il diritto commerciale d’oggi
    V.3 – marzo 2006

STUDÎ & COMMENTI

 

SAVERIO BARTOLI

I trusts nei rapporti di famiglia e nella gestione patrimoniale della crisi coniugale *

 

Sommario: 1. Il trust ed i soggetti incapaci. – 1.1 L’incapace disponente. – 1.2 L’incapace beneficiario
1.2.1 Il problema se il trustee di un trust con beneficiari incapaci debba o meno, prima di compiere un atto di straordinaria amministrazione, munirsi di autorizzazione giudiziale in sede di volontaria giurisdizione. – 1.2.1.1 Impostazione del problema; la decisione del Trib. Casale Monferrato 13 aprile 1984. – 1.2.1.2 Soluzioni prospettate dopo l’entrata in vigore della Convenzione. – 1.2.1.3 La tesi proposta. – 1.2.1.3.1 I principi desumibili dal sistema in materia di amministrazione, nell’interesse di incapaci, di beni provenienti da negozi aventi natura di liberalità. – 1.2.1.3.2 Estensione di detti principi al trust con beneficiari incapaci . – 1.2.1.3.3 Esigenza di distinguere fra straordinaria amministrazione del trust fund da parte del trustee e straordinaria amministrazione del diritto del beneficiario da parte del suo legale rappresentante. – 1.2.1.3.4 Riflessioni su talune fattispecie particolari . – 1.2.2 Modifica del trust in presenza di beneficiari incapaci. – 2. Il trust e le convenzioni matrimoniali. – 2.1 Trust e fondo patrimoniale. – 2.1.1 Raffronto fra i due istituti. – 2.1.2 Il problema della conversione del fondo patrimoniale in trust. – 2.1.2.1 Premessa. – 2.1.2.2 Le due fattispecie concrete. – 2.1.2.2.1 Esposizione del caso 1. – 2.1.2.2.2 Esposizione del caso 2. – 2.1.2.3. Commento alle due decisioni. – 2.1.2.3.1 Il profilo dell’inammissibilità dei ricorsi. – 2.1.2.3.2 Problema della natura giuridica delle operazioni negoziali prospettate dai ricorrenti; loro inesatta qualificazione in termini di atto di straordinaria amministrazione dei beni del fondo da parte della decisione relativa al caso 2; critica alla motivazione posta da detta decisione a fondamento del diniego dell’autorizzazione. – 2.1.2.3.3 Conseguenze della qualificazione delle operazioni prospettate dai ricorrenti in termini di convenzione matrimoniale estintiva del fondo patrimoniale; problema dell’ammissibilità o meno di un negozio siffatto. – 2.1.2.3.4 La pubblicità dello scioglimento consensuale del fondo patrimoniale. – 2.2. Il trust come convenzione matrimoniale atipica ex art. 161 cod. civ. – 3. Il trust nell’ambito della crisi coniugale. – 3.1. Il trust negli accordi di separazione e divorzio. – 3.2 Una recente concreta applicazione del trust nella separazione consensuale. – 3.2.1 La vicenda. – 3.2.2 Le questioni giuridiche inerenti al trust: il problema dell’ammissibilità del trust interno (cenni) e quello del trust autodichiarato. – 3.3 Il problema dell’ammissibilità di un trust imposto dal giudice in sede di separazione o divorzio contenziosi.

 

1. Il trust ed i soggetti incapaci
1.1 L’incapace disponente

   Viene in primo luogo in questione l’ipotesi del trust in cui il ruolo di disponente è rivestito dall’incapace: la giurisprudenza ha avuto modo di occuparsi di vicende siffatte in tre occasioni, regolarmente autorizzando i legali rappresentanti dell’incapace ad istituire ex novo un trust ovvero ad aderire, con propri apporti patrimoniali, ad un trust preesistente (1).
   In casi del genere, beni appartenenti all’incapace vengono trasferiti ad un trustee affinché gli stessi divengano inattaccabili dagli eventuali creditori del disponente e siano amministrati dal trustee in modo da farne godere le relative utilità all’incapace stesso, di solito per tutta la durata della sua vita.
   Da sottolineare il fatto che, non potendo l’incapace – com’è noto – effettuare donazioni né dirette né indirette, beneficiario dei beni dal medesimo conferiti in trust potrà essere soltanto l’incapace stesso (2).
   Ne discende che, una volta cessato il trust, i beni che l’incapace a suo tempo conferì nel medesimo dovranno essere attribuiti dal trustee all’incapace stesso ovvero – nel più consueto caso di trust che cessa alla morte dell’incapace – agli eredi di costui (3).
   Questo fenomeno si spiega alla luce del principio generale secondo il quale, nel caso in cui un trust abbia fine e l’atto istitutivo non indichi a chi i beni debbano essere attribuiti, questi ultimi devono ritornare nel patrimonio del disponente (o, se deceduto, dei suoi eredi), in quanto sorge per legge un cosiddetto resulting trust (4).

1.2 L’incapace beneficiario
1.2.1 Il problema se il trustee di un trust con beneficiari incapaci debba o meno, prima di compiere un atto di straordinaria amministrazione, munirsi di autorizzazione giudiziale in sede di volontaria giurisdizione
1.2.1.1 Impostazione del problema; la decisione del Trib. Casale Monferrato 13 aprile 1984
   È noto che, in base alla lettera a) del primo paragrafo dell’art. 15 della Convenzione de L’Aja, un trust non può derogare alle norme imperative previste dalle regole di conflitto del foro in tema di «protezione di minori e di incapaci».
   Si è posto pertanto il problema se il trustee di un trust (estero ovvero interno) avente quale beneficiario un minore o un incapace di cittadinanza italiana (5) (sia o meno detto trustee il legale rappresentante di un siffatto beneficiario) debba o meno soggiacere, nel compimento di atti di straordinaria amministrazione di beni del trust fund posti in Italia, al regime autorizzatorio previsto da norme quali gli artt. 320 ss. cod. civ., 374 ss. cod. civ. e 747 cod. proc. civ.: ciò in quanto in tali casi il trustee, pur amministrando beni di cui è proprietario, svolge tale compito nell’interesse di un soggetto incapace (6).
   Qualche utile spunto di riflessione al riguardo pare offerto da una vicenda concernente un trust estero che, in epoca anteriore all’entrata in vigore della Convenzione, fu oggetto di una pronunzia giudiziaria italiana (7).
   Questo il caso oggetto di tale decisum: una cittadina inglese morta in Australia aveva istituito un trust testamentario conforme al diritto del suo Paese, includente beni siti anche in Italia e recante nomina di un executor trustee australiano; quest’ultimo era stato incaricato di amministrare e vendere i beni oggetto del trust nel momento ritenuto opportuno, investendo il ricavato in attesa della maggiore età dei beneficiari (i due figli della de cuius, pur essi di cittadinanza inglese) e ripartendo detto ricavato fra costoro una volta maggiorenni.
   Il trustee, avendo deciso di vendere un immobile sito in Italia, aveva adito (tramite un avvocato inglese munito di procura) il giudice in sede di volontaria giurisdizione per farsi autorizzare (ove ritenuto del caso) alla vendita ex artt. 703 cod. civ. e 747 cod. proc. civ.
   Il Tribunale, dopo aver assimilato l’istituto del trust al negozio fiduciario (8), escluse la competenza del giudice italiano ad emettere il provvedimento autorizzativo richiesto, poiché il trustee doveva ritenersi proprietario a tutti gli effetti dei beni in questione (9).
   La decisione è stata sostanzialmente condivisa dalla dottrina che ha avuto occasione di commentarla (10), pur se un autore ha ritenuto di dissentire dalla motivazione posta a fondamento della medesima (11).
   Occorre a questo punto evidenziare che il trust oggetto della vicenda in esame aveva quali beneficiari dei soggetti incapaci (trattavasi, come si è detto, dei figli minorenni della disponente); sarebbe quindi stato opportuno chiedersi – visto che l’atto di straordinaria amministrazione che il trustee si accingeva a compiere aveva l’attitudine ad incidere sulle loro posizioni soggettive – se la presenza di costoro influisse o meno sulla soluzione da dare al problema dell’autorizzazione ex art. 747 cod. proc. civ.
   La decisione in esame non si occupa affatto di questo profilo, mentre nella dottrina che ebbe a commentarla esso è appena sfiorato da un solo autore (12), che comunque conclude per la sua irrilevanza ai fini del decidere: per detto autore, infatti, l’esigenza dell’autorizzazione va comunque esclusa, senza timore di violare in tal modo l’ordine pubblico, in quanto i beneficiari incapaci del trust «non sono legalmente intestatari della proprietà dei beni ereditari, ed il trustee in nessun caso può essere considerato alla stregua di un loro tutore» (13).
   Sia consentito di osservare che, nel caso di specie, l’autorizzazione non era necessaria anche perché i beneficiari incapaci del trust erano cittadini inglesi e, in base all’allora vigente art. 17 disp. prel. al cod. civ. (14), la capacità delle persone risultava regolata dalla loro legge nazionale, che appunto non prevede autorizzazioni di sorta.

1.2.1.2 Soluzioni prospettate dopo l’entrata in vigore della Convenzione
   In epoca successiva all’entrata in vigore della Convenzione, un parte della (scarsa) dottrina che si è occupata della questione ha ritenuto che le autorizzazioni in esame siano sempre necessarie (15).
   Altra parte della dottrina (16) ha invece ritenuto che tali autorizzazioni saranno necessarie, salva l’ipotesi in cui la qualifica di trustees venga assunta dai genitori di un beneficiario minorenne e consti, nell’atto costitutivo del trust, un’apposita clausola escludente la necessità dell’autorizzazione per atti del genere.
   Tale soluzione viene motivata sia argomentando sulla base del secondo paragrafo dell’art. 15 della Convenzione (17) (il quale consentirebbe di temperare le conseguenze negative di una «applicazione troppo rigorosa» del detto regime autorizzatorio, che «ridurrebbe in modo consistente» i poteri gestori conferiti ai trustees nel contesto della common law), sia traendo spunto dall’interpretazione prevalente del nostro art. 169 cod. civ. – dettato in tema di fondo patrimoniale (18) – secondo la quale tale norma sarebbe derogabile dalla volontà espressa nell’atto costitutivo non solo nel senso di consentire il compimento di atti di straordinaria amministrazione da parte del singolo coniuge, ma anche nel senso (che qui rileva) che, pur in presenza di figli minori, potrebbe essere esclusa l’esigenza dell’autorizzazione giudiziale (19).
   Sul tema oggetto di queste riflessioni la giurisprudenza si è ad oggi pronunziata tre volte, ma tali decisioni non appaiono di alcun aiuto per lo studio del problema, in quanto non forniscono motivazione alcuna a supporto delle soluzioni prescelte (in due dei tre casi, fra l’altro, si tratta di meri obiter dicta): in due ipotesi (20) il giudice ha affermato che il trustee di un trust con beneficiari incapaci, allorché si tratti di compiere atti di straordinaria amministrazione del trust fund, dovrà richiedere sempre le autorizzazioni in discorso, mentre in un secondo caso (21) si è optato per la soluzione opposta.
   La questione, vista la sua delicatezza, merita quindi di essere approfondita.

1.2.1.3 La tesi proposta
1.2.1.3.1 I principi desumibili dal sistema in materia di amministrazione, nell’interesse di incapaci, di
beni provenienti da negozi aventi natura di liberalità
   Dal combinato disposto degli artt. 167, 168 e 169 cod. civ. si evince quanto segue:
   a) che tanto i genitori di un minore (con atto fra vivi) quanto un terzo (con atto fra vivi o con testamento) possono costituire un fondo patrimoniale per far fronte ai bisogni della famiglia cui appartiene il minore;
   b) che all’esito della costituzione del fondo patrimoniale i beni sono amministrati dai genitori del minore, i quali normalmente (22) sono altresì comproprietari dei beni amministrati;
   c) che, secondo la prevalente interpretazione dell’art. 169 cod. civ. (23), l’attività di straordinaria amministrazione dei beni del fondo potrà esser compiuta senza autorizzazioni giudiziali anche in presenza di figli minori, purché consti nell’atto costitutivo una clausola in tal senso.
   A quanto sopra devesi aggiungere che l’atto costitutivo del fondo patrimoniale ha natura di liberalità indiretta quanto meno nei confronti dei figli dei coniugi che il fondo amministrano (24).
   Dalla norma prevista nell’art. 356 cod. civ., inoltre, si ricava quanto segue:
   a) che è possibile donare o lasciare per testamento dei beni ad un minore o ad un interdetto (25) prevedendo che gli stessi siano amministrati non già dai legali rappresentanti di costoro (genitori o tutore), bensì da un curatore speciale appositamente nominato dal disponente (26);
   b) che il disponente può altresì inserire nel suo atto di liberalità una clausola che esonera detto curatore speciale dalla richiesta delle autorizzazioni previste, per il compimento di atti di straordinaria amministrazione, negli artt. 374 e 375 cod. civ. (27).
   Da quanto fin qui osservato in tema di fondo patrimoniale e di art. 356 cod. civ., parrebbe quindi possibile evincere che il nostro sistema civilistico consenta di effettuare una liberalità in favore di un incapace (con testamento o con atto inter vivos, in forma diretta ovvero indiretta) esonerando il soggetto che amministra il bene nell’interesse dell’incapace (sia egli o meno legale rappresentante dell’incapace; sia egli o meno proprietario del bene che amministra) dall’obbligo di munirsi delle autorizzazioni giudiziali normalmente previste per il compimento di atti di straordinaria amministrazione su detto bene.

1.2.1.3.2 Estensione di detti principi al trust con beneficiari incapaci
   Il principio appena esposto fornisce un’indicazione sistematica dalla quale parrebbe potersi evincere quanto meno l’ammissibilità dell’istituzione di un trust liberale (28) con beneficiari incapaci (29) contenente una clausola che esonera il trustee dalla richiesta di autorizzazioni giudiziali per il compimento di atti di straordinaria amministrazione sui beni del trust fund (30).
   Appare comunque sostenibile anche una tesi più radicale, secondo la quale il trustee, esista o meno la clausola di cui sopra, non deve mai munirsi delle autorizzazioni in questione.
   A sostegno delle due tesi in esame, d’altro canto, appaiono invocabili gli (ulteriori) argomenti che seguono:
   a) il fatto che il dettato del secondo paragrafo dell’art. 15 della Convenzione esprima un indubbio favor nei confronti del trust (31);
   b) il fatto che il trustee sia figura di amministratore di beni per conto terzi per definizione (direi ontologicamente) immune, nella configurazione datale negli ordinamenti di common law da cui proviene, da controlli preventivi in sede di volontaria giurisdizione, pur in presenza di beneficiari del trust incapaci (32);
   c) il fatto che i beneficiari incapaci del trust non siano proprietari dei beni oggetto del medesimo e (soprattutto) che il trustee non possa essere considerato alla stregua di un loro legale rappresentante (33).
   Né pare possibile obiettare, per le ragioni che subito si esporranno, che la tesi proposta privi di qualunque valenza precettiva il disposto dell’art. 15 paragrafo primo lettera a) della Convenzione, norma dalla quale ha preso le mosse il presente contributo.

1.2.1.3.3 Esigenza di distinguere fra straordinaria amministrazione del trust fund da parte del trustee e straordinaria amministrazione del diritto del beneficiario da parte del suo legale rappresentante
   Nel caso di liberalità a vantaggio di incapaci attuata mediante trust, infatti, appare necessario distinguere fra l’attività di straordinaria amministrazione del trust fund posta in essere dal trustee ed attività di straordinaria amministrazione relativa ai diritti del beneficiario incapace aventi fonte nel trust (34): la prima attività, come si è detto, dovrebbe esser esente da autorizzazioni (35), mentre la seconda attività appare senza dubbio di competenza del rappresentante legale del beneficiario incapace, il quale dovrà compierla munendosi delle autorizzazioni di volontaria giurisdizione previste dalla legge (36).
   Tanto per fare un esempio, se un trust liberale avente fonte in un atto inter vivos attribuisce ad un interdetto il diritto di percepire ogni mese delle rendite del trust fund:
   a) preliminarmente, dovrà essere autorizzata dal giudice (argomentando ex artt. 424 1° co., 320 3° co. e 374 n°3 cod. civ.) la dichiarazione del suo rappresentante legale implicante l’accettazione della donazione indiretta in tal modo realizzata dal disponente (ovvero la rinunzia alla medesima);
   b) ad accettazione avvenuta della liberalità, e giunto il momento di percepire le rendite in questione, dovrà poi volta per volta essere conseguita l’autorizzazione ad effettuare le dette riscossioni (argomentando ex artt. 424 1° co., 320 4° co. e 374 n°2 cod. civ.).
   Occorre a questo punto evidenziare che l’esigenza dell’autorizzazione di cui al punto a) appare giustificabile per ragioni analoghe a quelle in virtù delle quali l’incapace necessita di autorizzazione per «accettare» un legato (o rinunziarvi) ovvero per dichiarare di «voler profittare» di un contratto a favore di terzo stipulato a suo vantaggio animo donandi (o per dichiarare di «rifiutare» detta attribuzione), poiché tanto nel trust di cui all’esempio quanto nelle due fattispecie negoziali da ultimo menzionate si verifica, nella sfera giuridica dell’incapace, l’acquisto ipso iure di un diritto che, a scelta del suo rappresentante legale, può essere «accettato» (cioè essere reso definitivo) ovvero rinunziato (37).
   È altresì opportuno precisare che pare inammissibile l’inserimento nell’atto istitutivo del trust, da parte del disponente, di una clausola mirante ad escludere (sulla falsariga dell’art. 356 cod. civ.) che il legale rappresentante del beneficiario incapace debba munirsi delle autorizzazioni giudiziali indicate nell’esempio: detta clausola infatti priverebbe di qualunque valenza precettiva l’art. 15 paragrafo primo lettera a) della Convenzione.
   Quanto all’autorizzazione di cui al punto a), infatti, essa attiene al momento acquisitivo del diritto oggetto di liberalità, cioè ad un ambito pacificamente estraneo alla sfera di applicabilità dell’art. 356 cod. civ., che concerne la fase – successiva all’acquisto del diritto – dell’amministrazione del medesimo (38).
   Quanto poi all’autorizzazione di cui al punto b), poiché le erogazioni previste da un trust liberale in favore del beneficiario hanno natura di donazione indiretta, l’art. 356 cod. civ. risulta inapplicabile a siffatte liberalità (39).

1.2.1.3.4 Riflessioni su talune fattispecie particolari
   Nel caso in cui si opti per la prima delle due tesi esposte al § 1.2.1.3.2 (40), appare necessaria qualche osservazione aggiuntiva.
   Si è detto in precedenza (41) che il curatore speciale previsto dall’art. 356 cod. civ. non può essere esonerato dalle autorizzazioni previste, nell’ipotesi di beni attribuiti all’incapace a titolo di eredità, dall’art. 747 cod. proc. civ.
   Considerato che sull’art. 356 cod. civ. è imperniato uno degli argomenti più solidi posti a supporto della tesi in questione, occorre pertanto chiedersi se la clausola di esonero del trustee dalle autorizzazioni giudiziali sia o meno ammissibile anche nel caso di trust testamentario con beneficiari incapaci ed in cui al trustee sia stata attribuita dal de cuius la totalità dell’asse ovvero una quota ideale di esso (42).
   Non pare sostenibile che il trustee di un trust siffatto, anche ove si volesse conferire a costui la qualifica di erede del disponente (43), soggiaccia all’obbligo di accettazione con beneficio d’inventario previsto dagli artt. 471 e 472 cod. civ. per l’ipotesi di eredità devoluta ad incapaci.
Ne discende che la clausola in esame appare ammissibile anche nell’ipotesi considerata, ma la sua operatività verrà meno nel caso in cui il trustee abbia spontaneamente deciso di accettare con beneficio d’inventario l’eredità devolutagli dal disponente-de cuius mediante il trust in questione (44).
   Altro discorso, al solito, varrà invece per gli atti di straordinaria amministrazione compiuti dal legale rappresentante dell’incapace-beneficiario in relazione al diritto ai frutti e/o ai beni di un siffatto trust testamentario, da costui acquisito per effetto dell’istituzione del trust stesso: come si è esposto nel § 1.2.1.3.3, infatti, tali atti dovranno regolarmente essere autorizzati.
   Si è esposto in precedenza (45) che il curatore speciale previsto dall’art. 356 cod. civ. non può neppure essere esonerato, nel caso in cui il bene attribuito per donazione o testamento all’incapace abbia natura di azienda commerciale, dalle autorizzazioni previste all’art. 371 primo comma n°3 e secondo comma cod. civ. per le decisioni inerenti all’alienazione o all’affitto di detta azienda o alla continuazione dell’impresa ad essa inerente.
   Occorre pertanto chiedersi (46) se la clausola di esonero del trustee dalle autorizzazioni giudiziali sia o meno ammissibile anche nel caso di trust con beneficiari incapaci in cui al trustee è stata attribuita un’azienda commerciale e nel quale, alla luce del contenuto dell’atto istitutivo, il trustee può (o deve) alienare o affittare tale azienda ovvero può (o deve) continuare l’impresa ad essa relativa.
   Con riguardo alle ipotesi di alienazione o affitto dell’azienda, la clausola di esonero del trustee da autorizzazioni parrebbe ammissibile soltanto laddove, fra i vari argomenti addotti nel § 1.2.1.3.2 a sostegno dell’ammissibilità in generale della clausola d’esonero, non si attribuisca un peso determinante all’argomento fondato sull’art. 356 cod. civ. (47).
   Minori dubbi sulla soluzione favorevole alla clausola di esonero appaiono invece sussistere con riguardo all’ipotesi di continuazione, da parte del trustee, dell’impresa inerente all’azienda, poiché detta continuazione attribuisce al trustee – e non al beneficiario incapace – la qualifica di imprenditore: non vi sono pertanto ragioni per applicare in tal caso una norma come l’art. 371 cod. civ., in quanto l’autorizzazione ivi prevista serve a tutelare l’incapace dall’acquisizione in modo avventato di detta qualifica. Sarà invece il beneficiario incapace ad esser assoggettato a tali autorizzazioni, ove il trust preveda l’attribuzione a costui – da parte del trustee – del bene capitale-azienda, nel momento in cui detta attribuzione avrà concretamente luogo: è solo in tale momento, infatti, che si giustifica l’operatività delle ipotesi di autorizzazione in esame.

1.2.2 Modifica del trust in presenza di beneficiari incapaci
   In tempi recenti è stato possibile ottenere dal giudice, in sede di volontaria giurisdizione, l’autorizzazione a modificare un trust interno regolato dalla legge inglese ed avente quale beneficiario un interdetto, sulla falsariga di quanto consente di fare il Variation of Trusts Act 1925 (48).
   Poiché il trust in questione individuava quali Guardiani due soggetti in età assai avanzata ed in stato di salute precario, era sorta l’esigenza di affiancare loro due ulteriori Guardiani, onde attuare al meglio la protezione in seno al trust degli interessi dell’interdetto-beneficiario.
   L’atto istitutivo, però, non prevedeva tale eventualità, sì che sorse l’esigenza di modificarlo in modo da consentire l’operazione.
   L’autorizzazione alla modifica venne richiesta al giudice sulla base del seguente ragionamento:
   a) in base all’art. 8 lettera h) della Convenzione, è la legge regolatrice del trust (che, nel caso di specie, era la legge inglese) a disciplinare la modifica e la cessazione del medesimo;
   b) in base alla legge inglese, da tempo si è affermato il principio secondo il quale i beneficiari di un trust che siano maggiorenni e capaci di agire possono, con consenso unanime, decidere di porre fine al trust prima della scadenza fissata dal disponente (49);
   c) tale principio (che già aveva natura di norma giuridica, stante il noto ruolo di fonte di diritto dei precedenti giudiziari in common law) è stato trasfuso in una legge inglese del 1958, il Variation of Trusts Act, la quale ha fissato la più ampia regola secondo la quale:
   c’– i beneficiari di un trust maggiorenni e capaci possono, con consenso unanime, non solo porre fine anticipatamente ad esso, ma anche modificarne il contenuto nel modo che essi ritengono più idoneo;
   c’’ – nel caso in cui taluno dei beneficiari del trust sia incapace di agire, l’adesione di costui all’accordo modificativo del trust dovrà essere autorizzata dal Giudice.
   Il provvedimento emesso dal giudice si limita ad autorizzare quanto richiesto: il decreto in questione, infatti, non reca alcuna motivazione a supporto.

