parla perciò di spossessamento), per essere destinati a soddisfare i creditori nell’ambito della procedura.
   Nella pratica, però, i sigilli solitamente non vengono apposti sui beni del fallito, preferendosi procedere rapidamente all’inventario di tali beni, come attestato dalla prassi dei tribunali: vedi la raccolta curata da Giurisprudenza commerciale nel 1978 e, da ultimo, l’indagine del Consiglio Nazionale dei Dottori commercialisti nel 2002.
   Sebbene la Corte Costituzionale (sent. 3 marzo 1994, n. 71) abbia ritenuto che l’obbligo legislativo di apporre i sigilli non violi il principio di buon andamento nell’amministrazione della giustizia, la sigillatura resta un istituto desueto. Sorge allora spontaneo domandarsi perché la novella lo abbia mantenuto in vita, semplicemente spostandone la competenza dal giudice delegato al curatore.
   Potrei rispondere che il mantenimento dei sigilli costituisce un tributo, sicuramente inconscio, alla configurazione del fallimento come una segregazione di beni, a somiglianza del trust, che solo da poco tempo ha trovato riconoscimento pieno nel nostro ordinamento. Orbene, i beni segregati in un trust sono marchiati (ossia assoggettati ad earmarking nella terminologia anglosassone). La marchiatura, solamente ideale nel trust, si materializza nei nostri “sigilli”, di cui il nostro legislatore non riesce a fare a meno, neppure nel XXI secolo.
   È un tributo, però, che avrebbe potuto essere evitato. Segnalo soltanto che nella proposta di riforma della legge fallimentare, proposta elaborata dalla Commissione Caruso nel 2004, l’apposizione dei sigilli era rimessa, invece, alla discrezionalità del curatore («ove lo ritenga opportuno»).
   Se per diritto si intende, non il testo materiale della legge, ma la regola ricavata dalla sua effettiva applicazione, l’apposizione dei sigilli, più che mantenuta, sembra allora essere stata ripristinata dalla novella. Tra le tante lamentele sulla riforma, non ho visto, però, dedicare attenzione al problema. La verità è che il ripristino di quella prescrizione non preoccupa nessuno: i giudici non si lamentano, perché è stato tolto un obbligo da loro solitamente non osservato; nemmeno i professionisti si lamentano, perché le loro competenze non sono state intaccate, ma semmai accresciute.

   2.
   Riservandomi più avanti, di esprimere qualche valutazione sulla riforma, ritengo opportuno inquadrare l’obbligo di apporre i sigilli, qualunque sia la ragione di tale prescrizione, nella nuova funzione del curatore, secondo due linee interpretativi, che voglio sottoporre alla vostra attenzione.
   Bisogna considerare che nella riforma del fallimento, all’obbligo di apporre i sigilli è collegato il compimento delle operazioni di inventario (da compiersi nel più breve tempo possibile: art. 87) e che dalla conclusione dell’inventario inizia a decorrere il termine di 60 giorni per la redazione del programma di liquidazione, atto fondamentale del nuovo sistema di gestione della procedura fallimentare.
   Poiché la sigillatura dei beni può presentare difficoltà pratiche e poiché l’inventario può dar luogo a contestazioni (nel caso in cui vi vengano compresi beni di terzi), con conseguente dilatazione dei tempi necessari al completamento di tali operazioni, sorge l’esigenza di superare la rigidità legislativa.
   Come ricordato dianzi, da anni i giudici delegati alle procedure fallimentari solitamente omettono tale adempimento, pur previsto come un obbligo dalla legge fallimentare. La giustificazione che si dà di questa omissione è che il giudice delegato, specie nei grandi tribunali, non potrebbe provvedere tempestivamente alla sigillatura, stante il numero elevato di fallimenti assegnatigli. Se fosse questa la ragione della mancata apposizione dei sigilli, non se ne potrebbe avvalere il curatore, cui la riforma impone di curare quell’adempimento: egli, infatti, è tenuto ad accettare incarichi soltanto se sia in grado di assolvere a tutti i relativi obblighi.
   Si potrebbe allora pensare che il legislatore, preso atto dell’impossibilità dei giudici delegati di apporre tempestivamente i sigilli, per questo ne abbia spostato la competenza sul curatore, nel quadro dei maggiori suoi poteri. Seguendo questa linea interpretativa, che definirei di maggio rigore, per tutte le procedure fallimentari dovrebbero esserci necessariamente, in successione: l’apposizione dei sigilli e poi, quando il curatore è pronto l’inventario, la rimozione degli stessi sigilli e, infine, la redazione dell’inventario.
   Se così fosse (e la lettera della legge può farlo pensare), ci sarebbe un ritorno al passato, quando la solennità della sigillatura spiegava i suoi effetti, cogliendo di sorpresa il fallito ed i terzi. Sorpresa che, però, derivava anche dal fatto che il fallimento poteva essere dichiarato anche senza l’audizione del creditore. L'audizione del debitore, però, è obbligatoria e, quindi, anche prima della riforma, di cui al d. lgs. n. 5/2006, la dichiarazione di fallimento non coglie più di sorpresa il fallitoi.

