1. Il bilancio come documento giuridico-economico
Può dirsi, in un’ottica generale, che il bilancio di un’impresa, nell’odierno sistema capitalistico, rappresenta il principale veicolo di informazione del mercato. Mediante il documento contabile, infatti, è possibile rappresentare non soltanto le attività realmente svolte dall’impresa, ma anche il suo posizionamento su quel determinato mercato, le sue possibilità di innovazione, l’apporto di tecnologia, il rapporto esistente fra consistenza del capitale sociale e capitalizzazione reale nel mercato di rischio, le prospettive di espansione e diversificazione, e così via, in un quadro tendenziale (di ordine negativo) nel quale la globalizzazione economica rende sempre più marcate le asimmetrie informative.
Queste ultime, infatti, sono all’origine di molte disfunzioni del mercato capitalistico ed anzi si potrebbe dire, in una prospettiva di tipo storico-interpretativo, che una delle chiavi di comprensione dell’economia capitalistica è proprio quella del dislivello esistente fra i soggetti che agiscono sul mercato: almeno entro certi limiti, la redditività di un investimento dipende dal grado di informazione che l’investitore è in grado di reperire. Conseguentemente, maggiore è la sua capacità di minimizzare tale dislivello informativo e maggiore è la sua possibilità di rendere redditivo un impiego di capitale, soprattutto nell’era dell’abbattimento dei confini economici e produttivi. Ciò significa, in sostanza, che la massimizzazione di un rendimento economico può ottenersi anche in ragione delle capacità di minimizzare le asimmetrie informative (1).
Ora, il legislatore, proprio in materia di bilancio, è parso, fin dall’esposizione del codice del 1942, ben consapevole di questa fondamentale problematica del capitalismo maturo, soprattutto nella sua versione “finanziarizzata”. Ma, tale consapevolezza era destinata a maturare ed accrescersi progressivamente, soprattutto per impulso dell’esperienza dei mercati (finanziari e bancari) anglosassoni, dove le asimmetrie informative sono state colpite penalmente in tempi assai risalenti rispetto a quanto avvenuto nel nostro ordinamento (2).
Così, l’intento sostanziale di assegnare al bilancio la funzione di correttezza e trasparenza è disposta chiaramente dall’art. 2423, 2° comma c.c., dove si parla di “chiarezza” e, soprattutto, del dovere di «rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società» (3). Tale funzionalizzazione delle norme sul bilancio è talmente forte che il legislatore dispone (art. 2423, 4° comma) una deroga all’applicazione delle medesime disposizioni, qualora, da questa applicazione, possa derivare una compromissione del dovere di rappresentazione veritiera e corretta, dovendosi peraltro ciò giustificare nella nota integrativa (4).
Sulla spinta di numerose direttive europee, lo sforzo del legislatore si è sempre di più indirizzato verso la predisposizione di schemi di bilancio “modellizzati” in senso uniforme in ambito europeo, nei quali devono prevalere le indicazioni fornite espressamente dall’art. 2423-bis c.c. (5).2. La funzione del bilancio
Il legislatore attuale (sia quello europeo e sia, per converso, quello italiano) ha mostrato di indirizzare i propri sforzi verso una sempre maggiore caratterizzazione in senso informativo e comunicativo del documento contabile fondamentale di un’impresa commerciale, soprattutto se quotata in borsa.
D’altronde, a questa chiara visione della funzione essenziale del bilancio ha corrisposto, nel tempo, una sempre maggiore consapevolezza da parte della dottrina del fatto che il bilancio di un’impresa commerciale (diciamo, per ora: impresa commerciale tout court, perché in realtà il bilancio riflette inevitabilmente la natura essenziale dell’oggetto imprenditoriale, come vedremo meglio quando parleremo in modo specifico del bilancio della banca) costituisca il fondamento delle informazioni che l’impresa stessa colloca sul mercato competitivo, in funzione strategica. Dapprima concepito come documento unicamente teso a rispecchiare la «vera e reale situazione dell’impresa», con il progresso verificatosi nei mercati finanziari capitalistici, ci si rende conto che è già sbagliato concepire il “bilancio” quale unitario modello di documento contabile: in realtà, questo strumento giuridico-economico deve essere relativizzato, a seconda del quadro storico-evenemenziale cui esso si rapporta. Si arriva in questo modo a fare del bilancio un documento essenzialmente “politico”, vale a dire di un documento di “equilibrio” (trade-off, per utilizzare una terminologia economicistica) fra interessi sovente contrapposti e perfino inconciliabili (6).
Questa tesi, come evidente, si scontrava con una serie di sollecitazioni anche etiche, per cui la “flessibilità” con la quale poteva concepirsi la redazione delle voci di bilancio, in un quadro di valorizzazione della sua funzione politica (in senso lato), comprometteva alcuni diritti, come, ad esempio, quello dei soci agli utili, qualora il management dell’impresa decidesse politiche di sottovalutazioni o di non aderenza dei cespiti alla reale situazione patrimoniale (in tal senso, la reazione dottrinale si attestò su quella che è stata definita “teoria delle riserve occulte”), dato che, a differenza del vecchio codice di commercio, quello civile del 1942 aveva pur introdotto regole di tipo valutativo ma, apponendo solamente vincoli derivanti da limiti massimi di valutazione, aveva praticamente legalizzato la prassi di distogliere riserve in favore di futuri investimenti o reinvestimenti nell’impresa (7).
La questione doveva essere risolta nel senso, di cui si è avuto già modo di parlare, di un ricorso pressoché esclusivo ad un criterio di rigidità della formazione del bilancio e dell’apporto di elementi valutativi, soprattutto dopo l’approvazione del d. lgs. n. 127/1991 e le successive direttive comunitarie (soprattutto la IV direttiva europea) (8).3. La banca come “impresa”
La banca è certamente un’impresa di tipo particolare. La dottrina ha abbondantemente chiarito come, a prescindere dalla legislazione più recente (e, in primis, il Testo unico bancario, TUB del 1993), che ha uniformato le funzioni di tutti gli istituti di credito, il legislatore assegna alle funzioni della banca una particolare disciplina, soprattutto dal lato della “raccolta del risparmio”.
