il diritto commerciale d’oggi
    V.2 – febbraio 2006

STUDÎ & COMMENTI

 

DANIELA NOVIELLO

La struttura bifasica del processo commerciale e la limitazione delle difese dell’attore
Nota a. Trib. Palermo, ordin. 15 dicembre 2005

Trib. Palermo, ordin. 15 dicembre 2005

 

   1.
   L’ordinanza in commento si segnala per l’articolata ed attenta motivazione, che consente al Tribunale di Palermo, attraverso un’interpretazione adeguatrice, di evitare il rinvio pregiudiziale alla Corte Costituzionale.
   Nel caso di specie, la convenuta si era costituita in giudizio, notificando agli attori una comparsa, contenente «circostanze di fatto nuove e diverse rispetto alla prospettazione attorea, al fine di contrastare i l’efficacia dei fatti allegati in citazione» con relativa richiesta di prova testimoniale e produzione di documenti in parte “suscettibili di disconoscimento”. Non avendo, tuttavia, né spiegato domanda riconvenzionale, né formulato eccezioni riservate alla parte, aveva instato per l’immediata di fissazione dell’udienza, ai sensi dell’art. 8 comma 2 lett. c) del d. lgs. n. 5/2003.
   Di qui la questione oggetto della pronuncia, ovvero, del se fosse possibile (o meno) consentire all’attore una replica alle nuove allegazioni. Secondo la lettera della legge, infatti, la possibilità di replica dell’attore è prevista unicamente per i casi in cui il convenuto abbia spiegato domanda riconvenzionale o formulato eccezioni non rilevabili d’ufficio (art. 8 comma 2 lett. a); in tutti gli altri casi – ovvero nelle ipotesi in cui il convenuto si sia difeso con nuove allegazioni non rientranti nelle categorie indicate e nei casi in cui abbia formulato, a sostegno delle nuove allegazioni, nuove istanze istruttorie o prodotto documenti – l’attore non può replicare e il convenuto può immediatamente chiedere la fissazione dell’udienza (art. 8 comma 2 lett. c).
   Tale disciplina è apparsa, al Tribunale di Palermo, in contrasto con la Costituzione, per violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa; ma, il contrasto è stato superato con una interpretazione che ne ha consentito l’immediata applicazione.

   2.
   Come è noto, il rito c.d. commerciale è strutturato secondo una bipartizione del giudizio tra una fase preparatoria ed una di istruzione in senso stretto; la prima è destinata alla definitiva determinazione del c.d. thema decidendum e thema probandum, la seconda, all’accertamento probatorio della fondatezza della domanda (o delle domande) formulate hinc et inde e alla decisione della causa; la prima si svolge interamente tra le parti, la seconda davanti al giudice.
   L’una e l’altra fase risultano separate da una terza, che si potrebbe definire di “passaggio”, nella quale, da un lato, si realizza il contatto tra le parti e il giudice, attraverso l’istanza di fissazione dell’udienza, che ciascuna delle parti (o dei terzi chiamati o intervenuti) può presentare nei termini, e alle condizioni stabilite dalla legge; dall’altro lato, si avvia la fase di accertamento, attraverso il decreto giudiziale di fissazione dell’udienza, contenente i provvedimenti ordinatori indispensabili per lo svolgimento dell’udienza.
   Sul piano dell’architettura del sistema processuale, quindi, lo schema “bipartito” del processo commerciale (benché abbia origini assai remote: già il processo romano–canonico dell’Età Media si sviluppava in due fasi – una preparatoria, l’altra probatoria – separate tra loro dalla litis contestatio, che fissava l’oggetto della causa, sulla quale era richiesta la decisione giudiziale; e pure il processo formale del codice di procedura del 1865 ricalcava tale schema, prevedendo una fase preparatoria costituita dallo scambio tra le parti di repliche, dupliche, tripliche, quadrupliche e, solo poi, lo svolgimento della fase di accertamento probatorio in senso stretto) appare come una assoluta novità rispetto a quello del processo ordinario vigente, strutturato come sequenza procedimentale unitaria.
   Ma il profilo davvero dirompente è rappresentato dall’abbandono del principio di “selezione”, che caratterizza il processo ordinario, e dall’attuazione di un principio di “concentrazione”; il profilo problematico è costituito dalle difficoltà di coordinazione tra il principio di concentrazione e quello di preclusione.
   Nel processo ordinario, come concepito dal legislatore del 1990, l’oggetto del processo e, quindi, della decisione, si forma progressivamente nel corso del giudizio, attraverso le contrapposte affermazioni delle parti (dei fatti rispettivamente costitutivi e modificativi-impeditivi-estintivi), per le quali la legge stessa stabilisce un ordine di allegazione che, secondo una logica contraddittoria, disciplina le facoltà di replica di ciascuna parte, consentendo (nei limiti della emendatio libelli) l’allegazione successiva di fatti, se ciò corrisponde ad un’esigenza difensiva, determinata dalle difese dell’altra parte. Inoltre, in tale processo non esiste commistione tra allegazione assertiva e probatoria, in quanto, sempre in omaggio al principio di selezione, le richieste istruttorie delle parti possono essere formulate solo dopo che sia stato definitivamente determinato il thema decidendum. Il principio di preclusione serve, in tale contesto, a realizzare l’ordinato sviluppo delle attività processuali nel corso del giudizio, in quanto è proprio attraverso la previsione di termini per lo svolgimento delle singole attività processuali delle parti che il processo risulta distinto in fasi successive, strutturate secondo un ordine logico (introduzione/determinazione dell’oggetto del giudizio/determinazione del tema della prova/istruzione probatoria/decisione).
   Nel processo commerciale, la logica selettiva viene abbandonata, in favore di un principio di concentrazione, per il quale sin dal primo atto del giudizio (quello contenente la domanda introduttiva) ogni attività assertiva e probatoria delle parti deve essere compiutamente espletata, di modo che si possa immediatamente passare alla fase giudiziale, di accertamento probatorio e decisione. Si rileva che in questa seconda fase le parti non possono svolgere alcun genere di attività processuale: invero, la richiesta di fissazione dell’udienza (o la scadenza dei termini per l’eventuale replica) determinano il formarsi di una preclusione, e il definitivo passaggio alla fase di accertamento probatorio dell’oggetto della causa, come cristallizzato negli atti preparatori. In altri termini, il sistema di preclusioni “aperte”, fondato sulla predeterminazione legislativa dei termini stabiliti per le singole attività processuali, proprio del processo ordinario di cognizione, viene sostituito con un sistema di preclusioni a termine “incerto” ed unico per tutti i generi di attività processuali; termine che scatta, per tutte le parti, in corrispondenza della richiesta di fissazione dell’udienza ovvero, per ciascuna, con la scadenza del termine per l’eventuale replica.
   Al riguardo, il Tribunale di Palermo indica il «perno» della questione, nell’«onere imposto all’attore, in via generale, all’art. 163 c.p.c.: di esporre compiutamente nell’atto di citazione i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, e di indicare nello stesso atto tutti i mezzi di prova, compresi i documenti, di cui intende avvalersi», che non dovrebbe essere inteso in maniera «estremista».
   Più che dall’art. 163 c.p.c., sembra, tuttavia, che il rigorosissimo onere di compiutezza degli atti delle parti (citazione, la comparsa di risposta e repliche successive) sia una conseguenza del sistema delle preclusioni, possono sempre scattare, a carico di ciascuna parte “all’improvviso”, per iniziativa dell’altra parte (o del terzo chiamato, o intervenuto).

