il diritto commerciale d’oggi
    V.1 – gennaio 2006

STUDÎ & COMMENTI

 

RITA GISMONDI

Prime applicazioni giurisprudenziali delle nuove norme
in tema di concordato preventivo

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Lo stato di crisi. – 3. I poteri del Tribunale. – 4. La relazione del professionista. – 5. Il pagamento dei creditori privilegiati.

 

1. Premessa
   A distanza di pochi mesi dall’entrata in vigore della c.d. “miniriforma” del 2005 (1) si registrano le prime applicazioni giurisprudenziali delle nuove norme in tema di concordato preventivo. Sono di seguito illustrate, senza alcuna pretesa di completezza, una serie di questioni controverse e di particolare interesse riguardanti la nuova procedura di concordato preventivo, alla luce delle prime decisioni dei giudici di merito.

2. Lo stato di crisi
   Come è noto, nel nuovo concordato preventivo sono venuti meno i requisiti di meritevolezza, di cui al previgente art. 160 legge fall., ed il presupposto per l’avvio della procedura non è più lo stato di insolvenza, bensì lo stato di crisi. A voler tacere, per il momento, del recente intervento correttivo operato dal Legislatore (che ha chiarito, come si vedrà meglio fra breve, che nello stato di crisi è ricompreso anche lo stato di insolvenza) (2) , le nuove norme non contengono una definizione di crisi e non ne specificano la natura e le caratteristiche, né la eventuale differenza rispetto all’insolvenza. Tale circostanza comporta inevitabilmente che la nozione di crisi fosse sia individuata e formulata sul piano giurisprudenziale, con conseguente rischio di oscillazioni e di decisioni contrastanti.
   Ed invero, alcuni Tribunali hanno ritenuto che lo stato di crisi non comprenda lo stato di insolvenza ed hanno quindi escluso, nel caso di specie, che la società richiedente, trovandosi in un univoco stato di insolvenza, potesse accedere al concordato. Si segnala, in particolare, una decisione del Tribunale di Treviso, secondo cui la nuova terminologia usata dal Legislatore in sostituzione dello stato di insolvenza giustificherebbe «una differenza concettuale tra i due termini». Il suddetto Tribunale ritiene, pertanto, che «in assenza di definizioni normative, si debba fare ricorso al contenuto economico del termine crisi, e cioè «una situazione di stallo dell’economia dovuta a fattori di breve periodo cioè a cause contingenti di squilibrio o inefficienza» che precede l’insolvenza stessa ma che tendenzialmente risulta reversibile» (3). In altri termini, se l’imprenditore desidera usufruire della procedura di concordato preventivo, dovrebbe attivarsi prima di arrivare ad una situazione di insolvenza conclamata, mentre, se è già insolvente, dovrebbe fallire.
   In realtà l’interpretazione che appare preferibile, in quanto maggiormente in linea con la ratio sottesa alle nuove norme (oltre prevalente, alla luce delle prime pronunce giurisprudenziali sul punto, nonché recentemente confermata dallo stesso legislatore in sede di interpretazione autentica), poggia su una nozione piuttosto ampia di crisi, tale da ricomprendere sia l’insolvenza propriamente detta, sia il pericolo o rischio di insolvenza, ovvero uno stato di squilibrio economico-finanziario che non è ancora insolvenza (si veda, a tal proposito, la