Secondo un modo di interpretare questo aspetto peculiare della “specialità bancaria”, «nell’impresa bancaria sussiste infatti una notevole sproporzione tra entità dei mezzi propri impegnati nell’esercizio dell’attività e quella delle disponibilità complessive che il banchiere può rischiare in forza del mandato fiduciario ricevuto dai depositanti» (9).
Ma, in realtà, la “specialità” di questa impresa risiede anche in altre e più fondamentali ragioni, che sono, peraltro, complesse e ramificate.
Da un lato la “specialità imprenditoriale” deriva dal fatto che, proprio in quanto un elemento di connotazione dell’impresa bancaria è la raccolta del risparmio (coperta da tutela costituzionale, ex art. 47, 1° comma), la sua esplicazione e funzionalizzazione avviene in un contesto normativo di tipo pubblicistico (10).
D’altronde, tale contesto appare chiaramente delineato da quanto prescrive l’art. 10, 1° comma TUB, secondo il quale «la raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria», che deve essere considerata a tutti gli effetti attività di impresa. In questo senso, come noto, si parla di “elemento oggettivo” o “nozione oggettiva” di banca quale impresa tipicizzata ma, secondo un orientamento oramai maggioritario, “speciale”.
Che sia “attività imprenditoriale” a tutti gli effetti, assoggettata, per quanto concerne i rapporti contrattuali (d’altronde esplicitati sin dal codice del 1942, come dimostra il Capo XVII del Libro VI, rubricato “Dei contratti bancari”) alla disciplina di diritto comune, non può esservi dubbio, stante il fatto che l’impresa bancaria, soprattutto a seguito dell’introduzione del nuovo TUB, produce “servizi” finanziari (si pensi, fra gli altri, al servizio di collocamento di titoli di nuova emissione, alla gestione di patrimoni, alla gestione di portafogli di titoli, alla consulenza in senso stretto in materia di operazioni di borsa, ecc.) che non si risolvono esclusivamente nella tradizionale erogazione del credito (11). Più in particolare, ciò che rileva è la stretta correlazione esistente fra “raccolta del risparmio” ed “esercizio del credito”, perché si sia in presenza di un’attività concretamente definibile “bancaria” (12), anche se, dovremmo aggiungere, proprio il modello introdotto dal TUB del 1993 contribuisce ad allargare tale nozione, assegnando alla banca lo svolgimento anche di “altre attività”, su cui avremo modo di soffermarci in seguito.
Un cenno ai caratteri storico-evolutivi della banca può contribuire a chiarire meglio il carattere di “specialità” dell’impresa bancaria.
Se volgiamo lo sguardo – per ovvie esigenze di contenimento della nostra esposizione – solamente al secolo XIX, possiamo agevolmente constatare come la nascita e lo sviluppo delle grandi banche moderne sia espressione, ad un tempo, di iniziative nate nella grande industria manifatturiera, dall’altro nel circuito di accumulazione del capitale speculativo, soprattutto di origine estera (13). La banca all’origine del secondo momento dell’industrializzazione svolge una funzione tipica dell’impresa di intermediazione: collocare il capitale nelle formazioni nascenti del capitalismo (grande industria manifatturiera, industria ferroviaria, chimica, ecc.). Nel momento iniziale del processo, si ha l’accumulazione (cioè il conferimento in società con capitali di provenienza estera ma comunque protetti dall’anonimato); nel momento intermedio, il collocamento dei titoli di partecipazione (con forti acquisti da parte degli stessi soci delle banche); nel momento finale la creazione della ricchezza finanziaria e l’espansione dell’accumulazione, quando l’industria nascente si è già posizionata strategicamente sul mercato.
La nascita delle grandi banche di credito ordinario in un quadro sostanzialmente “privatistico” è destinata, anche se per molti versi surrettiziamente, a trasformarsi in modello “pubblicistico” (o “quasi pubblico”, come le aveva definite la dottrina sotto la vigenza della vecchia legge bancaria, con riferimento proprio a quelle banche di credito ordinario con rilevante impatto sul mercato del credito) con il fascismo e la crisi economica degli anni Trenta.
Ma la specificità della nozione di “impresa bancaria” non viene a cadere, solamente per il fatto che ad essa si ricollegano, in modo funzionale (e, potremmo dire, politico) esigenze di politica economica, in un quadro sostanziale di apporti keynesiani allo sviluppo produttivo. La specificità dell’impresa permane pur sempre nel ruolo di intermediazione, di canalizzazione degli esuberi capitalistici in un mercato che tende ad espandersi sempre di più, oltre i confini nazionali. La nozione di “specialità” dell’impresa bancaria risulta ancora più coerente nel momento in cui matura quel “processo di finanziarizzazione” dell’economia produttiva, che sembra essere il connotato essenziale della “società post-industriale”, caratterizzata dall’interesse speculativo più in direzione di quella che è stata definita “ricchezza virtuale” che, sovente, nella tradizionale direzione della produzione di merci (14). Nel momento in cui la grande impresa manifatturiera destina parte del capitale prodotto quale utile, invece che in investimenti produttivi di merci, in strumenti finanziari (anche se, sovente, “di copertura” del rischio di impresa, quali derivati, futures ed options), ben si comprende la specificità dell’innovata nozione di “impresa bancaria”, alla quale doveva corrispondere (dovremo dire: in forma speculare) la legislazione sezionale del credito. In realtà, la banca non assolve più, o meglio, non più soltanto, la funzione originaria (collocamento del capitale in industrie nascenti allo scopo di produrre merci o servizi, unitamente alle attività di raccolta dei depositi, che però si inseriscono nello stesso quadro finalistico) ma quella ulteriore di intermediazione nell’espansione della ricchezza finanziaria mediante l’impiego di ricchezza finanziaria esuberante rispetto agli scopi meramente industriali (15).4. Il bilancio della banca quale impresa
La specialità dell’impresa bancaria – nel contesto contemporaneo di privatizzazione degli istituti e di globalizzazione finanziaria – può apprezzarsi anche in riferimento alle funzioni di vigilanza svolte dalla Banca d’Italia, alle quali possono ricollegarsi, in modo funzionale e strutturale, le istruzioni che la medesima redige annualmente in relazione alla redazione dei bilanci degli istituti di credito.
