il diritto commerciale d’oggi
    V.2 – febbraio 2006

STUDÎ & COMMENTI

 

GIANLUCA BERTOLOTTI

Il curatore fallimentare nella riforma delle procedure concorsuali
(d. lgs. n. 5/2006)

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Soggetti legittimati alla nomina di curatore fallimentare. – 3. Il curatore fallimentare nel ruolo di “parte”. – 4. Curatore fallimentare e comitato dei creditori. – 5. Il rafforzamento degli obblighi informativi in capo al curatore fallimentare. – 6. Attività del curatore fallimentare e privacy del fallito. – 7. L’investimento delle liquidità disponibili in titoli di Stato.

 

1. Premessa
   Il sistema delle procedure concorsuali cambia.
In attuazione dell’art. 1, comma 5 della legge 14 maggio 2005, n. 80, il recentissimo d. lgs. del 9 gennaio 2006, n. 5 ha riscritto il r.d. n. 267 del 1942: le modificazioni introdotte dal d. lgs. n. 5 del 2006 alla vecchia legge fallimentare, infatti, sono innumerevoli e profonde.
   Ai nostri fini, e dunque per tratteggiare un quadro del “nuovo” curatore fallimentare, non occorre elencare tutte le novità recate dal citato decreto; indicare però anche solo alcune di quelle novità consente di avere un’idea dell’intensità del cambiamento e dunque di meglio comprendere il piano su cui si muove appunto il curatore fallimentare (1).
   In questa prospettiva è allora opportuno segnalare che il nuovo art. 1, nell’escludere i piccoli imprenditori dal novero dei “fallibili”, non distingue più tra imprenditore individuale e società (2).
   Ancora, si modifica la fattispecie del piccolo imprenditore sì che «non sono piccoli imprenditori gli esercenti un'attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente: a) hanno effettuato investimenti nell'azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila; b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila».
   La disposizione consente di percepire immediatamente l’intensità della rottura con il passato, dal momento che in definitiva incide sul c.d. presupposto soggettivo del fallimento.
Del resto, si può senza alcun dubbio affermare che le stesse finalità della procedura sono state innovate: evitare la disgregazione del complesso produttivo che fa capo al fallito, tentando al contempo una valorizzazione di quei beni, e in mancanza dei presupposti per procedere in quella direzione, provvedere alla liquidazione del patrimonio del fallito.
   In questo senso è illuminante l’art. 104-ter, secondo cui il curatore, nel predisporre il programma di liquidazione, può indicare l’opportunità di disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa, o di singoli rami di azienda, ovvero di autorizzare l’affitto dell’azienda, o di rami della stessa (art. 104-ter).
   Come sopra anticipato, in questa sede ci si limiterà ad alcune osservazioni sul “nuovo” curatore fallimentare.
   L’intento è modesto, ma pare di una qualche utilità perlomeno in questa fase di avvio della riforma, ed è quello di segnalare all’attenzione dell’interprete e dell’operatore alcuni tratti dell’anzidetto organo che sembrano “interessanti” e meritevoli di un’analisi più intensa di quella che qui si è in grado di svolgere.
   D’altra parte allo stato attuale, nonostante il dibattito che ha preceduto il d. lgs. n. 5 del 2006 sia stato lungo e approfondito (3), sarebbe illusorio credere che le soluzioni alle quali eventualmente si ritenesse di poter pervenire possano essere soddisfacenti: occorre, a tacer d’altro, verificare l’impatto della riforma sulla pratica e soprattutto osservarne con attenzione l’elaborazione giurisprudenziale.