2. Il trust e le convenzioni matrimoniali
2.1 Trust e fondo patrimoniale
(50)
2.1.1 Raffronto fra i due istituti
   L’istituto del fondo patrimoniale presenta numerose analogie con il trust.
   a) In primo luogo, occorre osservare che, com’è noto (51), all’interno della composita fattispecie costitutiva di un trust si devono distinguere da un lato il negozio istitutivo (il quale contiene il «programma» del trust) e dall’altro il negozio dispositivo (il quale trasferisce il diritto dal disponente al trustee ovvero, nel caso di trust autodichiarato (52), determina la nascita del vincolo di destinazione proprio del trust in capo a beni che sono e restano nella titolarità del disponente).
   Tale distinzione è con immediatezza percepibile nell’ipotesi in cui i due negozi siano contenuti in documenti distinti: si pensi al non infrequente caso in cui il disponente, dopo aver istituito un trust munendolo di una minima dotazione finanziaria, in un momento successivo effettui ulteriori apporti patrimoniali.
   Appare evidente come la distinzione suddetta sia utilizzabile anche in tema di fondo patrimoniale.
   b) In secondo luogo, così com’è configurabile un trust («autodichiarato») che non determina il trasferimento del diritto di cui il disponente è titolare da costui ad un trustee, cioè un trust in cui il settlor si autodichiara trustee di detto diritto apponendo sul medesimo il vincolo di destinazione caratteristico dell’istituto, per la tesi che pare preferibile (53) può altresì configurarsi (come si evince dal carattere meramente dispositivo dell’art. 168 primo comma cod. civ.) un atto costitutivo di fondo patrimoniale non implicante l’effetto traslativo del diritto del costituente da costui ad entrambi i coniugi (o ad uno di essi), cioè un atto costitutivo per effetto del quale il costituente conserva la titolarità del diritto, limitandosi a creare su di esso il vincolo di destinazione proprio del fondo patrimoniale.
   c) In terzo luogo, si evidenzia che il trust rientrante nel modello tradizionale inglese ha natura non già di contratto, bensì di negozio unilaterale (54).
   Tanto premesso, occorre sottolineare che in talune fattispecie costitutive anche la fonte del fondo patrimoniale è data da un negozio unilaterale
   A fronte, infatti, di ipotesi in cui l’unilateralità può senz’altro escludersi (55), esistono fattispecie in cui essa appare invece innegabile: si pensi alla costituzione ad opera di un terzo mediante testamento, ovvero alla costituzione ad opera di entrambi i coniugi con riguardo ad un bene in comproprietà fra di loro, ipotesi quest’ultima cui pare doversi attribuire natura di negozio unilaterale nel quale l’unica parte (la coppia dei coniugi) è a composizione plurisoggettiva (56).
   d) In quarto luogo, come il trust anche il fondo patrimoniale costituisce un patrimonio separato, cioè affetto da un vincolo di destinazione, e tale vincolo ha l’attitudine ad essere opponibile erga omnes.
   L’opponibilità del fondo patrimoniale si evince da norme come gli artt. 170, 162 ultimo comma, 2647 e 2685 cod. civ.
   Sul punto della pubblicità, comunque, i due istituti si differenziano in quanto – limitando il discorso agli immobili – se nel caso del trust l’opponibilità del vincolo discende dalla trascrizione (57), nel caso del fondo patrimoniale essa, secondo la giurisprudenza dominante (58), deriva dall’annotazione a margine dell’atto di matrimonio prevista dall’art. 162 ultimo comma cod. civ., in quanto la trascrizione ex art. 2647 cod. civ. svolge il ruolo di mera pubblicità-notizia (59).
   e) In quinto luogo, si evince dall’art. 169 cod. civ. che in assenza di figli minori l’attività di straordinaria amministrazione dei beni del fondo potrà essere compiuta dai coniugi senza necessità di autorizzazione giudiziale: circostanza questa che avvicina notevolmente i coniugi-gestori alla figura del trustee.
   Quest’ultima affinità fra i due istituti risulta inoltre accentuata (potendo in pratica configurarsi un fondo patrimoniale del tutto privo di controllo preventivo, in sede di volontaria giurisdizione, sull’attività gestoria) ove si acceda alla già esposta tesi (60) che ammette, visto il carattere dispositivo dell’art. 169 cod. civ., una clausola dell’atto costitutivo prevedente che, nonostante la presenza di figli minori, non dovrà essere richiesta l’autorizzazione giudiziale in oggetto (61).
   Nonostante le innegabili analogie fra i due istituti, notevoli sono però le differenze fra il fondo patrimoniale ed il trust, molte delle quali – fra l’altro – rendono quest’ultimo strumento preferibile rispetto al primo.
   a) In primo luogo, il trust può essere utilizzato anche da soggetti non coniugati, in quanto le finalità perseguibili mediante tale istituto sono le più varie.
   b) In secondo luogo, se è vero che anche nel fondo patrimoniale, come nel trust, possono conferirsi diritti diversi dal diritto di proprietà (62), resta il fatto che i beni conferibili nel fondo patrimoniale devono necessariamente rientrare nelle categorie dei beni immobili, dei beni mobili registrati o dei titoli di credito (cfr art. 167 primo comma cod. civ.), mentre il trust è esente da limitazioni siffatte.
   c) In terzo luogo, la durata del trust non è necessariamente vincolata a quella del matrimonio (cfr invece l’art. 171 primo comma cod. civ.) o al raggiungimento della maggiore età da parte dell’ultimo figlio minorenne (cfr art. 171 secondo comma cod. civ.) (63) .
   d) In quarto luogo, nel caso del fondo patrimoniale non è certo se sia configurabile, a carico dei coniugi-gestori, un obbligo di reimpiego del corrispettivo dell’alienazione di un bene del fondo (64), mentre detto obbligo pacificamente sussiste a carico del trustee di un trust, il quale deve preservare la consistenza economica del trust fund (65).
   e) In quinto luogo, anche a voler ipotizzare (come pare preferibile) l’esistenza a carico dei coniugi dell’obbligo di cui sub d), occorre osservare che, nei casi in cui il corrispettivo dell’alienazione non abbia natura di bene idoneo – ex art. 167 comma primo cod. civ. – a costituire oggetto del fondo, come ad esempio accade se si tratti di denaro, durante tutto il periodo compreso fra la riscossione della somma ed il reimpiego della medesima per l’acquisto di un bene idoneo ad essere oggetto del fondo (immobile, mobile registrato, titolo di credito) detta somma non parrebbe beneficiare della separazione patrimoniale (66) e sembrerebbe quindi – a rigore – aggredibile anche dai creditori extra-familiari; evento questo che, all’evidenza, non potrebbe accadere nel caso di alienazione a titolo oneroso di un bene del trust fund, in quanto detto tipo di patrimonio separato (a patto che il trustee rispetti – ad esempio accendendo un conto corrente intestato al trust o a se stesso come trustee di quel trust – il suo obbligo di non confondere i beni fungibili del trust fund con i suoi personali beni fungibili) (67) non soffre della limitazione di oggetto prevista dalla citata norma codicistica (68).
   f) In sesto luogo, occorre osservare quanto segue:
   f’ – È controverso se i figli dei coniugi siano titolari o meno di un interesse giuridicamente rilevante (cioè di un’aspettativa giuridica) in relazione ai beni costituiti in fondo patrimoniale ed ai loro frutti (69).
   f’’ – Nessuno dei fautori della tesi dell’aspettativa giuridica afferma che essa implica il diritto dei figli di conseguire beni o frutti del fondo patrimoniale (70) (non a caso, infatti, l’art. 171 secondo comma cod. civ. prevede l’attribuzione a costoro di beni del fondo quale mera eventualità rimessa alla discrezionalità del giudice).
   Tanto premesso, ove si consideri che in un trust fixed (71) istituito dai coniugi ed avente quali beneficiari i figli questi ultimi vantano invece, pacificamente, un diritto a conseguire dal trustee beni e/o frutti del trust fund, risulta evidente un ulteriore e rilevante tratto differenziale fra i due istituti.

2.1.2 Il problema della conversione del fondo patrimoniale in trust
2.1.2.1 Premessa
   Nel corso dell’anno 2002 sono state sottoposte all’attenzione del Tribunale di Firenze due vicende di contenuto analogo: due coppie di coniugi separati, ciascuna con un figlio minorenne, hanno adito detto giudice con distinti ricorsi in camera di consiglio ex artt. 710-711 cod. proc. civ., chiedendo di poter modificare le condizioni di separazione a suo tempo rispettivamente pattuite mediante il conferimento in un trust (che in un caso preesisteva, mentre nell’altro avrebbe dovuto essere istituito) degli immobili a suo tempo costituiti in un fondo patrimoniale.
   In entrambi i casi il Tribunale, con due decreti in pari data (23 ottobre 2002) (72), ha respinto il ricorso.
   Tali vicende offrono l’occasione per analizzare un tema finora (a quanto consta) mai affrontato: quello della convertibilità o meno di un fondo patrimoniale in un trust.

2.1.2.2 Le due fattispecie concrete
2.1.2.2.1 Esposizione del caso 1
   Tizio e Tizia, coniugi separatisi consensualmente e con un figlio minorenne, durante il matrimonio hanno costituito un fondo patrimoniale avente ad oggetto taluni immobili (alcuni di proprietà di Tizio, altri appartenenti a Tizia); nell’atto costitutivo del fondo vi è una clausola che, derogando all’art. 169 cod. civ., consente il compimento degli atti di straordinaria amministrazione senza necessità di autorizzazione giudiziale pur se vi siano figli minorenni (73).
   I coniugi adiscono il Tribunale di Firenze ex artt. 710-711 cod. proc. civ., esponendo quanto segue:
   – di aver intendimento di richiedere, a breve e congiuntamente, il divorzio;
– che in base all’art. 171 cod. civ., il divorzio costituisce causa di cessazione del fondo patrimoniale, salvo il suo perdurare fino alla maggiore età degli eventuali figli minorenni;
   – di aver intendimento di mutare le condizioni di separazione a suo tempo omologate, onde da un lato «tutelare maggiormente il loro figlio minore» mantenendo, «relativamente ai beni oggetto del fondo patrimoniale, la stessa destinazione e segregazione anche oltre il termine di durata previsto come sopra per il fondo stesso, incrementando i beni oggetto di tale destinazione», dall’altro lato «provvedere … alle necessità future» del padre di Tizia;
   – di ritenere che «l’unico strumento giuridico idoneo a produrre effetti analoghi al fondo patrimoniale pur in mancanza del vincolo matrimoniale sia l’istituto del trust».
   Tanto premesso, i ricorrenti chiedono che il Tribunale omologhi le prospettate modifiche delle condizioni di separazione, autorizzandoli ad istituire un trust (del quale allegano al ricorso una bozza) avente ad oggetto gli immobili già oggetto del fondo patrimoniale, nonché ulteriori beni.
   Si evidenzia che il trust istituendo ha una durata trentennale, è regolato dalla legge inglese, ha quali trustees gli stessi ricorrenti e quali beneficiarii il loro figlio minorenne nonché (ma solo ove sorgano, in relazione a costoro, «esigenze connesse alle spese inerenti le rette e quant’altro relativo al ricovero per anziani, all’assistenza ed alle cure mediche») Tizio, Tizia ed il padre di Tizia.
   Il Tribunale (in conformità al parere sfavorevole espresso dal Pubblico Ministero) dichiara inammissibile il ricorso, ritenendo che il trust in oggetto esuli dal contenuto tipico (e quindi dalla causa) degli accordi in sede di separazione (concernenti l’affidamento dei figli, il contributo dei genitori al loro mantenimento e l’eventuale assegno in favore del coniuge più debole economicamente), in quanto esso mira a finalità diverse: in particolare – osserva il decidente – esso include fra i beneficiari il padre di Tizia ed è destinato a durare ben oltre il raggiungimento della maggiore età (e della presumibile indipendenza economica) da parte del figlio dei ricorrenti.

2.1.2.2.2 Esposizione del caso 2
   Caio, che si è separato consensualmente da Caia dalla quale ha avuto una figlia minorenne, durante il matrimonio ha costituito:
   a) un fondo patrimoniale avente ad oggetto un immobile, nel cui atto costitutivo vi è clausola (74) che esonera dall’autorizzazione giudiziale in presenza di figli minorenni (cioè che deroga all’art. 169 cod. civ.) solo con riferimento agli atti volti a «vincolare» beni del fondo patrimoniale (e non anche con riguardo agli atti di alienazione);
   b) un trust avente ad oggetto l’intera partecipazione di cui Caio è titolare in una s.r.l. immobiliare unipersonale e del quale sono beneficiari del reddito i figli nati e nascituri di Caio, nonché Caio stesso, e beneficiari finali i figli del disponente (75).
   Con un ricorso di contenuto analogo a quello descritto con riguardo al caso 1, i coniugi adiscono il Tribunale di Firenze ex artt. 710-711 cod. proc. civ., chiedendo («al primario fine di tutelare maggiormente la figlia minore», afferma il ricorso) che il Tribunale omologhi le prospettate modifiche delle condizioni di separazione, autorizzandoli a trasferire ai trustees del trust di cui si è detto l’immobile oggetto del fondo patrimoniale.
   Il Tribunale, nonostante il parere favorevole espresso dal Pubblico Ministero, in primo luogo dichiara inammissibile il ricorso per ragioni analoghe a quelle viste con riguardo al caso 1, cioè per l’estraneità delle proposte modifiche al contenuto ed alla causa tipici degli accordi di separazione.
In secondo luogo, il decreto interpreta ed esamina il ricorso come istanza ex art. 169 cod. civ. volta a conseguire l’autorizzazione ad alienare il bene oggetto del fondo patrimoniale ai trustees del trust in oggetto (76) e ritiene di doverlo respingere per mancanza dell’utilità o necessità evidente richieste, alternativamente, da detta norma codicistica.
   A tale riguardo il giudice, pur ammettendo che «il trust destinatario del trasferimento ha effetti voluti e analoghi a quelli del fondo patrimoniale» (77), anche in considerazione del fatto che la cerchia dei beneficiari è stata ivi individuata dal disponente all’interno della famiglia nucleare (78), ritiene che il passaggio del bene immobile dal regime del fondo patrimoniale a quello del trust comporterebbe una diminuizione delle prospettive di tutela della figlia minorenne dei ricorrenti, in quanto eventuali futuri atti di alienazione da parte del trustee non sarebbero soggetti a quelle autorizzazioni giudiziali necessarie, invece, ai genitori ove permanesse il regime del fondo patrimoniale (79).

2.1.2.3. Commento alle due decisioni
2.1.2.3.1 Il profilo dell’inammissibilità dei ricorsi
   Le conclusioni negative cui sono pervenuti i due provvedimenti in esame appaiono condivisibili, mentre le motivazioni addotte a sostegno di esse destano più di una perplessità.
   Entrambi i decreti ritengono inammissibili i ricorsi presentati dai coniugi, in quanto il programma da costoro prospettato sarebbe estraneo al contenuto tipico (e quindi alla causa) degli accordi di separazione: l’affermazione appare non priva di fondamento nel caso 1 – stante la presenza, fra i beneficiari del trust istituendo, di un soggetto estraneo alla famiglia nucleare (80)– mentre sembra discutibile nel caso 2 (nel contesto del quale, infatti, il Pubblico Ministero aveva espresso parere favorevole all’accoglimento del ricorso) (81).
   I due ricorsi in esame, però, avrebbero dovuto esser ritenuti inammissibili per un motivo forse di ancora maggiore rilevanza (e che pare esser sfuggito all’attenzione dei decidenti): il programma proposto dai ricorrenti in ambo i casi implicava, infatti, lo scioglimento consensuale del fondo patrimoniale ed il successivo conferimento in un trust di quanto ne formava oggetto (82).
   Tanto premesso, anche a voler ammettere la configurabilità di detto scioglimento consensuale del fondo (83), parrebbe necessario (84) attribuire a detto accordo la natura di convenzione matrimoniale modificativa (e precisamente estintiva) di quella che in origine dette vita a detto regime patrimoniale (85), come tale soggetta al requisito formale previsto dal combinato disposto degli artt. 162 primo comma e 163 cod. civ. nonché 48 legge notarile, prevedenti l’atto pubblico notarile con la presenza di testimoni (86).
   Ne discende, pertanto, che il procedimento camerale ex art. 710-711 cod. proc. civ. non era la sede adatta per ottenere il risultato giuridico cui miravano i ricorrenti, come del resto si desume anche da un precedente giudiziario affine (87).

2.1.2.3.2 Problema della natura giuridica delle operazioni negoziali prospettate dai ricorrenti; loro inesatta qualificazione in termini di atto di straordinaria amministrazione dei beni del fondo da parte della decisione relativa al caso 2; critica alla motivazione posta da detta decisione a fondamento del diniego dell’autorizzazione
   Come si è anticipato nel precedente § 2.1.2.3.1, tanto nel caso 1 quanto nel caso 2 l’operazione prospettata dai ricorrenti aveva natura non già di atto di straordinaria amministrazione sui beni del fondo patrimoniale, bensì di convenzione matrimoniale estintiva di detto fondo finalizzata al conferimento in trust dei beni che ne facevano parte (88).
   Sembra infatti possibile affermare, in generale, che gli atti di straordinaria amministrazione presuppongono la permanenza in vita del regime del fondo patrimoniale.
   A tale logica non si sottraggono neppure gli atti di alienazione a titolo oneroso (89), che determinano da un lato la fuoriuscita dal fondo del bene alienato e, dall’altro lato, alternativamente:
   a) se il corrispettivo dell’alienazione è un bene idoneo ad esser oggetto di fondo patrimoniale ex art. 167 comma primo cod. civ., l’immediata sostituzione del bene alienato con detto bene;
   b) in caso contrario (tipico il caso in cui il corrispettivo sia una somma di denaro), la consumazione di detto corrispettivo per far fronte ai bisogni della famiglia ovvero il suo reimpiego nell’acquisto di altro bene idoneo ad esser (nuovo) oggetto del fondo ex art. 167 primo comma cod. civ. (90).
   Tanto premesso, pare evidente che nei casi 1 e 2 i ricorrenti intendessero, invece, porre fine al regime del fondo, svincolandone i beni onde farne oggetto di un nuovo e diverso tipo di patrimonio separato (il trust fund).
   Né pare possibile obiettare che vi sono atti di alienazione (cioè atti di straordinaria amministrazione) dei beni del fondo patrimoniale che ne comportano non già la permanenza in vita, bensì l’estinzione: si pensi al caso in cui vengano alienati tutti i beni del fondo – o l’unico bene del fondo – a fronte di un corrispettivo che viene (non già reimpiegato, bensì) interamente consumato per far fronte ai bisogni familiari (in tal caso si verifica, appunto, la cessazione del fondo per esaurimento).
   Tale considerazione, infatti, non appare idonea a far qualificare come atto di straordinaria amministrazione anche le operazioni prospettate dai ricorrenti (nelle quali, appunto, si intende alienare al trustee gli immobili oggetto del fondo) in quanto, com’è stato efficacemente osservato (91), «mentre il mutuo consenso incide sul negozio costitutivo, l’atto di disposizione dell’unico bene ex art. 169 incide sul fondo patrimoniale oggettivamente considerato. Nel primo caso, lo scioglimento del fondo è diretto, espressamente voluto dalle parti e consegue alla stipula di una convenzione in senso inverso alla precedente; nel secondo caso, l’estinzione è mediata, ossia si pone come conseguenza di un atto di amministrazione» (92).
   Pare pertanto erronea la «riqualificazione» del ricorso, da parte della decisione concernente il caso 2, in termini di istanza per l’autorizzazione al compimento di un atto di straordinaria amministrazione (e precisamente di un atto di alienazione) dei beni del fondo ex art. 169 cod. civ. (93).
   A ben guardare, inoltre, nella detta decisione appare altresì discutibile la qualificazione dell’atto in termini di atto di alienazione piuttosto che in termini di atto volto a vincolare i beni del fondo (94): non par dubbio infatti, che l’alienazione al trustee sia meramente strumentale rispetto alla costituzione del vincolo proprio del trust (95).
   Dopo aver (erroneamente) qualificato l’atto come alienazione, la decisione in esame nega l’autorizzazione al suo compimento in quanto – a suo dire – la permanenza in vita del fondo patrimoniale (che nel caso 2 soggiace al rispetto dell’art. 169 cod. civ. per gli atti di alienazione) darebbe maggiori garanzie del trust prospettato dai ricorrenti (nel quale, a dispetto della presenza di un beneficiario incapace – cioè la figlia minore dei coniugi – il trustee potrebbe invece effettuare alienazioni senza doversi munire di autorizzazioni giudiziali) (96).
   Detta motivazione, per un verso, fornisce interessanti spunti di riflessione, per l’altro, non pare immune da censure.
   Quanto agli spunti di riflessione, occorre evidenziare che il provvedimento dà incidentalmente (97) risposta negativa all’importante e vexata quaestio concernente la soggezione o meno del trustee di un trust interno con beneficiarii incapaci, allorché debba compiere un atto di straordinaria amministrazione dei beni del trust fund, alle autorizzazioni di volontaria giurisdizione previste dal nostro ordinamento.
   Quanto ai profili critici, l’affermazione per la quale nel caso 2, rispetto agli atti di alienazione, il fondo patrimoniale tutelerebbe il minore più del trust appare discutibile per i seguenti motivi:
   a) visto il carattere tuttora controverso della questione (98) non può allo stato escludersi che anche il trustee di un trust con beneficiari incapaci sia soggetto ad autorizzazione giudiziaria allorché alieni beni del trust;
   b) anche a voler ipotizzare (come pare preferibile) l’esenzione del trustee dalle autorizzazioni di cui sub a), resta il fatto che un’eventuale alienazione da costui compiuta in violazione dell’atto istitutivo (cioè concretante breach of trust) sarebbe impugnabile (99), così come accadrebbe per l’eventuale alienazione di beni del fondo patrimoniale compiuta dai coniugi senza l’autorizzazione di cui all’art. 169 cod. civ. (100) (in ambo i casi, pertanto, gli incapaci riceverebbero una tutela «reale»);
   c) non è certo se sia configurabile, a carico dei coniugi amministratori del fondo patrimoniale, un obbligo di reimpiego del corrispettivo dell’alienazione di un bene del fondo (101), mentre detto obbligo pacificamente sussiste a carico del trustee di un trust (102);
   d) anche a voler ipotizzare (come pare preferibile) l’esistenza a carico dei coniugi dell’obbligo di cui sub c), occorre osservare quanto segue:
   d’– nei casi in cui il corrispettivo dell’alienazione non abbia natura di bene idoneo a costituire oggetto del fondo, come ad esempio accade se si tratti di denaro, durante tutto il periodo compreso fra la riscossione della somma ed il reimpiego della medesima per l’acquisto di un bene idoneo ad essere oggetto del fondo (immobile, mobile registrato, titolo di credito) detta somma non parrebbe beneficiare della separazione patrimoniale; evento questo che, all’evidenza, non potrebbe accadere nel caso di alienazione a titolo oneroso di un bene del trust fund (103);
   d’’– l’eventuale violazione dell’obbligo di reimpiego da parte dei coniugi non potrebbe mai incidere sulla validità dell’atto (salvo che detto reimpiego sia stato posto dal giudice adito ex art. 169 cod. civ. come condizione dell’alienazione), ma solo costituire fonte di un’obbligazione risarcitoria a loro carico e di un provvedimento di loro rimozione dall’amministrazione (104); conseguenze, queste, non dissimili da quelle che si verificherebbero a carico del trustee di un trust (105).