Gli indici (in senso generico) di “specialità” del bilancio delle banche innanzitutto emergono da precise prescrizioni normative. Si pensi, ad esempio, al d. lgs. 27 gennaio 1992, n. 87 (Attuazione della direttiva 86/365/CEE, relativa ai conti annuali e ai conti consolidati delle banche e degli altri istituti finanziari, e alla direttiva 89/117/CEE, relativa agli obblighi in materia di pubblicità dei documenti contabili e succursali, stabilite in uno Stato membro, di entri creditizi ed istituti finanziari con sede sociale fuori di tale Stato membro). In particolare, l’art. 7, 4° comma prevede, con norma assai significativa del contesto che qui stiamo delineando, che «i conti del bilancio siano redatti privilegiando, ove possibile, la rappresentazione della sostanza sulla forma e il momento della regolamentazione dell’operazione su quello della contrattazione». Tale prescrizione, come scrive un’autorevole dottrina, conferma l’importante riconoscimento «dell’esigenza che nel documento fondamentale destinato a rappresentare periodicamente lo stato dell’impresa finanziaria occorre privilegiare l’essenza economica delle operazioni, quale emerge considerando appunto non solo l’atto iniziale, ma anche il suo termine finale, la “regolamentazione”, senza limitarsi alla visione atomistica dei singoli atti o negozi che possono puntualizzarne i vari momenti» (16).
La “specialità” dell’attività bancaria si riflette, in altri termini, sul più importante documento contabile, cioè il bilancio. Per comprendere questo punto, è necessario fondare l’analisi sugli sforzi compiuti, a livello europeo, per uniformare i principi di redazione del bilancio, soprattutto con riferimento a due soggetti economici, per i quali il bilancio assume un rilievo fondamentale in termini di stabilità e trasparenza del mercato finanziario: a) le società quotate; b) le società finanziarie e le banche.
Il problema del coordinamento fra le norme civilistiche italiane in materia di bilancio e quelle internazionali (potremmo anche dire fra un modello “continentale” e un modello “anglosassone”) è presente già nell’art. 117, 2° comma del Testo unico della finanza (TUF, d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), con il quale si dispone che il ministro di Grazia e Giustizia, di concerto con quello dell’Economia «individua con regolamento tra i principi contabili riconosciuti in ambito internazionale e compatibili con quelli delle direttive emanate in materia dall’Unione europea quelli sulla base dei quali gli emittenti strumenti finanziari quotati (…) possono, in deroga alle vigenti disposizioni in materia, redigere il bilancio consolidato» (17).
Con la legge delega n. 366/2001, per la riforma del diritto societario, il legislatore delegante, fra i principi e i criteri direttivi, ha disposto la necessità «di individuare le condizioni in presenza delle quali le società, in considerazione della loro vocazione internazionale e del carattere finanziario, possono utilizzare per il bilancio consolidato principi contabili riconosciuti internazionalmente».
Il Regolamento europeo n. 1606/2002 ha statuito che i bilanci consolidati delle società quotate in mercati regolamentati europei devono essere redatti secondo i principi contabili IAS/IFSR (International Accounting Standard-International Financial Reporting Standard) (18).
Infine, con il d. lgs. 28 febbraio 2005, n. 38, l’ordinamento italiano ha recepito il disposto già operante con il regolamento comunitario da ultimo citato (19). La legge italiana (art. 2, lett. c) dispone che le banche italiane di cui all’articolo 1 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, le società finanziarie capogruppo dei gruppi bancari iscritti nell’albo di cui all’articolo 64 del decreto legislativo n. 385 del 1993, le società di intermediazione mobiliare di cui all’articolo 1, comma 1, lettera e), del decreto legislativo n. 58 del 1998, le società di gestione del risparmio di cui all’articolo 1, lettera o), del decreto legislativo n. 58 del 1998, le società finanziarie iscritte nell’albo di cui all’articolo 107 del decreto legislativo n. 385 del 1993; gli istituti di moneta elettronica di cui al titolo V-bis del decreto legislativo n. 385 del 1993, debbano adottare il criterio IAS-IFSR per la redazione del bilancio. Le banche e gli altri istituti descritti dall’art. 2, lett. c) hanno l’obbligo di redigere il bilancio consolidato a partire dal 31 dicembre 2006.
In particolar modo, la Circ. della Banca d’Italia 262 del 22 dicembre 2005, che introduce norme di principio e di dettaglio in ordine alla redazione del bilancio delle banche, individua l’ambito di applicazione di queste disposizioni regolamentari con riferimento alle banche italiane di cui all’art. 1 del T.U.B. nonché le società finanziarie capogruppo dei gruppi bancari iscritti nell’albo di cui all’art. 64 del T.U.B. redigono per ciascun esercizio il bilancio dell’impresa e, ove ne ricorrano i presupposti ai sensi del “decreto 87/92”, il bilancio consolidato in conformità dei principi contabili internazionali di cui all’art. 1 del decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38 e secondo le disposizioni contenute nella circolare citata.5. La “specialità” del bilancio della banca quale impresa: l’adozione dei principi contabili internazionali (IAS/IRFS)
Da quanto emerso si comprende come la “specialità” della banca quale “impresa commerciale”, ai sensi dell’art. 2195, n. 4, si rifletta anche in materia di redazione del bilancio (consolidato o meno). Le imprese di assicurazione, ad esempio, non sono soggette a questo obbligo.