   3.
   È appossibile, tuttavia, una diversa interpretazione dell’art. 84, nuovo stile, interpretazione che personalmente preferisco. Infatti, se, per l’apposizione dei sigilli, la lettera della legge è rimasta la stessa dal 1882 alla riforma, salvo il mutamento della competenza (passata dal giudice delegato al curatore), il contesto è profondamente cambiato. La Corte Costituzionale con la sentenza del 1994, dichiarando inammissibile l’eccezione di incostituzionalità circa l’art. 84, dava agli interpreti una indicazione che potremmo definire di premonizione. Infatti, il giudice delle leggi aveva ritenuto inammissibile la questione, perché, diversamente, avrebbe dovuto esprimere un apprezzamento di merito sulle modalità di soddisfare le esigenze cautelari e conservative dei beni del fallito. In particolare, la Corte Costituzionale notava, in quella sentenza del 1994, che «plurime sarebbero le soluzioni adottabili, perché la valutazione singulatim delle esigenze cautelari e conservative potrebbe essere affidata al tribunale in sede di dichiarazione di fallimento, invece che successivamente (e talora non più tempestivamente) al giudice delegato».
   Orbene, la riforma della legge fallimentare prevede proprio che il tribunale, nel corso dell’istruttoria prefallimentare, possa disporre, su istanza di parte, le misure cautelari o conservative necessarie per la tutela del patrimonio o dell’impresa (art. 16, 8° comma, legge fall.)
   Siccome l’apposizione dei sigilli ha una funzione strumentale alla conservazione del patrimonio e siccome, ove ve ne fosse una urgente necessità, vi può provvedere preventivamente il tribunale, il curatore può – ed anzi deve, a mio avviso – omettere l’apposizione dei sigilli, quando sia in grado di procedere immediatamente all’inventario e non vi siano pericoli immediati di sottrazione o dispersione dei beni. Ovviamente, di ciò dovrà essere informato il giudice delegato e, se già costituito, il comitato dei creditori.
   Ritengo, infatti, che la sostituzione del curatore al giudice delegato non possa far mutare l’approccio all’obbligo di apporre i sigilli, prescrizione che ora, ancor più che in passato, va collocata nel quadro delle funzioni degli organi concorsuali a tutela dell’interesse patrimoniale dei creditori e, quindi, anche alla più sollecita liquidazione del patrimonio, senza inutili lungaggini o adempimenti soltanto formali.
   Nel corso dell’inventario potranno sorgere contestazioni del fallito o di terzi controinteressati, contestazioni che la riforma giustamente consente di risolvere con decreto del giudice delegato, senza che occorra, per i beni mobili su cui i terzi vantino diritti reali, presentare domanda di rivendicazione o restituzione secondo il procedimento di accertamento dei crediti.
   

   4.
   Le eventuali contestazioni, tuttavia, non valgono a ritardare il compimento dell’inventario, nel quale il curatore dovrà soltanto dare atto delle contestazioni. In tal modo, con o senza apposizione di sigilli, va redatto al più presto – e, comunque, entro 60 giorni dalla redazione dell’inventario, da intendersi come termine massimo – il programma di liquidazione, che costituisce l’atto fondamentale per la gestione dell’impresa fallita e rappresenta la principale novità della riforma.
   Sulla capacità degli operatori del diritto (i magistrati, da un lato, e i professionisti, dall’altro) di collaborare efficacemente alla gestione delle crisi, senza attardarsi troppo sulla questione dei sigilli o altre analoghe, si misurerà la possibilità della nostra economia di trasformare i fallimenti in opportunità di nuove iniziative economiche e di nuovi posti di lavoro.
   D'altronde, se si volesse seguire con rigore la lettera della legge, l’art. 84 legge fall. rinvia, per le modalità di apposizione dei sigilli, alle norme del codice di procedura civile (artt. 752 ss., disposizioni dettate per l’apposizione dei sigilli nell’apertura delle successioni ereditarie), norme che comprendono una regola, utile per il nostro caso. Infatti, l’art. 760 cod. proc. civ. dispone che, se è in corso l’inventario dei beni, i sigilli possono essere apposti solo per gli oggetti non inventariati e che, «esaurito l’inventario, non si fa luogo all’apposizione dei sigilli, salvo che l’inventario sia impugnato».
   In definitiva, l’inclusione dei beni del fallito nell’inventario curato con la massima sollecitudine dal curatore soddisfa di per sé e senza che occorrano i tradizionali sigilli – salvo che insorgano contestazioni – le esigenze di conservazione dei beni, consentendo di identificare i beni “segregati” nell’attivo fallimentare e destinati alla soddisfazione dei creditori. Si realizza così nel fallimento l’analogo fenomeno che ha portato, nel trust, dalla marchiatura fisica (i sigilli, o, seconda la terminologia anglosassone, la earmarking) a quella virtuale, più consona alla realtà attuale, tanto nel fallimento, quanto nel trust.

* Intervento svolto nel convegno “Il curatore fallimentare: ‘la gestione imprenditoriale’ della procedura fallimentare” il 9 giugno 2006 presso l’Università di Roma “Tor Vergata’

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