2. Soggetti legittimati alla nomina di curatore fallimentare
   Chiariti dunque i limiti del presente lavoro, occorre anzitutto esaminare a quali figure professionali il legislatore della riforma consente di ricoprire l’ufficio di curatore fallimentare.
   Al riguardo si osserva che il nuovo art. 28 legge fall. amplia, rispetto alla disciplina previgente, il novero dei soggetti ai quali può essere affidato l’incarico di curatore fallimentare (4) .
   Sul “fronte” dei professionisti tale ampliamento si muove lungo due direttrici.
   Per un verso, infatti, la formula della norma in esame non ripropone più il divieto per il professionista che sia stato consulente del fallito o che comunque si sia “ingerito nell’impresa del medesimo durante i due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento” (professionista-consulente) di ricoprire l’incarico di curatore.
   Il professionista-consulente, secondo un criterio generale che coinvolge ogni soggetto astrattamente idoneo a svolgere l’ufficio di curatore fallimentare, non può essere curatore fallimentare solo quando abbia contribuito al dissesto dell’imprenditore: resta dunque irrilevante, sotto tale profilo, ogni altra relazione (eccezion fatta per la qualità di “creditore”, oltre che ovviamente per il grado di parentela nei limiti indicati dall’art. 28) tra fallito e professionista.
   Per altro verso, poi, il segnalato ampliamento appare conforme all’evoluzione (soprattutto normativa, si pensi alla abrogazione – per effetto dell’art. 24 della legge n. 266 del 1997 – dell’art. 2 della legge n. 1851 del 1939 che come è noto recava il divieto di svolgere la professione intellettuale in forma societaria e alla conseguente introduzione nell’ordinamento delle società tra avvocati di cui al d. lgs. n. 96 del 2001) delle modalità con le quali si svolge l’attività professionale: ciò spiega perché l’incarico di curatore fallimentare oggi può essere affidato anche a «studi professionali associati o società tra professionisti».
   Al riguardo sembra di poter ritenere che la violazione della regola secondo cui occorre designare «la persona fisica responsabile della procedura» (art. 28, lett. b, ultimo periodo) (5), trattandosi di regola per circoscrivere l’imputazione della responsabilità del curatore, non sia idonea a rendere inefficace la nomina a curatore dello studio professionale associato o della società di professionisti, ma abbia invece l’effetto di rendere responsabili tutti i membri appartenenti all’organizzazione professionale incaricata.
   La legge non dice se il soggetto responsabile può essere sostituito, ma la risposta affermativa pare scontata perché, opinando diversamente, sciolto il vincolo del responsabile con lo studio o con la società di professionisti incaricata della curatela l’incarico di curatore verrebbe meno (6).
   In apparente conformità alla legge di delega, che come è noto affidava a legislatore delegato il compito di annoverare tra i soggetti astrattamente idonei a ricoprire l’ufficio di curatore fallimentare anche «coloro che abbiano comprovate capacità di gestione imprenditoriale», l’art. 28 consente poi che siano nominati curatori coloro i quali, «dando prove di adeguate capacità imprenditoriali» abbiano svolto funzioni di «amministrazione, direzione e controllo» in società per azioni.
   Senza entrare nel merito delle scelte di politica legislativa, censurabili sia in punto di ratio, dal momento che la presupposta affinità tra le funzioni del curatore e l’attività imprenditoriale è tutt’altro che palese, sia per la genericità delle condizioni richieste (in che cosa deve consistere la prova per dimostrare che le capacità imprenditoriali sono “adeguate”?), è di tutta evidenza che il legislatore delegato ha creato una disparità di trattamento tra imprenditori individuali e soggetti che abbiano ricoperto “cariche” in società di persone e a responsabilità limitata, da una parte e coloro che invece abbiano ricoperto le stesse cariche in società per azioni.
   Tale disparità di trattamento, oltre che ovviamente non in linea con l’art. 3 della cost., non appare neppure conforme al ricordato criterio di delega.
   Inoltre, resta arduo spiegare (e conseguentemente appare di dubbia opportunità la previsione di affidare l’incarico di curatore fallimentare a soggetti che abbiano svolto funzioni di controllo in società per azioni) in che cosa dovrebbe tradursi la “capacità imprenditoriale” quando riferita a soggetti che abbiano svolto funzioni di controllo (e non invece di gestione), anche in considerazione della circostanza che detto controllo è un controllo di legalità e non di merito sulle scelte gestionali.

