il diritto commerciale d’oggi
    V.1 – gennaio 2006

STUDÎ & COMMENTI

 

GIOVANNI CABRAS

Le clausole statutarie di deadlock nella riforma del diritto societario *

 

Sommario: 1. Rimedi per il rischio decisionale nella prassi internazionale delle joint ventures: le situazioni di deadlock. – 2. La novella ed i conflitti nell’amministrazione di tipo personale delle società – 3. Questioni di legittimità costituzionale, criteri direttivi di delega ed ambito di applicazione della norma. – 4. Forma e contenuto della clausola statutaria. – 5. Criteri di nomina del terzo o dei terzi e requisiti per l’incarico. – 6. Svolgimento del procedimento per risolvere le dispute gestionali e decisione del terzo. – 7. Vincolatività della decisione; poteri e ruolo del terzo nella gestione della società. – 8. Riesame della decisione davanti ad un collegio ed impugnazione in sede giudiziaria. – 9. Natura giuridica e funzione dell’istituto nel sistema di amministrazione delle società.

 

1. Rimedi per il rischio decisionale nella prassi internazionale delle joint ventures: le situazioni di deadlock
   La riforma del diritto societario ha previsto, all’art. 37 del decreto processuale (d. lgs. n. 5/2003) una figura giuridica, definita nella Relazione illustrativa come “arbitrato economico”: invero, arbitrato in senso tradizionale, come vedremo più avanti, non è, pur avendo attinenza con esso; e, comunque, non è qualificabile come “economico”, ma semmai “gestionale”. La definizione di arbitrato economico riprende palesemente la terminologia impiegata in passato da un illustre giurista (Francesco Carnelutti) per operare una distinzione tra arbitrato ed arbitraggio a seconda del carattere giuridico o economico delle controversie; il medesimo dilemma si ritrova ora nei commenti al nuovo istituto, alla ricerca della sua natura giuridica.
   Per evitare di cadere in discussioni astratte, è opportuno, però, accantonare per il momento la questione definitoria e quella della natura giuridica, per procedere prima alla valutazione della disciplina positiva alla luce delle esperienze presenti nella pratica degli affari, specie internazionale, inquadrando la novella nella realtà economica e giuridica.
   A tal fine sembra utile svolgere preliminarmente qualche considerazione sulla funzione del decidere nell’amministrazione delle società e, quindi, sull’esigenza di sistemi che superino i contrasti eventualmente insorti nell’attività di gestione, quando tale funzione sia affidata a più soggetti e si presentino divergenze di opinione.
   Nelle iniziative economiche e, segnatamente, in quelle societarie la pluralità dei partecipanti e dei livelli decisionali può sollevare problemi di efficienza, in quando alla maggiore ponderazione, che il concorso di più persone e di più organi assicura, fa riscontro il rischio che non si riesca a trovare l’accordo sulla soluzione da seguire. È un rischio che è particolarmente avvertito negli organi operativi delle società, per le conseguenze disgregative cui conduce sull’attività d’impresa, e che si cerca solitamente di prevenire, ad esempio, stabilendo un numero dispari nella composizione del consiglio di amministrazione ovvero attribuendo statutariamente la prevalenza, in caso di parità di voti tra gli amministratori, al voto del presidente (c. d. clausola c.d. di casting vote, di cui è discussa l’ammissibilità).
   Nonostante le accortezze di tipo preventivo, il rischio d’impasse non può essere eliminato del tutto negli organi decisori; è possibile, però, disporre sistemi per superare lo stallo decisionale (deadlock nella terminologia internazionale), secondo ipotesi note alla pratica degli affari, specie nelle joint ventures. In questi contratti sono previste solitamente clausole che, in caso di disaccordo su scelte operative importanti (normalmente da adottate all’unanimità o con una maggioranza qualificata), impongono di rimettere la decisione ad esperti, incaricati di trovare la soluzione più opportuna, con poteri decisionali (in tal caso sarà emessa una “final and binding decision”) o semplicemente propositivi (in tal caso, il buon esito è affidato alla capacità degli esperti di indicare una soluzione che convinca tutte le parti).
   In tali clausole assumono importanza, da un lato, la determinazione delle situazioni di deadlock, al verificarsi delle quali la questione controversa è rimessa agli esperti, e, dall’altro, l’individuazione degli stessi esperti, con il sistema di nomina e la procedura da seguire davanti ad essi. A seconda dei poteri loro affidati, si parla, rispettivamente, di arbitration e di mediation, avvertendosi, però, che non si tratta di controversie in senso tecnico-giuridico, ossia di pretese esercitabili in sede giudiziaria (justiciable controversy).