nozione – peraltro non richiamata dalla novella del 2005 – contenuta nel testo c.d. di maggioranza elaborato dalla Commissione Trevisanato, secondo cui per crisi dovrebbe intendersi una «situazione patrimoniale, economica o finanziaria in cui si trova l’impresa, tale da determinare il rischio di insolvenza»). La nozione di crisi sembra rappresentare, quindi, un fenomeno più variegato e complesso dell’insolvenza, al fine di consentire un intervento già in situazioni di difficoltà e, quindi, ancor prima che il dissesto sia irrimediabile ed irreversibile.
    Pertanto, il dibattito sul punto è ora superato dalla interpretazione autentica di cui all’art. 36 del decreto legge 30 dicembre 2005, n. 273 (c.d. decreto milleproroghe), che ha introdotto nell’art. 160 legge fall. il seguente secondo comma: “Ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”.
   Già prima del citato intervento correttivo, del resto, la maggior parte delle decisioni in materia di concordato preventivo aveva aderito alla suddetta impostazione, ammettendo l’impresa richiedente alla procedura anche qualora la stessa si trovasse in uno stato di insolvenza tecnica o conclamata. Si segnala, in particolare, un decreto del Tribunale di Monza secondo cui lo stato di crisi «si ritiene comprenda, secondo un rapporto di genus a species, sia lo stato di insolvenza sia situazioni di squilibrio economico o di difficoltà finanziaria non ancora sfociate nell’insolvenza» (4).
   Nello stesso solco si pone il Tribunale di Sulmona: «si ritiene che il termine crisi, in assenza di una definizione normativa specifica, sia sinonimo di insolvenza, sì da ricomprendere sia l’insolvenza reversibile (temporanea difficoltà ad adempiere) sia l’insolvenza irreversibile di cui all’art. 5 legge fallimentare» (5); mentre secondo il Tribunale di Milano «il presupposto dell’apertura della procedura concordataria è lo stato di crisi, condizione che solo eventualmente coincide con lo stato di dissesto, potendo al contrario limitarsi ad integrare una diversa situazione di difficoltà finanziaria, non necessariamente prodromica allo stato di insolvenza» (6).
   La citata pronuncia del Tribunale di Milano contiene altresì l’affermazione (sia pure incidenter tantum) secondo cui, essendo mutato il presupposto per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo, la dichiarazione di fallimento, derivante dalla eventuale assenza delle condizioni di ammissibilità alla procedura, non sarebbe automatica: «In tale ultima ipotesi [situazione di difficoltà finanziaria diversa dall’insolvenza] non potrebbe scattare l’automatismo previsto dall’art. 173 comma 2 legge fall., ma soltanto l’adozione di un provvedimento di arresto della procedura, non seguito dalla dichiarazione di fallimento». In altri termini, «poiché, pur nel mancato coordinamento tra vecchie e nuove norme in materia di concordato preventivo, risultano (…) modificati i presupposti di ammissione al concordato rispetto a quelli previsti per la dichiarazione di fallimento, non sussiste più automaticità tra rigetto della domanda di concordato e dichiarazione di fallimento, onde gli atti andranno esclusivamente rimessi d’ufficio ex art. 8 legge fall. al tribunale fallimentare per l’instaurazione di autonoma istruttoria prefallimentare» (7).