3. Il curatore fallimentare nel ruolo di “parte”
   Non è questa la sede per redigere un inventario puntuale dei nuovi compiti del curatore fallimentare. È utile però pensare che allo stato attuale più che di ruolo del curatore sarebbe meglio discorrere dei “ruoli” del curatore.
   Il curatore fallimentare, infatti, ormai liberato dalla sua pregressa natura di appendice del giudice delegato (7) e divenuto vero e proprio motore della procedura (8), nel disegno complessivo della riforma assume anche funzioni e dunque un “ruolo” tipico della “parte”.
   Egli, infatti, con riguardo alle domande di insinuazione allo stato passivo può «eccepire i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere, nonché l’inefficacia su cui sono fondati il credito o la prelazione» e, ancora, in sede di impugnazione dei crediti ammessi è legittimato a contestare l’accoglimento della domanda di un creditore.

4. Curatore fallimentare e comitato dei creditori
   L’attività del curatore fallimentare non si svolge fuori da ogni controllo e anzi, se per un verso la riduzione dei poteri di controllo da parte dell’autorità giudiziaria potrebbe far pensare ad un organo dotato di maggiore autonomia rispetto a quello prefigurato dalla legge del 1942, uno sguardo più attento rivela che gli “altri controlli” rischiano paradossalmente di ingessare, ancor più di quanto accadeva nel vigore della vecchia disciplina, l’attività del curatore fallimentare.
   In particolare, il rafforzamento dei poteri del comitato dei creditori nei riguardi della curatela (9), può nei fatti incatenare la libertà dei movimenti del curatore fallimentare generando problematiche situazioni di stallo della procedura il cui esito finale sarà nella maggior parte dei casi la sostituzione del curatore “ribelle” con un soggetto più accondiscendente (10).
   Invero, dal momento che il curatore fallimentare deve operare con le autorizzazioni e i pareri del comitato dei creditori(art. 41) e può reclamare contro il diniego dell’autorizzazione o contro il comportamento omissivo del comitato stesso solo per violazioni di legge (art. 36), se il conflitto tra comitato dei creditori e curatore inerisce scelte di merito da effettuarsi nell’ambito della liquidazione delle attività del fallito, non vi può essere altro rimedio allo stallo della procedura se non che quello poc‘anzi segnalato della sostituzione del curatore.
   Tale ultima notazione induce a chiedersi, su un piano più generale, perché il legislatore della riforma chiede al curatore di avere competenze in qualche misura “imprenditoriali” e perchè lo ha voluto svincolare dalla mano forte del giudice delegato, che almeno in thesi garantiva indipendenza e imparzialità, se poi affida il curatore fallimentare alla vigilanza di un organo che in thesi cura i propri interessi (e dunque non è né può essere “indipendente”) e che oltretutto è in grado di rendere vane le scelte “gestionali” del curatore e dunque di menomarne ogni autonomia?
   Con ciò non si vogliono criticare le scelte di politica legislativa quanto piuttosto tentare di capire (ma è evidente, come detto, che allo stato attuale della riflessione solo di tentativo può trattarsi) in che direzione, al di là dei proclami, si muove effettivamente la riforma delle procedure concorsuali.
   In questo senso, allora, il rapporto comitato dei creditori - curatore fallimentare, nei limiti che si sono indicati, sembra confermare l’idea che la procedura fallimentare sia ora affare privato dei creditori (11).

5. Il rafforzamento degli obblighi informativi in capo al curatore fallimentare
   Forse, anche il rafforzamento del flusso informativo dal curatore agli altri organi si può leggere come effetto della privatizzazione della procedura.
   Si vuole dire che l’esigenza di un’azione trasparente dell’attività svolta dal curatore fallimentare diventa più forte perché occorre compensare con maggiori obblighi di rendicontazione il ruolo, se non “modesto”, sicuramente meno incisivo rispetto alla pregressa normativa della autorità giudiziaria.
   Sotto tale profilo la riforma incrementa, vuoi per quantità e vuoi per qualità, le informazioni che il curatore deve rendere, non più solo al giudice delegato, ma anche al comitato dei creditori che ha pure il potere di “formulare osservazioni scritte” (art. 33, ult. comma).
   Il maggior dettaglio della informazione da rendere determinerà tuttavia, in controtendenza con lo spirito della riforma, un incremento dei costi della procedura.