2. La novella ed i conflitti nell’amministrazione di tipo personale delle società
   Le clausole dell’esperienza internazionale, finora sostanzialmente prive di riscontro nel nostro ordinamento (risulta un unico caso in cui era stata inserita una clausola di deadlock nell’atto costitutivo di una s.r.l., clausola, però, ritenuta inammissibile in sede di omologazione), sembrano ora regolamentate dalla riforma del diritto societario. Infatti, l’art. 37 prevede che nelle società a responsabilità limitata e nelle società di persone l’atto costitutivo possa contenere «clausole con le quali si deferiscono ad uno o più terzi, nominati da soggetto estraneo alla società, i contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione in ordine alle decisioni da adottare nella gestione della società» (1° comma), con una decisione vincolante, reclamabile davanti ad un collegio, soltanto se ciò sia previsto nello statuto sociale (2° comma).
   La Relazione al d. lgs. n. 5/2003, oltre a definire come “arbitrato economico” il nuovo istituto, ne ha giustificato l’introduzione, spiegando che esso si conforma «ai nuovi modelli di società, a cominciare da quello della s.r.l., in cui il potere di amministrazione può essere fortemente disarticolato, con corrispondente incremento delle possibilità di conflitto».
   È chiaro l’intento della Relazione illustrativa di giustificare l’applicazione della norma alle sole società a responsabilità limitata e personali, con correlativa esclusione delle società azionarie; tale giustificazione – invero discutibile, come vedremo tra poco – ha portato l’attenzione degli interpreti soprattutto sulla “disarticolazione” della funzione amministrativa, come è possibile nelle società di persone ed ora pure nelle società a responsabilità limitata, piuttosto che sull’organizzazione della stessa funzione, come avviene in tutte le società di capitali ed in quelle cooperative. In queste ultime due tipologie di società l’obbligo della collegialità, quando sono nominati più amministratori, e l’applicazione del metodo maggioritario non eliminano il rischio di stallo decisionale, anzi, danno luogo ad inconvenienti di gravità maggiore rispetto a quelli degli altri tipi di società, come emerge dalla pratica internazionale degli affari, in cui le clausole di deadlock sono usuali negli accordi parasociali e nelle joint ventures, con riferimento alla gestione di imprese in forma azionaria.
   Poiché è difficile ipotizzare che l’art. 37 sia stato introdotto nel nostro ordinamento, ignorando l’esperienza del deadlock-breaking system nei contratti internazionali e l’applicabilità alle Companies, si deve ritenere che il riferimento alle sole società di persone ed a responsabilità limitata sia stato previsto per motivi diversi dalla funzionalità dell’istituto.
   Peraltro, nei sistemi di amministrazione delle società personali, sistemi che ora possono essere adottati anche nelle s.r.l. (art. 2475, 3° comma, cod. civ.), operano già due regole che offrono rimedi alle possibili inefficienze gestionali del modello disgiuntivo e congiuntivo: in quello disgiuntivo, ciascun amministratore può opporsi all’operazione che un altro voglia compiere (e allora sull’opposizione decide la maggioranza dei soci: art. 2257, 3° comma, cod. civ.); nel modello congiuntivo, il singolo amministratore può compiere da solo atti, quando vi sia urgenza di evitare un danno alla società (art. 2258, 3° comma, cod. civ.).
   Se l’art. 37 ha inteso offrire uno strumento per comporre i contrasti gestionali non risolti con quelle due regole, la disposizione sembra scarsamente innovativa, poiché per le decisioni degli atti gestionali nelle società di persone il contratto sociale può richiedere, nell’ambito del sistema di amministrazione disgiuntiva, il consenso soltanto della maggioranza degli amministratori (art. 2258, 2° comma, cod. civ.); mentre, nel sistema di amministrazione disgiuntiva, la migliore dottrina da tempo ammetteva che i soci potessero deferire ad un terzo il compito di decidere, in loro vece, sul conflitto concretamente insorto tra gli amministratori.
   Certamente, è ipotizzabile che il legislatore abbia voluto offrire alle società amministrate in modo disgiuntivo o congiuntivo, in aggiunta a quei rimedi tradizionali, un altro strumento per il superamento dei conflitti gestionali, ma resta indiscutibile che lo stesso strumento è tratto da un armamentario tipico delle società di capitali e, comunque, si presta ad un più proficuo impiego per i conflitti gestionali sorti nell’ambito di amministrazione pluripersonale regolata dal principio di maggioranza. Peraltro, se si fosse voluto davvero riservare soltanto alle società con amministrazione congiuntiva o disgiuntiva il nuovo istituto, non sarebbe bastato escluderne l’applicazione alle società per azioni, perché anche le società a responsabilità limitata possono adottare il sistema maggioritario di amministrazione: anzi, questo è il sistema che si applica di default (art. 2475, 3° comma, prima parte, cod. civ.).
   In ogni caso, è privo di senso pensare che l’amministrazione di tipo personale (disgiuntiva o congiuntiva) comporti un «incremento delle possibilità di conflitto», siccome il rischio di impasse non è legato a tale sistema di amministrazione, ma è insito nell’affidare ad una pluralità, non molto elevata, di soggetti il compito di assumere decisioni, soprattutto se queste sono di carattere gestionale e, quindi, valutabili in modo assolutamente discrezionale, in base a criteri di opportunità e di scelte imprenditoriali.