2.1.2.3.3 Conseguenze della qualificazione delle operazioni prospettate dai ricorrenti in termini di convenzione matrimoniale estintiva del fondo patrimoniale; problema dell’ammissibilità o meno di un negozio siffatto
   Da quanto finora esposto parrebbe emergere con chiarezza che il progetto prospettato dai coniugi nei casi 1 e 2 potrebbe esser realizzato solo previa stipula di un negozio di scioglimento consensuale del fondo patrimoniale, avente la natura e la forma di una convenzione matrimoniale estintiva del regime del fondo stesso.
   Occorre a questo punto, pertanto, affrontare la questione relativa all’ammissibilità o meno di un negozio del genere nel nostro ordinamento.
   Dalla disamina di detta questione – si badi – non pare potersi prescindere neppure aderendo a quel particolare orientamento che vede nel fondo patrimoniale un’ipotesi di trust «amorfo» ex art. 2 della Convenzione, e – come tale – rientrante in definitiva nell’ambito applicativo di detta Convenzione (106).
   Da tale premessa discenderebbe infatti che, essendo il fondo patrimoniale un trust regolato dalla legge italiana (cioè dagli artt. 167-171 cod. civ.), l’operazione prospettata dai ricorrenti – i quali intendono «travasare» i beni del fondo in un trust di tipo anglosassone e regolato da una legge straniera – avrebbe natura di modifica della legge regolatrice del trust: dovrebbe perciò farsi applicazione dell’art. 10 della citata Convenzione, il quale è però chiaro nel demandare alla legge regolatrice del trust (nel caso, come detto: quella italiana, che regola il fondo) il compito di stabilire se e come è possibile sostituire detta legge con altra legge regolatrice (107).
   Il panorama delle opinioni in tema di scioglimento consensuale del fondo patrimoniale è assai variegato.
   Secondo un primo orientamento (108) tale negozio non sarebbe mai ammissibile (vi siano o meno figli minori) per almeno due ordini di motivi:
   a) l’elenco delle cause di estinzione del fondo contenuto nell’art. 171 cod. civ., il quale (a differenza di quanto accade, per il regime di comunione legale, nell’art. 191 primo comma cod. civ.) non prevede l’eventualità di uno scioglimento consensuale, sarebbe tassativo;
   b) consentire un negozio del genere significherebbe permettere ai coniugi di aggirare il disposto dell’art. 169 cod. civ., cioè di svincolare i beni del fondo pur eventualmente in assenza di un interesse della famiglia in tal senso.
   L’orientamento ormai prevalente, però, è favorevole al negozio in questione nel caso di assenza di figli minori e si frammenta in vari filoni interpretativi in relazione all’ipotesi di esistenza di figli minori (variamente risolvendo il problema del conflitto fra l’autonomia negoziale dei coniugi e l’interesse dei minori); occorre pertanto distinguere (109):
   A) la tesi di coloro che ammettono lo scioglimento consensuale sia in assenza che in presenza di figli minori, senza in quest’ultimo caso ritenere necessaria (in quanto non prevista dalla normativa in tema di fondo patrimoniale) alcuna autorizzazione giudiziaria (110);
   B) la tesi di coloro che ammettono il libero scioglimento consensuale in assenza di minori, mentre in loro presenza richiedono l’autorizzazione giudiziale (autorizzazione che, sulla scorta di un’interpretazione analogica del combinato disposto degli artt. 171 cod. civ. – che si riferisce alle cause di estinzione del fondo – e 38 primo comma disp. att. cod. civ., andrebbe richiesta al Tribunale per i Minorenni ) (111);
   C) la tesi di coloro che ammettono il libero scioglimento consensuale in assenza di minori, mentre in loro presenza ritengono che la convenzione non produrrà effetti fino al raggiungimento della maggiore età da parte di costoro (112);
   D) la tesi di coloro che ammettono lo scioglimento consensuale solo in assenza di figli minori (113).
Quanto agli argomenti in generale addotti a favore dello scioglimento consensuale del fondo patrimoniale, essi finiscono per negare la tassatività dell’elenco delle cause di cessazione del fondo contenuto nell’art. 171 cod. civ. e possono così compendiarsi:
   a) è pacifico che il fondo patrimoniale cessi in caso di morte presunta di uno dei coniugi, fattispecie pur non espressamente prevista dalla norma in esame (114);
   b) il fondo patrimoniale ha natura di convenzione matrimoniale (115) e soggiace pertanto alla regola generale dell’art. 163 cod. civ., il quale ammette la modificabilità di dette convenzioni (116);
   c) a prescindere dal riferimento all’art. 163 cod. civ. di cui al punto b), essendo il fondo patrimoniale un contratto, la possibilità di scioglierlo di comune accordo discende dal combinato disposto degli artt. 1321 e 1372 cod. civ. (norma quest’ultima che appunto ammette lo scioglimento del contratto per mutuo consenso) (117);
   d) almeno nell’ipotesi di fondo patrimoniale costituito da coniugi privi di figli minorenni, l’ammissibilità del negozio di scioglimento discende dall’art. 171 ultimo comma cod. civ., il quale rinvia in tal caso alle norme sullo scioglimento della comunione legale (e dunque anche all’art. 191 cod. civ., che espressamente prevede il mutamento convenzionale del regime patrimoniale) (118);
   e) sia nel fondo patrimoniale con figli minori ma recante clausola di esonero da autorizzazioni in deroga all’art. 169 cod. civ. che nel fondo patrimoniale senza figli minori, i coniugi potrebbero comunque ottenere lo stesso risultato dello scioglimento consensuale alienando (senza controllo giudiziario di sorta) tutti i beni oggetto del fondo e disattendendo l’obbligo di reimpiego (la violazione del quale produce conseguenze meramente obbligatorie) (119);
   f) negare lo scioglimento consensuale del fondo implicherebbe (paradossalmente) l’impossibilità di porvi fine anche nei casi in cui la sua permanenza in vita fosse contraria all’interesse della famiglia (120).

2.1.2.3.4 La pubblicità dello scioglimento consensuale del fondo patrimoniale
   Nel caso in cui si opti per la tesi favorevole allo scioglimento consensuale del fondo patrimoniale, occorre chiedersi quali debbano essere le formalità pubblicitarie idonee a rendere opponibile ai terzi l’avvenuta cessazione del fondo stesso (121).
   In primo luogo, la convenzione estintiva dovrà essere annotata a margine dell’atto di matrimonio ex art. 163 terzo comma cod. civ. (122).
   In secondo luogo, detta convenzione dovrà esser pubblicizzata nei registri immobiliari: quanto alle concrete modalità di tale pubblicità, secondo un primo orientamento (che pare preferibile) dovrebbe farsi luogo, in forza dell’art. 163 ultimo comma cod. civ. (123), all’annotamento di essa a margine della trascrizione dell’atto costitutivo del fondo (124); altra opinione (125) afferma invece, sulla scorta di un’interpretazione estensiva dell’art. 2647 cod. civ., che dovrebbe procedersi alla trascrizione della convenzione estintiva (che pertanto andrà ad aggiungersi a quella a suo tempo effettuata in sede di costituzione del fondo) (126).

2.2 Il trust come convenzione matrimoniale atipica ex art. 161 cod. civ.
   Com’è noto, si discute se sia consentito ai coniugi di stipulare una convenzione matrimoniale atipica, cioè di predisporre un regime patrimoniale diverso da quelli (comunione legale, comunione convenzionale, separazione dei beni; fondo patrimoniale) tipizzati dal legislatore in occasione della riforma del diritto di famiglia (127).
   La tesi ormai prevalente (128) ritiene di rispondere affermativamente al quesito, facendo leva sia sull’art. 159 cod. civ., il quale, si limita a prevedere l’applicazione del regime di comunione legale nel caso in cui i coniugi non abbiano stipulato, con le forme dell’art. 162 cod. civ., una «diversa convenzione» matrimoniale, senza riferimento alcuno alla tassatività delle convenzioni disciplinate agli artt. 167 ss. cod. civ., sia e soprattutto sull’art. 160 cod. civ., al cui testo definitivo si è pervenuti, nel corso dei lavori preparatori, respingendo un emendamento secondo il quale «ogni convenzione matrimoniale diversa da quelle espressamente previste nel presente capo è nulla».
   È ovvio che l’autonomia privata dei coniugi al riguardo troverà, quali limiti nel suo esplicarsi, i principii inderogabili posti da norme come gli artt. 160 (129), 161 (130) e 166bis (131) cod. civ.
   Per il tema che interessa in questa sede riveste particolare importanza l’art. 161 cod. civ., il quale parrebbe costituire testuale conferma dell’ammissibilità di un regime patrimoniale atipico imperniato sull’utilizzo del trust (132): dall’interpretazione a contrario della norma, infatti, si evince che due coniugi italiani potrebbero, di comune accordo, scegliere un regime patrimoniale diverso da quello che sarebbe previsto dalla legge cui essi sono sottoposti (cioè dalla legge italiana), purché abbiano l’avvertenza (evitando così quel «rinvio generico» che la norma vieta) di effettuare un rinvio specifico a tale diverso regime, cioè di riversarne puntualmente il contenuto nella loro convenzione matrimoniale.
   Ne discende insomma che, ad esempio, due coniugi italiani potrebbero convenire un regime patrimoniale diverso da quelli tipici previsti dagli artt. 167 ss. cod. civ., ed in particolare potrebbero scegliere l’utilizzo della legge inglese (o comunque della legge di altro Stato che conosce il trust) per regolare il loro regime patrimoniale mediante un trust (nel qual caso, fra l’altro, l’esigenza del rispetto delle sopra citate norme imperative in tema di effetti personali e patrimoniali del matrimonio deriva, altresì, dall’art. 15 primo comma lettera b della Convenzione) (133).
   La tesi in esame pone, evidentemente, il problema di distinguere, in presenza di un trust avente quali disponenti i coniugi o uno di essi, fra trust avente natura di convenzione matrimoniale e trust avente natura diversa (134).
   La soluzione di tale pressoché inesplorato problema, che nel caso concreto potrebbe talvolta essere ardua, parrebbe produrre, fra l’altro, conseguenze assai rilevanti: ove il trust abbia natura di convenzione matrimoniale, infatti, parrebbe doverne seguire le regole di forma (atto pubblico alla presenza irrrinunziabile di testimoni, a pena di nullità, ex artt. 162 primo comma cod. civ. e 48 l. notarile) (135) e di pubblicità (annotamento a margine dell’atto di matrimonio ex art. 162 ultimo comma cod. civ.) (136).

3. Il trust nell’ambito della crisi coniugale
3.1. Il trust negli accordi di separazione e divorzio
   La dottrina (137) ha da qualche tempo evidenziato come lo strumento del trust si presti a soddisfare le esigenze dei coniugi (e dei figli di costoro) nel contesto tanto della separazione consensuale quanto del divorzio su ricorso congiunto (138).
   Tale orientamento non manca, infatti, di mettere a nudo i limiti operativi degli strumenti tradizionalmente posti dal nostro ordinamento a tutela del soggetto avente diritto all’assegno di separazione o divorzio (139).
   Nel contesto in esame, l’atto istitutivo dovrebbe prevedere, in estrema sintesi, quanto segue:
   a) l’attribuzione al trustee, da parte del coniuge debitore, di determinate somme di denaro e/o beni di altro genere, nella misura necessaria a far fronte al debito di mantenimento di costui;
   b) l’attribuzione del ruolo di beneficiario al partner e/o ai figli;
   c) la previsione che, nel momento in cui saranno cessati gli obblighi di mantenimento di cui sub a), il trust abbia fine ed i beni in trust eventualmente non consumati vengano dal trustee riattribuiti al coniuge (un tempo) debitore (140).
   Tanto premesso, non si è mancato di evidenziare (141) come l’istituzione del trust (il quale potrebbe esplicare, a seconda delle intese raggiunte, una funzione direttamente solutoria ovvero di garanzia) presenti i seguenti vantaggi:
   a) quanto alla posizione del coniuge debitore, esso determina la sottoposizione al vincolo di destinazione delle sole risorse necessarie a far fronte all’obbligazione e consente al disponente di ritornare in possesso dell’eventuale esubero (e, comunque, di destinarlo altrimenti) (142);
   b) quanto poi alla posizione del coniuge creditore:
   b’ – esso consente di rendere i beni vincolati in trust indifferenti a qualunque vicenda economica riguardante il coniuge disponente successivamente alla sua istituzione, garantendo al beneficiario di non subire il concorso, su detti beni, con eventuali altri creditori del partner;
   b’’ – esso, venendo ad instaurare un rapporto obbligatorio fra il trustee ed il coniuge creditore, riduce – fin quasi ad escluderla – la possibilità di un inadempimento e quindi l’eventualità che si debba far ricorso (con le lungaggini ed i costi giudiziari che sono noti) all’esecuzione forzata.

3.2 Una recente concreta applicazione del trust nella separazione consensuale
3.2.1 La vicenda
   I coniugi Tizio e Caia sottopongono al Tribunale di Milano un accordo di separazione prevedente, in particolare, che Tizio, onde far fronte alle esigenze abitative della figlia minore Mevia finché costei non sarà divenuta economicamente indipendente, istituisce un trust con le caratteristiche che seguono:
   – oggetto del trust è un immobile di proprietà del disponente Tizio;
   – trustee del trust è lo stesso disponente (ove costui cessi dall’ufficio, sarà trustee in sua vece Caia ovvero, se costei non assuma l’ufficio ovvero cessi dal medesimo, il soggetto che sarà nominato dal Presidente del Collegio Notarile di Milano);
   – la legge regolatrice del trust è quella inglese;
   – il trust durerà dall’omologazione della separazione fino al giorno in cui Mevia avrà compiuto (ovvero avrebbe compiuto, se a tale data essa sia già deceduta) il trentesimo anno di età;
   – durante la vigenza del trust, il trustee dovrà adibire l’immobile di cui si è detto ad abitazione di Mevia e Caia, nonché far godere a Mevia ogni eventuale ulteriore bene incluso nel trust (nel caso in cui Mevia desideri andare ad abitare altrove, inoltre, il trustee provvederà nel modo che riterrà opportuno per soddisfarne le nuove esigenze abitative);
   – alla fine del trust, il trustee attribuirà la titolarità dell’immobile (e di ogni eventuale ulteriore bene incluso nel trust) alla stessa Mevia, se vivente, ovvero in caso contrario a Tizio, oppure (se anche Tizio sia già deceduto) ai suoi eredi legittimi.
   L’accordo di separazione in oggetto viene trasfuso nel verbale dell’udienza presidenziale e, previo parere favorevole del P.M., viene omologato dal Tribunale di Milano con decreto del 23 febbraio 2005 (143).

3.2.2 Le questioni giuridiche inerenti al trust: il problema dell’ammissibilità del trust interno (cenni) e quello del trust autodichiarato
   La decisione, in primo luogo, costituisce un’ulteriore (pur se implicita) conferma del fatto che la giurisprudenza tende ormai ad optare per l’ammissibilità del trust interno, cioè del trust privo di elementi di collegamento con un ordinamento straniero, eccezion fatta per la sua legge regolatrice (144).
   In secondo luogo, il provvedimento milanese mostra un implicito favore per la figura del trust autodichiarato (145), l’applicabilità al quale della Convenzione non è affatto pacifica.
   La dottrina del tutto dominante opta per la tesi affermativa (146), in quanto l’opinione negativa appare isolata (147).
   Quanto alla giurisprudenza, prima del decreto di omologa qui in esame essa si era misurata con il trust autodichiarato in sei occasioni (148), tutte originate dal precedente rifiuto di Conservatori di registri immobiliari di procedere alla trascrizione di esso (149).
   Quattro delle dette pronunzie (150) hanno ordinato di procedere alla trascrizione, in tal modo concludendo per l’ammissibilità dell’istituto nel nostro ordinamento, mentre in senso opposto si sono espresse le rimanenti due pronunzie (151).
   Il decreto di omologa del Tribunale di Milano, pertanto, va ad inserirsi nel filone giurisprudenziale allo stato prevalente.
   Quel che risulta curioso, però, è che nessuna delle decisioni favorevoli al trust autodichiarato ha mostrato di essere a conoscenza del fatto che la questione è, in realtà, controversa.
   La decisione del Trib. Pisa 27.12.2001, infatti, si limita ad affermare, apoditticamente (152), che l’applicabilità della Convenzione ad un trust del genere è un fatto «di immediata percezione e pacifico, quindi da accennare soltanto», poiché nel caso di specie il disponente aveva scelto per il trust la legge regolatrice inglese ed «il trust, senza eccezione per questo tipo di trust, è previsto nell’ordinamento inglese esplicitamente invocato» da detto disponente.
   Il Tribunale mostra così di accogliere l’argomento che era contenuto nel reclamo predisposto, avverso la trascrizione con riserva disposta dal Conservatore, dal notaio rogante (153).
   Non pare, però, trattarsi di argomento convincente: se infatti è pacifico che la legge inglese, scelta dal disponente in quel caso, ammette il trust autodichiarato, ciò non aiuta certo a risolvere il problema che si pone a monte, cioè se il trust autodichiarato come tale (quale che sia, cioè, la legge regolatrice scelta dal disponente) rientri o meno nell’ambito applicativo della Convenzione (154).
   Ancora minore appare lo sforzo ermeneutico delle altre decisioni favorevoli ai trusts autodichiarati: in esse, infatti, non è dato reperire neppure un abbozzo di motivazione al riguardo.
   Secondo Trib. Milano 29.10.2002, infatti, «non è oggetto di valutazione la validità o meno del trust, ma unicamente il profilo strettamente formale della sua trascrivibilità»; il Trib. Verona 8.1.2003 afferma incidentalmente che «la caratteristica precipua del trust … non è tanto il trasferimento…al trustee (mancante nella concreta fattispecie, in cui la stessa persona è ad un tempo disponente e trustee) quanto la separazione (o segregazione) dei beni»; il Trib.Parma 21.10.2003, infine, non dedica al trust autodichiarato neppure una parola.
   Si ha quindi l’impressione che la giurisprudenza in esame abbia sprecato un’importante occasione per munire di solide basi argomentative la tesi (peraltro condivisibile, come si vedrà) che include i trusts in esame nell’ambito applicativo della Convenzione.
   Tale impressione risulta, purtroppo, rafforzata dalla considerazione che il più organico tentativo di dare in sede giudiziaria una risposta appagante alla questione oggetto del presente scritto è stato, ad oggi, effettuato da una decisione contraria ai trusts autodichiarati (155), secondo la quale, in estrema sintesi:
   a) il trust cui fa riferimento l’art. 2 della Convenzione postula che disponente e trustee siano soggetti diversi;
   b) il disegno di legge sui trusts n°6547 del 1999 (156) postula anch’esso l’alterità soggettiva di cui al punto a), giungendo al punto di riservare l’attività di trustee a società fiduciarie, banche, società di gestione del risparmio ed imprese di investimento abilitate ex Testo unico dell’intermediazione finanziaria;
   c) la finalità familiare perseguita dal trust nel caso di specie (157) può essere attuata facendo ricorso all’istituto del fondo patrimoniale.
   Appare comunque evidente che, se l’argomento sub a) appare dotato di una sua plausibilità, diverse considerazioni meritano quelli sub b) e sub c): quanto al primo, infatti, non si comprende quali spunti ermeneutici possa fornire (se non de jure condendo) un disegno di legge (peraltro, a quanto consta, abbandonato da tempo); quanto al secondo, esso si atteggia come una petizione di principio, la quale, fra l’altro, mostra di non tener conto delle notevoli differenze esistenti fra trust e fondo patrimoniale (158).
   Le ragioni della discussa ammissibilità del trust autodichiarato sono assai complesse e pertanto, nella presente sede, possono solo essere riassunte (159).
   Nella sua stesura originaria, l’art. 2 paragrafo primo della Convenzione affermava (160) che per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da un soggetto «qualora dei beni siano trasferiti a o trattenuti da» un trustee.
   Detta chiara formulazione della norma, non ritenendo indispensabili né un’alterità soggettiva fra disponente e trustee, né un trasferimento di beni dal primo al secondo, da un lato forniva una nozione di trust conforme a quella tradizionalmente presente nell’ordinamento inglese, dall’altro non lasciava dubbi in ordine all’applicabilità della Convenzione anche ai trusts autodichiarati.
   Nel corso dei lavori preparatori, però, la norma in esame è stata modificata, pervenendo in tal modo alla sua odierna formulazione, secondo la quale per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti «da un soggetto, il disponente, qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee».
   Occorre in primo luogo osservare che l’inserimento dell’espressione «il disponente» ha fatto sì che la lettera della norma appaia ora prima facie richiedere che disponente e trustee siano soggetti diversi (161).
   Preme comunque subito evidenziare che la menzione del disponente, come risulta dai lavori preparatori (162), lungi dall’esser frutto di una precisa scelta normativa nel senso suindicato, avvenne unicamente per venir incontro a richieste in tal senso da parte di delegati di Paesi di civil law (i quali – ironia della sorte – avevano di mira una definizione di trust che fosse la più chiara possibile).
   Quanto poi all’introduzione nella norma dell’espressione «beni posti sotto il controllo di un trustee» in luogo di quella «beni trasferiti a o trattenuti da un trustee», detta modifica altro non fu che il (maldestro) frutto dell’interazione di due orientamenti presenti in seno alla Conferenza de L’Aja.
   Il primo di tali orientamenti, proprio dei delegati dei Paesi di common law, mirava a far varare una nozione convenzionale di trust la quale fosse di facile ed immediata comprensibilità anche per i Paesi di civil law.
   Ciò è tanto vero che i delegati dei Paesi di common law non dettero, per lo più, particolare peso alla detta modifica, in quanto essi – data la loro antica familiarità con l’istituto del trust – giudicarono le due espressioni sostanzialmente equivalenti.
   Il secondo orientamento, assai diffuso fra i delegati partecipanti alla Conferenza (quale che ne fosse l’estrazione giuridica) mirava a far varare una nozione convenzionale di trust che non fosse ristretta al trust propriamente detto, ma risultasse aperta anche alle cosiddette «trust-like institutions», cioè ad altri istituti (163) ad esso più o meno analoghi.
   La finale ed ampia formulazione dell’art. 2 paragrafo primo, pertanto, ha finito per far sorgere la questione dell’applicabilità della Convenzione non solo ai trusts con trasferimento al trustee, ma anche ai trusts autodichiarati.
   Occorre osservare fin d’ora che nessun sicuro contributo alla soluzione di quest’ultimo problema appare fornito dall’ultimo paragrafo del medesimo art. 2, per il quale «il fatto che il disponente conservi alcuni diritti e facoltà…non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust»: come sembra risultare anche dai lavori preparatori, infatti, è pressoché certo che fra tali «diritti e facoltà» non possa figurare l’ipotesi in cui il disponente si autodichiari trustee (164).
   Il problema del rapporto fra trust autodichiarati e Convenzione, però, non pare poter esser adeguatamente affrontato senza la previa disamina della genesi di un’ulteriore norma, cioè dell’art. 4.
   Il testo definitivamente approvato di quest’ultima norma afferma che essa «non si applica a questioni preliminari relative alla validità dei testamenti o di altri atti giuridici, in virtù dei quali determinati beni sono trasferiti al trustee».
   Per comprendere pienamente il significato precettivo della norma, occorre tener presente che, com’è si è detto in precedenza (165), all’interno della composita fattispecie costitutiva di un trust si devono distinguere da un lato il negozio istitutivo (che contiene il «programma» del trust) e dall’altro il negozio dispositivo (il quale trasferisce il diritto dal disponente al trustee ovvero, nel caso di trust autodichiarato, determina la nascita del vincolo di destinazione proprio del trust in capo a beni che sono e restano nella titolarità del disponente).
   Costituisce intendimento dell’art. 4 quello di rendere, appunto, estraneo all’ambito applicativo della Convenzione ogni profilo di validità del negozio dispositivo: in tale ottica, quindi, tale profilo sarà disciplinato non già dalla legge regolatrice del trust, ma dalle norme di diritto internazionale privato proprie dei singoli Stati.
   Poiché, da un lato, fra i delegati in seno alla Conferenza era diffuso il convincimento che l’esistenza e la validità di un negozio dispositivo fosse pregiudiziale alla venuta ad esistenza del trust previsto nell’atto istitutivo e, dall’altro lato, costituisce prassi diffusa nell’ordinamento inglese quella di far precedere il negozio istitutivo dal negozio dispositivo (166), tali circostanze produssero in sede di lavori preparatori almeno due ordini di conseguenze:
   a) le questioni attinenti alla validità del negozio dispositivo vennero qualificate come «preliminari», e tale aggettivo venne inserito nel testo dell’art. 4;
   b) si tentò di rendere palpabile l’intendimento perseguito mediante l’art. 4, implicante in sostanza una dicotomia fra negozio dispositivo (estraneo all’ambito applicativo della Convenzione, in quanto – ad avviso dei delegati – concernente una fase anteriore alla venuta ad esistenza del trust) e negozio istitutivo (soggetto, invece, alla Convenzione), facendo frequente ricorso all’immagine della «fionda» o «rampa di lancio» per il primo ed a quella del «sasso» o «razzo» per il secondo.
   Pur se la scelta sub a) e quella sub b) non sono risultate particolarmente felici (167), il testo dell’art. 4 è abbastanza chiaro nel suo significato per quanto riguarda i trusts caratterizzati da un trasferimento ad un trustee.
   I problemi ermeneutici nascono, invece, allorché venga in questione la figura del trust autodichiarato, poiché la parte finale del testo definitivo dell’art. 4, come si è detto, fa riferimento a «testamenti o…altri atti giuridici, in virtù dei quali determinati beni sono trasferiti al trustee», senza alcun riferimento espresso – appunto – alla figura di trust in questione.
   Un’osservazione preliminare s’impone: il testo dell’art. 4 (che parla di «trasferimento» dei beni al trustee) non coincide con quello dell’art. 2 (che, come si è visto, nel fornire la nozione convenzionale di trust parla di «controllo» del trustee sui beni).
   Ciò ha fatto sì che, nel corso dei lavori preparatori, taluni delegati si siano fatti latori di proposte di modifica del testo provvisorio dell’art. 4, volte a porlo in linea con quello dell’art. 2.
   La prima proposta mirava a sostituire nell’art. 4 il concetto di «trasferimento» con quello di «controllo», allo scopo appunto di rendere chiara la scelta di escludere dall’ambito applicativo della Convenzione ogni profilo di validità del negozio dispositivo non solo nei trust con trasferimento al trustee, ma anche in quelli autodichiarati.
   La proposta in questione non venne però accolta, in quanto dai più si ritenne (discutibilmente) da un lato che il testo dell’art. 4, tutto sommato, fosse riferibile anche ai trusts autodichiarati e dall’altro lato che non fosse opportuno introdurvi una nozione (quella, appunto, di «controllo») che già era utilizzata, a fini diversi, dall’art. 2.
   Una seconda (e successiva) proposta di modifica dell’art. 4, prevedeva che alla parte finale di tale norma dovesse aggiungersi la frase «or set aside by a person to be held by himself as trustee», sì da rendere ancor più inequivoco (anche – si badi – per i giuristi di common law) il riferimento ai trusts autodichiarati.
   Anche tale proposta, però, non venne accolta, in quanto ancora una volta si ritenne che il testo dell’art. 4 fosse già sufficientemente chiaro nella sua riferibilità anche ai trusts autodichiarati.
   Se dunque appare evidente come fosse diffuso intendimento dei delegati quello di rendere applicabile l’art. 4 anche ai trusts autodichiarati, non si può certo dire che detto intendimento sia stato reso trasparente dal testo definitivamente approvato di tale norma.
   Dalla precedente analisi dovrebbe essere emerso con chiarezza che, pur essendovi fra i delegati in seno alla Conferenza de L’Aja un assai diffuso orientamento volto ad includere i trusts autodichiarati nell’ambito applicativo della Convenzione, non si è addivenuti all’approvazione di un testo normativo (mi riferisco ora all’art. 2 paragrafo primo) formulato in modo da rispecchiare in modo inequivoco detto orientamento.
   Sembra possibile escludere, però, che ciò sia accaduto perché ha finito per prevalere, in sede di lavori preparatori, un orientamento contrario all’inclusione di siffatti trusts nell’ambito convenzionale.
   Riterrei pertanto corretta la tesi che include tali trusts nella Convenzione, alla luce delle seguenti argomentazioni:
   a) L’art. 2 paragrafo primo, là dove parla di un «disponente» e di un «trustee», non postula affatto che costoro debbano essere soggetti distinti, ma si limita ad affermare che, per aversi un trust ai sensi della Convenzione, occorre una fattispecie in cui «qualcuno» svolge il ruolo di disponente e «qualcuno» (non necessariamente «qualcun altro») svolge il ruolo di trustee.
   b) L’art. 2 paragrafo primo, che nel testo definitivo parla di «controllo» sui beni da parte del trustee (invece che di beni «trasferiti a o trattenuti da» un trustee, come accadeva in una precedente versione di tale norma), introduce una nozione convenzionale di trust più ampia di quella propria del modello tradizionale anglosassone, al punto che si tende ad includere nella stessa anche le cosiddette trust-like institutions. Ne discende che, a fortori, in detta lata nozione di «controllo» non può non rientrare anche il trust autodichiarato, che è tipologia di trust rientrante in detto modello tradizionale.
   Riterrei, altresì, che siano invece prive di attinenza con il tema in questione due ulteriori norme della Convenzione, cioè l’art. 2 ultimo paragrafo e l’art. 4.
   Quanto alla prima norma, infatti, essa si limita ad affermare che non può escludersi la validità di un trust in cui il disponente si riservi, nell’atto istitutivo, una serie di «rights and powers», e tale situazione nulla ha a che fare, come si è detto in precedenza (168), con quella in cui il disponente sia, altresì, trustee.
   Quanto alla seconda norma, si è visto che essa mira semplicemente ad escludere dall’ambito applicativo della Convenzione (per sottoporlo alle regole di conflitto del foro) il solo negozio dispositivo, e non anche l’atto istitutivo di un trust (al quale invece, naturalmente, la Convenzione si applica, ex art. 2 paragrafo primo).
   Si è visto altresì che, pur essendovi fra i delegati in seno alla Conferenza de L’Aja un assai diffuso orientamento volto ad includere nella previsione dell’art. 4 anche il negozio dispositivo proprio dei trusts autodichiarati, anche in questo caso non si è addivenuti all’approvazione di un testo normativo inequivoco in tal senso: la lettera dell’art. 4, infatti, fa espresso riferimento al solo negozio dispositivo implicante «trasferimento» di beni al trustee.
   Come nel caso dell’art. 2 paragrafo primo, però, sembra possibile escludere che ciò sia accaduto perché ha finito per prevalere, in sede di lavori preparatori, un orientamento contrario all’inclusione nell’art. 4 del negozio dispositivo di siffatti trusts.
   L’ambiguità dell’art. 4, però, sembra in questo caso nuocere all’interprete assai meno di quanto accade per quella dell’art. 2 paragrafo primo: ciò in quanto, quale che sia la lettura dell’art. 4 che, con riferimento al trust autodichiarato, si intenda dare, pare indubitabile che detta norma non abbia alcuna attinenza con il tema oggetto di questo scritto.
   Se, infatti, si opta per la tesi (169) secondo la quale anche nel trust autodichiarato vi è un negozio lato sensu dispositivo (come parrebbe preferibile, considerato che il disponente-trustee, pur non trasferendo i suoi beni, crea un vincolo su di essi), ne discende l’applicabilità dell’art. 4 (a dispetto del suo tenore letterale) a quest’ultimo negozio: ciò significa – si badi – che, ferma la riconoscibilità di detto trust autodichiarato in base all’art. 2 paragrafo primo, il suo negozio dispositivo sarà soggetto alle regole di conflitto del foro.
   In tale ottica, quindi, se ad esempio Tizio autodichiara un trust interno immobiliare, i profili di validità formale e sostanziale dell’atto dispositivo (che è fonte, pur in assenza di un trasferimento, del vincolo di destinazione) sono estranei all’ambito applicativo della Convenzione in quanto, ex art. 4, sono regolati dalle norme italiane: ciò significa che il disponente dev’essere capace secondo la legge italiana e che occorre un atto scritto ad substantiam.
   Se invece si opta per la tesi restrittiva (170) secondo la quale, mancando nel trust autodichiarato un negozio dispositivo implicante un trasferimento, l’art. 4 non è applicabile ad un trust siffatto, resta comunque ferma l’applicabilità al medesimo della Convenzione in base all’art. 2 paragrafo primo.