 3. I poteri del Tribunale
   Alla luce del combinato disposto dell’art. 163 legge fall., nella sua nuova formulazione («Il Tribunale, verificata la completezza e regolarità della documentazione, con decreto non soggetto a reclamo, dichiara aperta la procedura»), nonché dell’art. 180, comma 4 legge fall. («Il Tribunale, se la maggioranza di cui al primo comma dell’art. 177 è raggiunta, approva il concordato con decreto motivato»), sembra doversi escludere che il Tribunale possa esercitare un controllo di merito sulla realizzabilità del progetto contenuto nella domanda di concordato.
   I poteri giurisdizionali appaiono più penetranti solo nel caso di suddivisione dei creditori in classi, dal momento che il Tribunale (i) è chiamato a valutare la correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi (art. 163, comma 1 legge fall.), e (ii) riscontrata in ogni caso la maggioranza di cui all’art. 177, comma 1 legge fall., può approvare il concordato nonostante il dissenso di una o più classi di creditori, se la maggioranza delle classi ha approvato la proposta di concordato e qualora ritenga che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano risultare soddisfatti in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili (art. 177, comma 2 legge fall.).
   Ed invero, già in due fattispecie, a quanto consta, l’organo giurisdizionale competente (rispettivamente, il Tribunale di Monza e quello di Torino) (8) ha avuto occasione di esercitare un controllo sui criteri di formazione delle classi, verificando, nel primo caso, che le stesse «risultano strutturate secondo posizioni giuridiche ed interessi economici omogenei» ed escludendo invece, nel secondo caso, l’ammissibilità del concordato, sulla base di una serie di considerazioni relative alla incapienza del patrimonio della società ricorrente per il pagamento integrale dei crediti privilegiati (si veda sul punto il successivo § 5).
   Al di fuori delle ipotesi di concordato basato sulla suddivisione dei creditori in classi, dalle prime esperienze applicative emerge che «la verifica (…) della completezza e regolarità della documentazione esaurisce i compiti del Tribunale nella fase dell’ammissione, essendo demandato al commissario giudiziale ogni approfondimento in ordine sia alla veridicità dei dati sia alla fattibilità del piano» (9). Lo stesso Tribunale, peraltro, ha avuto modo di precisare, in una pronuncia successiva ma relativa alla stessa vicenda, che «nel contesto di una disciplina volta a valorizzare al massimo la volontà delle parti (sia pure esprimentesi sul lato dei creditori a maggioranza) la funzione di garanzia del tribunale non possa essere ridotta alla verifica dell’avvenuto deposito di un ricorso e di alcuni documenti la cui denominazione risulti corrispondente all’elenco di cui all’art. 161 legge fall., ma debba concretizzarsi: a) nella verifica della completezza e della regolarità dei documenti sotto il profilo della loro idoneità a svolgere la funzione informativa e dimostrativa che la legge loro attribuisce ai fini dell’ammissione dell’imprenditore alla procedura; b) nell’assicurare che la relazione del commissario giudiziale fornisca ad ogni singolo creditore tutti gli elementi informativi necessari per il compimento pienamente consapevole delle valutazioni demandategli in ordine alla convenienza della soluzione proposta; c) nell’interrompere in qualunque momento la procedura laddove dalle comunicazioni del commissario emergano elementi che dimostrino che il piano proposto non è fattibile e, quindi, sia venuta meno la condizione di ammissibilità, anche se nel frattempo il concordato sia già stato approvato dai creditori e sia in corso il giudizio di omologa» (10).