3. Questioni di legittimità costituzionale, criteri direttivi di delega ed ambito di applicazione della norma
   La Relazione illustrativa ha cercato di valorizzare quel riferimento alle società personali ed a responsabilità limitata, come se la ratio della norma fosse legata ai caratteri – divenuti comuni, a seguito della riforma societaria – delle due tipologie societarie, indicando il fondamento del potere delegato nell’art. 1, 1° e 2° comma, della legge delega n. 366/2001 e così alimentando, però, forti dubbi di costituzionalità.
   Infatti, diversamente da quanto esposto nella Relazione illustrativa, né il 1° comma (secondo cui il Governo era delegato ad adottare decreti legislativi recanti la riforma organica delle società di capitali e delle cooperative) né il 2° comma (secondo cui il Governo era delegato a realizzare il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti) dell’art. 1, contengono alcuna indicazione al riguardo.
Ciò non significa che il nuovo istituto sia davvero incostituzionale per mancanza di delega, ma che bisogna trovare ad esso un diverso fondamento nella legge delega. In tal senso, uno spunto è dato dall’opinione, secondo cui l’art. 37 sembra appartenere più al diritto sostanziale che a quello processuale. Un altro spunto è dato dall’opinione, secondo cui gli statuti societari potevano già prevedere, pur in mancanza dell’art. 37, clausole volte a superare il deadlock nella gestione dell’impresa.
   In questa prospettiva, va considerato che la legge delega ha inteso – riguardo a tutte le società di capitali – «valorizzare il carattere imprenditoriale delle società e definire con chiarezza e precisione i compiti […] degli organi sociali (art. 2, 1° comma, lettera b), nonché «ampliare gli ambiti dell’autonomia statutaria, tenendo conto delle esigenze di tutela dei diversi interessi coinvolti» (art. 2, 1° comma, lettera d). Inoltre, la stessa legge delega ha previsto per le società per azioni «un assetto organizzativo idoneo a promuovere l’efficienza e la correttezza della gestione dell’impresa sociale» (art. 4, 2° comma, lettera b).
   L’art. 37 del d. lgs. n. 5/2005 costituisce perciò attuazione di quei principi, applicabili, invero, a tutte le società di capitali e, in particolare, alle società per azioni. Il riferimento normativo alle società a responsabilità limitata può allora spiegarsi in due diversi modi, ritenendo che il decreto legislativo:
   a) abbia voluto consentire, avvalendosi in modo limitato del potere delegato, le clausole di deadlock soltanto per le s.r.l. (e per le società personali, per la possibile comunanza del sistema di amministrazione), con esclusione allora delle società azionarie;
   b) oppure abbia voluto precisare, con un intento meramente ricognitivo, l’utilizzabilità di quelle clausole anche per i tipi di società, quali le s.r.l. e le società personali, nelle quali il sistema personalistico di gestione poteva far dubitare circa l’ammissibilità delle stesse clausole.
   Qualora si adotti la prima delle due alternative interpretative, si deve prendere atto che – sia pure per ragioni poco comprensibili – forme di soluzione dei conflitti gestionali possono essere previste negli atti costitutivi soltanto delle società personali e di quelle a responsabilità limitata, nonché delle società cooperative statutariamente assoggettate, ai sensi dell’art. 2519 cod. civ., alle norme su quest’ultimo tipo di società.
   A mio avviso, però, è preferibile la seconda delle due alternative sopra indicate, soprattutto tenendo conto che, diversamente, la nuova disposizione, oltre a presupporre un esercizio limitato del potere delegato, sarebbe in netta controtendenza rispetto all’ampliamento dell’autonomia privata, leitmotiv per l’intera riforma del diritto societario.
   Seguendo tale linea interpretativa, l’art. 37 si può applicare allora, oltre alle società personali, a tutte le società di capitali, comprese le società per azioni, ed alle società cooperative, in qualunque modo organizzate. Inoltre, inquadrando le clausole di deadlock nella tendenza all’ampliamento dell’autonomia privata, tale norma assume un valore suppletivo, ad integrazione della regolamentazione convenzionalmente adottata nell’atto costitutivo. Non c’è perciò da lamentare la lacunosità della disciplina legislativa.
   Tra le due soluzioni interpretative può ipotizzarsene una intermedia, ritenendo che nello statuto delle società per azioni possano introdursi sistemi per ovviare alle situazioni di stallo decisionale, alla stregua del diritto societario comune e senza essere soggetti alle regole dell’art. 37.
   Infine, va considerato che tale disposizione riguarda soltanto «i contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione». Sembra perciò esclusa l’applicabilità della norma ai contrasti tra soci, su questioni diverse dalla gestione della società; ciò può spiegarsi con il fatto che la legge delega si propone di promuovere l’efficienza, non già, in genere, delle società, ma – come già osservato – della gestione nell’impresa sociale (art. 4, 2° comma, lettera b).

4. Forma e contenuto della clausola statutaria
   Per l’introduzione, modificazione e soppressione della clausola, di cui all’art. 37 del d. lgs. n. 5/2003, non è prevista – a differenza dell’arbitrato societario (vedi art. 34 del medesimo decreto) – alcuna disposizione; è perciò completamente operante la disciplina delle modifiche statutarie, a seconda del tipo sociale in cui la stessa clausola è inserita. In particolare, i soci dissenzienti non beneficiano del diritto di recesso, salvo che lo statuto lo preveda espressamente.
   Le clausole in questione, siccome assumono la funzione di regola organizzativa della società (vedi, infra, § 9), devono avere la stessa forma e la stessa pubblicità dell’atto costitutivo o dello statuto, che contiene le norme relative al funzionamento della società; in tal modo esse acquistano efficacia reale, opponibile ai soci, agli amministratori ed anche ai terzi. Ciò non esclude che clausole analoghe possano essere previste in patti parasociali, con una efficacia meramente obbligatoria e, comunque, senza esplicare effetti per la società, la quale rimane terza rispetto a quei patti; in ogni caso a tali clausole non potrà applicarsi la disciplina dettata dall’art. 37, che ha il suo fondamento nel carattere statutario del sistema di composizione dei conflitti.
   Circa il contenuto della clausola, è riconosciuta ampia libertà ai soci nel predisporla. La novità della disposizione non consente di prevedere quali possano essere le previsioni statutarie; tuttavia, l’esperienza internazionale – salvo che si voglia disconoscerne l’influenza sul legislatore italiano – fornisce indicazioni per orientare la nostra prassi.
   Innanzitutto, le clausole solitamente definiscono la situazione di stallo decisionale, individuandola nell’impossibilità di adottare una decisione per la parità di voti favorevoli e contrari oppure anche per il mancato raggiungimento della maggioranza dei voti richiesta per legge o statutariamente.
   Nell’esperienza internazionale, la clausola di deadlock è generalmente abbastanza composita, nel senso che comprende, in via gradata, più soluzioni da seguire, in caso di impasse. Più precisamente, sovente si dispone che, in una prima fase, si cerchi di raffreddare (fase c.d. di cooling-off) la divergenza di opinioni, imponendo all’organo competente di riesaminare la questione controversa, dopo un nuovo approfondimento e sulla base di pareri e proposte di collaboratori o esperti esterni, ovvero portando la decisione ad un diverso livello decisionale (ad esempio, il consiglio di amministrazione rispetto al comitato esecutivo; l’assemblea dei soci rispetto al consiglio di amministrazione; ovvero il consiglio di sorveglianza rispetto al consiglio di gestione).
   Tale fase può essere prevista anche nel nostro ordinamento, con l’avvertenza che la seconda modalità (portare la questione all’esame dei soci) sembrerebbe contrastare, nelle società per azioni (ma non nelle società di persone ed ora neppure nelle società a responsabilità limitata), con il principio di esclusività circa le competenze gestorie degli amministratori. Ciò, però, non si presenterebbe soltanto nella fase di “raffreddamento” dell’impasse, ma, a maggior ragione, nella fase della decisione da parte del terzo ed anche per le società di persone.
   Occorre allora determinare meglio che cosa significhi deferire ad un terzo le dispute gestionali: è ipotizzabile, infatti, che egli eserciti i poteri propri dell’organo in situazione di stallo ovvero si limiti a scegliere una tra le proposte in contrasto. I commentatori della novella si sono orientati decisamente nel secondo senso, come vedremo tra poco (infra, § 7).
   Prima di trattare tale questione, è opportuno precisare le situazioni, in presenza delle quali può essere prevista l’applicazione della procedura di deadlock.
   Innanzitutto, la clausola deve determinare le decisioni (deliberazioni del consiglio di amministrazione o del comitato esecutivo ovvero del consiglio di gestione; e, nelle società per le quali le questioni gestionali possono essere demandate ai soci, deliberazioni assembleari o decisioni dei soci) e l’oggetto (tutti gli argomenti gestionali ovvero specifiche operazioni) rilevanti, in caso di impasse. In ogni caso, deve trattarsi di decisioni attinenti la «gestione della società» e, più precisamente, relative all’esercizio dell’impresa sociale, restando escluse – a mio avviso – le decisioni riguardanti l’organizzazione della società, attività che si contrappone a quella di gestione e che può essere definita di pura amministrazione.
   Sovente, si richiede che l’impasse si intenda esistente soltanto dopo almeno una ripetizione, in successive riunioni, del tentativo di decisione ovvero dopo l’esperimento del cooling-off.
   Inoltre, la clausola deve determinare chi e come possa dare l’avvio al procedimento, nonché le regole del suo svolgimento, come vedremo tra poco (infra, § 6).
   Infine, la clausola può specificare i criteri di valutazione, cui deve attenersi il terzo per la sua decisione. In particolare, può farsi riferimento a standard manageriali o tecnici (la best practice) ovvero a codici di comportamento stabiliti da ordinamenti professionali; sembra poco utile, invece, fare riferimento all’equo apprezzamento o all’equità, criterio che, in mancanza di diversa indicazione, il terzo dovrà comunque il seguire per la sua valutazione.
   Pertanto, l’articolazione della clausola statutaria può essere molto varia, in relazione alle particolari esigenze delle parti. È importante, tuttavia, che non si adotti una formulazione di stile, perché solo la specificità della stessa clausola assicura l’adeguatezza del rimedio per superare effettivamente e senza strascichi i conflitti nell’amministrazione delle società.