3.3 Il problema dell’ammissibilità di un trust imposto dal giudice in sede di separazione o divorzio contenziosi
   Non è mancato in dottrina chi è giunto fino al punto di ritenere (171) che il giudice possa, nella sentenza di separazione o di divorzio, istituire un trust (con funzione – al solito – solutoria ovvero di garanzia) a carico del soggetto che risulti, all’esito dell’istruttoria espletata sul punto, tenuto al mantenimento.
   Nel caso di specie, la fonte del trust sarebbe quindi rappresentata non già da una volontà negoziale in tal senso manifestata dal disponente, bensì da una sentenza (di natura – si badi – costitutiva) emessa dal giudice e recante il regolamento del trust.
   La tesi in esame non sembra però condivisibile, poiché a mio avviso ostano al suo accoglimento, per le ragioni che subito si esporranno, le previsioni degli artt. 3 e 20 della Convenzione (la quale costituisce, com’è noto, l’unica possibile fonte di riconoscimento per un trust nel nostro ordinamento).
   Nel suo testo attuale, l’art. 3 dichiara la Convenzione applicabile ai trusts «costituiti volontariamente e provati per iscritto».
   Di estrema delicatezza e problematicità è la questione inerente all’applicabilità o meno della Convenzione ai constructive trusts, cioè ai trust che – appunto – sorgono in virtù di una decisione del giudice.
   Una considerazione preliminare s’impone: al testo definitivo dell’art. 3 si è addivenuti eliminando strada facendo i riferimenti, reperibili in precedenti versioni della medesima, ora ai trusts «costituiti per iscritto» ora ai trusts «creati espressamente».
   Tanto premesso, una larga parte della dottrina ha affermato (in stretta aderenza alle risultanze dei lavori preparatori) l’estraneità dei constructive trusts medesimi all’ambito applicativo della Convenzione (172) per i motivi seguenti:
   a) l’avvenuta eliminazione della versione dell’art. 3 che parlava (come si è detto) di trusts «costituiti per iscritto» (versione che avrebbe potuto far sorgere il dubbio dell’applicabilità della Convenzione ai trusts in esame, poiché anche il constructive trust è «costituito per iscritto», in quanto sorge in virtù di una sentenza del giudice) e la sostituzione di essa con la versione attuale (in cui è, invece, inequivoco il riferimento alla volontarietà della creazione del trust da parte del disponente);
   b) la circostanza che l’art. 20 della Convenzione, consentendo agli Stati contraenti di estenderne eventualmente l’applicazione ai trusts «costituiti» in base ad una decisione giudiziaria, implicitamente ne escluderebbe l’applicabilità in via ordinaria a trusts siffatti (173).
   La correttezza di tale impostazione appare, però, discutibile per le ragioni seguenti:
   a) mentre nella traduzione non ufficiale in lingua italiana (174) dell’art. 20 vi è il riferimento ai trusts «costituiti» in base ad una decisione giudiziaria, le versioni ufficiali in lingua inglese e francese del testo convenzionale utilizzano, rispettivamente, le parole «declared» e «créés», il cui rispettivo senso letterale appare evocare le non omologhe categorie della sentenza dichiarativa e di quella costitutiva, con ben immaginabili difficoltà interpretative;
   b) in sede di lavori preparatori si intese riferire l’art. 20 ai constructive trusts (ritenendoli, quindi, esclusi dall’ambito applicativo della Convenzione) aderendo alla diffusa opinione che vede in essi dei trusts che la sentenza del giudice dichiara esistenti «contro» la volontà del soggetto che è destinato a subirli; in realtà, considerato che esistono constructive trusts conformi alla volontà del soggetto (175), sorge il fondato dubbio che il corretto criterio per applicare o meno l’art. 20 sia, piuttosto, quello fondato sulla natura costitutiva o dichiarativa del decisum, cioè quello imperniato sull’indagine relativa, rispettivamente, all’assenza o alla presenza, a monte della sentenza che palesa il trust, di un comportamento volontario del soggetto.
   È stato pertanto osservato (176) che, pur se le suaccennate modifiche del testo dell’art. 20 sono state effettuate con l’intento di escludere i constructive trusts dall’ambito applicativo della Convenzione, non è men vero che devesi ritenere erronea la valutazione effettuata in sede di lavori preparatori secondo la quale il testo definitivo della norma (riferentesi a «trusts costituiti volontariamente») sarebbe stato idoneo a tale scopo.
   Una siffatta valutazione – osserva tale dottrina – venne infatti fuorviata dalla inesatta tesi tradizionale secondo la quale il constructive trust sarebbe per definizione creato dal giudice «contro» la volontà del soggetto.
   In altri termini, non si può escludere che l’attuale formulazione dell’art. 3 renda applicabile la Convenzione (ritenendole ipotesi di «trusts volontari») alle fattispecie di trust rispetto alle quali la sentenza del giudice assuma una natura meramente dichiarativa di una conforme volontà del soggetto; ferma – s’intende – l’applicabilità dell’art. 20 alle ipotesi di trust create invece dal giudice (con sentenza avente, quindi, natura costitutiva) in contrasto con la volontà del soggetto stesso.
   Alla luce di quanto fin qui osservato, pertanto, ritengo che il giudice della separazione o del divorzio non possa istituire un trust a carico di uno dei coniugi, in quanto un trust siffatto, fondandosi su una sentenza di natura costitutiva, non rientra in alcun modo (177) nella previsione dell’art. 3 (178).
   Un’opinione allo stato isolata (179) ha proposto di aggirare gli ostacoli di cui si è detto – sia pure con limitato riferimento all’ipotesi di «pericolo di inadempimento» da parte del coniuge debitore di cui agli artt. 156 comma quarto cod. civ. e 8 comma primo legge div. (180) – mediante l’iter che segue:
   a) un soggetto terzo di fiducia del coniuge creditore istituisce un trust del quale è beneficiario detto coniuge e nel quale dovrà confluire quanto sarà oggetto della pronunzia giudiziale di cui al punto c);
   b) il coniuge creditore, fornita prova della sussistenza del pericolo d’inadempimento di cui alle norme sopra citate e dell’avvenuta dichiarazione negoziale del soggetto terzo di cui al punto a), richiede che il giudice condanni il coniuge debitore a fornire «idonea garanzia» ai sensi delle norme stesse mediante trasferimento di propri beni a detto soggetto terzo;
   c) il giudice emette una sentenza costitutiva recante trasferimento di detti beni dal coniuge debitore al terzo;
   d) i beni di cui al punto c), pertanto, confluiscono in un trust che sarebbe ammissibile per due ragioni: in primo luogo, essendo stato volontariamente istituito da un soggetto (il terzo) e non dal giudice, esso rientrerebbe nella previsione dell’art. 3 della Convenzione; in secondo luogo, il trasferimento «in garanzia» dal coniuge debitore al terzo, essendo (in quanto estraneo all’ambito applicativo della Convenzione ex art. 4, sarebbe ammissibile in quanto regolato dal nostro diritto interno (cioè dagli artt. 156 comma quarto cod. civ. e 8 comma primo legge div., che appunto lo consentirebbero).
   La tesi in esame, pur lodevole nei suoi intenti, appare ben lontana dal persuadere, ove si consideri quanto segue:
   a) l’art. 4 della Convenzione si riferisce, come appare pacifico, ad atti di dotazione del trust aventi natura negoziale e non (come accade nel caso di specie) a sentenze;
   b) anche a voler disattendere quanto esposto sub a), resta il fatto che gli artt. 156 comma quarto cod. civ. e 8 comma primo legge div. consentono al giudice di «imporre» al coniuge debitore «di prestare idonea garanzia» e non (come accade nel caso di specie) di attivare direttamente (sia pure con la collaborazione del soggetto terzo che istituisce a latere il trust) il meccanismo di garanzia.

* Il testo riproduce, con integrazioni, la relazione presentata al Convegno intitolato «I trusts interni: aspetti operativi», tenutosi a Trieste in data 17.6.2005

 

NOTE

   (1) Cfr. Trib. Perugia-Giudice tutelare (decr.) 16.4.2002, Trusts ed att. fid. 2002 (d’ora in avanti: TAF), 584; Trib. Bologna 3.12.2003, TAF 2004, 254; Trib. Firenze-Giudice tutelare (decr.) 8.4.2004, TAF 2004, 567 (di quest’ultima vicenda mi sono personalmente occupato). Per maggiori dettagli sulle vicende oggetto delle prime due decisioni cfr. altresì L. Santoro, Il trust in Italia, Milano 2004, rispettivamente 426 ss. e 409 ss.; F. Mazza Galanti, Trust con disponente minorenne, in Aa. Vv. Il Trust nel diritto delle persone e della famiglia, a cura di M. Dogliotti e A. Braun, Milano 2003, 201 ss.; M. Dogliotti, Trust e amministrazione dei beni del minore, TAF 2004, 212.

   (2) Si noti che la particolare natura dell’operazione, la quale mira alla tutela di un soggetto incapace, fa sì che, pur essendovi totale coincidenza fra disponente e beneficiario, in linea di massima non possa sostenersi, da parte di soggetti terzi, che il trust sia affetto da simulazione. Sul discrimine fra controllo lecito e controllo illecito sul trust da parte del disponente, nonché sul contiguo tema del trust simulato (sham trust) v. amplius S. Bartoli, Il Trust, Milano 2001, 198 ss; B. S. Engel, Settlor control: too much of a good thing ?, TAF 2000, 192 ss.; M. Graziadei, Diritti nell’interesse altrui. Undisclosed agency e trust nell’esperienza giuridica inglese, Trento 1995, 242 ss.; A. Vicari, Il trust di protezione patrimoniale, Milano 2003, passim; A. Underhill – D. J. Hayton, Law relating to Trusts and Trustees, Londra-Dublino-Edimburgo 2003, 59 ss.

   (3) Si tratterà degli eredi legittimi ovvero, nella remota eventualità che l’incapace possa fare testamento ed abbia testato, testamentari. È il caso dell’inabilitato, il quale non soggiace al divieto di testare previsto nell’art. 591 cod. civ. (così Cass. 130/1968).

   (4) In italiano: trust «residuale» ovvero trust «di ritorno». Come si evince da quanto riportato nel testo, pertanto, beneficiari del resulting trust sono il disponente ovvero – se deceduto – gli eredi di costui. Su questo istituto cfr. A. Underhill – D. J. Hayton, (trattasi di Trib. Napoli 1.10.2003)329 ss; M. Lupoi, Trusts, Milano 2001, 114 ss.; S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 150 ss. Per le complesse ragioni dell’applicabilità della Convenzione de L’Aja non solo ai trust frutto di un’espressa dichiarazione negoziale, ma anche ai resulting trust, cfr. M. Lupoi, Trusts cit. in questa nota, 511 ss.; S. Bartoli, Il Trust, [supra, nota 2], 517 ss.

   (5) Per le ragioni di questa precisazione si veda la successiva nota 14.

   (6) Riterrei che il problema di cui al testo si ponga nella sola ipotesi di trust cosiddetto fixed e non anche nel caso di trust discrezionale (sulla distinzione cfr. per tutti S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2] 278 ss., con ampia bibliografia anche straniera), poiché in quest’ultima fattispecie il trust attribuisce al beneficiario non già un diritto, bensì un’aspettativa di mero fatto a conseguire utilità economiche rivenienti dal trust fund.

   (7) Trattasi di Trib. Casale Monferrato (decr.) 13.4.1984, Giur. It. 1986, 753 ss. e Riv. Not. 1985, 240 ss., con note rispettivamente di G. Cassoni («Il trust anglosassone quale istituzione sconosciuta nel nostro ordinamento») e di L. P. Comoglio («Il caso di trustee straniero che agisce in Italia per la vendita di beni ereditari: un dubbio ricorrente di giurisdizione volontaria internazionale»).

   (8) La dottrina successiva all’entrata in vigore della Convenzione, com’è noto, ha invece ampiamente chiarito quali sono le analogie e le differenze fra i due istituti: cfr. per tutti M. Lupoi, Trusts [supra, nota, 4], 728 ss.; S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 4], 361ss.

   (9) Questo il passo saliente del decreto: «Rilevato che con il testamento del 9 aprile 1981 la cittadina britannica Nicola Sara Fitzgerald in Dawson, in conformità al diritto del suo Stato – applicabile ex art. 23 delle disposizioni sulla legge in generale – ha lasciato tutti i suoi beni mobili ed immobili fiduciariamente ad un executor trustee, con l’obbligo per quest’ultimo di monetizzare l’intero patrimonio e di consegnarlo ai figli della Fitzgerald al raggiungimento della maggiore età; ritenuto che l’executor trustee ha acquistato, per quanto sopra, la proprietà di tutti i beni (…); ritenuto altresì che quanto stabilito nel testamento riproduce esattamente lo schema di un negozio fiduciario, e precisamente quello della “fiducia cum amico” (…) (si veda anche in proposito un’altra figura molto simile prevista dal nostro cod. civ.: art. 627, fiducia testamentaria; nella “fiducia cum amico” vi è una vera e propria obbligazione per l’amico, nel caso previsto dall’art. 627 vi è solo l’adempimento di un’obbligazione naturale); rilevato che il negozio fiduciario è perfettamente valido per il nostro ordinamento giuridico e che quindi l’executor trustee – anche ai fini dell’art. 22 disposizioni generali sulla legge – deve essere considerato proprietario dei beni immobili siti in Italia a tutti gli effetti. Per questi motivi (ecc.), visto l’art. 747 cod. proc. civ., si dichiara incompetente ad emanare provvedimenti autorizzativi a vendere, essendo ormai proprietario, dei beni immobili di cui al ricorso, l’executor trustee».

   (10) Si vedano gli autori citati alla precedente nota 7.

   (11) Cfr. G. Cassoni, Il trust anglosassone [supra, nota 7], 758, per il quale è corretto escludere la possibilità di rilasciare al trustee l’autorizzazione in oggetto «ma non perché, come ha affermato il decreto (…), per l’executor-trustee, essendo ormai proprietario dei beni immobili situati in Italia, non sono necessari provvedimenti autorizzativi a vendere, con la conseguenza che l’adito Tribunale dovrebbe dichiarare la propria incompetenza (…); ma per altri e specifici motivi. Siamo, infatti, in materia di azioni e la materia (…) è, come tale, disciplinata dalla lex fori. Senonché l’azione è disciplinata dalla lex fori nelle sue condizioni, purché tali condizioni dipendano dal diritto processuale. Esistono, infatti, condizioni dell’azione che sono determinate dalla legge sostanziale, con la conseguenza che la loro disciplina può essere desunta da ordinamenti stranieri: è questo, ad esempio, il caso – che è, poi, quello di cui qui si discute – della legittimazione ad agire (…). Come conseguenza di questa impostazione si può, pertanto, ritenere che quando è in gioco la legittimazione ad agire dell’executor-trustee in ordine alla vendita di un bene immobile situato in Italia è alla legge sostanziale straniera – nella specie successoria inglese – che occorre rifarsi (…) e poiché la norma inglese non prevede autorizzazione di sorta bisogna necessariamente concludere che il giudice italiano è, sotto questo profilo, incompetente».

   (12) Cfr. L. P. Comoglio, Il caso di trustee straniero [supra, nota 7], 246 ed ivi nota 38.

   (13) Trattasi – lo si evidenzia fin d’ora – di uno degli argomenti che appaiono idonei a supportare la tesi proposta nel § 1.2.1.3.

   (14) Norma applicabile non solo alla capacità giuridica, ma anche (cfr. Cass. Sez. Un. 1680/1966) alla capacità di agire. L’attualmente vigente art. 23 primo comma legge 218/1995 ribadisce il rinvio alla legge nazionale dell’incapace: ciò spiega perché, all’inizio del presente paragrafo, si è precisato che il problema delle autorizzazioni per gli atti di straordinaria amministrazione compiuti dal trustee si pone nei trusts con beneficiari incapaci di cittadinanza italiana.

   (15) Cfr. V. Salvatore, Il trust. Profili di diritto internazionale e comparato, Padova 1996, 102-103 (per il quale «Qualora in ipotesi beneficiario fosse designato un minore, gli atti di disposizione sui beni costituiti in trust dovrebbero essere assoggettati alla disciplina contemplata dagli artt. 374 e 375 del codice civile, che subordinano all’autorizzazione del giudice tutelare o del Tribunale il compimento di atti che possano depauperare il patrimonio del minore»); P. Piccoli, Possibilità operative del trust nell’ordinamento italiano. L’operatività del trustee dopo la Convenzione dell’Aja, Riv. Not. 1995, 46.

   (16) Cfr. M. B. Deli in Aa. Vv., Convenzione relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento a cura di A. Gambaro-A. Giardina-G. Ponzanelli, Nuove Leggi Civ. Comm. 1993, 1289-1290, per la quale appunto «qualora la qualifica di trustee sia stata attribuita ad uno o ad entrambi i genitori ovvero a un terzo, potrebbe essere richiesta la conformità ai principi stabiliti dagli artt. 320 ss. e 374 ss. cod. civ. (…). È evidente che un’applicazione troppo rigorosa di tali norme ridurrebbe in modo consistente il potere di gestione normalmente riconosciuto ai trustees nell’ambito dei sistemi di common law (…). Considerando quindi il senso generale che gli autori della Convenzione hanno voluto attribuire alla norma, specialmente con riguardo al secondo paragrafo, potrebbe forse risultare indicativo il disposto dell’art. 169 cod. civ. che, in materia di fondo patrimoniale ed in presenza di figli minori, subordina all’autorizzazione del giudice la possibilità di compiere taluni atti di disposizione (…) nel solo caso in cui non sia stato altrimenti convenuto nell’atto di costituzione del fondo. Tuttavia (…) una soluzione di questo tipo sembra potersi prospettare limitatamente all’ipotesi in cui i trustees siano i genitori dei minori beneficiari».