L’adozione dei principi IAS/IFSR, d’altronde, risponde al modello anglosassone di redazione contabile e prospetta una rilevante modifica, anche culturale, rispetto ai tradizionali principi aziendalistici e ragionieristici finora invalsi. Il bilancio si ispira innanzitutto al principio della prevalenza della sostanza sulla forma, come si è avuto modo di accennare in precedenza. Il metodo tradizionale, fondato sulla prevalenza della “forma”, si caratterizza per il fatto che la rappresentazione delle operazioni in bilancio avviene in genere in base al “diritto di proprietà” (quindi, tenendo conto del momento genetico, ad esempio, del diritto di credito); mentre il metodo sostanziale privilegia l’aspetto prettamente economico-finanziario (20).
Un altro elemento di differenziazione del bilancio della banca quale emerge dall’adozione delle nuove norme IAS/IRFS è quello riguardante la tutela dei creditori. Con il metodo civilistico finora utilizzato, può dirsi che la tutela dei creditori mediante la redazione del bilancio avvenisse in base a tre elementi specifici:
– l’iscrizione al costo storico di beni e dei diritti;
– la prudenza nelle valutazioni del bilancio;
–l calcolo del reddito prodotto dalla società.
L’impostazione fornita dalle norme IAS/IRFS tende a privilegiare, invece, oltre che i creditori, quelli che sono definiti “investitori attuali e potenziali”. È evidente come, proprio per il bilancio di una banca, questo elemento di novità sia estremamente significativo. Il bilancio di esercizio, da questo punto di vista, deve essere finalizzato a rappresentare il “valore economico” (o “valore di mercato”) della società, con il fine di poter confrontare il patrimonio netto della medesima con il suo valore di borsa (c.d. book value-to-price).
Anche in materia di “prudenza” nelle valutazioni di determinate poste di bilancio, il metodo IAS/IRFS si pone in termini concettualmente molto diversi rispetto al metodo tradizionale civilistico. Il principio della prudenza consiste essenzialmente nel valutare le voci del bilancio in modo da imputare al conto economico le “perdite presunte” e non gli “utili attesi”. Il metodo IAS/IRFS, invece, consente di imputare al conto economico sia le perdite presunte, sia gli utili attesi, secondo il principio di valutazione del c.d. “valore di mercato” (market to market). In altri termini, il bilancio deve esporre al fair value (“valore equo”) la situazione patrimoniale ed economica della società alla data di chiusura dell’esercizio, includendo anche gli utili attesi su quelle operazioni che si concluderanno negli esercizi successivi (21).
Proprio in riferimento all’adozione del criterio del fair value si può intendere la maggiore aderenza ad un bisogno informativo del mercato in riferimento alla redazione del bilancio di una banca secondo i nuovi principi contabili (22). Il principio del fair value, ben noto nel modello anglo-sassone di redazione, consiste essenzialmente nella valutazione al “valore di mercato” di un determinato bene o di un determinato credito. Ogni anno l’impresa deve valutare i propri beni e i propri diritti, registrando eventuali plusvalenze o minusvalenze sulle voci dello stato patrimoniale. Il fine specifico di tale valutazione è quella di esporre all’investitore, in un quadro realistico, il valore corrente del patrimonio in modo tale che il mercato possa assumere quelle decisioni di investimento considerate più redditizie. In altri termini, il principio del fair value espande la soggettività dei valori dello stato patrimoniale. Questo principio si applica in particolare modo alle immobilizzazioni immateriali (c.d. intangibles), alle immobilizzazioni materiali, alle attività e passività finanziarie (23).
Particolare rilevanza, secondo le istruzioni fornite dalla già citata Circ. B.I. 22 dicembre 2005 assume la concordanza fra le risultanze contabili ordinarie e quelle del bilancio. In base a quanto disposto dalle norme B.I., è necessario che «nel sistema informativo contabile siano presenti e agevolmente reperibili tutti gli elementi informativi necessari ad assicurare tale raccordo; in sede di redazione del bilancio la coerenza tra le evidenze contabili sistematiche e i conti del bilancio deve essere assicurata anche mediante apposite scritture di riclassificazione. Analogamente, nel sistema informativo contabile devono essere presenti e agevolmente reperibili tutti gli elementi informativi necessari a redigere il prospetto delle variazioni del patrimonio netto, il rendiconto finanziario e la nota integrativa» (24).6. Conclusioni
Da quanto si è detto appare chiaro come l’impresa bancaria, in materia di bilancio, sia soggetta ad un doppio modello di valutazione. Da un lato, l’attività di vigilanza e di “supervisione” operato dalla Banca d’Italia con il fine di raccordare funzionalmente l’attività specifica di impresa alla tutela costituzionale dei risparmiatori, concepiti in senso lato. Dall’altro, il modello internazionalistico, a sua volta rappresentato, sia dalle norme contabili IAS/IRFS di cui si è detto, sia da quelle più generali (ma strettamente connesse con la materia del bilancio) relative ai processi di auditing e rating del “rischio di credito” codificati dall’Accordo di Basilea 2 (2004).
È evidente come proprio l’accordo di Basilea 2 sia destinato, unitamente all’accoglimento delle norme contabili internazionali, a trasformare radicalmente l’apparato informativo e comunicazionale dell’impresa bancaria, rispetto alle contemporanee esigenze del mercato (25).
Il fine specifico è quello di istituire un raccordo funzionale e strutturalmente efficace fra banca e mercato, cioè fra il soggetto imprenditoriale che svolge funzioni di intermediazione e il soggetto che agisce sui mercati finanziari. In questo contesto, il bilancio della banca si presenta nella sua “specialità” soprattutto in termini informativi, laddove, ad esempio, il “patrimonio di vigilanza” globalmente considerato (determinato ai sensi di quanto dispone l’accordo di Basilea 2) dovrà significare, di per sé, mediante una rappresentazione di bilancio orientata al mercato, il veicolo trainante delle scelte di investimento, che non riguardano evidentemente soltanto la banca, ma coinvolgono titoli di partecipazione e di credito intermediati dalla banca.