5. Criteri di nomina del terzo o dei terzi e requisiti per l’incarico
   L’art. 37 del d. lgs. n. 5/2005 stabilisce che i contrasti gestionali possano essere deferiti ad uno o più terzi. Non essendo prescritto, a differenza di quanto previsto per l’arbitrato societario (vedi art. 34 del medesimo decreto), uno specifico criterio di nomina del terzo (o dei terzi), possono essere adottati tutti i sistemi: a) designare il terzo, cui è rimessa la soluzione dei futuri conflitti, nella stessa clausola; b) designare ivi il soggetto, cui è demandata la nomina del terzo al momento di ciascun conflitto; c) demandare la nomina, volta per volta, ai soggetti che si trovino in conflitto.
   È stata ritenuta sconsigliabile la prima soluzione, siccome il terzo preventivamente designato potrebbe non essere disponibile all’occorrenza, ed anche l’ultima soluzione, siccome l’attualità del conflitto potrebbe rendere impossibile l’accordo sul terzo o sui terzi da nominare. Al riguardo è difficile dare indicazioni sulla formula preferibile per la nomina del terzo o dei terzi; può soltanto osservarsi che non esiste un criterio migliore in assoluto, perché la scelta del criterio di nomina deve essere perfettamente adeguata alla situazione concreta, in particolare, a seconda della composizione più o meno eterogenea dell’organo, del quale si intende superare lo stallo decisionale. Va segnalato, tuttavia, che nella prassi internazionale è frequente che la decisione sui contrasti sia rimessa ad un collegio di tre esperti, di cui due nominati dalle parti in conflitto ed un terzo dai primi due esperti.
   Nel caso in cui la nomina del terzo sia statutariamente affidata ad un soggetto diverso dalle parti che hanno espresso posizioni divergenti, non c’è motivo per pretendere che tale soggetto debba essere estraneo alla società (così, invece, è richiesto dall’art. 34 del d. lgs. n. 5/2005 per l’arbitrato societario); in particolare, deve ritenersi ammissibile che la clausola designi per tale incombenza anche un organo sociale.
   Come specificato dal 1° comma dell’art. 37, per dirimere la disputa gestionale può essere nominato un terzo o di più terzi; in quest’ultimo caso, non è necessario che essi siano in numero dispari. Qualora siano nominati più soggetti, questi costituiscono, come si ricava dal 3° comma della stessa norma, un collegio e, quindi, la loro decisione è adottata a maggioranza.
   Piuttosto, non è precisato se possa essere nominato come terzo soltanto un soggetto imparziale, nonché professionalmente qualificato. Indubbiamente, il terzo deve essere in grado di dirimere lo stallo gestionale e, quindi, deve avere le competenze necessarie per valutare le posizioni in contrasto ed adottare la soluzione più opportuna, con riferimento al caso concreto da decidere.
   Non potendosi assimilare la funzione del terzo ad un’attività giurisdizionale (qualunque sia la qualificazione del nuovo istituto), è da escludere che, in mancanza di un’indicazione legislativa o di prescrizione statutaria, il terzo debba essere imparziale. È sufficiente che egli si trovi in posizione di terzietà e, quindi, di indipendenza, rispetto ai soggetti in conflitto; sembra preferibile ritenere che si verifichi l’indipendenza anche rispetto alla società, per la quale la decisione deve essere adottata ed alla quale il terzo o i terzi devono essere estranei.
   La clausola statutaria può richiedere che il soggetto da nominare sia in possesso di specifici requisiti professionali o di particolari esperienze e conoscenze, specie sotto il profilo manageriale; nonché può richiedere che egli sia in posizione di imparzialità e neutralità rispetto alle questioni controverse ed alla società. In questo caso, va escluso che la decisione su scelte gestionali di carattere strategico possa essere rimessa ad un creditore o ad un finanziatore della società.
   Inoltre, deve ritenersi ammissibile che la soluzione del conflitto sia rimessa ad una persona giuridica (e non solo ad un suo esponente), ad esempio una società di consulenza o di revisione, non ricorrendo nell’istituto in esame le ragioni che inducono a ritenere preclusa la nomina di una persona giuridica direttamente quale arbitro.
   Ci si è chiesto se, nel caso in cui il soggetto incaricato di nominare il terzo non vi provveda ovvero gli interessati non raggiungano l’accordo sulla sua nomina, si possa ricorrere al presidente del tribunale, ai sensi dell’art. 810, 2° comma, cod. civ. La soluzione negativa di tale quesito è stata affermata da chi nega la natura arbitrale dell’istituto in esame; non si può trascurare, però, che, a parte il diverso riferimento normativo, l’attribuzione del potere di nomina al presidente del tribunale, in simili evenienze, è previsto pure per l’arbitraggio (art. 1473, 2° comma, cod. civ.). Sembra allora che il ricorso a tale ufficio giudiziario costituisca una regola generale, applicabile perciò tutte le volte occorre ovviare al mancato accordo delle parti per la nomina di un determinato soggetto.
   Pertanto, l’intervento sostitutivo del presidente del tribunale per la nomina del terzo o dei terzi nel procedimento di deadlock va riconosciuto, indipendentemente dalla qualificazione che si voglia dare alla nuova figura.