   (17) L’art. 15 della Convenzione, dopo aver fissato nel primo paragrafo il principio per cui nessun trust può violare le norme imperative dettate dalle regole di conflitto del foro, al secondo paragrafo precisa che «qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di realizzare gli obiettivi del trust con altri mezzi giuridici ». Per un commento al secondo paragrafo dell’art. 15 cfr. ad esempio S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 709-710.

   (18) Trattasi, com’è noto, di un’ipotesi di patrimonio separato o di destinazione assai vicina al trust (per il raffronto fra i due istituti si rinvia al successivo § 2.1.1; sul tema cfr. altresì M. Lupoi, Trusts [supra, nota 4], 624 ss.; S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 314 ss.; M. L. Cenni, Trust e fondo patrimoniale, in A.A.Vv., Il Trust nel diritto [supra, nota 2], 111 ss.), al punto che non è mancato chi (cfr. M. Lupoi, Trust Laws of the world, Roma 1999), prendendo spunto dalla considerazione che l’art. 2 della Convenzione prevede non già il trust di modello anglosassone, bensì una figura di trust dai contorni più ampi e da qualificarsi in termini di trust «amorfo» o «shapeless» (sul punto cfr. M. Lupoi, Trusts [supra, nota 4], 491 ss.), ha ritenuto che il fondo patrimoniale sia un’ipotesi di trust amorfo prevista dal nostro ordinamento (si vedrà nel successivo § 2.1.2.3.3 se tale qualificazione del fondo incida o meno sulla questione dell’ammissibilità o meno della sua «conversione» in un trust propriamente detto).

   (19) Com’è noto, la validità di detta clausola è ammessa sia dalla dottrina dominante (cfr. ad esempio C. M. Bianca, Diritto civile. Vol. 2: La famiglia. Le successioni, Milano 1985, 107; F. Mazzacane, La giurisdizione volontaria nell’attività notarile, Roma 1986, 122-123; F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, in Trattato Cicu-Messineo, vol. VI, t. II, 99 ss., Milano 1984; A. Di Sapio, Fondo patrimoniale: l’alienazione dell’unico bene costituito, l’estinzione per esaurimento, lo scioglimento (volontario), il Lar familiaris ed il mito di Calipso, Dir. Fam. 1999, 385 ss. (prima parte) e 831 ss. (seconda parte), a p. 421 ss. (cui si rinvia anche per ulteriori indicazioni bibliografiche), sia dalla giurisprudenza (cfr. Pret. Barra 8 febbraio 1978, F.I., 1978, I, 1033; Trib. Roma 27 giugno 1979, Riv. Not., 1979, 952; Trib. Trapani 26 maggio 1994, Vita Not., 1994, 1559; Trib. Roma 9 giugno 1998, Riv. Not., 1999, 166; Trib. Verona 30 maggio 2000, Nuova Giur. Civ., 2001, I, 170, Giur. Mer., 2000, 1164 e Dir. Fam., 2001, 594). In senso contrario, cfr. in dottrina A. Cian-C. Casarotto, voce «Fondo patrimoniale», in Nuoviss. Dig. It., Appendice III, Torino 1996, 834-835. A favore della soluzione dominante vengono invocati (come incisivamente espone A. Di Sapio, Fondo patrimoniale cit. nella presente nota, 423-424) i seguenti argomenti: a) il dato letterale dell’art. 169 cod. civ., il quale esordisce dichiarandosi norma derogabile dalla volontà delle parti senza indicare limiti al riguardo; b) la ratio della norma stessa, riposante sull’esigenza di favorire il commercio dei beni del fondo; c) l’attenuazione del vincolo d’inespropriabilità tipico del patrimonio familiare (istituto «antenato» del fondo patrimoniale) operata dalla legge 19 maggio 1975 n° 151 di riforma del diritto di famiglia, essendo oggi possibile agire per debiti contratti nell’interesse della famiglia non solo sui frutti – come appunto accadeva per il patrimonio familiare in base al previgente art. 170 cod. civ. – ma anche sui beni del fondo.

   (20) Cfr. Trib. Perugia-Giudice tutelare (decr.) 26.6.2001, TAF 2002, 52; Trib. Perugia-Giudice tutelare (decr.) 16.4.2002 [supra, nota 1]. Per maggiori dettagli su tali decisioni cfr. L. Santoro, Il Trust in Italia [supra, nota 1], 426 ss.

   (21) Cfr. Trib. Firenze-Giudice tutelare (decr.) 23.10.2002, TAF 2003, 406. Per maggiori dettagli sulla vicenda cfr. il successivo § 2.1.2, nonché L. Santoro, Il trust in Italia [supra, nota 1], 423 ss.

   (22) In base all’art. 168 primo comma cod. civ., infatti, «la proprietà dei beni costituenti il fondo patrimoniale spetta ad entrambi i coniugi, salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di costituzione».

   (23) Cfr. la precedente nota 19.

   (24) È noto infatti che il fondo patrimoniale può essere costituito (dal terzo, da entrambi i genitori ovvero da uno dei genitori) in cambio di un corrispettivo ovvero (come più spesso accade) a titolo gratuito: nel primo caso si tratterà di un atto oneroso, mentre nel secondo esso avrà natura (cfr. G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano 1982-1983, 849-850 e 879-880) di liberalità non donativa, cioè di liberalità attuata con un mezzo diverso dalla donazione in senso tecnico di cui all’art. 769 cod. civ. Resta indubitabile, però, che in ambo le ipotesi l’atto realizzi nei confronti dei figli dei coniugi una liberalità indiretta.

   (25) La norma si riferisce solo al minore, ma è ritenuta pacificamente applicabile anche all’interdetto, visto il generale rinvio contenuto nell’art. 424 primo comma cod. civ.: cfr. G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione nell’attività notarile, Milano 1985-1989, vol. II, 811; A. Guerra, Il curatore speciale per l’amministrazione dei beni donati o lasciati ad incapaci, Riv. Not. 1960, 173.

   (26) Il curatore speciale è titolare di un ufficio di diritto privato. Nei casi in cui egli cessi da detto ufficio, ab initio (in quanto non può o non vuole accettare l’incarico) ovvero per cause sopravvenute (per rimozione, morte, dimissioni), il disponente potrà evitare il venir meno dell’ufficio stesso – e, con esso, il subentro dei legali rappresentanti dell’incapace nell’amministrazione del bene – se avrà avuto l’avvertenza di designare nell’atto di liberalità un sostituto (o una serie di sostituti successivi), o quanto meno di precisare in detto atto che i legali rappresentanti dell’incapace sono in ogni caso esclusi dall’amministrazione (nel qual caso – cfr. Cass. 2050/1941 – l’autorità giudiziaria designerà un nuovo curatore speciale). Sul punto cfr. altresì G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], 819-820. Nell’ipotesi di bene attribuito all’incapace per donazione, si ritiene che il disponente possa designare non solo un terzo, ma anche se stesso quale curatore speciale: cfr. ancora G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], 818.

   (27) Si ritiene però che l’esonero dalle autorizzazioni non sia possibile in due ipotesi (si vedrà nel § 1.2.1.3.4 se ed in quale misura tale circostanza influisca sulla soluzione del problema oggetto del presente paragrafo): a) nel caso di beni attribuiti all’incapace per testamento ed a titolo di eredità, poiché in tal caso non potrà prescindersi (almeno per tutto il tempo in cui persista la cosiddetta «qualifica ereditaria» dei beni, cioè la loro soggezione alle pretese di creditori e legatari del defunto: sul punto cfr. G. Capozzi, Successioni [supra, nota 24], 192-194 e 199-200) dalle autorizzazioni previste dall’art. 747 cod. proc. civ., le quali sono poste a tutela non solo dell’incapace, ma anche (e soprattutto) dei terzi aventi diritti sull’eredità, cioè dei creditori e legatari (cfr. G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], 817; A. Jannuzzi, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano 1984, 186; De Rosa, La tutela degli incapaci, I. Patria potestà, Milano 1962, 225 nota 253); b) nel caso in cui il bene attribuito per donazione o testamento all’incapace abbia natura di azienda commerciale, poiché dovrà necessariamente richiedersi (stante la delicatezza delle decisioni da adottarsi allorché l’incapace entri nell’orbita di un possibile rischio d’impresa) l’autorizzazione di cui all’art. 371 primo comma n°3 e secondo comma cod. civ. per la continuazione, l’alienazione o l’affitto di detta azienda (cfr. G. Santarcangelo, op. loc. cit. in questa nota; A. Jannuzzi, op. loc. cit. in questa nota; Pelosi, La patria potestà, Milano 1965, 228). Le due eccezioni menzionate sub a) e sub b) si giustificano altresì – aggiungerei – alla luce del fatto che l’art. 356 secondo comma cod. civ. non menziona né l’art. 747 cod. proc. civ. né l’art. 371 cod. civ.

   (28) Si vedrà nel prosieguo quale soluzione appaia opportuno dare al problema nelle fattispecie di trust con beneficiari incapaci non aventi natura liberale, in quanto istituiti con scopo solutorio ovvero a fronte di un corrispettivo versato dall’incapace stesso.

   (29) La tesi proposta nel testo appare applicabile anche ai beneficiari semi-incapaci (minori emancipati, inabilitati): ciò, s’intende, a patto di non attribuire un peso determinante, fra i vari argomenti addotti nel presente § 1.2.1.3.2 a sostegno di tale tesi, a quelli fondati sugli artt. 169 e 356 cod. civ.; tali norme, infatti, si riferiscono solo a soggetti totalmente incapaci.

   (30) Questa è la tesi che ebbi a proporre nel mio S. Bartoli, Trust con beneficiari incapaci e rispetto delle nostre norme imperative in materia, TAF 2003, 560, in tal modo estendendo le conclusioni della tesi esposta alla fine del § 1.2.1.2, note 16 ss., ad ogni ipotesi di trust liberale con beneficiari incapaci.

   (31) Per lo sviluppo di questo argomento cfr. § 1.2.1.2 ed ivi note 9 e 10.

   (32) Ciò non implica, naturalmente, che l’amministrazione del trustee sia libera da altre forme di controllo: si pensi alla vigilanza attuata dall’eventuale protector del trust ed ai generali diritti di controllo e rendiconto spettanti ai beneficiari.

   (33) Trattasi di argomento già prospettato in dottrina (sia pure incidenter tantum) in epoca anteriore alla Convenzione: cfr. § 1.2.1.1 ed ivi nota 14.

   (34) Una siffatta distinzione appare necessaria in quanto il trust (fixed, per le ragioni esposte alla nota 6) è fonte di un duplice effetto giuridico: da un lato, esso attribuisce al trustee-amministratore una proprietà sui beni che è affetta da un vincolo di destinazione; dall’altro lato, esso attribuisce al beneficiario (nel cui interesse il vincolo di destinazione è posto) il diritto (immediatamente esistente, per se la prestazione ad esso sottesa sia al momento inesigibile) di ricevere (sotto forma di frutti e/o di beni capitali) attribuzioni patrimoniali provenienti dal trust fund. Tale distinzione non ha invece, evidentemente, senso né in tema di fondo patrimoniale né in tema di liberalità ex art. 356 cod. civ.: nel primo caso, infatti, vi è una proprietà che è affetta (analogamente a quanto accade nel trust) da un vincolo di destinazione nell’interesse dei componenti della famiglia – e dunque anche nell’interesse dell’incapace minorenne – ma ogni profilo di tutela di tale soggetto rispetto agli atti di straordinaria amministrazione è già assorbito dalla previsione (peraltro, come si è visto, derogabile) dell’art. 169 cod. civ. (poiché infatti – cfr. art. 171 secondo comma cod. civ. – il fondo dura finché vi sono figli minorenni, un autonomo diritto di costoro a conseguire beni del fondo sorgerà solo quando saranno divenuti maggiorenni); quanto al secondo caso, in esso il bene già appartiene all’incapace, dunque fa difetto in radice quella duplicità di piani – proprietà vincolata sui beni in capo all’amministratore da un lato, diritto dell’incapace a conseguirli dall’altro lato – che è caratteristica del trust.

   (35) Solo in presenza di una clausola di esonero ovvero in ogni caso, a seconda di quale, fra le due tesi liberali esposte al § 1.2.1.3.2, si ritenga di preferire.

   (36) Cfr. in tal senso, ma solo implicitamente, P. Amenta, «Trust a protezione di disabile», TAF 2000, 620; P. Martinelli, Limiti alla protezione dei soggetti deboli, in Aa.Vv. Il Trust nel diritto [supra, nota 1], 160.

   (37) A sostegno di quanto affermato nel testo, valgano i seguenti passi dottrinali: «Dal principio dell’automaticità dell’acquisto dovrebbe discendere l’inutilità dell’accettazione del legato.Ma questo negozio non può considerarsi superfluo perché preclude la facoltà di rinunzia, rendendo così irrevocabile l’acquisto del diritto da parte del legatario. (…) Gli artt. 320 3° co. e 374 n°3 richiedono l’autorizzazione (…) per l’accettazione da parte dei genitori o del tutore del legato destinato ai minori o agli interdetti (…). Alcuni autori (…) ritengono che le norme predette costituiscano una vera e propria eccezione al principio dell’acquisto ipso iure del legato (…). È preferibile, invece, la tesi di chi (…) ritiene che il principio fondamentale dell’acquisto automatico del legato non venga alterato dalla normativa sugli incapaci. L’accettazione per la quale è richiesta l’autorizzazione del giudice, non è, come ogni accettazione di legato, un atto necessario per l’acquisto, ma solo un atto che conferma e rende irrevocabile l’acquisto già avvenuto» (cfr. G. Capozzi, Successioni [supra, nota 24], 641-642); «L’art. 320 (3° co.: NDR) richiede ora, espressamente, l’autorizzazione per rinunziare ai legati, ma anche prima della riforma (del diritto di famiglia, attuata con legge 151/1975: NDR) la dottrina, pur nel silenzio del legislatore, riteneva che la rinunzia al legato fosse atto di straordinaria amministrazione. (…) Prima dell’accettazione del legato (che è quel negozio che rende l’acquisto definitivo) è possibile rinunziare (…) al legato stesso» (cfr. G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], vol. I, 505-506); «L’acquisto è effetto diretto e immediato del contratto (art. 1411 2° co.), sebbene la legge, in applicazione del principio che nessun vantaggio o svantaggio può esserre prodotto sul patrimonio di un soggetto senza il consenso del suo titolare, richieda la dichiarazione del terzo di voler approfittare della stipulazione a suo favore (art. 1411 2° co.). La dichiarazione del terzo di voler profittare della stipulazione non è un’accettazione in quanto non determina l’acquisto del diritto (che si è già verificato), ma è una conferma, in quanto opera su un acquisto già perfetto; è una comunicazione della circostanza che il terzo non intende rifiutare il diritto attribuitogli, e produce l’effetto di togliere efficacia all’eventuale revoca o modifica proveniente dal promittente. Economicamente, l’acquisto è giustificato dal rapporto con lo stipulante: pertanto esso potrà avvenire a titolo di liberalità, o per estinguere una precedente obbligazione, o in cambio dell’assunzione di obbligazioni. Pertanto, per poter procedere alla dichiarazione di voler profittare dell’acquisto, il terzo deve munirsi dell’autorizzazione necessaria per compiere tali negozi. (…) Se il negozio è fatto animo donandi, la dichiarazione di voler profittare della stipulazione equivale alla dichiarazione di voler conseguire il legato, pertanto si applica la stessa disciplina di questo. (…) Il rifiuto del terzo (…) produce la risoluzione, con effetti ex tunc, dell’acquisto già verificatosi (…). Si tratta di una omissio adquirendi, che va trattata alla stregua del rifiuto di conseguire il legato» (cfr. G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], vol. I, 580-582).

   (38) «L’atto di liberalità deve essere accettato dal legale rappresentante dell’incapace e non dal curatore speciale, il quale entra nelle funzioni solo dopo che la donazione si è perfezionata o dopo che i beni compresi nell’eredità o nel legato sono entrati a far parte del patrimonio» (cfr. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], vol. II, 814); «L’avere il testatore fatto uso della facoltà conferitagli dall’art. 356, di nominare un curatore speciale ai minori beneficiati dalle sue disposizioni, non fa venir meno nel genitore esercente la potestà il diritto di accettare l’eredità stesa in nome dei minori» (cfr. Cass. 1358/1960, in Rep. Giust. Civ. 1960, voce Patria potestà, 8); «Il curatore speciale nominato dal testatore ex art. 356 cod. civ. ha il potere-dovere di amministrare i beni lasciati al minore: ma tale potere-dovere ha come presupposto logico l’accettazione dell’eredità. Ne consegue che tale accettazione non può essere fatta dal curatore speciale nell’interesse del minore, bensì dal suo legale rappresentante, ed il notaio che riceve l’atto di accettazione d’eredità per il minore con l’intervento del curatore speciale contravviene agli artt. 28 l. not. e 54 reg. not. ed è punibile ex art. 138 2° co. l. not. » (cfr. Trib. Reggio Emilia 14.11.1980, in Riv. Not. 1981, 194).

   (39) Cfr. infatti Cass. 423/1975, per la quale «Introducendo una deroga alla regola generale per cui la rappresentanza dei minori e l’amministrazione dei loro beni competono al genitore esercente la potestà, l’art. 356 cod. civ. integra una norma eccezionale di stretta interpretazione e non è, pertanto, applicabile alle donazioni indirette, riguardo alle quali le norme sulle donazioni dirette sono applicabili unicamente nei limiti di cui all’art. 809 cod. civ. (…) (nella specie, è stato escluso che il genitore potesse nominare, in base alla citata norma, un curatore speciale ai figli minori, autorizzandolo a riscuotere, dopo la sua morte, il premio di un contratto di assicurazione a favore dei superstiti di cui i minori stessi erano stati designati come beneficiari, avendo il giudice di merito escluso che tale designazione costituisse una donazione diretta o una disposizione testamentaria)».

   (40) Cioè quella secondo la quale il trustee è esonerato dalla richiesta di autorizzazioni giudiziali per il compimento di atti di straordinaria amministrazione sui beni del trust fund soltanto in presenza di una clausola in tal senso nell’atto istitutivo.

   (41) Cfr. § 1.2.13.1 ed ivi nota 27, punto a).

   (42) Nel caso, infatti, di attribuzione mortis causa al trustee di beni determinati, è pacifico che la disposizione testamentaria non abbia natura di istituzione d’erede, sì che risulta elisa in radice qualunque questione in punto di applicabilità dell’art. 747 cod. proc. civ. (una disposizione siffatta, peraltro, pone il problema della sua effettiva qualificabilità in termini di legato: sul punto cfr. successiva nota 43).

   (43) La questione – forse non ancora approfondita a sufficienza in dottrina – appare tutt’altro che pacifica, tanto che non è mancato chi ha adombrato che l’attribuzione testamentaria al trustee effettuata dal disponente non abbia natura né d’istituzione d’erede né di legato, bensì di tertium genus di attribuzione mortis causa, analogamente a quanto si afferma per la dotazione di una fondazione in sede testamentaria: per spunti sul tema cfr. S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 464 ss.; Id., La natura dell’attribuzione mortis causa al trustee di un trust testamentario, TAF 2004, 58 ss. e 179 ss.

   (44) A ben guardare, nell’ipotesi in cui il disponente-de cuius fosse gravato da debiti, al trustee-erede converrebbe accettare l’eredità con beneficio d’inventario, e ciò potrebbe porre a repentaglio il corretto funzionamento del trust. Si rifletta infatti sull’esempio che segue (cfr. S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 469-470): Tizio, celibe e senza figli, nel suo testamento designa trustee di tutto il suo asse Caio, con obbligo di distribuirne le rendite a Sempronio e, dopo un certo tempo, di vendere i beni che ne fanno parte attribuendone il ricavato allo stesso Sempronio. Se si attribuisce al trustee Caio anche la qualifica di soggetto istituito erede da Tizio e si ipotizza altresì che il de cuius fosse gravato da debiti, ne discende che Caio, ove intenda sia accettare l’incarico di trustee (e quindi anche l’eredità), sia sottrarre (in quanto erede di Tizio) il proprio patrimonio personale alle pretese dei creditori di Tizio (creditori che sono impossibilitati tanto ad agire in revocatoria contro il trust – trattandosi di negozio mortis causa – quanto ad aggredire il trust fund – trattandosi di patrimonio separato destinato al soddisfacimento dei beneficiari del trust stesso – e che, nel caso di specie, non possono reperire altri beni ereditari esecutabili), dovrà premurarsi di procedere all’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario. All’esito di detta accettazione beneficiata da parte dell’erede-trustee, dovrebbe determinarsi una sovrapposizione della normativa sul beneficio d’inventario a quella relativa al trust, la quale potrebbe probabilmente determinare la soccombenza dei beneficiari del trust nel conflitto con i creditori ereditari. In assenza di un’accettazione beneficiata, infatti, l’asse è patrimonio separato, ma a titolo di trust fund, e come tale è destinato al soddisfacimento dei beneficiari del trust; in caso di accettazione beneficiata, invece, l’asse dovrebbe assolvere al tempo stesso la funzione di trust fund e di patrimonio separato destinato, invece, al soddisfacimento dei creditori ereditari. Non può pertanto escludersi che, stante l’assimilabilità dei beneficiari del trust alla figura dei legatari (in quanto detti beneficiari sono destinatari di un’attribuzione liberale che ha fonte in un testamento), e considerato il brocardo «nemo liberalis nisi liberatus» desumibile da norme come gli artt. 495 secondo comma e 499 secondo comma cod. civ., il conflitto fra beneficiari del trust e creditori ereditari finisca per risolversi con la soccombenza dei primi. Analoghe considerazioni suggerisce, probabilmente, anche l’ipotesi in cui i creditori ereditari ottengano la separazione dei beni del defunto ex artt. 512-518 cod. civ., trattandosi di istituto in cui il sopra menzionato brocardo trova parimenti accoglimento in norme come gli artt. 513 e 514 terzo comma cod. civ. (su detto istituto cfr. per tutti G. Capozzi, Successioni [supra, nota 24], 227-238).

   (45) Cfr. § 1.2.1.3.1 ed ivi nota 27, punto b).

   (46) Il problema, al solito, si pone in considerazione del fatto che sull’art. 356 cod. civ. è imperniato uno degli argomenti più solidi posti a supporto della prima delle due tesi esposte al § 1.2.1.3.2.

   (47) Si tratta di un ragionamento analogo a quello che si è utilizzato nel § 1.2.13.2 alla nota 29, allorché ci si è posti il problema dell’applicabilità della clausola d’esonero anche all’ipotesi di trust con beneficiari solo parzialmente incapaci.

   (48) Cfr. Trib. Firenze-Giudice tutelare (decr.) 9.7.2004, in corso di pubblicazione in TAF 2005. Della vicenda mi sono personalmente occupato.

   (49) Cfr. la famosa sentenza inglese del 1841 Saunders v. Vautier, TAF 2004, 294.

   (50) Per indicazioni bibliografiche sul tema del raffronto fra i due istituti cfr. la precedente nota 18.

   (51) Cfr. M. Lupoi, Trusts [supra, nota 4], 615 ss. e 759 ss.; G. De Nova, Trust: negozio istitutivo e negozi dispositivi, TAF 2000, 162 ss.; S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 125 ss.

   (52) Sul trust autodichiarato v. amplius il successivo § 3.2.2.

   (53) Cfr. G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], vol. IV, 641-642.

   (54) Per le complesse ragioni storiche e giuridiche di ciò, cfr. S. Bartoli, Il Trusts [supra, nota 2], 117 ss.

   (55) È il caso della costituzione del fondo patrimoniale ad opera di un terzo con atto inter vivos – in cui si può ritenere di trovarsi di fronte, secondo la dottrina preferibile (cfr. G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], vol. IV, 610), ad un negozio trilaterale (cfr, del resto, l’art. 167 2° co. cod. civ.) – e quello della costituzione di esso ad opera dei due coniugi, in cui ricorre un negozio bilaterale (G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], vol. IV, 633).