   3.
   Tema del provvedimento in commento è, invero, la razionalità (e la costituzionale legittimità) della disciplina che, come conseguenza della richiesta del convenuto di fissazione dell’udienza, prevede la preclusione della replica dell’attore, e la cristallizzazione della causa, nei termini risultanti dagli atti fino a quel momento scambiati tra le parti.
   Il Tribunale ha molto opportunamente evidenziato che le allegazioni che possono determinare l’esigenza di una replica difensiva sono ben maggiori di quelle che, espressamente, non comportano la formazione della preclusione a carico dell’attore. Di immediata evidenza sono, al riguardo, i casi legati alle attività probatorie compiute dal convenuto nella comparsa di risposta e, in particolare, quelli relativi alle produzioni documentali, per le quali la disciplina processuale prevede meccanismi di opposizione (disconoscimento, querela di falso), che la preclusione legale renderebbe inoperanti; ma anche la formulazione di eccezioni in senso lato può comportare l’allegazione di fatti, rispetto ai quali la preclusione della replica si traduce in compressione del diritto di difesa.
   In relazione a tali situazioni, la disciplina del processo commerciale, che ha una nel complesso sua ragione ispiratrice, ed una sua sistemica razionalità, si rivela incompleta. Né le superiori esigenze di rispetto del contraddittorio e di garanzia della difesa consentono di esprimere un giudizio di costituzionale compatibilità della normativa che, di fatto, preclude alle parti l’esercizio dei propri diritti processuali.
   Al riguardo, il Tribunale di Palermo sembra manifestare una certa “nostalgia” per il sistema del processo ordinario, nel quale le attività assertive e probatorie delle parti sono modulate in modo che le rispettive posizioni si definiscano e si completino, nel corso di più udienze, «attraverso progressivi aggiustamenti, in funzione delle allegazioni e delle istanze di parte avversa». Ma, come sopra è stato esposto, ciò corrisponde ad una logica completamente diversa (non migliore, né peggiore) da quella che sottende la novella disciplina del processo commerciale.
   Compito dell’interprete è, del resto, laddove possibile, ricostruire il significato della norma in direzione costituzionalmente orientata.
   Anche sotto tale profilo, sembra apprezzabile il provvedimento del Tribunale di Palermo, che ha ritenuto di estendere la facoltà di replica dell’attore anche ai casi in cui – pur non avendo formulato domande riconvenzionali, né eccezioni in senso stretto – il convenuto abbia «prospettato circostanze di fatto diverse, sollevato eccezioni rilevabili d’ufficio, prodotto documenti o chiesto prove costituende diverse dalla c.d. controprova».
   Benché ciò non tolga che, attesa la rilevanza dell’argomento e il “peso” delle interpolazioni necessarie a rendere costituzionalmente conforme la disciplina, un intervento additivo della Corte Costituzionale si possa ritenere auspicabile.

 

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