È in questo senso che il bilancio della banca, al di là della sua funzione meramente ricognitiva, deve sempre più diventare uno degli strumenti di limitazione delle asimmetrie informative dei mercati maturi.* Il presente lavoro è il testo, con aggiunta dei riferimenti bibbliografici dell’esercitazione svolta il 25 marzo 2006 nel corso di Diritto Bancario, Cattedra del Prof. Paolo Ferro-Luzzi, Università degli Studi “La Sapienza di Roma”.
NOTE
(1) Il problema delle asimmetrie informative si pone, come meglio si dirà fra poco, sui mercati finanziari in modo assai problematico ed è all’origine, fra altri elementi, di ristrutturazioni e ricombinazioni dei profitti fra i diversi fattori della produzione. I legislatori nazionali (ed anche quello europeo) dei Paesi capitalisticamente evoluti si sono resi perfettamente conto di questo problema e numerosi sono stati gli interventi normativi finalizzati a porre obblighi informativi in modo tale da limitare tali asimmetrie, soprattutto sui mercati speculativi di prodotti finanziari. La dottrina ha analizzato tale problematica, soprattutto all’interno della teoria nord-americana dell’agenzia. Come noto, la teoria dell’agenzia pone quale postulato il fatto che il rapporto che si instaura fra due soggetti, il principal e l’agent è finalizzato, in linea di massima, ad apportare benefici sinallagmatici in ragione direttamente proporzionale all’esistenza di asimmetrie informative fra i due soggetti. In altri termini, maggiore è l’asimmetria informativa e maggiore sarà lo squilibrio nelle reciproche prestazioni. Il punto critico esaminato da questa teoria è che – entro certi limiti – l’interesse dell’agent a massimizzare il proprio profitto può dipendere sostanzialmente dal fatto che egli attribuisca al principal un maggiore rischio e, quindi, la possibilità di una maggiore perdita. Ora, l’asimmetria informativa connota tale rapporto nella dimensione di quella che la dottrina giuridico-economica nord-americana definisce moral hazard, o altrimenti hidden action: se il principal (committente, delegante, disponente, ecc.) non è in grado di monitorare l’attività specifica che l’agent compie a proprio nome ma per suo conto (in un rapporto strutturato secondo il modello del mandato senza rappresentanza), ciò può comportare un’incentivazione per l’agent a seguire comportamenti opportunistici che, dal punto di vista prettamente economico,possono portare ad una massimizzazione della redditività del rapporto instaurato, in senso paretiano-efficiente (vedi, per la teoria generale dell’agenzia, in riferimento alle problematiche specifiche del contratto, MAFFEIS, Conflitto di interessi nel contratto e rimedi, Milano, 1992, 56 ss.; per la dottrina nord-americana, vedi lo studio più famoso e pionieristico in materia di ROSS, The Economic Theory of Agency: the Principal’s Problem, in «The American Economic Review», 134 (1973); vedi anche CLARK, Principal and Agent, in «The New Palagrave. A Dictionary of Economics», vol. III, New York, 1987, 967 ss.). La dottrina nord-americana definisce, dunque, le azioni finalizzate a minimizzare le asimmetrie informative quali “costi di agenzia”: in altri termini, il principal sopporta determinati costi che vanno imputati alla necessità di monitorare l’attività compiuta dall’agent per minimizzare le asimmetrie informative e massimizzare la sinallagmaticità del rapporto negoziale (in questi termini, tale rapporto va visto in senso inversamente proporzionale). Vedi su questi punti, che in questa sede non è ovviamente possibile analizzare, SARTORI, Il conflitto di interessi nel diritto dei contratti. Prospettive di analisi economica, in Riv. dir. bancario, settembre 2003, www.dirittobancario.it, nel quale l’autore propone anche un semplice modello matematico per comprendere il problema del conflitto di interessi nel rapporto di agenzia.
(2) Un esempio assai chiaro da questo punto di vista è la previsione, nel nostro ordinamento, del reato di insider trading, che può essere concepito come il modello principale e più tipico (per i mercati finanziari evoluti) di sfruttamento e massimizzazione di una “rendita da privilegio informativo”. Nella prassi anglosassone si è soliti far risalire la nozione di tale fattispecie al 1733, quando alcuni amministratori della Compagnia olandese delle Indie furono accusati di aver venduto azioni prima che la notizia della riduzione del dividendo ne dimezzasse il corso (vedi su questo punto, HOPT, Norme etiche e norme giuridiche nel diritto dell’economia: uno studio sull’autodisciplina tedesca degli insiders, in Riv. soc., 1974, 1046 ss.). Negli ordinamenti anglosassoni, ed in particolare in quello statunitense, accanto al rimedio civilistico, rappresentato dalla possibilità per gli investitori danneggiati di ricorrere alla class action, con l’applicazione delle interpretazioni fornite dalla Corte Suprema del Security Exchange Act del 1934, il reato è punito con sanzioni amministrative. Dagli anni Ottanta, una legislazione di settore punisce penalmente l’abuso di informazione privilegiata (Insider Trading Sanctions Act, 1984 e Insider trading and Securities Fraud Act 1988, con le quali l’insider trading è divenuto un reato di competenza federale) Nel nostro ordinamento, fino all’approvazione della legge 17 maggio 1991, n. 157, la fattispecie non era prevista quale reato. Successivamente, gli artt. 180-187 del Testo unico della finanza disciplinarono nuovamente la materia, in sostituzione della legge n. 157/1991, considerata imprecisa dal punto di vista della nozione oggettiva della fattispecie incriminatrice. Infine, dopo l’emanazione della direttiva europea 2003/6/CE, con la legge comunitaria del 2005, si è introdotto nel nostro ordinamento una nuova disciplina che accomuna sia il reato di insider trading, sia quello, più generico, di market abuse (“manipolazioni del mercato”). Il riferimento alla tematica del bilancio è quanto mai appropriata, in quanto è proprio l’esattezza, la trasparenza, l’accuratezza di questo documento contabile dell’impresa che possono generare asimmetrie informative, al pari dell’insider trading, più o meno cospicue sui mercati finanziari. Da tale consapevolezza – presente anche nel legislatore del codice – derivano gli artt. 2621 ss. c.c., ripetutamente riformati (in funzione mitigatrice, soprattutto per quanto concerne il “falso in bilancio”, con l’introduzione di una sorta di “franchigia” relativa al danno realmente prodotto dalla falsità del bilancio, al di sotto della quale non scatta la punibilità).