6. Attività del curatore fallimentare e privacy del fallito
   Sul fronte delle novità e con specifico riferimento agli strumenti d’intervento del curatore fallimentare nella vita privata del fallito merita poi di essere segnalata l’ eliminazione dalla relazione del curatore di ogni riferimento al tenore di vita del fallito e della sua famiglia (art. 33, comma 1).
   L’intervento è coerente con una delle linee portanti della riforma delle procedure concorsuali, e cioè con l’idea che l’imprenditore non deve ricevere il biasimo sociale a cagione del dissesto dell’impresa e che allora le restrizioni alla libertà personale del fallito, così come i controlli sulla sua sfera privata, non debbano avere carattere “afflittivo” ma, semmai, essere strumentali al soddisfacimento degli interessi del ceto creditorio (12).
   In tale prospettiva, del resto, la riforma ha introdotto alcune disposizioni reputate idonee a tutelare la privacy del fallito, e in particolare l’art. 33 che consente al giudice delegato di non rendere accessibili a terzi le parti relative ad eventuali responsabilità penali del fallito nonché le circostanze estranee “agli interessi della procedura”.

7. L’investimento delle liquidità disponibili in titoli di Stato
   Interessante è infine il ruolo del curatore nella valorizzazione della liquidità dell’impresa in crisi (art. 34).
   È vero infatti che al fine di ottimizzare le risorse finanziarie presenti nella massa fallimentare è il giudice delegato a poter disporre l’investimento delle liquidità disponibili in titoli di Stato.
   Tuttavia, la discrezionalità del giudice delegato appare comunque limitata dal momento che l’investimento in titoli di Stato delle risorse finanziarie è subordinato alla presenza di alcune condizioni: un giudizio prognostico del curatore sulla circostanza che dette somme non possano essere immediatamente destinate ai creditori e una sua apposita richiesta in tal senso, oltre ad una autorizzazione del comitato dei creditori.
   La valutazione in merito alla “disponibilità” delle somme e la richiesta di investirle in titoli di stato, nonostante il tenore letterale della disposizione in commento, sembra costituire un vero e proprio obbligo in capo alla curatela, con l’ulteriore conseguenza che un’inerzia ingiustificata potrebbe costituire fonte di responsabilità per il curatore fallimentare. Il curatore, infatti, ha ora una maggiore “libertà di movimenti” (rispetto a quella che gli era riconosciuta nella pregressa disciplina) al fine di valorizzare i cespiti del fallito nell’interesse del ceto creditorio: in questa prospettiva allora, non può ritenersi giuridicamente irrilevante un comportamento omissivo.

 

NOTE

   (1) Per un’analisi generale della riforma(in riferimento al testo approvato il 22 settembre 2005 dal Consiglio dei ministri e con particolare riguardo alle figure del “fallito, curatore e comitato dei creditori”) e per un raffronto sistematico con la disciplina previgente cfr. da ultimo G. CABRAS, La governance del fallimento nella riforma della legge fallimentare, in questa Rivista, n. 11 del 2005.

   (2) Il previgente art.1, del r.d. 16 marzo del 1942, n. 267, come si ricorderà, stabiliva che «in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali».
   Il dibattito suscitato dall’interpretazione di tale “infelice” disposizione è fin troppo noto per essere ricordato.
   È certo, però, che ormai da tempo era avvertita l’esigenza di sostituire il criterio “formale” ivi adottato con uno invece “sostanziale”, con un criterio cioè che condizionasse la fallibilità dell’impresa alle sue dimensioni a prescindere dalla forma giuridica dell’impresa stessa e dunque, in ultima analisi, a prescindere dalla circostanza che l’impresa fosse collettiva piuttosto che individuale.
   Di tale istanza si è fatta carico la legge di delega per la riforma delle procedure concorsuali. L’art. 1, comma 6, lett. a, n. 1 della legge n. 80 del 2005, infatti, aveva espressamente indicato tra i principi che avrebbe dovuto seguire il legislatore delegato nel riscrivere il sistema delle procedure concorsuali quello di «semplificare la disciplina attraverso l’estensione dei soggetti esonerati dall’applicabilità dell’istituto».
   In argomento, seppur con riferimento non già al d. lgs. qui in commento, sibbene allo schema di decreto legislativo approvato il 22 settembre 2005 dal Consiglio dei Ministri, cfr. M. IRRERA, Le imprese soggette a fallimento e l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento nello schema di decreto legislativo di riforma, relazione presentata al convegno “La riforma della legge fallimentare”, Milano 22,23 e 24 novembre 2005.