   (56) Vi sono, infine, ipotesi in cui la natura della fattispecie costitutiva del fondo patrimoniale è assai controversa: è il caso della costituzione posta in essere da uno solo dei coniugi. La tesi che vede nella fattispecie in esame un negozio unilaterale (cfr. F. Carresi, Del fondo patrimoniale, Commentario alla riforma del diritto di famiglia a cura di L. Carraro-G. Oppo-A. Trabucchi, tomo I, parte 1, Padova 1977, 345; E. Protettì, Delle persone e della famiglia: dello scioglimento del matrimonio e della separazione dei coniugi; del regime patrimoniale della famiglia, Commentario al codice civile diretto da V. De Martino, Torino 1979, sub artt. 149-230bis, 246; F. Santosuosso, Delle persone e della famiglia. ll regime patrimoniale della famiglia, Commentario del codice civile redatto a cura di magistrati e docenti, Libro I, titolo VI, capo 6°, tomo primo, parte terza, Torino 1983, 124) ritiene che non dovrebbe ritenersi casuale la previsione, nell’art. 167 secondo comma cod. civ., della necessità di accettazione dei coniugi nella sola ipotesi di atto costitutivo posto in essere da un terzo. Ciò in quanto, ove il fondo sia costituito da uno dei coniugi, l’accettazione dell’altro sarebbe irrilevante: per effetto del negozio infatti – si argomenta – quest’ultimo riceverebbe soltanto vantaggi; questi ultimi sarebbero rappresentati dal conseguimento della titolarità o contitolarità di un diritto (o quanto meno dalla partecipazione al godimento del bene) e dall’acquisizione del potere di amministrare il bene stesso. La tesi prevalente e forse preferibile (cfr. G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], vol. IV, 627-628; V. De Paola-A. Macrì, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano 1978, 234; C. M. Bianca, Diritto civile [supra, nota 19], 105 nota 146; A. Cian-C. Casarotto, voce «Fondo patrimoniale» [supra, nota 19], 831; G. Russo, Il Fondo patrimoniale, Studi sulla riforma del diritto di famiglia, Milano 1973, 560) afferma invece trattarsi di negozio bilaterale; essa ritiene necessario il consenso dell’altro coniuge non solo perché «nolenti non fit donatio», ma anche perché quello di amministrare i beni oggetto del fondo non è solo un potere, ma anche un dovere, come si evince dall’art. 183 cod. civ., cui rinvia l’art. 168 ult. co. cod. civ.; per tacere del fatto che, per effetto della riforma del diritto di famiglia di cui alla legge 151/1975, è stato soppresso il riferimento, contenuto nel previgente art. 171 1° co. cod. civ. in tema di patrimonio familiare, al negozio unilaterale.

   (57) La questione dell’ammissibilità o meno della trascrizione di un trust alla luce dell’art. 12 della Convenzione non può essere affrontata in questa sede. A fronte di un orientamento contrario [cfr. in dottrina F. Gazzoni, Tentativo dell’impossibile (osservazioni di un giurista «non vivente» su trust e trascrizione), Riv. Not. 2001, 11; Id., In Italia tutto è permesso, anche quel che è vietato (lettera aperta a Maurizio Lupoi sul trust e su altre bagattelle), Riv. Not. 2001, 1247; Id., Il cammello, il leone, il fanciullo e la trascrizione del trust, Riv. Not. 2002, 1107; in giurisprudenza Trib. Belluno (decr.) 25.9.2002, TAF 2003, 255; Trib. Napoli (decr.) 1.10.2003, TAF 2004, 74, confermato da App. Napoli (decr.) 27.5.2004, TAF 2004, 570], vi è un orientamento favorevole che tende ormai a prevalere (cfr. in dottrina L. Santoro, Il Trust in Italia [supra, nota 1], 82 ss.; S. Bartoli, Il trust [supra, nota 2], 571 ss.; in giurisprudenza Trib. Chieti (decr.) 10.3.2000, TAF 2000, 372; Trib. Bologna (decr.) 18.4.2000, TAF 2000, 372; Trib. Pisa (decr.) 22.12.2001, TAF 2002, 241; Trib. Milano (decr.) 29.10.2002, TAF 2003, 270; Trib. Verona (decr.) 8.1.2003, TAF 2003, 409; Trib. Parma (decr.) 21.10.2003, TAF 2004, 73; Trib. Trento-S. D. di Cavalese (decr.) 20.7.2004, TAF 2004, 573).

   (58) Cfr. Cass. 8824/1987; Cass. 10859/1999; Cass. 12864/1999. La tesi trae in particolare argomento dall’avvenuta soppressione, ad opera della legge 151/1975, dell’ultimo comma del testo previgente dell’art. 2647 cod. civ. (in cui era inequivoca l’attribuzione alla trascrizione del ruolo di pubblicità dichiarativa).

   (59) Per la pubblicità del vincolo discendente dal trust nel caso in cui esso svolga, nel caso concreto, la funzione di convenzione matrimoniale atipica ex art. 161 cod. civ., cfr. invece il successivo § 2.2.

   (60) Cfr. precedente nota 19.

   (61) Si evidenzia altresì che di regola, cioè salva diversa disposizione dell’atto costitutivo ex art. 169 cod. civ., i genitori compiranno l’attività di straordinaria amministrazione del fondo congiuntamente, cioè alla stessa stregua di quanto accade di regola [cfr. per tutti S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 218-219) in caso di pluralità di trustees.

   (62) V. amplius G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], vol. IV, 639 ss.

   (63) Per cenni sul tema della durata del trust di diritto inglese, cfr. S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 186 ss.

   (64) È infatti discussa la configurabilità o meno, nel fondo patrimoniale, di un obbligo di reimpiego del ricavato dell’alienazione che sia esuberante rispetto alle esigenze del consumo familiare, poiché il nuovo testo dell’art. 170 cod. civ. non prevede più (come invece accadeva per il patrimonio familiare prima della legge 151/1975) che il Tribunale, nell’autorizzare l’atto di alienazione, determini «le modalità per il reimpiego del prezzo». In senso affermativo si pronunzia la tesi prevalente: cfr. in dottrina A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 831 ss. (cui si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche); in giurisprudenza Trib. Genova (decr.) 26.1.1998, Vita Not., 1999, 81 e Nuova Giur. Civ. Comm., 1999, I, 215; App. Bari (decr.) 15.7.1999, Giust. Civ., 2000, I, 200; Trib. Modena (decr.) 7.12.2000, Trib. Modena (decr.) 6.6.2001, Trib. Min. Emilia Romagna (decr.) 7.3.2001, App. Bologna Sez. Min. (decr.) 2.10.2001, tutte in Notariato, 2002, 27 ss. Contraria invece all’obbligo del reimpiego, ad esempio, Commissione Studi del Consiglio Nazionale del Notariato, 21.7.1997, studio n°1695, est. Ruotolo, «Ipotecabilità dei beni del fondo patrimoniale per scopi estranei ai bisogni della famiglia», in CNN strumenti, 1-15.7.1997, 0570, 2.3.

   (65) Viene al riguardo in questione, in particolare, il potere-dovere del trustee di investire i beni del trust: sul punto v. amplius E. Corso, «Trustee e gestione dei beni in trust», Milano 2000; S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 213 ss. (si rinvia a tali autori anche per l’ulteriore bibliografia in materia).

   (66) Cioè parrebbe non essere oggetto (non rientrando fra i beni di cui all’art. 167 primo comma cod. civ., in quanto inidonea alla pubblicità del vincolo di destinazione) del fondo patrimoniale di cui faceva parte il bene alienato. Sarà infatti il bene acquistato con il ricavato dell’alienazione a costituire il nuovo oggetto del fondo e costituirà pertanto onere per i coniugi quello di pubblicizzare nei modi di legge (onde poterlo efficacemente opporre ai terzi) l’avvenuto «trasferimento» del vincolo del fondo dal bene alienato al bene acquistato. Non a caso, infatti, è stato incisivamente affermato che i «conferimenti possono derivare dall’impiego dei frutti di altri beni del fondo o anche dall’impiego del ricavato della loro alienazione. In ogni caso i nuovi conferimenti sono assoggettati agli stessi oneri di forma e pubblicità di costituzione del vincolo» (così C. M. Bianca, Diritto civile [supra, nota 19], 106; sulla delicata e complessa questione, v. amplius A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 865-868). Non meno chiara in tal senso appare l’opinione di A. Serioli, Scioglimento convenzionale del fondo patrimoniale, Familia, 2002, 665-666, per il quale «A prescindere dalla sussistenza o meno dell’obbligo di reimpiego, i beni acquistati con la cessione di quelli vincolati concorrono a costituire la garanzia patrimoniale generale (art. 2740 primo comma cod. civ.), giacché non è prevista alcuna forma di surrogazione reale…dei beni o del prezzo derivante dal trasferimento dei beni vincolati. Con l’atto costitutivo del fondo patrimoniale si pone un vincolo di destinazione su beni determinati: non si verifica, pertanto, il fenomeno dei cd. vincoli rotativi … Non è stata, inoltre, riprodotta in materia di fondo patrimoniale la previsione di surrogazione reale prevista originariamente dal vigente codice civile in tema di dote (artt. 183 e 189 cod. civ. ante riforma del 1975). La surrogazione reale costituisce uno strumento eccezionale di tutela di una situazione giuridica, che consente la sostituzione dell’elemento materiale della stessa, senza che si produca una vicenda estintivo-costitutiva … : le norme che la stabiliscono non si applicano, quindi, oltre i casi in esse considerati (art. 14 Disp. leg. gen.)». Quanto alla surrogazione reale in tema di dote – istituto, come noto, tuttora vigente, sia pure limitatamente alle doti costituite prima della legge 151/1975 di riforma del diritto di famiglia, come si evince dagli artt. 227 di detta legge e 166bis cod. civ. – e quanto agli artt. 183 e 189 cod. civ. nel testo anteriore a detta legge 151/1975, valga il seguente passo tratto da A. Jannuzzi, Manuale [supra, nota 27], 502-503: «La sostituzione volontaria dell’oggetto della dote è prevista negli artt. 183 e 189 testo originario cod. civ. Il primo articolo regola l’ipotesi di trasformazione della dote di quantità in dote di specie, mediante l’impiego di una somma di denaro nell’acquisto di un bene, quando ciò è stato previsto nell’atto di costituzione della dote, e quindi mediante il trasferimento del vincolo dotale da una somma al bene, oppure in dipendenza di una datio in solutum di un bene mobile od immobile in luogo della somma di denaro costituita in dote. L’art. 189 prevede, invece, l’ipotesi della permuta di un bene dotale autorizzata dal tribunale per necessità o per utilità evidente e dispone che, in tal caso, il vincolo dotale si trasferisce sul bene ricevuto in permuta e sull’eventuale supplemento del prezzo che si deve impiegare come dotale. La stessa regola vale per il caso in cui il tribunale autorizza la vendita di un bene dotale per evidente utilità: anche in questa ipotesi diviene dotale il bene nel quale sia stato impiegato il prezzo della vendita nel modo indicato dal tribunale».

   (67) L’attività del trustee esecutiva di detto obbligo viene chiamata, incisivamente, «earmarking» (cfr. S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 212 e 430-432, nonché ulteriore bibliografia ivi richiamata).

   (68) Nel trust, in altri termini, si verifica sempre (in stretta aderenza al brocardo «pretium succedit in locum rei; res succedit in locum pretii») l’immediata ed automatica sostituzione del bene alienato con il suo corrispettivo (a dispetto della sua eventuale natura di bene fungibile) e di quest’ultimo con il bene che venga grazie ad esso successivamente acquistato, senza che venga mai meno l’effetto della separazione patrimoniale connesso all’esistenza di un trust fund.

   (69) Nel primo senso cfr. per tutti A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 411 ss. (cui si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche), il quale, incisivamente, afferma (traendo spunto dagli artt. 167, 168, 169 e 171 comma secondo cod. civ.) che i figli vantano «un diritto attuale (non sulla titolarità dei beni e dei relativi frutti, ma) a che i beni ed i relativi frutti siano destinati ed impiegati alla soddisfazione dei loro bisogni, in quanto familiari»; in senso contrario, cfr. per tutti V. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, tomo terzo, Il regime patrimoniale della famiglia. Separazione dei beni - Fondo Patrimoniale - L’impresa familiare, Milano 1996, 40-41, per il quale i figli vanterebbero invece una mera «aspettativa di fatto».

   (70) Cfr. sul punto A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 411 ss.

   (71) Sul trust fixed cfr. precedenti note 6 e 34.

   (72) Cfr. precedente nota 21.

   (73) Sulla validità di detta clausola cfr. precedente nota 19. Occorre a questo punto evidenziare che la clausola in oggetto comporta non già che i coniugi possano compiere atti di straordinaria amministrazione liberamente, cioè anche in eventuale dispregio del vincolo di destinazione «familiare» impresso ai beni del fondo patrimoniale, ma soltanto che il controllo sull’utilità evidente o sulla necessità dell’atto da compiere sia deferito ai soli coniugi, senza il concorso dell’autorità giudiziaria (così per tutti A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 422-423). Il punto debole di un fondo patrimoniale del genere, come meglio si vedrà alla successiva nota 105, è però rappresentato dal fatto che, laddove i coniugi non rispettino il vincolo di destinazione, l’atto da costoro compiuto sarà ugualmente valido ed efficace (salvo che vi siano i presupposti per l’esperimento dell’azione revocatoria da parte dei creditori del fondo indicati dall’art. 170 cod. civ.), esponendo i coniugi soltanto all’obbligo di risarcire il danno ai figli ed al rischio di esser rimossi dall’amministrazione del fondo (tali conclusioni, fra l’altro, come parimenti si vedrà alla successiva nota 105, sono estendibili anche al fondo patrimoniale privo di clausola in deroga all’art. 169 cod. civ., laddove non vi siano figli minori: anche in tale ipotesi, infatti, i coniugi possono compiere atti di straordinaria amministrazione senza dover ricorrere all’autorità giudiziaria).

   (74) Sulla validità della quale cfr, al solito, la precedente nota 19.

   (75) Si è potuto desumere ciò dalla lettura del ricorso, non essendo stato possibile ottenere copia dell’atto istitutivo del trust in questione.

   (76) Si è visto in precedenza, infatti, che il fondo patrimoniale costituito da Caio e Caia deroga all’art. 169 cod. civ. (esonerando i coniugi da autorizzazioni giudiziali) solo per gli atti con cui vengono vincolati i beni del fondo, ma non anche per gli atti di alienazione: il decreto mostra pertanto di ritenere che all’operazione voluta dai coniugi debba attribuirsi natura di atto di alienazione di beni del fondo. Si analizzerà nel § 2.1.2.3.2 se possa ritenersi o meno corretto tale tipo di scelta ermeneutica (cfr. comunque anche la successiva nota 82).

   (77) Per il raffronto fra i due istituti si rinvia al precedente § 2.1.1.

   (78) Vi è infatti sostanziale concordia in dottrina (cfr. per tutti F. Santosuosso, Delle persone [supra, nota 56], 134-135; G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra nota 25], vol. IV, 607; A. Cian-C. Casarotto, voce «Fondo patrimoniale» [supra, nota 19], 830; G. Gabrielli, voce «Patrimonio familiare e fondo patrimoniale» in Enc. Dir., Milano, 299; C. M. Bianca, Diritto civile [supra, nota 19], 104; V. De Paola, Il diritto patrimoniale [supra, nota 69], 36; T. Auletta, Il fondo patrimoniale, in Il codice civile. Commentario diretto da P. Schlesinger, artt. 167-171, Milano 1992, 185; A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 391-392) sul fatto che i «bisogni della famiglia» di cui parla l’art. 167 primo comma cod. civ. vadano riferiti alla famiglia nucleare, cioè composta solo da genitori e figli (nati o quanto meno concepiti), con esclusione degli ascendenti e dei figli dei figli (controversa è invece l’individuazione della nozione di «figli» rilevante ai fini di detta norma, essendovi concordia solo sul fatto che in essa vadano ricompresi quelli legittimi, legittimati e adottati: sul punto v. amplius A. Di Sapio, op. loc. cit. nella presente nota). Nel caso 1, invece, il Tribunale non ha evidentemente potuto formulare analoga valutazione: si ricorderà infatti che, in detta fattispecie, fra i beneficiari del trust istituendo figurava anche il padre di Tizia, cioè un soggetto estraneo – appunto – alla famiglia nucleare.

   (79) A tale conclusione (peraltro assai opinabile, come si vedrà al § 2.1.2.3.2) il decidente perviene alla luce della limitata estensione impressa nel caso 2, in sede di costituzione del fondo patrimoniale, alla clausola in deroga all’art. 169 cod. civ.: cfr. sul punto la precedente nota 74. Viene quasi da pensare, pertanto, che ove in detta fattispecie i coniugi avessero costituito il fondo patrimoniale derogando a detta norma codicistica anche in ordine agli atti di alienazione, vi sarebbero state maggiori possibilità che il giudice autorizzasse l’operazione (in tal caso, infatti, tanto i coniugi amministratori del fondo patrimoniale quanto il trustee del trust avrebbero potuto alienare i beni senza il controllo giudiziario).

   (80) Trattasi, come si ricorderà, del padre di Tizia: cfr. § 2.1.2.2.1.

   (81) Si rinvia al § 2.1.2.2.2.

   (82) Da quanto riportato nel testo è pertanto già possibile evincere che non pare condivisibile la scelta – operata dal Tribunale nel caso 2 – di interpretare il ricorso come istanza ex art. 169 cod. civ. di autorizzazione al compimento di un atto di straordinaria amministrazione: come meglio si vedrà nel § 2.1.2.3.2, infatti, l’atto di amministrazione di beni del fondo patrimoniale presuppone che, dopo il suo compimento, il fondo resti in vita (o, al massimo, si estingua per esaurimento dei beni che ne fanno parte).

   (83) Si vedrà nel § 2.1.2.3.3, infatti, che è discussa l’ammissibilità di un negozio siffatto, cioè la natura tassativa o meno dell’elenco delle cause di cessazione del fondo patrimoniale contenuto nell’art. 171 cod. civ.

   (84) Sui motivi che giustificano tale conclusione si tornerà più diffusamente nel § 2.1.2.3.2.

   (85) La tesi ormai accolta dalla dominante dottrina e dalla Suprema Corte, infatti, ritiene che l’atto costitutivo inter vivos di un fondo patrimoniale abbia natura di convenzione matrimoniale: sul punto cfr. per tutti in dottrina A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 394 ss. (cui si rinvia anche per un’accurata esposizione delle altre tesi in materia); in giurisprudenza Cass. 8824/1987, Cass. 10859/1999 e Cass. 12864/1999.

   (86) Cfr. G. Gabrielli, voce Patrimonio familiare [supra, nota 78], 316 e 318 (a prescindere dall’applicazione dell’art. 163 cod. civ., d’altro canto, l’esigenza dell’atto pubblico con testimoni dovrebbe discendere dal fatto che, com’è noto, l’opinione dominante ritiene necessaria, per i negozi di scioglimento consensuale in genere, la stessa forma richiesta per il negozio oggetto di risoluzione: cfr. in tal senso Cass. 8878/1990, Cass. 2772/1992, Cass. 928/1994, Cass. 2040/1997; optano invece per la libertà di forma Cass. 3816/1988 e Cass. 5684/1991). Più precisamente, le due norme codicistiche citate nel testo si limitano a prevedere l’atto pubblico, mentre l’art. 48 legge notarile così dispone: «Per tutti gli atti tra vivi, eccettuate le donazioni e le convenzioni matrimoniali, la parte o le parti che sappiano leggere e scrivere hanno facoltà di rinunciare di comune accordo all’assistenza dei testimoni all’atto». Da ciò si desume appunto che la legge riserva al notaio la ricezione di dichiarazioni negoziali aventi natura di convenzioni matrimoniali e che l’atto richiede la presenza irrinunziabile (cfr. in tal senso App. Napoli 23.4.1981, Vita Not., 1982, 381; nel senso invece della rinunziabilità ai testi, assai discutibilmente, cfr. Trib. Pesaro 14.10.1981 ivi, 381) dei testimoni. Si segnala che, nell’ipotesi in cui la convenzione matrimoniale da modificare sia stata stipulata prima del 6.5.1981, cioè prima della data di entrata in vigore della legge 10.4.1981 n° 142, la modifica dovrà essere altresì autorizzata dal giudice (e precisamente – ex art. 38 secondo comma disp. att. cod. civ. – dal Tribunale ordinario): ciò ai sensi dell’art. 2 legge cit.

   (87) Trattasi di Trib. Bergamo (decr.) 16.3.1978, Giur. Mer., 1978, 503 (con nota adesiva di M. Finocchiaro, «Forma e modifiche delle convenzioni matrimoniali»), per il quale «Tra le competenze del cancelliere, ex art. 57 cod. proc. civ., non rientra il potere di rogare, in sede di comparizione personale dei coniugi ai sensi dell’art. 711 cod. proc. civ., convenzioni matrimoniali di cui agli artt. 162 e ss. cod. civ.».

   (88) Nel successivo § 2.1.2.3.3 – come parimenti anticipato nel § 2.1.2.3.1 – si affronterà la questione dell’ammissibilità o meno di una convenzione siffatta.

   (89) Riterrei infatti inammissibile un’alienazione dei beni del fondo priva di corrispettivo, poiché l’atto di straordinaria amministrazione è consentito, ex art. 169 cod. civ., solo nei casi di necessità o utilità evidente(cfr. in tal senso A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 400; ammettono invece la donazione V. De Paola-A. Macrì, Il nuovo regime [supra, nota 56], 251; F. Santosuosso, Delle persone [supra, nota 56], 135).

   (90) Al solito, nel testo si aderisce alla tesi, che del resto pare preferibile, della configurabilità dell’obbligo di reimpiego: cfr. precedente nota 64. Di particolare incisività appare il seguente passo (tratto da A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 831 e 833), «ogni atto dispositivo deve essere sempre necessario o di utilità evidente. Da ciò consegue che il ricavato, in ogni caso, deve essere impiegato nella necessità che ha giustificato l’alienazione e/o reimpiegato in altro acquisto idoneo a far fronte ai bisogni della famiglia … l’utilità (evidente!) deve rintracciarsi nella trasformazione del bene, nella possibilità, cioè, di un investimento più proficuo di quello attuale … consegue, per logica, che il ricavato deve essere reimpiegato nel programmato investimento, il quale deve essere necessariamente un bene immobile o mobile registrato, o titoli di credito, unici sui quali l’ordinamento reputa idonea la pubblicità del vincolo». Occorre comunque tener presente che, anche ove si ammetta l’esistenza di un obbligo di reimpiego, l’eventuale violazione di esso non inciderà sulla validità ed efficacia dell’atto compiuto, ma avrà conseguenze meramente obbligatorie (nel senso che farà insorgere in capo ai coniugi l’obbligo di risarcire il danno e costituirà idoneo presupposto per la loro rimozione dall’amministrazione del fondo). Unica eccezione a tale principio generale vi sarà nel caso in cui il fondo patrimoniale non contenga clausola in deroga all’art. 169 cod. civ. ed il Tribunale, nell’autorizzare il compimento dell’atto, abbia previsto che il reimpiego del ricavato dell’alienazione nel modo indicato costituisca condizione dell’alienazione stessa. Su questi temi v. amplius A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 834 ed ivi nota 109.

   (91) Cfr. A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 839. Per un’acuta analisi del fenomeno dell’alienazione dell’unico bene del fondo (ovvero di tutti i beni del fondo) cfr. ancora A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 860-868.

   (92) Le considerazioni di cui al testo non muterebbero, mi pare, neppure nel caso in cui si tentasse di attribuire alle operazioni prospettate dai ricorrenti natura (non già di mero atto di alienazione, sibbene) di atto volto a vincolare i beni del fondo: anche se viste sotto tale ottica, infatti, dette operazioni sono finalizzate a far cessare il vincolo di destinazione proprio del fondo patrimoniale, onde sostituirlo con quello proprio del trust, ciò che impedisce di riguardarle come meri atti di straordinaria amministrazione dei beni del fondo.

   (93) Una chiara conferma della correttezza dell’opinione riportata nel testo appare ricavabile da Trib. Modena (decr.) 7.12.2000, Trib. Min. Emilia Romagna (decr.) 7.3.2001 e App. Bologna Sez. Min. 2.10.2001, tutte citate alla nota 64, per le quali in nessun modo può applicarsi l’art. 169 cod. civ. alle ipotesi di scioglimento consensuale del fondo patrimoniale. Di particolare chiarezza appare il passo che segue (tratto dalla massima della prima delle tre decisioni ora citate): «Ogni ipotesi di cessazione del fondo patrimoniale trova disciplina nel disposto dell’art. 171 cod. civ. … Tale rilievo non può essere vinto dalla considerazione che l’art. 169 cod. civ. consente tra l’altro ai partecipanti di alienare i beni costituenti il fondo e in ipotesi anche tutti i beni del fondo, con conseguente effetto di svuotamento analogo alla cessazione, e non soltanto attraverso un accordo successivo, che in presenza di figli minori è soggetto ad autorizzazione del Tribunale nei soli casi di necessità ed utilità evidente, ma anche mediante una espressa previsione in tal senso nell’atto di costituzione, non soggetta ad alcun controllo pur in presenza di prole minore».