   Non sono mancate, tuttavia, decisioni che, facendo leva sul disposto dell’art. 162 legge fall., lasciato immutato dalla riforma del 2005, hanno ritenuto che sia ancora consentito al giudice di sindacare nel merito il contenuto della domanda. Secondo il Tribunale di Sulmona, ad esempio, «il tribunale non può limitarsi ad un controllo formale di regolarità e completezza della documentazione depositata, ma deve svolgere un controllo di merito sulla fattibilità del piano e sulle attestazioni di veridicità dei dati aziendali» (11). Nella decisione citata, in particolare, gli elementi dai quali viene fatta derivare la sussistenza di un controllo più pregnante da parte del Tribunale sono: (i) la possibilità per il Tribunale di nominare, ove occorra, un esperto ex art. 68 c.p.c., ovvero di disporre una CTU; (ii) il sindacato di merito riservato al Tribunale in ordine al c.d. cram down, nel caso in cui vi sia dissenso di una o più classi di creditori sull’accordo; (iii) la circostanza che «l’art. 162 legge fall., che attribuiva compiti di controllo sostanziali al Tribunale, seppure del tutto svuotato di significato, in quanto i riferimenti all’art. 160 legge fall. sono ormai ultronei (essendone profondamente cambiato il contenuto), non è stato espressamente abrogato dal Legislatore; il che induce a ritenere che la novella non ha cancellato il controllo di merito spettante al Tribunale».
   Si veda altresì una decisione del Tribunale di Salerno, emanata nello stesso periodo, secondo cui «Il tribunale, in relazione alla istanza di ammissione alla procedura di concordato preventivo, può esercitare sulla proposta concordataria un controllo di merito, oltre che di legittimità, diretto ad un proprio riscontro sulla completezza e correttezza dei dati contabili esposti e sulla prognosi di concreta realizzabilità del piano, con particolare riguardo alla salvaguardia delle ragioni dei creditori privilegiati non ipotecari non partecipanti al voto» e «la funzione di vaglio preliminare rimessa al tribunale non si estrinsecava prima della riforma legislativa e non si manifesta ora in un mero giudizio di legittimità della proposta. Oggi involge ancora seppure in presenza della relazione di un professionista che attesta la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo, in taluni casi l’apprezzamento del merito della serietà delle garanzie offerte dal debitore ed, in altri, la valutazione della sufficienza dei beni ceduti a realizzare il piano descritto nel ricorso» (12).
   Alla luce delle pronunce da ultimo citate, presumibilmente ispirate alla esigenza di resistere al ridimensionamento dei poteri dell’autorità giudiziaria, è innegabile l’esistenza di un contrasto (o, quanto meno, di un non allineamento) giurisprudenziale. Sembra opportuno rilevare, richiamando una autorevole opinione dottrinale, che l’art. 162 legge fall. (dal quale la giurisprudenza citata vorrebbe far derivare poteri di controllo ben più penetranti in capo al giudice) dovrebbe in realtà intendersi come implicitamente abrogato (13). Non sarebbe comprensibile, del resto, la scelta di demandare al Tribunale il controllo sulla mera completezza e regolarità della documentazione allegata alla domanda, ai sensi dell’art. 163, comma 1 legge fall., se poi il suddetto organo avesse anche il potere di sindacare il merito della proposta di concordato.