(3) La “clausola generale” disposta dalla norma si riferisce al principio della “chiarezza” inteso quale “comprensibilità” e “intelligibilità” del bilancio, mentre la “veridicità” riguarda il comportamento valutativo degli amministratori (vedi sul punto, FERRERO, I complementari principi della chiarezza, della verità e della correttezza nella redazione del bilancio di esercizio. Contributo all’interpretazione degli articoli 2423 e 2423-bis dell’innovato codice civile, Milano, 1991, 8 ss.
(4) Secondo la dottrina, le norme oggetto della deroga dovrebbero essere quelle relative alla struttura del bilancio, ossia al contenuto informativo di stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa e ai criteri di valutazione. Più esattamente, in relazione allo stato patrimoniale e al conto economico, «la deroga risulta astrattamente applicabile solo a modificazioni degli schemi previsti dal legislatore, rese necessarie a causa della natura dell’attività svolta dall’impresa o della situazione eccezionale in cui al stessa si trova» (MARASCA, L’esercizio delle deroghe civilisiche, in MARCHI (a cura di), L’applicazione di principi contabili nei bilanci delle imprese, Milano, 2000, 520).
(5) Vedi sul punto, CARATOZZOLO, Il bilancio di esercizio, Milano, 1998, 160 ss.
(6) Per una panoramica storico-ermeneutica del bilancio, vedi LIBONATI, Bilancio delle società, in Nss. D.I., Appendice I, Torino, 1980, 804 ss.; nello stesso senso, ROSSI, Utile di bilancio, riserve e dividendo, Milano, 1957, 5 ss.
(7) ROSSI, Utile di bilancio, cit., 21 ss.
(8) D’altronde, come noto, il bilancio può essere considerato un documento complesso e composto, peraltro polifunzionale, in quanto destinato a soddisfare esigenze assai diverse fra di loro. Il bilancio deve essere pubblicato nel registro delle imprese (funzione pubblicistica del bilancio); esso è la fonte per la determinazione del dividendo destinato agli azionisti (art. 2433 c.c.); di determinazione degli utili da destinare a riserva legale (art. 2430 c.c.); di quantificazione del credito dei dipendenti fondatori o amministratori che partecipano agli utili (artt. 2102, 2340, 2342 c.c.); di quantificazione della quota dovuta all’azionista o quotista recedente (art. 2437 c.c.); di misurazione del capitale “esistente” (art. 2410 c.c.); di determinazione delle somme che è possibile utilizzare per l’acquisto di azioni proprie o di società controllanti (art. 2357 e 2359-bis c.c.); di accertamento dell’obbligo di riduzione del capitale per perdite (art, 2446, 2° comma c.c.). Così, le fattispecie distintamente enucleate corrispondono agli interessi molteplici cui si è fatto cenno e che risuonano nella medesima struttura contenutistica del bilancio: gli interessi degli azionisti a conoscere l’andamento e la situazione della società, la bontà dell’amministrazione svolta dal top management, la redditività e la sicurezza dell’investimento, le prospettive future, per consentire in questo modo di compiere determinate scelte coerenti con gli obiettivi predeterminati in relazione alla nomina degli amministratori, alla destinazione degli utili (ad esempio per incrementare gli investimenti e, dunque, il livello aggregato della produzione); gli interessi dei creditori e dei fornitori a conoscere le notizie ora indicate, ovvero se troncare i rapporti di affari con l’impresa in perdita di esercizio; l’interesse del mercato finanziario (e degli stessi enti collocatori di titoli di partecipazione o di credito) a conoscere i parametri di redditività delle azioni quotate, in funzione della capacità di reddito dell’impresa, ovvero la dovuta informazione che il bilancio può produrre nel contesto della contendibilità delle imprese, quindi delle politiche di investimento che determinati imprenditori possono intraprendere mediante l’acquisizione di quella determinata impresa.
(9) CASTALDI, Il testo unico bancario tra innovazione e continuità, Torino, 1997, 21. Secondo l’autore, ciò è alla base delle politiche di vigilanza che la legge dispone nei confronti delle banche. Infatti, «la fitta rete di relazioni finanziarie che sempre più lega fra di loro i diversi intermediari è inoltre suscettibile di propagare a livello sistemico gli effetti delle crisi anche di un solo operatore se caratterizzato da dimensioni ragguardevoli».
(10) P. FERRO-LUZZI, Lezioni di diritto bancario, I, Parte generale, Torino, 2004, 12, il quale distinguendo fra disciplina del soggetto-imprenditore e disciplina dei contratti che egli stipula con i consumatori, assegna alla prima una connotazione eminentemente pubblicistica. Del resto, ad avviso dell’autorevole dottrina, «tale natura, valore e portata aveva la “Legge bancaria”, che appunto regolava fondamentalmente i soggetti, l’attività e la vigilanza sugli stessi, mentre la stessa presenza di un organo pubblico di vigilanza, la Banca d’Italia, conferma la natura essenzialmente pubblica di tale disciplina».
(11) Sull’attività imprenditoriale della banca, vedi, fra gli altri: FERRO-LUZZI, Nozione di attività bancaria, in FERRO-LUZZI-CASTALDI (a cura di), La nuova legge bancaria, Milano, 1996, 210; vedi anche, CASTALDI, La disciplina dell’attività bancaria, in MORERA-NUZZO (a cura di), La nuova disciplina dell’impresa bancaria, vol. II, Milano, 1996, 1 ss.; vedi, per quanto concerne la nozione di “altre attività” che possono essere esercitate dalle banche e che delineano complessivamente l’attività di impresa delle stesse, FERRO-LUZZI, Attività bancaria e attività delle banche, in Banca, impresa e società, 1996, 3 ss.