   (3) Cfr., da ultimo e in luogo di molti, gli atti del convegno “la riforma della legge fallimentare”, cit.

   (4) Nello schema di decreto legislativo approvato il 22 settembre dal Consiglio dei ministri era previsto che potessero ottenere la nomina a curatore fallimentare anche i falliti dotati di adeguate capacità imprenditoriali purché fossero decorsi dieci anni dalla dichiarazione di fallimento.
   Le pesanti critiche mosse a quella disposizione (in controtendenza cfr. L. PANZANI, Il curatore nella legge fallimentare, in www.ilfallimentonline.ipsoa.it, 2005, p. 7, nota 8, secondo il quale si sarebbe giunti ad un risultato “paradossale” perché «chi è stato dichiarato fallito non potrà mai aspirare alla nomina a curatore, situazione che rientra sicuramente nell’ambito delle sanzioni civili che il legislatore delegante intendeva eliminare») ne hanno provocato l’espunzione dal testo definitivo.

   (5) Secondo L. PANZANI, op. cit., p. 7, la disposizione sarebbe necessaria per la previsione di cui all’art. 32 secondo cui «il curatore esercita personalmente le funzioni del proprio ufficio e può delegare ad altri specifiche operazioni, previa autorizzazione del giudice delegato».

   (6) Nel senso del testo è orientato pure L. PANZANI, op. cit., p. 8 il quale considera «ragionevole ritenere che l’indicazione del soggetto responsabile possa essere variata».

   (7) Ciò peraltro non significa che il giudice delegato sia privo di poteri nei confronti del curatore fallimentare. Ai sensi dell’art. 108, ad esempio, il giudice delegato può sospendere le operazioni di vendita «qualora ricorrano gravi e giustificati motivi» e può impedirne il perfezionamento «quando il prezzo offerto risulti notevolmente inferiore a quello giusto, tenendo conto delle condizioni di mercato».

   (8) È il comitato dei creditori che «vigila sull’operato del curatore, ne autorizza gli atti ed esprime pareri nei casi previsti dalla legge» (art. 41). La disposizione e, in via generale, il maggior peso riconosciuto ai creditori nei confronti della curatela, si spiegano con la concezione privatistica del fallimento, ossia con l’idea che in definitiva il curatore «agisce come mandatario dei creditori e nell’interesse esclusivo di questi ultimi», in questo senso L. PANZANI “Il curatore nella riforma della legge fallimentare” op. cit., p. 5 secondo il quale il curatore sarebbe titolare di una posizione autonoma e il suo ruolo non sarebbe più ridotto «a quello di mero ausiliario della giustizia».

   (9) In argomento, in luogo di molti, cfr. da ultimo G. CABRAS, op.cit.

   (10) In questi termini si veda pure L. PANZANI, op cit., p. 6.

   (11) A proposito dell’impostazione adottata dalla vecchia legge fallimentare nota G. CABRAS, op. cit. che «in Italia l’interesse pubblico fa da padrone sulla gestione delle crisi di impresa; in particolare, è sospeso, per l’intera durata (invero, sempre più lunga) delle procedure concorsuali, il principio di autonomia. In tal modo, però, i conflitti tra debitore insolvente e creditori, anziché essere composti e risolti efficacemente, sono definiti in modo autoritario, senza dar voce, non solo al debitore, ma neppure ai creditori».

   (12) In proposito si vedano le riflessioni di G. CABRAS, op. cit., secondo il quale: «In definitiva, il fallito, pur privato del potere di disporre dei propri beni e di amministrare l’impresa, non è più totalmente estraniato da essa; egli è perciò responsabilizzato per collaborare e ricercare modi e forme per riallocare le risorse produttive, a vantaggio dei creditori e, in generale, del mercato. Ciò consente, non solo di considerare il fallito pienamente partecipe circa la sorte della sua impresa, ma anche di riconoscergli poteri che non intacchino il soddisfacimento dei creditori».

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