4. La relazione del professionista
   Connessa al tema dei poteri che il Tribunale può esercitare nel contesto della nuova procedura di concordato preventivo è la questione del contenuto della relazione del professionista, di cui all’art. 161, comma 3 legge fall., nonché della verifica che la suddetta relazione contenga valutazioni serie ed effettive in ordine alla veridicità dei dati aziendali ed alla fattibilità del piano.
   Si veda, al riguardo, una decisione del Tribunale di Monza secondo cui «l’accertamento della sussistenza della condizione [della fattibilità del piano, necessaria per l’ammissione alla procedura] è operata dal tribunale mediante la verifica dei requisiti di completezza e regolarità della documentazione prodotta, da valutarsi, per quanto riguarda in particolare la relazione del professionista, sotto il profilo dell’iter logico dell’argomentazione che sorregge l’attestazione di fattibilità, per cui il ricorso deve essere dichiarato inammissibile quando la relazione non soddisfa questo requisito» (14).
   Si segnala altresì una recente pronuncia del Tribunale di Pescara, secondo cui la relazione del professionista «non può limitarsi ad attestare genericamente la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano o a prendere in considerazione dati meramente formali, ma deve contenere la motivazione sostanziale ed oggettiva della attestazione di veridicità ed avere riguardo ai dati contabili ed extracontabili relativi alla azienda del debitore necessari per la formulazione di un giudizio serio ed approfondito sulla fattibilità del piano. Pertanto, relazioni generiche, approssimative, immotivate o meramente ripetitive delle previsioni del piano proposto dal debitore, senza alcuna valutazione critica e ragionata dello stesso, non possono superare il vaglio di completezza e regolarità rimesso al tribunale» (15).
   Il Tribunale di Torino non ha ritenuto sufficiente un mero rinvio alla contabilità aziendale contenuto nella relazione del professionista, la quale, «essendo diretta a sostituire l’attività istruttoria del tribunale e a garantire che i creditori siano adeguatamente e correttamente informati sugli esatti termini della proposta, non può essere un mero atto di fede dei dati aziendali» (16). In altri termini, «anche se la legge non precisa la natura e soprattutto i limiti degli accertamenti affidati al professionista, è evidente che, se al predetto viene demandata l’attestazione della veridicità dei dati, ciò non può che essere il risultato di qualche forma di verifica: limitarsi, pertanto, a riferire che i dati sono stati recepiti dalla contabilità dell’imprenditore, senza alcun controllo, significa sfuggire alla funzione, quale prevista dalla legge».
   Nel caso di specie il Tribunale di Torino ha accertato, in particolare, che nella relazione «si fa ancora rinvio al recepimento dei dati aziendali, ma con una valutazione di attendibilità, sorretta da una discussione critica delle voci più rilevanti dello stato patrimoniale che appare idonea, da un lato, ad ancorare la responsabilità del referente ad una sua effettiva prestazione professionale e, dall’altro, a consentire di qualificare il contenuto della attestazione come non meramente apparente». Pertanto, l’autorità giudiziaria non sembra poter sovrapporre il suo giudizio a quello del professionista incaricato della relazione (professionista che rimane l’unico soggetto responsabile delle attestazioni che rilascia), ma è chiamata in ogni caso a verificare che tale controllo sia stato un controllo effettivo, serio e critico. Fermo restando, quindi, che la questione del grado di approfondimento degli accertamenti contenuti nella relazione è rimessa alla discrezionalità professionale dell’incaricato (con conseguenti eventuali profili di responsabilità in capo allo stesso), il giudice deve valutare la completezza e l’attendibilità della relazione del professionista e la discussione critica sottesa alle relative attestazioni.
   Sotto un diverso profilo, il Tribunale di Milano ha qualificato la relazione del professionista come «elemento di validità (regolarità) della domanda che nulla ha a che vedere con i presupposti di ammissibilità [della domanda di concordato], da cui la conseguenza che il vizio della relazione [nella specie, la carenza dei requisiti soggettivi richiesti per la redazione della relazione] integrerebbe una invalidità del ricorso che, non essendo sanzionata espressamente, non potrebbe che risolversi in una mera irregolarità», come tale sanabile anche in una fase successiva all’apertura della procedura (nel caso di specie, mediante deposito di una nuova relazione redatta da un professionista che, a differenza del precedente, possedeva tutti i requisiti soggettivi previsti dalla legge). La relazione del professionista, essendo contemplata nell’ambito della normativa inerente alla domanda di concordato (art. 161) e non di quella relativa alle condizioni per l’ammissione alla procedura (art. 160), sarebbe quindi «un elemento cui si condiziona semplicemente la validità formale della domanda e non già la sostanziale ammissibilità del ricorso alla procedura di concordato» (17).
   Si può ipotizzare, peraltro, che assumerà particolare rilevanza nel prossimo futuro la questione dei requisiti soggettivi che devono sussistere in capo al professionista incaricato di attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, atteso che l’art. 161 comma 3 legge fall. richiama espressamente l’art. 28 legge fall. relativo ai requisiti per la nomina a curatore, norma profondamente modificata in sede di attuazione della delega per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali (18).