6. Svolgimento del procedimento per risolvere le dispute gestionali
   L’art. 37 del d. lgs. n. 5/2005 non chiarisce, inoltre, come il terzo o i terzi risolvano il conflitto nella gestione della società; la disposizione parla soltanto della decisione e dei suoi effetti, ma appare evidente che la stessa decisione costituisce l’esito di un procedimento, disciplinato unicamente dall’autonomia privata e, quindi, essenzialmente con disposizioni statutarie. Tale regolamentazione deve essere, però, coerente con il fine perseguito dall’istituto in esame.
   Innanzitutto, il procedimento per il superamento dello stallo decisionale può essere obbligatorio, con avvio automatico al verificarsi delle situazioni previste nella clausola; ovvero facoltativo, con avvio soltanto su ricorso dei soggetti coinvolti nella disputa e più interessati all’adozione della scelta gestionale. In quest’ultimo caso, l’atto costitutivo deve indicare i soggetti legittimati e le modalità per rimettere al terzo la questione controversa.
   Circa lo svolgimento del procedimento, si è ritenuto che questo debba assicurare il rispetto del contraddittorio. Invero, pur non essendoci nell’art. 37 nessuna indicazione, sentire coloro che hanno il potere amministrativo e sono tra loro in contrasto appare semplice conseguenza dell’affidare al terzo il compito di dirimerlo. Piuttosto, parlare di contraddittorio fa pensare ad una funzione giurisdizionale, che mal si addice all’istituto in esame, e, comunque, implica l’individuazione dei contraddittori quali parti del procedimento e destinatari dei suoi effetti. Invece, parte del procedimento per il superamento del deadlock è unicamente la società, che è vincolata alla decisione del terzo; vincolati sono pure gli amministratori o comunque coloro che hanno il potere gestori, ma solo indirettamente, quali componenti dell’organo deputato a darvi attuazione.
   Non sembra perciò ravvisabile nello svolgimento di tale procedimento un processo in senso tecnico-giuridico; in particolare, la partecipazione degli amministratori e soprattutto la parità della loro posizione nel procedimento non assurgono a caratteri essenziali dell’istituto. Infatti, il terzo è sì tenuto a sentire gli amministratori (o gli altri soggetti che hanno il potere di amministrazione), ma soltanto nello stesso modo ed allo stesso fine con cui egli deve esaminare gli atti ed i documenti relativi alla questione controversa per assumere in modo diligente la decisione.
   Tuttavia, è possibile che la clausola statutaria detti particolari prescrizioni per l’audizione degli amministratori, offrendo ad essi specifici poteri di intervento e di reazione nel procedimento e dando così luogo ad un contraddittorio, sia pure embrionale. Non può trattarsi, però, di contraddittorio in senso proprio e, conseguentemente, neppure in questo caso si instaura un processo.
   Inoltre, la stessa clausola può articolare più fasi e soprattutto stabilire tempi – necessariamente brevi – e modalità per lo svolgimento del procedimento. In mancanza di prescrizioni, questo deve svolgersi nel modo più semplice possibile, alla stregua del principio di efficienza e rapidità che guida le scelte gestionali nella amministrazione delle società, con l’unico obbligo per il terzo o i terzi di valutare le questioni da dirimere, previa acquisizione delle necessarie informazioni e dei documenti, nonché previa considerazione delle soluzioni già proposte. Logica conseguenza di tale impostazione è che il procedimento si svolge, salvo diversa disposizione statutaria, in forma orale.
   L’art. 37 non fissa regole per la forma della determinazione adottata dal terzo o dai terzi. Trattandosi, però, di una determinazione che assume le veci della decisione gestionale di più soggetti (deliberazioni del consiglio di amministrazione o del comitato esecutivo ovvero decisioni dei soci), destinate normalmente ad essere consacrate in un verbale o comunque in un atto scritto, è preferibile ritenere necessaria la forma scritta, con obbligo di riportare la stessa decisione, nelle società a responsabilità (nonché nelle altre società di capitali, qualora si ritenga di estendere ad esse l’istituto in esame), sul libro dei verbali, in cui sono contenute le decisioni amministrative.