(12) D’altronde, nonostante la maggiore precisione del TUB del 1993 rispetto alla legge bancaria del 1936, in dottrina si fa comunque notare come la nozione “realistica” di attività bancaria dovrebbe essere prettamente “economica” e si precisa ulteriormente: «Le espressioni, volutamente e giustamente atecniche da un punto di vista giuridico, “raccolta di risparmio” ed “esercizio del credito” vogliono indicare che è raccolta ed è erogazione, qualunque operazione congegnata nei termini economici che ho indicato, indipendentemente dalla circostanza che giuridicamente l’operazione si realizzi con un solo negozio, ovvero concorrano a costruirla più negozi, atti ed altro, purché programmaticamente tra le parti, tra due operatori, l’operazione sia schematizzabile nei seguenti termini: danaro (acquisizione e concessione della disponibilità di)-tempo-danaro (restituzione del), così essendo il danaro, la moneta l’inizio e il termine dell’operazione» (FERRO-LUZZI, Lezioni, I, cit., 102).
(13) Ci riferiamo, qui, in particolar modo alla fondazione della “Banca commerciale italiana” e del “Credito italiano” avvenuti entrambi mediante la fondamentale partecipazione e trasfusione di capitali da parte della Germania guglielmina subito dopo il 1870 (cioè, dopo la guerra franco-prussiana e l’unificazione tedesca). Le ragioni specifiche in base alle quali furono costituite le due più grandi banche di credito ordinario italiane furono, come detto nel testo, da un lato, l’esigenza (interna) di finanziare il processo di industrializzazione, nel quadro europeo della seconda rivoluzione industriale, dall’altro l’esigenza (esterna) di trovare un mercato di sbocco all’esuberante capitale dei Paesi maggiormente sviluppati (in questo caso, la Germania). Vedi sul punto l’analisi compiuta da HERTNER, Capitale straniero, banche miste e sviluppo industriale in Italia (1883-1914), in MORI (a cura di), L’industrializzazione in Italia (1861-1900), Bologna, 1977, 247 ss.
(14) Ricorriamo a questa locuzione, “ricchezza virtuale” (o “capitalismo virtuale”) nel senso delineato da una interessante dottrina, secondo cui «la caratteristica fondamentale del mercato finanziario è, infatti, quella di avere ad oggetto ricchezza virtuale: quando si offre al pubblico un prodotto finanziario si offre sostanzialmente l’informazione di una ricchezza. Sul contenuto, sulla qualità e sul tempo di questa informazione e sulla efficienza e sull’efficacia del sistema dei controlli devono fondarsi le scelte di un legislatore che voglia effettivamente garantire l’allocazione ottimale delle risorse nel mercato favorendo l’attrazione delle stesse». Tali scelte «devono tenere conto delle specificità dell’ordinamento che è fortemente caratterizzato da un sistema di capitalismo familiare fatto di piccole e medie imprese, ove la regolamentazione deve rimanere prevalentemente pubblica, a differenza di altre realtà ove l’accentuazione del ruolo dell’autonomia e dell’autoregolamentazione trova la sua ratio nella centralità dei mercati, che in Italia hanno purtroppo un ruolo marginale» (FIMMANÒ, I gap di informazione e controllo nei crac Cirio e Parmalat e le prospettive di riforma, in Le soc., n. 4, 2004, 492).
(15) Il TUB del 1993 risponde pienamente alle esigenze che si sono create con lo sviluppo storico dell’impresa bancaria. Il legislatore del 1936 aveva posto come esigenza prioritaria quella relativa alla “stabilità del sistema”, individuando come via per il perseguimento di questo fine il contenimento del numero degli operatori bancari (si pensi, al “piano sportelli” in rapporto all’estensione territoriale degli istituti di credito, che praticamente impediva qualsiasi ipotesi concorrenziale fra i soggetti attivi sul mercato del credito), la marcata segmentazione operativa, istituzionale e temporale del mercato, il restrittivo controllo autorizzativo sulla struttura territoriale della banca, la riduzione delle possibili commistioni di interessi fra banca e industria, il presidio della liquidità delle banche realizzato mediante una «correlazione delle scadenze basata non su criteri tecnico-operativi ma sulla specializzazione degli intermediari per scadenze» (MASI-TIDU, Aziende ed istituti di credito, I, Aziende ed istituti di credito italiani, in Eng. giur. Treccani, vol. IV, Roma, 1997, § 1.1). Si deve inoltre sottolineare, sulla base di quanto asserito da autorevole dottrina (FERRO-LUZZI, Lezioni, cit., vol. I, 106 ss.), che la nozione di “impresa bancaria” manifesta la sua tipicità non tanto, ovviamente, per il fatto di rispondere a quanto dispone l’art. 2082 c.c., in maniera oramai troppo generica, quanto perché «la destinazione all’erogazione del risparmio raccolto e l’effettuarsi dell’erogazione appunto con il risparmio raccolto» sono «circostanze che influiscono profondamente sulla natura e sulla struttura anche dei negozi di raccolta e di erogazione, caratterizzandoli, tipicizzandoli così come contratti di impresa bancaria».
(16) FERRO-LUZZI, Lezioni, cit., 103-104. D’altronde, ci sembra di poter dire che la distinzione fra momento contrattuale (iniziale) e momento regolatorio (finale) corrisponda, entro determinati limiti concettuali, a quella tradizionalmente presente nei principi di contabilità pubblica fra “bilancio di competenza” e “bilancio di cassa”, in relazione all’elemento meramente giuridico (la nascita del diritto di esazione, quindi il momento genetico della “competenza” da parte dell’ente pubblico ad acquisire quel determinato cespite) e a quello meramente economico (il momento in cui, materialmente, l’ente pubblico acquisisce il quantum). Vedi su questo punto, in riferimento al significato anche “politico” e concettuale del “bilancio di cassa”, BENNATI, Contabilità di Stato, Napoli, 1987, 207; per quanto concerne il nuovo modello di interpretazione del bilancio pubblico, SAMBUCCI, Linee evolutive della contabilità pubblica, Torino, 1999, 122 ss.