5. Il pagamento dei creditori privilegiati
   Le prime decisioni giurisprudenziali successive all’entrata in vigore delle nuove norme in materia di concordato preventivo sembrano orientate nel senso di ritenere ancora applicabile la regola del soddisfacimento integrale dei creditori privilegiati, come conseguenza della loro mancata partecipazione al voto, sebbene da più parti siano stati sollevati dubbi in merito alla scelta del Legislatore di non consentire il pagamento in percentuale anche dei creditori privilegiati, a fronte di una procedura liquidatoria che difficilmente sarebbe in grado di assicurare ai creditori privilegiati un trattamento effettivamente più conveniente.
   Come è noto, nell’art. 160 legge fall. non si fa più alcuna menzione delle percentuali di soddisfazione del ceto creditorio (ed, in particolare, del 40% dei crediti chirografari): «resta, però, necessario il soddisfacimento integrale dei creditori privilegiati che, anche nella nuova versione del concordato, ispirata ad una valorizzazione degli accordi tra debitore e creditori e ad una minore incisività dei poteri del tribunale, sono esclusi dal voto» (19). In altri termini, si ritiene che «in assenza di precise disposizioni normative (…) non si possa derogare alle disposizioni di legge attinenti la tutela privilegiata di alcuni crediti» e che «i creditori privilegiati debbano essere integralmente soddisfatti, salvo quelli che si siano avvalsi della facoltà di chiedere di poter essere ammessi ad esercitare il diritto di voto» (20).
   Particolare rilevanza assume la posizione assunta dal Tribunale di Torino che, nell’ambito della valutazione dei criteri di formazione delle classi ed, in particolare, con riferimento alla ipotesi di pagamento in percentuale dei crediti privilegiati (ipotesi prospettata dalla società ricorrente sul presupposto della incapienza del patrimonio anche per i tali crediti, con la conseguenza che questi ultimi si ridurrebbero di fatto a crediti chirografari e che il privilegio sussisterebbe solo nei limiti della capienza), si è pronunciato nel senso della esclusione di un pagamento parziale dei suddetti crediti (21).
   Nella decisione in esame si legge, in particolare, che «L’interprete, procedendo innanzitutto ad un’analisi letterale, non può non valorizzare il disposto dell’art. 177 terzo comma (non sostanzialmente modificato dalla riforma, ma riscritto), in base al quale i creditori privilegiati non hanno diritto al voto, salvo che rinuncino al privilegio. Questa disposizione, anche per superare evidenti problemi di costituzionalità (artt. 3 e 24 Cost.), è sempre stata interpretata nel senso di ritenere che i creditori privilegiati, in quanto privi del diritto di voto, devono essere soddisfatti per intero e non sottostanno alla falcidia concordataria». Pertanto, «La previsione dell’art. 177 comma 3 legge fall. conserva la sua valenza di norma caratterizzante l’intera disciplina ed istitutiva di una condizione implicita di ammissibilità del concordato, la quale desume, dalla esclusione dal voto, l’esclusione dalla stessa portata negoziale del procedimento, e con essa dalla falcidiabilità, dei creditori privilegiati».
   A sostegno della propria decisione il Tribunale di Torino sottolinea, inoltre, che (i) se il Legislatore avesse voluto sancire la regola del pagamento parziale dei crediti privilegiati, lo avrebbe detto espressamente, e (ii) la volontà del Legislatore di “tener fuori” dal concordato i creditori muniti di privilegio appare confermata anche in sede di attuazione della delega per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali, ove in merito al concordato fallimentare è stato ribadito il principio secondo cui i creditori privilegiati non sono ammessi al voto, salvo espressa rinuncia al privilegio (cfr. il nuovo testo dell’art. 127 legge fall.).
   Con riferimento a tale ultimo profilo va segnalato, peraltro, che l’art. 127 legge fall., nella sua ultima formulazione (come risultante dallo schema di decreto legislativo approvato definitivamente dal Consiglio dei Ministri in data 22 dicembre 2005) prevede espressamente che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, dei quali la proposta di concordato prevede l’integrale pagamento, non hanno diritto al voto se non rinunciano al diritto di prelazione. Ed invero, il nuovo art. 124 comma 3 legge fall. dispone quanto segue: «La proposta può prevedere che i creditori muniti di diritto di prelazione non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di vendita, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile al cespite o al credito oggetto della garanzia indicato nella relazione giurata di un esperto o di un revisore contabile o di una società di revisione designati dal tribunale. Il trattamento stabilito per ciascuna classe non può aver l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione».