7. Vincolatività della decisione: poteri e ruolo del terzo nella gestione della società
   L’art. 37, 3° comma, del d. lgs. n. 5/2003 prevede che clausola statutaria possa attribuire al terzo o ai terzi il potere di «dare indicazioni vincolanti anche sulle questioni collegate con quelle espressamente deferitegli». Se è possibile che il terzo dia indicazioni “vincolanti” sulle questioni collegate, a maggior ragione potrà darle sulla questione principale, salvo che lo statuto gli affidi una funzione meramente propositiva.
   Più precisamente, la decisione del terzo deve intendersi vincolante con riguardo alla questione, su cui si è verificato lo stallo decisionale, a meno che la clausola preveda diversamente; e può essere vincolante pure sulle questioni collegate, se così è stabilito dallo statuto.
   Ma qual è l’autonomia del terzo nell’adottare la decisione, quando è chiamato a dirimere i contrasti gestionali?
   Come si è anticipato, i commentatori della novella ritengono generalmente che il terzo possa scegliere soltanto una delle proposte in contrasto. Tale soluzione è giustificata con l’esigenza di evitare che gli amministratori siano esautorati dai loro compiti o possano essere chiamati a rispondere per scelte da altri compiute. Al fondo di queste opinioni c’è il timore che la clausola apra la strada ad una fraudolenta interposizione di terzi nell’amministrazione della società.
   A mio avviso, tutto ciò è frutto di vari equivoci.
   Il primo equivoco è quello di presupporre che gli amministratori possano essere chiamati a rispondere, con l’azione di responsabilità, per le loro scelte imprenditoriali, quali sono quelle su cui può sorgere una disputa da comporre con la clausola in questione (vedi, retro, § 4). Ancorché non espressamente indicato dal nostro ordinamento, a differenza di altri (vedi, in particolare, il Business Judgement Rule negli Stati Uniti), la responsabilità degli amministratori non attiene al merito delle scelte gestorie, che sono insindacabili, ma eventualmente al modo (cautele, informazioni, pareri tecnici) di adottarle, come è confermato ora, per le società per azioni, dall’obbligo degli amministratori di «agire in modo informato» (art. 2381, 6° comma, cod. civ.).
   In questa prospettiva, non c’è da sorprendersi che lo statuto possa rimettere la decisione su questioni gestionali controverse ad un terzo: infatti, in tal modo gli amministratori non vengono esautorati – neppure temporaneamente – dei loro poteri, perché li hanno già esauriti, esercitandoli nell’ambito della disputa; né rispondono per scelte altrui, perché si tratta di scelte necessariamente insindacabili. Semmai dubbi potrebbero sorgere nelle società di persone, dal momento che la scelta gestionale, pur insindacabile nei riguardi degli amministratori sotto il profilo della loro responsabilità, porta al compimento di operazioni, suscettibili di provocare perdite, delle quali rispondono i soci illimitatamente responsabili, in apparente contrasto con il principio, secondo cui nelle società personali l’amministrazione, per assicurare una correlazione tra gestione e responsabilità, non potrebbe essere affidata a soggetti estranei.
   Ecco, l’art. 37 del d. lgs. n. 5/2003, proprio con il riferimento alle società di persone, ha inteso sciogliere quei dubbi e soprattutto ha inteso riconoscere la funzione tipicamente organizzativa della clausola.
   Ma anche qualora si ritenga che le scelte di gestione possano essere talvolta fonte di responsabilità per gli amministratori, non mi sembra che sussistano preclusioni a rimettere la decisione su di esse, in caso di impasse, ad un terzo, siccome a questo è affidato il compito di stabilire la scelta più idonea (impugnabile, in caso di mala fede: vedi, infra, § 8), la cui attuazione è comunque rimessa agli amministratori.
   Peraltro, in linea generale, tanto nelle società di persone, quanto in quelle di capitali, non è vietato agli amministratori di demandare a terzi la determinazione di specifiche questioni. Ciò può avvenire, banalmente, quando la società nomini un mandatario per il compimento di specifici atti, senza dettare alcuna istruzione; ovvero quando la società affidi ad un terzo il compito di determinare la prestazione di un contratto (art. 1349 cod. civ.): ipotesi pacificamente ammesse nelle imprese esercitate da società. Parimenti, nelle società, ed anche in quelle di capitali, è affatto pacifico che gli amministratori possano delegare a collaboratori (talvolta dotati di piena autonomia decisionale, quali i dirigenti: art. 2095 cod. civ.) importanti funzioni gestionali, come forma di organizzazione dell’impresa.
   A maggior ragione, è possibile nelle società rimettere a terzi specifiche questioni gestionali, per superare uno stallo decisionale.
   In relazione a ciò, non ha senso limitare la decisione del terzo o dei terzi alla scelta tra le sole proposte in conflitto, perché si limiterebbe ingiustificatamente il contributo di tali soggetti alla soluzione della questione controversa, soluzione che, nell’interesse della società, può essere altra, rispetto agli orientamenti degli amministratori; talvolta, la soluzione preferibile è proprio quella diversa dalle proposte degli amministratori in disaccordo.
   D’altronde, l’art. 37 del d. lgs. n. 5/2005 parla di “questioni deferite”, espressione che rivela come al terzo sia rimesso di valutare un problema gestionale (una o più questioni) e non già soltanto le soluzioni in contrasto.
   Inoltre, se al terzo fosse precluso di decidere in modo diverso dai corni del dilemma indicati dagli amministratori, non si comprenderebbe come sia consentito attribuire statutariamente al medesimo terzo il potere di dare indicazioni vincolanti su questioni collegate, presumibilmente neppure in discussione. Il fatto è che la decisione del terzo non ha per oggetto diritti soggettivi, spartendo il torto dalla ragione, ma scelte gestionali e, quindi, essenzialmente determinazioni di carattere imprenditoriale; quel che importa è che siano adottate tali scelte, superando i contrasti nel migliore modo possibile per la società: ciò avviene con l’indicazione della soluzione – anche al di fuori di quelle in contrasto – ritenuta dal terzo più opportuna.