   (94) In generale, sono atti che vincolano i beni del fondo «quelli che pongono i presupposti di un successivo trasferimento, anche indipendentemente dalla (o contro la) volontà dei coniugi, rientrandovi così, ad esempio, la cessione dei beni ai creditori, il contratto preliminare, l’opzione e la proposta irrevocabile» (così A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 400).

   (95) In altri termini, anche a voler ammettere che si potesse qualificare l’operazione cone atto di straordinaria amministrazione, sarebbe stato più corretto qualificarla come atto volto a vincolare i beni del fondo piuttosto che come atto di alienazione. Considerato che, come si è detto al § 2.1.2.2.2, nel caso 2 l’atto costitutivo del fondo recava deroga all’art. 169 cod. civ. (esonerando i coniugi da autorizzazione) per gli atti volti a vincolare i beni del fondo, da tale premessa sarebbe – fra l’altro – dovuta discendere una decisione di non luogo a provvedere.

   (96) Cfr. sul punto il § 2.1.2.2.2.

   (97) E, a mio avviso, giustamente: cfr. precedente § 1.2.1.

   (98) Cfr. precedente § 1.2.1.

   (99) L’opinione dominante (cfr. per tutti S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 560 ss., cui si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche) afferma infatti, sulla scorta della lettera d) del secondo paragrafo dell’art. 11 della Convenzione (il quale contiene un chiaro riferimento all’esigenza di attribuire al beneficiario di un trust, nei casi di breach of trust, una tutela reipersecutoria o comunque finalizzata a mantenerne integri i diritti nei confronti del trustee e/o dei terzi aventi causa da costui), che detto atto sarebbe impugnabile, alternativamente, con azione di annullamento per conflitto d’interessi ex art. 1394 cod. civ. ovvero con azione di risarcimento in forma specifica ex art. 2058 cod. civ. ovvero infine con azione revocatoria ex art. 2901 ss. cod. civ.

   (100) Com’è noto, infatti, è discusso quale sia la sanzione apprestata dall’ordinamento per un atto del genere, ma è pacifico che si tratti di sanzione incidente sull’atto stesso. Nel senso della nullità, stanti l’avvenuta violazione di una norma imperativa (cioè dell’art. 169 cod. civ.) ed il generale disposto dell’art. 1418 primo comma cod. civ., cfr. in dottrina B. Grasso, Il regime in generale e il fondo patrimoniale», in Trattato di dir. priv. diretto da P. Rescigno, vol. 3, Persone e famiglia, tomo secondo, Torino 1982, 395; F. Santosuosso, Delle persone [supra, nota 56], 143; E. Mandes, Il fondo patrimoniale. Rassegna di dottrina e giurisprudenza, Riv. Not., 1990, 682; V. De Paola-A. Macrì, Il nuovo regime [supra, nota 56], 255; in giurisprudenza Trib. Napoli 25.11.1998, Notariato, 1999, 451. Nel senso invece dell’annullabilità, argomentando dal combinato disposto degli artt. 168 primo comma (recante un rinvio alle norme sull’amministrazione della comunione legale) e 184 cod. civ., cfr. C. M. Bianca, Diritto civile [supra, nota 19], 107 nota 155; T. Auletta, Il fondo patrimoniale [supra, nota 78], 280; M. R. Morelli, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova 1996, 158. Nel senso, infine, dell’inefficacia cfr. A. Bartalena, Il fondo patrimoniale, Riv. Dir. Comm., 2002, 47-48; P. Carusi, Il negozio giuridico notarile, I, Soggetti - Famiglia - Successioni - Diritti reali - Casi e questioni, Milano 1993, 310; A. Cian - C. Casarotto, voce «Fondo patrimoniale» [supra, nota 19], 835. È stato altresì precisato (cfr. A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 410 nota 64) che il compimento di un simile atto costituisce idoneo presupposto per la rimozione dei coniugi dall’amministrazione dei beni del fondo patrimoniale.

   (101) Cfr. § 2.1.1 e la precedente nota 64.

   (102) Cfr. § 2.1.1 e la precedente nota 65.

   (103) Cfr. § 2.1.1 e le precedenti note da 65 a 67.

   (104) Cfr. la precedente nota 90.

   (105) Come si è esposto nel testo, pertanto, appare assai opinabile l’affermazione secondo la quale un fondo patrimoniale come quello del caso 2 (cioè prevedente l’autorizzazione di cui all’art. 169 cod. civ. per gli atti di alienazione) tutelerebbe il minore più di un trust. Per completezza, occorre a questo punto evidenziare che – a maggior ragione – non tutelerebbero il minore più di un trust né un fondo patrimoniale come quello del caso 2 ma privo di minori, né un fondo patrimoniale come quello del caso 1 (cioè recante totale esenzione dei coniugi dalle autorizzazioni ex art. 169 cod. civ.). Trattasi di ipotesi accomunate dal fatto che in esse i coniugi possono alienare i beni del fondo senza alcuna autorizzazione giudiziale. Al riguardo va osservato che, se pure la prevalente dottrina ha precisato che in tali casi l’alienazione dei beni non può avvenire ad libitum, ma deve pur sempre essere – in ossequio all’art. 169 cod. civ. – necessaria o evidentemente utile, cioè rispettosa del vincolo di destinazione del fondo (cfr. per tutti cfr. A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 403 ss. e 421-422 per il quale «i coniugi non sono liberi di disporre dei beni per fini egoistici, ma devono rispettare le finalità del fondo»; T. Auletta, Il fondo patrimoniale [supra, nota 78], 215 nota 10, il quale afferma che «la mancanza di un preventivo controllo non può giustificare un esercizio arbitrario dei poteri di amministrazione da parte dei coniugi»), nessuna tutela «reale» parrebbe apprestata laddove i coniugi compiano ugualmente un atto di alienazione non necessario né evidentemente utile. Ad avviso della prevalente dottrina, infatti (analogamente a quanto si è visto alla nota 90 in tema di atti compiuti in violazione dell’obbligo di reimpiego), un atto del genere sarebbe ugualmente valido ed efficace (salvo l’esperimento dell’azione revocatoria da parte dei creditori familiari che ne risultassero pregiudicati), esponendo i coniugi ad un mero obbligo risarcitorio ed al rischio di esser rimossi dall’amministrazione (cfr. A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 405-407, il quale ivi alla nota 53 afferma che «asserendo che l’atto compiuto sarebbe toto coelo invalido, si verrebbe, sempre, a pregiudicare, oltre i limiti consentiti, la posizione del terzo, il quale difficilmente potrà accertarsi, con sicurezza, se l’atto è necessario o di utilità evidente»; V. De Paola, Il diritto patrimoniale [supra, nota 69], 36 ss.; G. Gabrielli, voce Patrimonio familiare [supra, nota 78], 308. Si è visto invece (nel testo e nella precedente nota 99) che, in caso di indebita alienazione di beni del trust fund, l’atto sarebbe impugnabile e quindi non mancherebbe una tutela «reale» per i beneficiarii del trust stesso.

   (106) Si veda la precedente nota 18.

   (107) Più precisamente, l’art. 10 della Convenzione in esame (per un’analisi del quale cfr. S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 548-549, cui si rinvia anche per ulteriore bibliografia) afferma che «la legge applicabile alla validità del trust stabilisce la possibilità di sostituire detta legge…con un’altra legge». Poiché dal precedente art. 8 si evince che la legge che regola la validità del trust è quella di cui agli artt. 6 e 7, cioè (per quel che qui rileva) la legge scelta da colui che istituisce il trust, ne discende che nel nostro caso è appunto la legge italiana a dover stabilire se e come la legge (italiana) regolatrice del trust-fondo patrimoniale possa esser sostituita con altra legge regolatrice.

   (108) Cfr. in dottrina A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia. Commento sistematico alla legge 19 maggio 1975 n°151, vol. I, artt. 1-89, Milano 1984, 749 e 832-833; F. Corsi, Il regime patrimoniale [supra, nota 19], 105; V. De Paola, Il diritto patrimoniale [supra, nota 69], 55, 76, 104 e 129; R. Pacia Depinguente, Autonomia dei coniugi e mutamento del regime patrimoniale, Riv. Dir. Civ., 1980, II, 561; V. Santarsiere, La surrogazione dei beni personali nel diritto di famiglia, Notaro, 1995, 71; A. Pino, Il diritto di famiglia, Padova 1977, 103; S. Carrubba, Il fondo patrimoniale, Rolandino, 1975, 562; in giurisprudenza Trib. Roma (decr.) 14.6.1999, Dir. Fam., 1999, 1245; Trib. Min. Perugia (decr.) 20.3.2001, Riv. Not., 2001,1189; a livello di obiter dictum Trib. Catania 2.6.1986, Dir. Fall., 1986, II, 745, Trib. Catania 12.12.1990, Dir. Fam., 1991, 1013 e Trib. Genova 26.1.1998, Vita Not., 1999, 81. Da segnalare altresì il rifiuto del Conservatore dei RRII di Vicenza espresso in data 19.3.1985 in relazione ad una richiesta di annotamento di uno scioglimento consensuale del fondo (sul quale cfr, oltre alla successiva nota 113, A. Fusaro, Il regime patrimoniale della famiglia, in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, collana diretta da F. Galgano, Padova 1990, 119 ss.).

   (109) Per ulteriori ed ampie indicazioni bibliografiche cfr. A. Di Sapio, Lo scioglimento (volontario) del fondo patrimoniale in presenza di figli minori e l’immortalità di Socrate, Dir. Fam., 1999, 1247 ss.; Id., Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 840 ss.; A. Serioli, Scioglimento convenzionale [supra, nota 66], 651 ss. Occorre altresì evidenziare che lo scioglimento consensuale del fondo, nel caso in cui arrechi danno ai creditori del fondo stesso (cioè ai creditori familiari ed a quelli extrafamiliari di buona fede, come si ricava dall’art. 170 cod. civ.), potrà da costoro essere impugnato mediante azione revocatoria ex art. 2901 ss. cod. civ. (sul punto cfr. A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 857-858; A. Serioli, Scioglimento convenzionale [supra, nota 67], 684; T. Auletta, Il fondo patrimoniale [supra, nota 78], 366; G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], vol. IV, 656).

   (110) Così in dottrina A. Serioli, Scioglimento convenzionale [supra, nota 66], 679 ss.; M. Viani, Ancora sullo scioglimento convenzionale del fondo patrimoniale, Riv. Not., 2001, 1191 ss.; A. Bulgarelli, L’insostenibile irretrattabilità del fondo patrimoniale, Notariato, 2002, 33, a p. 39; in giurisprudenza Trib. Min. Venezia (decr.) 7.2.2001, Riv. Not., 2001, 1189 (il quale rileva che «ai sensi degli artt. 171 cod. civ. e 38 disp. att. cod. civ., la competenza del Tribunale per i Minorenni è espressamente prevista solo per le due ipotesi previste dai commi 1 e 3 dell’art. 171 cod. civ. … tra cui non rientra l’ipotesi dello scioglimento del fondo quando vi siano figli minori», che non è «necessario il ricorso all’interpretazione analogica, dal momento che l’ipotesi in questione trova compiuta disciplina negli artt. 162 e 163 cod. civ.» e che quindi non occorre «alcuna autorizzazione del giudice…essendo sufficiente che la modifica della convenzione avvenga per atto notarile»); Trib. Treviso (decr.) 13.12.2001 inedito citato in A. Serioli, Scioglimento convenzionale [supra, nota 66], 652-653 e passim.

   (111) Così in dottrina A. Vianello, Lo scioglimento convenzionale del fondo patrimoniale in presenza di figli minori, Riv. Not., 1998, 227 ss.; G. Gabrielli, voce Patrimonio familiare [supra, nota 78], 303 e 318; G. Verola, Lo scioglimento del fondo patrimoniale in via convenzionale ed in presenza di figli minori, Riv. Not., 2000, 396 ss.; A. Giletta, Obbligo di reimpiego nel fondo patrimoniale, Vita Not., 1999, 81 ss.; in giurisprudenza Trib. Min. Venezia (decr.) 17.11.1997, Riv. Not., 1998, 223; Trib. Min. Lecce (decr.) 25.11.1999, Riv. Not., 2000, 394; Trib. Min. L’Aquila (decr.) 3.5.2001, Fam. Dir., 2001, 541. Da segnalare altresì la particolare posizione di Trib. Modena (decr.) 7.12.2000 cit. alla nota 64 (in quest’ultima decisione, infatti, il Tribunale ordinario adito si limita a dichiarare la propria incompetenza, per esser competente il Tribunale per i Minorenni, e ad affermare che a quest’ultimo «compete ogni valutazione sulla possibilità, in via di applicazione estensiva dei precetti positivi dell’art. 171 cod. civ., o sul divieto, quale precetto implicito di tale disposizione, di estinzione convenzionale del fondo in presenza di prole minore»). La tesi che dichiara la competenza del Tribunale per i Minorenni giunge all’applicazione analogica dell’art. 171 cod. civ. escludendo, a monte, l’utilizzabilità a tal fine tanto dell’art. 320 cod. civ. (norma che presuppone l’appartenenza al minore dei beni su cui è destinato ad incidere l’atto che i genitori vorrebbero porre in essere) quanto dell’art. 169 cod. civ. (norma che – per le ragioni esposte nel § 2.1.2.3.2 – regola atti di straordinaria amministrazione dei beni del fondo e non già atti che, come lo scioglimento consensuale di esso, ne determinano la cessazione). La tesi in oggetto, fra l’altro, ipotizzando che possa essere emesso un provvedimento autorizzativo non previsto espressamente da alcuna norma (neppure – si badi – dall’invocato art. 171 cod. civ., che prevede ai commi secondo e terzo provvedimenti del Tribunale per i Minorenni di tutt’altro contenuto), costringe una volta di più a confrontarsi (sul punto cfr. A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 853 nota 159; Id., Lo scioglimento [supra, nota 109], 1253 ed ivi nota 16; A. Serioli, Scioglimento convenzionale [supra, nota 66], 676 ss.) con la nota questione della tipicità o meno dei provvedimenti di volontaria giurisdizione: per la tesi del numerus clausus di tali provvedimenti cfr. G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], vol. I, 28 ed ivi nota 60, 133 e 148; Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli 1980, 396; A. Serioli, Scioglimento convenzionale [supra, nota 66], 676 ss.; V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, vol. IV, Dei procedimenti speciali, Napoli 1964, 433.

   (112) Così A. Cian-C. Casarotto, voce «Fondo patrimoniale» [supra, nota 19], 838; F. Galletta, I regolamenti patrimoniali tra coniugi, Napoli 1990, 157; G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], vol. IV, 657.

   (113) Così in dottrina A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 850-853, per il quale «L’interesse dei figli minori prevale, sempre, su quello dei coniugi; ciò si desume inequivocabilmente dall’art. 171 capoverso, il quale impone che, pur verificatasi una causa di scioglimento, il fondo dura fino al raggiungimento della maggiore età dell’ultimo figlio. … L’assunto potrebbe essere corroborato da un ulteriore argomento … tratto … dall’art. 169. Sarebbe, infatti, assurdo che, in tal caso, i coniugi non possano alienare con il loro semplice consenso ma, al contrario, possano sciogliere liberamente il fondo…Né sarebbe, in tal caso, ammissibile un’autorizzazione del Tribunale, ponendosi l’atto, in ogni caso, in contrasto con gli interessi dei minori (contrasto, di per sé, insanabile)»; G. Fulcheris, Regimi patrimoniali fra coniugi nel codice civile e la legge n°151, in La riforma del diritto di famiglia, Atti del seminario svoltosi a Bologna il 5-6-7.9.1975, Roma s.d., vol. I, 198; in giurisprudenza Trib. Min. Emilia Romagna (decr.) 7.3.2001, cit. alla nota 64; App. Bologna Sez. Min. (decr.) 2.10.2001, cit. alla nota 64. Sempre A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 853 nota 159, in relazione alla tesi esposta nel testo alla lettera B, afferma fra l’altro che – anche ammessa e non concessa la fondatezza di essa, cioè l’ammissibilità di uno scioglimento consensuale del fondo in presenza di minori e l’ammissibilità di un provvedimento autorizzativo di volontaria giurisdizione atipico (sul punto cfr. la precedente nota 111) – l’autorizzazione giudiziale allo scioglimento andrebbe richiesta, stante l’inapplicabilità alla fattispecie degli artt. 171 cod. civ. e 38 primo comma disp. att. cod. civ., non già al Tribunale per i Minorenni, bensì al Tribunale ordinario, in virtù della previsione residuale di cui all’art. 38 secondo comma disp. att. cod. civ. Deve infine essere menzionato, quale precedente favorevole allo scioglimento consensuale del fondo patrimoniale, Trib. Vicenza (decr.) 19.7.1985, Vita Not., 1985, 731 (lo stesso decreto è altresì reperibile, pur se con la diversa data del 10.6.1985, in Riv. Not., 1985, 1200), il quale ha ordinato al Conservatore dei RRII di annotare a margine dell’atto di matrimonio un convenzione matrimoniale estintiva di un fondo patrimoniale stipulata da coniugi privi di figli minorenni (tale decisione – che evidentemente non ha potuto prendere posizione sull’ipotesi di fondo con figli minorenni – ha in tal modo chiuso la vicenda apertasi con il rifiuto del Conservatore di effettuare detto annotamento, rifiuto del 19.3.1985 menzionato nella precedente nota 108).

   (114) Cfr. ad esempio A. Vianello, Lo scioglimento [supra, nota 111], 227 ss.; G. Verola, Lo scioglimento [supra, nota 111], 396 ss.

   (115) Cfr. precedente nota 85.

   (116) Trattasi forse dell’argomento maggiormente utilizzato: cfr. ad esempio in dottrina A. Vianello, Lo scioglimento [supra, nota 111], 227 ss.; A. Bulgarelli, L’insostenibile [supra, nota 110], 39 ss.; in giurisprudenza Trib. Vicenza (decr.) 19.7.1985 cit. alla nota 113; Trib. Min. Venezia (decr.) 17.11.1997 cit. alla nota 111; Trib. Min. Lecce (decr.) 25.11.1999 cit. alla nota 111; Trib. Min. Venezia (decr.) 7.2.2001 cit. alla nota 110.

   (117) Cfr. ad esempio A. Bulgarelli, L’insostenibile [supra, nota 110], 39 ss.; A. Serioli, Scioglimento convenzionale [supra, nota 66], 679 ss.; A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 844-845 (per il quale «la previsione dello scioglimento per mutuo consenso, nella disciplina specifica dettata per il fondo patrimoniale, sarebbe stata di per sé superflua; anzi, una previsione normativa avrebbe avuto un senso solo ove fosse stata di segno contrario alla sua ammissibilità»).

   (118) Cfr. ad esempio Trib. Modena (decr.) 7.12.2000 cit. alla nota 64. Tale argomento, comunque, è sovente criticato anche da autori favorevoli allo scioglimento consensuale del fondo: cfr. per tutti A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 847-848.

   (119) Su questa tematica si rinvia alle precedenti note 64, 90 e 105. Per l’argomentazione di cui al testo cfr. ad esempio A. Vianello, Lo scioglimento [supra, nota 111], 227 ss.; A. Cian-C. Casarotto, voce «Fondo patrimoniale» [supra, nota 19]; G. Verola, Lo scioglimento [supra, nota 111]; M. Viani, Ancora sullo scioglimento [sopra, nota 110].

   (120) Cfr. ad esempio in dottrina G. Verola, Lo scioglimento [supra, nota 111]; in giurisprudenza Trib. Min. Venezia (decr.) 17.11.1997 cit. alla nota 111 (che ha autorizzato lo scioglimento consensuale di un fondo con minori in quanto essa avrebbe consentito, aumentando la garanzia patrimoniale che il capo famiglia imprenditore – unica fonte di reddito per la famiglia stessa – poteva offrire alle banche, di evitare la revoca dei fidi da parte di queste ultime); Trib. Min. Lecce (decr.) 17.11.1999 cit. alla nota 111 (che ha autorizzato lo scioglimento consensuale di un fondo con minori onde consentire di aumentare la garanzia patrimoniale offerta dai coniugi e di rendere quindi possibile l’erogazione, da parte di una banca, di un mutuo finalizzato alla costruzione di un immobile meglio rispondente alle esigenze della famiglia).

   (121) Per la pubblicità dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale si rinvia alla precedente nota 58.

   (122) Cfr. A. Di Sapio, Fondo patrimoniale [supra, nota 19], 870-871; T. Auletta, Il fondo patrimoniale [supra, nota 78], 371; G. Verola, Lo scioglimento [supra, nota 111], 400. In linea con quanto esposto nella precedente nota 58, sarà questa formalità pubblicitaria a determinare l’opponibilità ai terzi della cessazione del fondo patrimoniale.

   (123) La tesi in esame fa leva sul fatto che l’art. 163 cod. civ., dopo aver prescritto al terzo comma l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio delle convenzioni matrimoniali modificative, all’ultimo comma dispone che «L’annotazione deve inoltre essere fatta a margine della trascrizione delle convenzioni matrimoniali ove questa sia richiesta a norma degli articoli 2643 e seguenti» (nel nostro caso, come si è visto alla nota 58, la convenzione istitutiva del fondo soggiace appunto alla trascrizione ex art. 2647 cod. civ.). Osserverei inoltre che la tesi in esame potrebbe essere motivata anche facendo leva sull’art. 2655 cod. civ.: tale norma, infatti, dopo aver previsto al primo comma che «Qualora un atto trascritto…sia…risoluto…la risoluzione» deve «annotarsi in margine alla trascrizione…dell’atto», al terzo comma precisa che «L’annotazione si opera in base…alla convenzione da cui risulta» detta risoluzione, in tal modo facendo un chiaro riferimento all’ipotesi di un negozio di risoluzione consensuale di altro negozio immobiliare.

   (124) Cfr. in dottrina G. Verola, Lo scioglimento [supra, nota 111], 400; A. Serioli, Scioglimento convenzionale [supra, nota 66], 683-684; in giurisprudenza Trib. Vicenza (decr.) 19.7.1985 cit. alla nota 113.

   (125) Cfr. T. Auletta, Il fondo patrimoniale [supra, nota 78], 352 e 372-373.

   (126) La tesi in esame precisa che, nel caso in cui i beni appartengano ai coniugi, detta trascrizione dovrà essere effettuata «a favore» di costoro (venendosi così ad effettuare una formalità pubblicitaria esattamente contraria a quella a suo tempo effettuata, ex art. 2647 primo comma cod. civ., in sede d’istituzione del fondo).

   (127) Su tutta la questione cfr. G. Oberto, I contratti della crisi coniugale, Milano 1999, 144 ss.

   (128) Cfr. G. Oberto, I contratti [supra, nota 127], 144 ss., cui si rinvia per ulteriore bibliografia; G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione [supra, nota 25], vol. IV, 6 ss. La giurisprudenza si è occupata della questione solo prima della riforma del diritto di famiglia: nei due precedenti noti (Cfr. Cass. 3111/1969, F.I. 1970,I, 900; Cass. 2309/1973), essa ha aderito alla tesi che ammette le convenzioni matrimoniali atipiche.

   (129) Recante un divieto di deroga ai diritti e doveri discendenti dal matrimonio, cioè (limitando il discorso agli effetti patrimoniali) agli obblighi di contribuzione e di mantenimento dei figli di cui agli artt. 143 terzo comma, 147 e 148 cod. civ.

   (130) Tale norma vieta ai coniugi di regolare il proprio regiome patrimoniale effettuando nella convenzione un generico rinvio a leggi cui essi non sarebbero sottoposti. Su questa norma, di particolare importanza per le tematiche discusse nel testo, si avrà modo di soffermarsi nel prosieguo.

   (131) Recante il divieto della costituzione di beni in dote. La dottrina si è a lungo interrogata sull’esatto significato da attribuire a detto divieto: fra le varie tesi proposte (per una sintetica rassegna delle quali si rinvia a G. Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, Fam. e Dir. 2004, 208-210), tende a prevalere quella secondo la quale (cfr. per tutti A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, vol. III, Il divorzio, Milano 1988, 790) il divieto concerne eventuali convenzioni matrimoniali atipiche che attribuiscano ad uno dei coniugi (si tratti – indifferentemente – del marito ovvero della moglie) una posizione di supremazia rispetto all’altro, attribuendogli il potere di amministrare beni relativamente ai quali egli non è titolare di alcun diritto reale.

