il diritto commerciale d’oggi
    V.4 – aprile 2006

STUDÎ & COMMENTI

 

GIOVANNI CABRAS

Codificazione, proprietà industriale e principio di concorrenza *

 

   1.
   Esattamente un anno fa nel marzo 2005, in nell’Università di Roma Tre, si svolgeva un convegno su “Codificazione, semplificazione e qualità delle regole”, convegno che prendendo spunto dal Parere reso dal Consiglio di Stato nell’adunanza del 25 ottobre 2004 sull’emanando codice della proprietà industriale, aveva aperto il dibattito sul nuovo sistema di legificazione in Italia,
   Tale sistema, con l’obiettivo della semplificazione normativa, è passato dal semplice riordino delle leggi preesistenti (i testi unici, di cui alla legge 8 marzo 1999, n. 50) all’innovazione legislativa con codici di settore (legge 29 luglio 2003, n. 229).
   Così è stato predisposto il codice della proprietà industriale (d. lgs. 10 febbraio 2005, n. 30), che ieri ha compiuto il primo anno di applicazione. Nel frattempo, sono stati emanati altri codici:
   – quello della privacy (d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196),
   – del consumo (d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206),
   – delle assicurazioni private (d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209)
   – e così via (è in dirittura d’arrivo il codice degli appalti pubblici).
   Tuttavia, accanto alla codificazione per fini di semplificazione, importanti interventi legislativi si sono avuti, tanto sui codici tradizionali, quanto sulle leggi speciali. Per limitarci alle norme riguardanti le imprese ed a solo titolo esemplificativo, ricordo,
   – nel codice civile la riforma del diritto societario e, da ultimo, la norma sui patti di famiglia (nuovo art. 768-bis);
   – e, extra codicem, la riforma del risparmio (legge 28 dicembre 2005, n. 262) e della legge fallimentare (d. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5).
   Chi pensava che fosse finita l’età della decodificazione e fosse iniziata l’età della ricodificazione, è stato smentito dalla più recente attività legislativa. D’altronde, come emerso nel convegno ricordato prima, il codice civile, pur se rinnovato, non ha riacquistato il carattere di centralità nel sistema delle fonti e continua a svolgere sostanzialmente una funzione residuale rispetto alla legislazione speciale.
   Eppure, quell’età, bene illustrata trent’anni fa da Natalino Irti, ha assunto una nuova temperie, con riforme epocali, che nel campo del diritto commerciale hanno investito, in particolare, le società e le procedure concorsuali.
   Ma soprattutto, il perdurante policentrismo legislativo trova un diverso fondamento ordinamentale: le riforme non si richiamano ai princìpi costituzionali, ma a quelli comunitari e, in particolare, all’ordine economico stabilito per tutti i Paesi dell’Unione Europea con l’accordo di Maastricht del 1992 («principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza»).

    2.
   La materia della proprietà industriale (e, in senso più ampio, quella della proprietà intellettuale) costituisce il banco dei prova del principio di concorrenza. Non è un caso che il nostro codice sia stato emanato, come si esprime la legge delega (legge 12 dicembre 2002, n. 273), nel quadro delle “misure per favorire l’iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza”.
   In effetti, la disciplina della proprietà industriale interroga il giurista circa le possibili interferenze tra il diritto di esclusiva, spettante al titolare della proprietà industriale, ed il diritto antitrust, volto a garantire il più elevato grado di concorrenza nel mercato.
   Tali interferenze diventano antinomie insormontabili, qualora, come è avvenuto in passato nella nostra dottrina, si configuri il diritto di privativa come un sorta di monopolio legale, riconosciuto all’inventore, al titolare del marchio o all’autore dell’opera. Certamente, riservare lo sfruttamento di un’idea creativa ad un determinato soggetto produce effetti analoghi a quelli di un monopolio legale; tuttavia, analoghi sono solo gli effetti pratici, essendo affatto diversa la situazione giuridica tutelata dalla legge nei due casi.
   Parimenti, le antinomie non sono superate, ma semplicemente eluse, qualora si costruisca la proprietà intellettuale secondo gli schemi concettuali della tutela dominicale, indicando nel titolo di appartenenza la fonte dello ius excludendi alios, come avviene nella proprietà dei beni materiali. Non ci vogliono molte parole per respingere simile opinione, che applica i criteri di sfruttamento dei beni materiali a figure giuridiche, quali i diritti di proprietà intellettuale, che hanno ben poco a che fare con i beni del linguaggio comune e che, soprattutto, attengono allo svolgimento di attività nel mercato.
   Si è cercato poi di spiegare le interferenze con il diritto antitrust, seguendo la sempre più diffusa analisi economica del diritto e giustificando così la protezione della proprietà intellettuale con l’esigenza di incentivare gli investimenti finalizzati allo sviluppo delle conoscenze, in modo da ottenere maggiore concorrenza nel mercato nel medio periodo. Infatti, tale teoria, ipotizzata in modo specifico per le invenzioni, si applica male ad altre specie di proprietà intellettuale, quali il marchio o i beni protetti dal diritto d’autore, per i quali il diritto di esclusiva può essere di durata illimitata o estremamente lunga. In ogni caso, le ragioni economiche che giustificano un istituto giuridico non sono di grande aiuto per dipanare i contrasti con altri istituti.