8. Riesame della decisione davanti ad un collegio ed impugnazione in sede giudiziaria
   L’art. 37, 2° comma, del d. lgs. n. 5/2003 prevede che la clausola statutaria stabilisca la possibilità di reclamare la decisione del terzo davanti ad un collegio. Anche in questo caso il procedimento di riesame è rimesso completamente all’autonomia privata, in sede statutaria, non solo per quanto riguarda i termini e le modalità di svolgimento del riesame, ma pure per quanto riguarda la composizione del collegio di riesame e la determinazione dello stesso collegio.
   La norma in questione si limita a disporre che il riesame sia affidato ad un collegio, ossia ad una pluralità di terzi, che decidono perciò secondo il principio maggioritario. Circa i criteri di nomina ed i requisiti per l’incarico a tali soggetti, valgono le considerazioni già svolte per il terzo, la cui decisione è soggetta al riesame (vedi, retro, § 5).
   In mancanza di diversa indicazione statutaria, il riesame può riguardare, tanto i vizi del procedimento già svolto, quanto l’inopportunità gestionale della soluzione adottata dal terzo. Si instaura così un procedimento di secondo grado, al cui svolgimento si applicano, salvo diversa disposizione, le medesime regole della prima fase (vedi, retro, § 6).
   In sede di riesame, il collegio emette, a sua volta, una decisione, confermando quella del primo grado, ovvero discostandosene, con l’indicazione di una diversa soluzione gestionale. Anche la nuova decisione ha carattere vincolante, salvo diversa disposizione della clausola, non essendo ipotizzabile che essa abbia una efficacia meno forte della prima (vedi, retro, § 7).
   Inoltre, l’art. 37, 4° comma, prevede l’impugnazione delle decisioni rese nei procedimenti di deadlock, con rinvio alla disposizione in tema di determinazione della prestazione contrattuale rimessa al mero arbitrio del terzo (art. 1419, 2° comma, cod. civ.). Tale disposizione, non contenuta nello schema iniziale di decreto legislativo, è stata introdotta su sollecitazione della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, che lamentava la mancanza di un rimedio giurisdizionale. Al riguardo la Relazione illustrativa del d. lgs. n. 5/2003 ha precisato che in accoglimento di tale rilievo, è stata disposta «l’impugnabilità per “mala fede” della risoluzione del contrasto quando affidata al “mero arbitrio” del terzo».
   La spiegazione è alquanto ambigua; non si capisce, infatti, se la decisione sia impugnabile soltanto per mala fede, qualunque sia il criterio di valutazione attribuito al terzo, ovvero unicamente quando la determinazione sia rimessa al suo mero arbitrio.
   Quest’ultima interpretazione, però, non può essere accolta, in quanto l’art. 37 del d. lgs. n. 5/2003 ha richiamato l’art. 1419, 2° comma e non il 1° comma, che riguarda l’impugnazione per manifesta iniquità o erroneità della determinazione del terzo. Pertanto, la decisione del terzo nei contrasti gestionali può essere impugnata in sede giurisdizionale soltanto per mala fede del medesimo terzo.
   D’altronde, se per la determinazione della prestazione contrattuale ad opera di un terzo è possibile distinguere tra arbitrium boni viri e merum arbitrium ai fini dell’ambito di impugnabilità (più ampio nel primo caso e meno ampio nel secondo), per le decisioni sui contrasti decisionali nella amministrazione di una società è praticamente impossibile distinguere tra equo apprezzamento e mero arbitrio, trattandosi di compiere una scelta imprenditoriale, quanto mai opinabile e soprattutto solitamente insindacabile. La novella ha voluto allora precisare che, qualunque sia il criterio di valutazione affidato al terzo, la sua decisione è impugnabile sempre e soltanto per mala fede.
   Nel caso in cui la clausola preveda il riesame da parte di un collegio, è impugnabile in sede giurisdizionale la decisione di questo e non la decisione di primo grado.
   In ogni caso, l’impugnazione può essere proposta soltanto dalla società, la quale, come si è detto, è parte del procedimento volto a superare lo stallo decisionale. Il giudizio, che ha per oggetto l’accertamento circa la mala fede del terzo (o del collegio) nella decisione resa nel predetto procedimento e non già la pronuncia di una nuova decisione, appartiene alla competenza dell’autorità giudiziaria e sembra soggetto al rito del processo in materia commerciale (d. lgs. n. 5/2003).
   In sede di impugnazione, inoltre, la società può far valere la responsabilità del terzo (o del collegio), secondo le regole del mandato, qual è il rapporto che si instaura tra la società ed il soggetto o soggetti incaricati di dirimere i contratti gestionali. È da escludere, comunque, che il terzo risponda della scelta operativa da lui indicata e, più precisamente, delle conseguenze eventualmente negative che ne derivino.
   Infine, si è ritenuto che la controversia sulla decisione del terzo possa essere rimessa per arbitri; è opportuno, però, precisare che tale controversia non rientra, qualora lo statuto della società comprenda una clausola compromissoria, nell’arbitrato societario, siccome il terzo (o il collegio) non è vincolato, in quanto terzo, a tale clausola. Pertanto, la devoluzione in arbitrato è possibile soltanto sulla base di un compromesso stipulato tra il terzo e la società ovvero sulla base di una patto compromissorio previsto nel mandato conferito al terzo (o al collegio).