NOTE

   (1) Il riferimento è al decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante “Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale”, convertito con modificazioni nella legge 14 maggio 2005, n. 80.

   (2) Si veda l’art. 36 del decreto legge 30 dicembre 2005, n. 273 (“Definizione e proroga dei termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti”, c.d. decreto milleproroghe, in Gazzetta Ufficiale 30 dicembre 2005, n. 303).

   (3) Tribunale di Treviso, 22 luglio 2005 (decreto). Nello stesso senso si veda altresì Tribunale di Alessandria, 9 giugno 2005 (citato nell’articolo Concordato soltanto per le crisi, pubblicato su IlSole-24Ore del 16 novembre 2005).

   (4) Tribunale di Monza, 8 luglio 2005 (decreto). Nel caso di specie, peraltro, il Tribunale di Monza aveva accertato lo stato di insolvenza della società ammessa alla procedura di concordato preventivo, in relazione alla convalida ed alla esecuzione degli sfratti per morosità relativamente agli immobili in cui l’impresa svolgeva attività produttiva, alla revoca o al congelamento degli affidamenti, nonché alla interruzione di ogni attività produttiva.

   (4) Tribunale di Sulmona, 6 giugno 2005 (decreto), in Fallimento 2005, p. 793 ss.

   (6) Tribunale di Milano, 2 novembre 2005 (decreto), in Fallimento, 2005.

   (7) Così Tribunale di Treviso, 22 luglio 2005, cit.

   (8) Si vedano Tribunale di Monza, 8 luglio 2005, cit., e Tribunale di Torino, 17 novembre 2005, in Fallimento, 2005, con nota di Panzani.

   (9) Tribunale di Monza, 8 luglio 2005, cit.

   (10) Tribunale di Monza, 16 ottobre 2005, in Fallimento, 2005, p. 1402 ss.

   (11) Tribunale di Sulmona, 6 giugno 2005, cit.

   (12) Tribunale di Salerno 3 giugno 2005 (decreto), in Fallimento 2005, p. 1297 ss.

   (13) Panzani, Il D.L. 35/2005 e la riforma della legge fallimentare, in Fallimento, 2005; Bozza, L’organo deputato alla verifica della maggioranza nel nuovo concordato (commento a Tribunale di Sulmona, 6 giugno 2005), in Fallimento, 2005, p. 801 ss.

   (14) Tribunale di Monza, 16 ottobre 2005, cit.

   (15) Tribunale di Pescara (decreto), 21 ottobre 2005.

   (16) Tribunale di Torino, 17 novembre 2005, cit.

   (17) Tribunale di Milano, 2 novembre 2005 (decreto), in Fallimento, 2005, con nota critica di Panzani, secondo cui la relazione del professionista, unitamente alla documentazione di cui all’art. 161 comma 2 legge fall., è funzionale a consentire l’ulteriore svolgimento del procedimento e, quindi, dovrebbe essere intesa come requisito di ammissibilità o di procedibilità della domanda, piuttosto che di mera irregolarità.

   (18) Nel testo attualmente vigente, l’art. 28 legge fall. dispone che «Non può essere nominato curatore e, se nominato, decade dal suo ufficio, l’interdetto, l’inabilitato, chi sia stato dichiarato fallito o chi sia stato condannato ad una pena che importa l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici. Non possono inoltre essere nominati curatore il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado del fallito, i creditori di questo e chi ha prestato comunque la sua attività professionale a favore del fallito o in qualsiasi modo si è ingerito nell’impresa del medesimo durante i due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento».
   Il tenore del nuovo testo dell’art. 28 legge fall., contenuto nello schema di decreto legislativo approvato definitivamente dal Consiglio dei Ministri in data 22 dicembre 2005, è il seguente: «Possono essere chiamati a svolgere le funzioni di curatore: a) avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ragionieri commercialisti; b) studi professionali associati o società tra professionisti, sempre che i soci delle stesse abbiano i requisiti professionali di cui alla lettera a). In tal caso, all’atto dell’accettazione dell’incarico, deve essere designata la persona fisica responsabile della procedura; c) coloro che abbiano svolto funzioni di amministrazione, direzione e controllo in società per azioni, dando prova di adeguate capacità imprenditoriali e purché non sia intervenuta nei loro confronti dichiarazione di fallimento. Nel provvedimento di nomina, il tribunale indica le specifiche caratteristiche e attitudini del curatore. Non possono essere nominati curatore il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado del fallito, i creditori di questo e chi ha concorso al dissesto dell’impresa durante i due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, nonché chiunque si trovi in conflitto di interessi con il fallimento».

   (19) Tribunale di Sulmona, 6 giugno 2005, cit.

   (20) Tribunale di Salerno, 3 giugno 2005, cit.

   (21) Tribunale di Torino, 17 novembre 2005, cit.

 

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