   (132) Così anche A. Palazzo, Le convenzioni matrimoniali e l’ulteriore destinazione dei beni per mezzo di trust, in Aa.Vv. Il Trust nel diritto [supra, nota 1], spec. 92 ss.; G. Oberto, Trust e autonomia [supra, nota 131], 310- 313, il quale però (cfr. ivi a p. 311) esclude che possa qualificarsi come convenzione matrimoniale un trust autodichiarato istituito, sia pure per far fronte alle esigenze familiari, da uno dei due coniugi. Tale tesi, la quale parrebbe far leva sul fatto che in un siffatto trust difetta una «convenzione» fra il coniuge disponente-trustee e l’altro coniuge, non pare però persuasiva, poiché il nostro ordinamento conosce già altre ipotesi di atti negoziali incidenti sul regime patrimoniale della famiglia ma privi della natura di «convenzione»: si pensi al fondo patrimoniale costituito per testamento, oppure alla dichiarazione unilaterale del coniuge volta ad evitare l’ingresso in comunione legale e di cui all’art. 228 primo comma della legge 151/1975.

   (133) Si pensi all’ipotesi in cui due coniugi in regime di separazione dei beni istituiscano un trust in cui conferiscono certe somme di denaro, incaricando il trustee di impiegarle per far fronte alle esigenze familiari e di riattribuirne l’eventuale residuo, in caso di separazione ovvero di scioglimento del matrimonio, ai coniugi stessi in proporzione agli apporti da ciascuno effettuati. Alla ricostruzione operata nel testo non appare possibile obiettare che la natura di convenzione matrimoniale mal si attaglia ad un istituto come il trust il quale, lungi dall’aver natura programmatica (cioè lungi dal regolamentare futuri acquisti, come accade per la comunione legale e per la separazione dei beni), implica un atto dispositivo: è noto infatti che non si dubita della natura di convenzione matrimoniale né della comunione convenzionale (la quale ben può presentare in concreto, a fianco di aspetti programmatici, aspetti dispositivi: si pensi all’inclusione in essa di beni personali ricevuti per donazione da un coniuge prima del matrimonio), né del fondo patrimoniale (sul punto cfr. precedente nota 85). Occorre infine evidenziare che anche il trust istituito con funzione di convenzione matrimoniale soggiace, per il combinato disposto degli artt. 15 comma primo lettera b) della Convenzione e 166-bis cod. civ., al divieto di costituzione di doti, sì che – alla luce di quanto osservato alla precedente nota 131 in ordine alla portata di detto divieto – è probabilmente da evitare (così G. Oberto, Trust e autonomia [supra, nota 131], 210) l’istituzione di un trust nel quale un coniuge (disponente) apporti beni all’altro (trustee) affinché gli stessi siano da costui amministrati ed impiegati per far fronte ai bisogni della famiglia e siano restituiti al disponente in caso di separazione o divorzio. Per un’interessante vicenda in cui si è fatto ricorso al trust con l’intento di evitare d’incorrere nel divieto di cui all’art. 166-bis cod. civ. (il relativo atto istitutivo è reperibile in TAF 2003, 126 ss.) cfr. M. Marchesiello, La dote per mezzo di trust secolare, in Aa.Vv., Il Trust nel diritto [supra, nota 1], 195 ss.; G. Oberto, Trust e autonomia [supra, nota 131], 210-211; M. Lupoi, Trust e «dote»: un commento, TAF 2003, 141 ss.

   (134) Si pensi ora all’ipotesi in cui un coniuge istituisca un trust conferendovi una somma di denaro e prevedendo che il trustee, dopo un certo tempo, l’attribuisca all’altro coniuge con i relativi frutti medio tempore maturati. Parrebbe evidente che in questa ipotesi, a differenza di quanto accade per quella descritta nella precedente nota 133, il trust non abbia natura di convenzione matrimoniale, ma di strumento per effettuare una donazione indiretta al partner. A fortiori (come giustamente osserva G. Oberto, Trust e autonomia [supra, nota 131], 311) devesi escludere la natura di convenzione matrimoniale per qualunque trust istituito da uno o entrambi i coniugi in correlazione ad una crisi coniugale futura o in atto.

   (135) Un trust come quello descritto alla precedente nota 134, invece, ben potrebbe rivestire la forma di mera scrittura privata (tanto basterebbe, ex art. 3 della Convenzione, per renderlo meritevole di riconoscimento). Altra questione sarebbe poi quella della sua opponibilità, per la quale cfr. la successiva nota 136 in fine.

   (136) Per un trust avente natura di convenzione matrimoniale come quello della precedente nota 133, cioè avente ad oggetto denaro, alla pubblicità di cui all’art. 162 ultimo comma cod. civ. dovrebbe comunque necessariamente aggiungersi quella ordinaria, rappresentata dall’atto di data certa e dalla fisica separazione – a cura del trustee – del denaro in trust dal restante patrimonio personale del medesimo (caso classico: accensione di conto corrente bancario intestato al «Trust X» ovvero a «Mario Rossi come trustee del Trust X»). Ad identiche conclusioni – ritengo – dovrebbe poi pervenirsi nel caso di trust-convenzione matrimoniale avente ad oggetto immobili, nel senso che la pubblicità ex art. 162 ultimo comma cod. civ. dovrebbe stavolta essere affiancata, come si evince dall’art. 12 della Convenzione, dalla trascrizione. Non pare infatti sostenibile, come invece accade in tema di fondo patrimoniale (cfr. precedenti note da 57 a 59), che la pubblicità ex art. 162 ultimo comma cod. civ. prevalga sulla trascrizione. Nel caso del fondo patrimoniale, infatti, tale conclusione è stata giustificata con il fatto che alla normativa generale sulla trascrizione è subentrata la specifica normativa ex art. 162 ultimo comma cod. civ., mentre nel caso del trust-convenzione matrimoniale è accaduto il fenomeno esattamente inverso, in quanto l’art. 12 della Convenzione (che consente di pubblicizzare il trust in ossequio ai generali principii pubblicitari del nostro ordinamento) è sopravvenuto (all’esito della legge 364/1989 di ratifica della Convenzione) al ridetto art. 162 ultimo comma cod. civ. Ancor meno sostenibile, d’altro canto, appare la tesi che sarebbe l’art. 12 della Convenzione, in quanto appunto posteriore all’art. 162 ultimo comma cod. civ., ad avere la prevalenza su quest’ultima, poiché resta il fatto che la norma codicistica è specificamente dettata per la pubblicità delle convenzioni matrimoniali. Taluno ha sostenuto (cfr. A. Palazzo, Le convenzioni [supra, nota 132], 94) che, nel caso in cui il trustee di un trust avente natura di convenzione matrimoniale sia soggetto diverso dai coniugi disponenti ed in regime di comunione legale con il proprio partner, l’annotamento del trust-convenzione matrimoniale andrebbe effettuato non solo nell’atto di matrimonio dei coniugi disponenti, ma anche in quello del trustee: ciò – si afferma – «non tanto ai fini dell’opponibilità ai terzi del nuovo assetto patrimoniale, quanto piuttosto al dichiarato proposito di scongiurare…l’acquisto automatico alla comunione legale» del trustee dei beni in trust, «che porterebbe a frustrare l’intero effetto segregativo del trust». La tesi appare difficilmente condivisibile, poiché la segregazione dei beni in trust – e con essa la preclusione dell’effetto acquisitivo paventato dal citato autore, ex art. 11 secondo paragrafo lettera c) della Convenzione – sembra discendere già dall’attuazione delle forme pubblicitarie suddescritte, alle quali non si vede perché aggiungervi l’ulteriore annotamento in questione (a nessuno, del resto, è mai venuto in mente che, ove il fondo patrimoniale sia costituito da un terzo a favore dei coniugi, l’annotamento di siffatta convenzione debba esser fatto anche nell’atto di matrimonio del terzo …). Inutile sottolineare, infine, che un trust non avente natura di convenzione matrimoniale, come quello descritto alla precedente nota 134, sarebbe invece opponibile ai terzi secondo le regole generali (nel caso di specie, avendo il trust ad oggetto denaro: atto di data certa e fisica separazione del denaro in trust dal restante patrimonio personale del trustee, come esposto nella parte iniziale di questa nota).

   (137) Cfr. M. Lupoi, Trusts [supra, nota 4], 641 ss.; T. Arrigo, Autonomia privata, fondo fiduciario e diverse tipologie di trust nella separazione e nel divorzio, TAF 2005, 36 ss. e 195 ss.; M. Dogliotti – F. Piccaluga, I trust nella crisi della famiglia, in Aa.Vv. Il Trust nel diritto [supra, nota 1], 135 ss. (nonché in Fam. e Dir. 2003, 301 ss.); G. Oberto, Trust e autonomia [supra, nota 131], 201 ss. e 310 ss.

   (138) Tale orientamento va così ad arricchire di uno strumento negoziale ulteriore le possibilità di esplicazione dell’autonomia privata dei coniugi in crisi, argomento quest’ultimo che riscuote una sempre maggiore attenzione: cfr. per tutti G. Oberto, I contratti [supra, nota 127]; Aa.Vv., I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale, vol. III – Persone e famiglia, Torino 2004, 405 ss.; G. Doria, Autonomia privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano 1996; G. Ceccherini, Contratti tra coniugi in vista della cessazione del ménage, Padova 1996; F. Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova 1997.

   (139) Sul punto cfr. in particolare M. Dogliotti – F. Piccaluga, I trust nella crisi [supra, nota 137], 135-138; T. Arrigo, Autonomia privata [supra, nota 137], 195-196. Tende invece a ridimensionare l’inefficienza di siffatti strumenti al cospetto del trust, G. Oberto, Trust e autonomia [supra, nota 131], 316-317.

   (140) La previsione riportata nel testo sub c) non è, ovviamente, l’unica possibile: il coniuge-disponente, ad esempio, potrebbe prevedere che al termine del trust i beni non consumati siano attribuiti, in tutto o in parte, ai figli. Lo stesso termine del trust, d’altro canto, potrebbe non coincidere con il momento della cessazione degli obblighi di mantenimento: si pensi, ad esempio, al caso in cui il coniuge-disponente colleghi a detto momento semplicemente la cessazione della qualità di beneficiario del partner, con la prosecuzione del trust per un certo periodo ulteriore, terminato il quale i beni saranno attribuiti dal trustee, in tutto o in parte, ai figli del coniuge-disponente.

   (141) Cfr. M. Lupoi, Trusts [supra, nota 4], 641 ss.; T. Arrigo, Autonomia privata [supra, nota 137], 195-196.

   (142) Cfr. precedente nota 140.

   (143) Di tale provvedimento è stata data notizia nel quotidiano Il Sole 24 Ore del 31 marzo 2005, nonché nel sito www.il-trust-in-italia.it.

   (144) La complessa questione, che non può essere affrontata in questa sede, si incentra – com’è noto – sull’interpretazione dell’art. 13 della Convenzione. La tesi ormai dominante ammette la figura: cfr. in dottrina, per tutti, M. Lupoi, Trusts [supra, nota 4], 533 ss.; S. Bartoli, Il trust [supra, nota 2], 597 ss.; in giurisprudenza Trib. Milano (decr.) 27 dicembre 1996, Le Soc. 1997, 585; Trib. Genova (decr.) 24 marzo 1997, Giur. Comm. 1998, II, 759; Trib. Chieti (decr.) 10 marzo 2000, TAF 2000, 372; Trib. Bologna (decr.) 18 aprile 2000, TAF 2000, 372; Pret. Roma (ord.) 13 aprile 1999 e Trib. Roma (ord.) 2 luglio 1999, TAF 2000, 83; Trib. Pisa (decr.) 22 dicembre 2001, TAF 2002, 241; Trib. Milano (decr.) 29 ottobre 2002, TAF 2003, 270; Trib. Verona (decr.) 8 gennaio 2003, TAF 2003, 409; Trib. Bologna (decr.) 16 giugno 2003, TAF 2003, 580; Trib. Parma (decr.) 21 ottobre 2003, TAF 2004, 73; Trib. Firenze (decr.) 23 ottobre 2002 e Trib. Firenze (decr.) 23 ottobre 2002, TAF 2003, 406; Trib. Roma–Sez. fall.-Giudice Delegato (decr.) 4 aprile 2003, TAF 2003, 411; Trib. Roma–Sez. fall. (decr.) 5 marzo 2004, TAF 2004, 406; Trib. Perugia-Giudice tutelare (decr.) 16 aprile 2002, TAF 2002, 584; Trib. Perugia-Giudice tutelare (decr.) 26 giugno 2001, TAF 2002, 52; Trib. Bologna (decr.) 3 dicembre 2003, TAF 2004, 254; Trib. Bologna 1° ottobre 2003, TAF 2004, 67; Trib. Firenze-Giudice tutelare (decr.) 8 aprile 2004, TAF 2004, 567; Trib. Trento-S. D. di Cavalese (decr.) 20 luglio 2004, TAF 2004, 573; Trib. Parma-Sez. fall. (decr.), Sole 24 Ore del 13 gennaio 2005; Trib. Brescia 12 ottobre 2004, TAF 2005, 83). Risultano invece contrari ai trusts interni, in dottrina per tutti F. Gazzoni, Tentativo dell’impossibile (osservazioni di un giurista «non vivente» su trust e trascrizione), Riv. Not. 2001, 11; Id., In Italia tutto è permesso, anche quel che è vietato (lettera aperta a Maurizio Lupoi su trust e su altre bagattelle), Riv. Not. 2001, 1247; Id., Il cammello, il leone, il fanciullo e la trascrizione del trust, Riv. Not. 2002, 1107; G. Contaldi, Il trust nel diritto internazionale privato italiano, Milano 2001, 123 ss.; C. Castronovo, Trust e diritto civile italiano, Vita not. 1998, 1323 ss.; Id., Il trust e «sostiene Lupoi», Eur. e dir. priv. 1998, 441 ss.; G. Broggini, Trust e fiducia nel diritto internazionale privato, Eur e dir. priv. 1998, 399 ss.; in giurisprudenza Trib. Belluno (decr.) 25 settembre 2002, TAF 2003, 255; Trib. S. Maria Capua Vetere (decr.) 14 luglio 1999, TAF 2000, 51; Trib. Napoli (decr.) 1° ottobre 2003, TAF 2004, 74; App. Napoli (decr.) 27 maggio 2004, TAF 2004, 570.

   (145) Si è visto nel testo, infatti, che nella vicenda milanese disponente e trustee erano il medesimo soggetto.

   (146) Cfr. S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 513-514; M. Lupoi, Trusts [supra, nota 4], 503-504; Id., I trust nel diritto civile, Torino 2004, 259; Id., Osservazioni su due recenti pronunce in tema di trust, Riv. Not. 2004, 568; G. Gallizia, Trattamento tributario dell’atto dispositivo in un trust di beni immobili, TAF 2001, 148-149; N. Lipari, Fiducia statica e trusts in Aa.Vv., I trusts in Italia oggi, a cura di I. Beneventi, Milano 1996, 77; G. Contaldi, Il trust nel diritto [supra, nota 144], 76-77; R. Siclari, Il trust interno tra vecchie questioni e nuove prospettive: il trust statico, Vita Not. 2002, spec. 743-749; D. Muritano, Trust autodichiarato per provvedere ad un fratello con handicap, TAF 2003, 474; P. Manes, Trust e art. 2740 cod. civ.: un problema finalmente risolto, Contr. e impr., 2002, 571; F. Steidl, Trust autodichiarati: percorsi diversi della trascrivibilità, TAF 2003, 376.

   (147) Cfr. ad esempio V. Salvatore, Il trust [supra, nota 15], 61.

   (148) Cfr. Trib. Pisa (decr.) 22 dicembre 2001, TAF 2002, 241; Trib. Milano (decr.) 29.10.2002, TAF 2003, 270; Trib. Verona (decr.) 8.1.2003, TAF 2003, 409; Trib. Napoli (decr.) 1.10.2003, TAF 2004, 74, confermato da App. Napoli (decr.) 27.5.2004, TAF 2004, 570; Trib. Parma (decr.) 21.10.2003, TAF 2004, 73.

   (149) Sulla questione della trascrizione del trust cfr. precedente nota 57.

   (150) Trattasi di Trib. Pisa (decr.) 22 dicembre 2001, TAF 2002, 241; Trib. Milano (decr.) 29.10.2002, TAF 2003, 270; Trib. Verona (decr.) 8.1.2003, TAF 2003, 409; Trib. Parma (decr.) 21.10.2003, TAF 2004, 73.

   (151) Cioè Trib. Napoli (decr.) 1.10.2003, TAF 2004, 74, confermato da App. Napoli (decr.) 27.5.2004, TAF 2004, 570.

   (152) R. Siclari, Il trust interno [supra, nota 146], 744, parla al riguardo di «motivazione volutamente scarna e laconica».

   (153) Trattasi del Notaio Daniele Muritano di Empoli, che ringrazio di avermi fornito il reclamo in questione.

   (154) Così anche R. Siclari, Il trust interno [supra, nota 146], 746.

   (155) Trattasi di Trib. Napoli 1.10.2003 [supra, nota 148].

   (156) Reperibile in TAF 2000, 259 ss.

   (157) L’atto istitutivo affidava infatti al trustee, in particolare, il compito di erogare i redditi dal trust fund ai quattro figli della disponente per «coprire le spese per la frequenza a corsi di formazione, di frequenza scolastica, di frequenza universitaria e post-universitaria, di specializzazione, di educazione e formazione culturale, sportiva e ricreativa». Com’è stato evidenziato (cfr. M. Lupoi, Osservazioni [supra, nota 146]), essendo l’atto in questione notevolmente carente a livello sia di tecnica redazionale sia (soprattutto) di giustificazione causale, non si può escludere che anche tali circostanze abbiano indotto il decidente a valutare negativamente il negozio.

   (158) Si rinvia al riguardo al precedente § 2.1.1.

   (159) Sul tema v. amplius S. Bartoli, Il trust autodichiarato nella Convenzione de L’Aja sui trusts, in corso di pubblicazione in TAF 2005, fascicolo n° 3.

   (160) Cfr. M. Lupoi, Trusts [supra, nota 4], 502 e 503; S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 513.

   (161) Lo evidenziano M. Lupoi, Trusts [supra, nota 4], 504 ed ivi nota 68; S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 513.

   (162) Cfr. A. E. Von Overbeck, Report of the Special Commission, in Hague Conference on private international law. Proceedings of the 15th Session, II, La Haye, 1985, 180-181.

   (163) Propri anche di Paesi estranei all’area della common law: si pensi al bewind dell’ordinamento olandese, sul quale cfr. D.J. Hayton – S.C.J.J. Kortmann – H.L.E. Verhagen, Principles of European trust Law, kluwer Law International – W.E.J. Tjeenk Willink 1999, 199-200.

   (164) La norma in oggetto ha infatti attinenza con la ben diversa questione del discrimine fra trust valido e trust nullo per simulazione (il cosiddetto «sham» trust), in quanto caratterizzato dalla mancanza di una vera e propria perdita del controllo sui beni da parte del disponente: sul punto, oltre alla precedente nota 2, cfr. A. Underhill-D.J. Hayton, Law relating [supra, nota 2], 1017: «The final paragraph of article 2 indicates that…the reservation by the settlor of certain rights and powers is…permitted. The Convention does not say which rights they are. To the extent that the assets remain effectively under the control of the settlor, the trust should be treated as a sham trust».

   (165) Cfr. precedente nota 51.

   (166) Cfr. M. Lupoi, Trusts [supra, nota 4], nota 117 a p. 589.

   (167) Sul punto si rinvia a M. Lupoi, Trusts [supra, nota 4], 518 ss. e 589.

   (168) Cfr. precedente nota 164.

   (169) Cfr. A. Underhill-D.J. Hayton, Law relating [supra, nota 2], 1026.

   (170) Cfr. J. Mowbray-L. Tucker-N. Le Poidevin-E. Simpson, Lewin on Trusts, Londra, 2000, 288; G. Contaldi, Il trust nel diritto [supra, nota 144], 76-77.

   (171) Cfr. M. Lupoi, Trusts [supra, nota 4], 642 e 644; sia pure dubitativamente, T. Arrigo, Autonomia privata [supra, nota 137], 201 ss.; M. Dogliotti – F. Piccaluga, I trust nella crisi [supra, nota 137], 138-139, i quali precisano che ciò sarebbe possibile «almeno per quanto attiene ai figli», stante l’ampio disposto degli artt. 155 primo comma cod. civ. e 6 secondo comma l. div., che consentono appunto al giudice di adottare qualsiasi «provvedimento nel’interesse della prole».

   (172) Cfr. A. Busato in Aa.Vv., Convenzione relativa [supra, nota 16], 1236-1237 e 1324; M. C. Malaguti, Il futuro del trust in Italia, Contr. e impr. 1990, 993; P. Piccoli, L’avamprogetto di Convenzione sul trust, Riv. Not. 1984, 855; Id., Possibilità operative [supra, nota 15], 45; V. Salvatore, Il trust [supra, nota 15], 57-58 e 114-115; E. Corso, Trust e diritto italiano: un primo approccio, Quadrim. 1990, 521 nota 47; L. Santoro, Trust e fiducia, Contr. e impr. 1995, 977 nota 2; M. Barberi, Il trust: uno strumento giuridico ancora poco conosciuto nell’ordinamento italiano, Riv. dir. comm. 1997, I, 489; S. Mazzamuto, Il trust nell’ordinamento italiano dopo la Convenzione dell’Aja, Vita Not. 1998, 755; T. Arrigo-S. Cavanna, Convenzione dell’Aja sulla legge applicabile ai trusts ed al loro riconoscimento, Commentario breve al cod. civ. Leggi complementari, a cura di G. Alpa-C. Zatti, Padova 1999, 47.

   (173) Si ricorda che gli Stati contraenti possono esercitare il potere loro riconosciuto dall’art. 20 con un’apposita dichiarazione di volontà regolata dalla norma stessa e le cui modalità di comunicazione sono previste dall’art. 32, che pone il relativo onere a carico del Ministero Affari Esteri dei Paesi Bassi, il cui governo è depositario della Convenzione. Il Regno Unito si è appunto avvalso della facoltà offerta dall’art. 20 con la legge di ratifica della Convenzione (trattasi del Trust Recognition Act del 1987): tale legge infatti estende l’applicabilità della Convenzione ad ogni altro «trust of property arising under the law of any part of the United Kingdom or by virtue of a judicial decision whether in the United Kingdom or elsewhere». L’Italia, invece, nella sua legge n°364/1989 di ratifica della Convenzione si è limitata a riprodurre il testo dell’art. 20.
(174) Si tratta, per la precisione, della traduzione ministeriale. A mio avviso, la più attendibile traduzione non ufficiale in italiano della Convenzione è quella proposta dall’Associazione «Il Trust in Italia» (reperibile ad esempio in Aa.Vv., Introduzione ai trust e profili applicativi tra dottrina, prassi e giurisprudenza, a cura di S. Buttà, Milano 2002, 209 ss.).

   (175) Sul tema cfr. S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 2], 134-135.

   (176) Cfr. M. Lupoi, Trusts [supra, nota 4], 511 ss.; L. De Angelis, Trust e fiducia nell’ordinamento italiano, Riv. dir. civ. 1999, 360; C. Masi, La Convenzione dell’Aja in materia di trusts in Aa.Vv., Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di G. Vettori, Padova 1999, 765-766 ed ivi nota 47; implicitamente A. De Donato – V. De Donato – M. D’Errico, Trust convenzionale. Lineamenti di teoria e pratica, Roma 1999, 1-2.

   (177) Cioè neppure nel caso in cui si ritenesse di aderire alla tesi più liberale – per la quale cfr. precedente nota 176 – che considera inclusi nella Convenzione i trusts fondati su una sentenza dichiarativa.

   (178) Né pare ammissibile – aggiungerei – che il giudice si limiti ad imporre al soggetto l’istituzione di un trust, poiché anche in tal caso il trust troverebbe fonte, a monte, in una sentenza costitutiva.

   (179) Cfr. T. Arrigo, Autonomia privata [supra, nota 137], 202-205.

   (180) In questa ipotesi, pertanto, il trust non avrebbe funzione direttamente solutoria, bensì di garanzia: le norme citate nel testo, infatti, consentono al giudice, se vi è pericolo d’inadempimento, di imporre al coniuge debitore la prestazione di una «idonea garanzia reale o personale».

Top

Home Page

 

dircomm.it
Rivista diretta da Giovanni Cabras e Paolo Ferro-Luzzi