9. Natura giuridica e funzione dell’istituto nel sistema di amministrazione delle società
   Completato l’esame dell’art. 37, si può tentare di dare una qualificazione alla figura ivi prevista.
Secondo l’opinione prevalente il procedimento in questione è una forma di arbitraggio o di arbitramento, mancando una controversia su diritti; mentre, secondo una diversa opinione, esso configura una forma di arbitrato, essendo comunque rivolto a risolvere un conflitto e non già ad integrare un negozio incompleto. Secondo un’ulteriore opinione, si tratta di un istituto totalmente nuovo, non essendo perfettamente inquadrabile in altri già noti.
   Invero, il problema della qualificazione si è presentato nelle clausole di deadlock pure nell’esperienza nordamericana, di più lunga tradizione, dibattendosi nell’alternativa tra arbitrato ed arbitraggio. Alle difficoltà di inquadrare la clausola nella prima delle due figure si contrappongono perplessità di inquadrarla nella seconda figura; il dilemma, tuttavia, rimane a livello teorico, senza influire eccessivamente sulla funzionalità del sistema di deadlock.
   Pur restando il dubbio se si tratti di arbitrato o di arbitraggio ovvero di una figura di altra natura, la riforma del diritto societario fornisce un importante contributo per la risoluzione di contrasti, anche al di fuori delle controversie in senso stretto. Peraltro, lo strumento in questione, ancorché non destinato a risolvere una controversia, può prevenirla, evitando che i contrasti gestionali generino una lite in sede giudiziaria o arbitrale.
   Occorre allora prendere atto della specificità, che presenta l’istituto esaminato, e sottolinearne lo stretto collegamento con l’amministrazione (in senso lato) delle società e, quindi, con l’organizzazione della gestione di impresa. Se la forma del procedimento può essere assimilata ai sistemi di risoluzione dei conflitti (giurisdizionali o no), la funzione è quella dell’agire imprenditoriale e, più precisamente, è quella di organizzare il modo di adottare decisioni gestionali. Tale funzione organizzativa qualifica la figura prevista dall’art. 37 e deve orientarne anche l’interpretazione.
   Il sistema del deadlock va allora inquadrato tra le tecniche di amministrazione delle società, senza che emergano incongruenze, non solo con il criterio di responsabilità degli amministratori, ma anche con il carattere della “attività comune” richiesto in tutte le società.
   Sotto il profilo della responsabilità, il terzo, incaricato di dirimere il contrasto gestionale, opera una scelta, la cui attuazione è comunque rimessa agli amministratori, i quali non solo potranno, ma anche dovranno valutare la legittimità (non l’opportunità, se la clausola statutaria ha attribuito la vincolatività alla decisione del terzo) della stessa scelta, alla stregua delle disposizione di legge e dell’atto costitutivo. Qualora, per avventura, quella scelta sia illegittima e gli amministratori vi diano ugualmente attuazione, essi non potranno addurre a loro esonero il fatto che la decisione sia del terzo; né potranno operarsi tra di loro distinzioni, a seconda della posizione da ciascuno assunta nel contrasto decisionale. Qualora, invece, la decisione del terzo non richieda alcun comportamento attuativo degli amministratori, l’atto di gestione eventualmente illegittimo non può essere fonte di responsabilità per nessuno di essi, mancando l’elemento soggettivo della loro colpa, su cui si basa il sistema di responsabilità per l’amministrazione della società: in difetto di un inadempimento colposo, non c’è responsabilità.
   Sotto il profilo della attività comune, l’atto di gestione deciso dal terzo, in attuazione di una clausola di deadlock, è ugualmente “comune” – quanto ai risultati che ne derivano – ai soci, per il fatto di essere compiuto in conformità al sistema di amministrazione da essi adottato, al pari di tutti gli atti degli amministratori o dei soggetti, cui questi abbiano delegato, nei limiti di legge, poteri gestori.
   La novità dell’art. 37 sta appunto nell’aver tipizzato un metodo di risoluzione di conflitti in campo gestionale, non già prevedendo semplicemente la possibilità che gli amministratori si rivolgano a terzi per dirimere i loro contrasti, bensì prevedendo che lo statuto sociale (o atto costitutivo che dir si voglia) ponga la clausola di deadlock come regola organizzativa per l’amministrazione della società. Se prima della novella poteva discutersi circa la compatibilità di simili clausole con il principio di inderogabilità per i poteri gestori degli amministratori nelle società di capitali (o circa la compatibilità con il principio di responsabilità nelle società personali), ora deve riconoscersi che l’articolazione (non già la disarticolazione) della funzione amministrativa nelle società possa esprimersi anche attraverso un sistema volto a superare, sulla base dell’esperienza internazionale, le situazioni di stallo gestionale.
   Un sistema, si badi bene, preventivamente adottato (dunque, preordinato, come sono tutte le regole organizzative) dai soci, reso pubblico con l’iscrizione nel registro delle imprese e dotato, perciò, di una efficacia reale. In questa prospettiva, essendo stata tipizzata legislativamente la possibilità di demandare ad un terzo estraneo, sulla base di una previsione statutaria ed in relazione al verificarsi di uno stallo decisionale, la decisione su specifiche scelte gestionali nelle società di persone e nelle società a responsabilità limitata, la medesima regola organizzativa sembra adottabile – salvo ritenere che l’art. 37 del d. lgs. n. 5/2003 abbia voluto disporre arbitrariamente una preclusione per le società per azioni – in tutte le società di capitali e nelle cooperative, in cui gli amministratori non rispondono per il risultato degli atti compiuti.
   In ogni caso, la clausola in questione è assunta a regola di organizzazione, quale criterio per adottare decisioni nella gestione delle società, al pari della scelta tra monocraticità o plurisoggettività dell’organo amministrativo (o, nelle società con amministrazione di tipo personale, nella scelta tra poteri congiuntivi o disgiuntivi), con un sistema di nomina che, sebbene non fa del terzo un organo della società, qualifica le sue decisioni come una fase dell’esercizio di poteri amministrativi nelle società. D’altronde, il nuovo istituto, qualunque possa esserne l’utilizzazione nella prassi societaria, rappresenta uno strumento preventivo, utilizzabile facilmente, per trasformare i possibili conflitti di gestione in occasioni di confronto degli amministratori con il terzo, nonché di sollecitazione dei medesimi per il proficuo svolgimento dell’attività sociale.

* Lo scritto è destinato al Commentario curato da F. d’Alessandro sulla riforma del diritto societario.

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