(17) Vedi, per quanto concerne la materia del bilancio bancario e l’adozione di un modello internazionale, CIOCCA, “Basilea 2” e “IAS”: più concorrenza, minori rischi, VII Convention ABI, Roma, 29 novembre 2004.
(18) L’acronimo IAS evidenzia il taglio prettamente contabile (accounting) con il quale sono stati elaborati i principi stessi. Con il passare del tempo il taglio meramente contabile è stato, almeno in parte, mitigato dall’introduzione degli IFRS, ossia di principi finalizzati a garantire il trasferimento di informazioni di importante livello qualitativo, a carattere sia contabile che finanziario, attraverso la redazione di documenti (bilanci) comprensibili anche ai non addetti ai lavori. Da ciò emerge chiaramente la volontà del legislatore europeo e delle norme convenzionali (come quelle adottate nella sessione di Basilea 2) di rendere il bilancio delle società e delle banche più aderente agli scopi informativi dello stesso, senza necessariamente l’apporto di una mediazione professionale, che rientra in quello schema della “teoria dell’agenzia” cui abbiamo fatto riferimento nella parte iniziale di questo lavoro.
(19) Il decreto legislativo (emanato con la delega di cui all’art. 25 della legge comunitaria per il 2003) si è reso necessario in quanto l’art. 5 del Reg. europeo n. 1606/02 ammetteva la discrezionalità, per gli Stati membri, di estendere o restringere l’ambito di applicazione delle nuove norme contabili a determinate imprese.
(20) Vedi su questi punti specifici, DEZZANI, “Principi civilistici” e “principi IAS/IRFS”: “sistemi alternativi” per la redazione del bilancio di esercizio, in www.ipc.it, 2005. la differenza fra i due metodi può ben essere espresso in materia di leasing finanziario. Con il principio della prevalenza della forma sulla sostanza il costo del bene concesso in leasing viene iscritto nello stato patrimoniale della società di leasing, che ne è la società proprietaria. Nel bilancio della società utilizzatrice, invece, sono iscritti i canoni di leasing alle date di maturazione e, nei conti di ordine, l’ammontare dei canoni futuri. Il bene sarà iscritto nello stato patrimoniale solamente alla data del riscatto e per il costo complessivo le riscatto. Con il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, invece, il bene in leasing viene iscritto nello stato patrimoniale della società utilizzatrice in base al costo originario di acquisto, con contropartita il debito verso la società di leasing. La società utilizzatrice calcola l’ammortamento sul bene in leasing, paga le rate di debito verso la società di leasing con i relativi interessi. La società di leasing iscrive nel suo stato patrimoniale il credito verso la società utilizzatrice.
(21) Bisogna però notare che l’art. 5, 1° comma del d. lgs. n. 38/05 dispone una deroga simile a quella di cui all’art. 2423, 4° comma c.c., in base alla quale «Se, in casi eccezionali, l'applicazione di una disposizione prevista dai principi contabili internazionali e' incompatibile con la rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, di quella finanziaria e del risultato economico, la disposizione non e' applicata. Nel bilancio d'esercizio gli eventuali utili derivanti dalla deroga sono iscritti in una riserva non distribuibile se non in misura corrispondente al valore recuperato».
(22) Vedi su questo punti specifici, BIFFIS, Il bilancio delle banche e dei gruppi bancari: problemi aperti, Padova, 1998, 39 ss. La citata Circ. B.I. del 22 dicembre 2005 dispone anche che per ogni conto dello stato patrimoniale e del conto economico occorre indicare anche l'importo dell'esercizio precedente. Se i conti non sono comparabili, quelli relativi all'esercizio precedente devono essere adattati; la non comparabilità e l'adattamento o l'impossibilità di questo sono segnalati e commentati nella nota integrativa. Le attività e le passività, i costi e i ricavi non possono essere fra loro compensati, salvo che ciò sia ammesso o richiesto dai principi contabili internazionali o dalle disposizioni regolamentari della stessa Banca d’Italia. Nello stato patrimoniale e nel conto economico non sono indicati i conti che non presentano importi né per l'esercizio al quale si riferisce il bilancio né per quello precedente. Se un elemento dell'attivo o del passivo ricade sotto più voci dello stato patrimoniale, nella nota integrativa deve annotarsi, qualora ciò sia necessario ai fini della comprensione del bilancio, la sua riferibilità anche a voci diverse da quella nella quale è iscritto.
(23) Per approfondimenti su questi aspetti, vedi PORTALUPI (a cura di), La redazione del bilancio IAS, in «Guida ai principi contabili internazionali», Milano, 2005, 54 ss.
(24) Circolare Banca d’Italia, Il bilancio bancario: schemi e regole di compilazione, Roma, 2005, in www.bancaditalia.it, § 1.4.3.
(25) Il cosiddetto “secondo pilastro” dell’accordo di Basilea 2 coinvolge direttamente le funzioni di garanzie offerte dalla Banca centrale. Più in particolare, le norme di “Basilea 2” dispongono che il secondo pilastro si fondi su quattro principi: a) la creazione e il consolidamento di un processo di valutazione interno delle banche in riferimento alla loro complessiva adeguatezza patrimoniale, tenuto conto del loro specifico profilo di rischio, adottando, al tempo stesso, una strategia finalizzata al mantenimento del loro livello di patrimonializzazione; b) l’Autorità di vigilanza deve svolgere un’opera continua di verifica delle strategie di valutazione dell’adeguatezza patrimoniale delle banche e della loro stessa capacità di monitorare in via continuativa l’adeguatezza della propria situazione patrimoniale con l’esposizione complessiva del credito operativo; c) l’Autorità di vigilanza, peraltro, deve controllare che le banche operino costantemente al di sopra del capitale minimo predisposto ; d) infine, l’Autorità deve intervenire con largo anticipo per evitare che il patrimonio di vigilanza delle banche scenda sotto il livello minimo, richiedendo alle banche l’adozione di rapide misure di ripristino della garanzia patrimoniale.