   3.
   L’accresciuta e non adeguatamente contrastata violazione, su scala globale, dei diritti di proprietà intellettuale si accompagna ad un ampliamento, per situazioni di fatto e per regole giuridiche, di quei diritti. L’uno e l’altro fenomeno sembrano inarrestabili e concatenati tra loro.
   Qualche esempio. Le tecnologie digitali hanno reso possibile contraffazioni o copie illegali, praticamente, non accertabili; nel contempo, informazioni, quali lo svolgimento di avvenimenti sportivi, che nessuno in passato avrebbe pensato di ritenere appartenenti in esclusiva a qualcuno, sono assurte a diritti della proprietà intellettuale.
   Di fronte a tali situazioni, il giurista è indotto a partire all’esperienza dei Paesi giudicati più avanzati, nei quali si è sviluppata la teoria delle essential facilities, teoria che, invero, risente troppo della sua origine, ossia di essere un criterio creato per regolare l’accesso ad infrastrutture di pubblica utilità: dunque, per regolare l’utilizzazione di beni, anche complessi, ma sempre materiali. In fondo, tale teoria rimane legata alla logica dominicale, richiedendo di limitare le prerogative del proprietario di beni ritenuti essenziali; d’altronde, limitazioni della proprietà per fini di ordine superiori sono noti da tempo, anche nel nostro ordinamento.
   È la logica dominicale ad essere inadeguata alla proprietà intellettuale, perché non si tratta di proprietà in senso tradizionale. Il diritto di esclusiva fa parte delle relazioni tra attività imprenditoriali e dunque fa parte delle regole del mercato, senza che occorra, però, riesumare la teoria del monopolio legale.
   In definitiva, i diritti della proprietà industriale costituiscono forme diverse per competere nel mercato concorrenza e trovano il loro fondamento e limite nel principio di concorrenza.

   4.
   Ricordavo prima che il codice della proprietà industriale è stato emanato in base ad una legge delega intitolata allo “sviluppo della concorrenza”. Molti altri interventi legislativi sono stati giustificati dall’intento di favorire la competitività tra le imprese; da ultimo con la legge sulla competitività.
   Potrebbe sembrare un’ipocrisia parlare tanto di concorrenza, quando si vogliono tutelare diritti di esclusiva. Se così fosse, come insegna La Rochefoucauld e come ha ricordato tempo fa Floriano d’Alessandro proprio a proposito di disciplina antitrust, «l’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù».
   In realtà, non è neppure ipocrisia, perché codificazione e proprietà intellettuale sono in linea col principio di concorrenza. Innanzitutto, per svolgere in modo corretto la competizione nel mercato, devono esistere regole certe dello stesso mercato: la codificazione serve allora per dare certezza del diritto.
   Inoltre, l’esclusiva è un effetto, riconosciuto dalla legge, dell’innovazione, che produce nuovi beni, in senso lato, da immettere nel mercato. Di per sé, i diritti di esclusiva, in quanto frutto di innovazione, accrescono, non già comprimono la concorrenza. Si tratta soltanto di sceverare la normale utilizzazione dei diritti di esclusiva dall’abuso di quei diritti.

* Relazione introduttiva al convegno “Un anno di attuazione del codice della proprietà industriale”, tenutosi nell’Università Roma Tre il 20 marzo 2006

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