il diritto commerciale d’oggi
    IV.3 – marzo 2005

STUDÎ & COMMENTI

 

MARIO LIBERTINI
Il diritto della concorrenza nel pensiero di Tullio Ascarelli

 

INDICE-SOMMARIO: 1. L’impostazione liberale del pensiero ascarelliano e il ruolo centrale della concorrenza fra imprese. – 2. Concorrenza e regolazione amministrativa dei mercati. – 3. La concorrenza come gioco sempre aperto e necessariamente regolato dal diritto. – 4. Il diritto della concorrenza come insieme di regole comportamentali. La contrarietà di principio verso l’analogia con la proprietà di beni materiali. – 5. I diritti di proprietà intellettuale come strumenti di supporto del dinamismo concorrenziale. – 6. L’unità funzionale della disciplina generale della concorrenza e della disciplina della proprietà intellettuale. – 7. Concorrenza dinamica e direzione del mercato tramite intervento pubblico come capisaldi dell’ideologia ascarelliana del diritto industriale. – 8. L’approccio ascarelliano all’analisi dei problemi del diritto industriale. La “prudenza” di Ascarelli interprete. – 9. I divieti legali di concorrenza e il rifiuto delle interpretazioni evolutive. – 10. I patti limitativi della concorrenza nel codice civile italiano del 1942. Il tentativo di limitare una legittimazione generale del fenomeno. – 11. La concorrenza sleale: un approccio “conservatore”. – 12. La disciplina della proprietà intellettuale. – 13. L’antitrust: Ascarelli interprete ed autore di proposte legislative. – 14. Riflessioni conclusive.

 

1. L’impostazione liberale del pensiero ascarelliano e il ruolo centrale della concorrenza fra imprese
   Una riflessione sul contributo dato da Tullio Ascarelli al diritto della concorrenza e della proprietà intellettuale deve prendere le mosse dalla considerazione del quadro ideologico in cui la trattazione della materia era inserita dall’a. (impostazione necessaria per tutta l’opera di A., se si tiene conto dell’assunto metodologico da lui professato, che sottolineava il ruolo dei giudizi di valore dell’interprete nella costruzione della soluzioni giuridiche).
   In questa prospettiva, si deve allora ricordare che il pensiero dell’a. è fortemente radicato nella tradizione liberale europea. Nella concezione, di cui A. è partecipe, l’intera vita sociale è vista come un grande gioco non cooperativo fra individui; un gioco non cooperativo che tuttavia riesce a produrre esiti di benessere collettivo. Ritroviamo così in A. un luogo tipico dell’ideologia liberale: la considerazione dell’individuo come realtà primaria e come valore e la diffidenza verso l’attribuzione di un valore oggettivo alle formazioni sopraindividuali.
   L’individualismo ascarelliano è non solo (e non tanto) metodologico, ma piuttosto (e seppur non dichiaratamente) ontologico.
   In questa chiave di critica a quelle teorie che attribuiscono valore oggettivo a realtà od organizzazioni collettive, si comprende il contrattualismo ascarelliano nella teoria della società per azioni e si comprende anche la critica insistita all’attribuzione di valore costruttivo al concetto di persona giuridica.
   Sarebbe interessante discutere in modo approfondito i limiti di queste posizioni (1).
   In particolare, si può notare che il contrattualismo puro, in materia di società di capitali, si rivela inadeguato a comprendere l’insopprimibile realtà dell’impresa come organizzazione e quindi come luogo in cui si esprimono autorità private.
   Così pure, la critica ascarelliana alle concezioni “realistiche” della persona giuridica esprime anch’essa un valore ideologico, di ostilità verso i possibili usi surrettizi di strutture collettive (e delle relativa protezione normativa) per perseguire finalità di carattere egoistico. Ostilità comprensibile ed anche condivisibile, che però male – a mio avviso – veniva teorizzata da A. attribuendo al concetto di persona giuridica una “natura” diversa da quella di altri concetti giuridici che l’a. contemporaneamente riteneva dotati di valenza “costruttiva”: in realtà, la svalutazione del concetto di persona giuridica nasceva da una opzione ideologica dell’a. e non da un’analisi logica del concetto stesso (che avrebbe imposto di definirlo “infecondo in sede di interpretazione”).
   In realtà, il riconoscimento dalla realtà organizzativa dell’impresa, e della conseguente insufficienza di una ricostruzione giuridica della stessa in termini puramente contrattuali, è logicamente compatibile con una visione dell’impresa come struttura propriamente “egoistica”, avente come fine il conseguimento di profitti privati.
   Negli anni in cui A. scriveva era però troppo forte la reminiscenza delle ideologizzazioni fasciste dell’impresa come “comunità di lavoro”, sicché il contrattualismo (e la svalutazione del concetto di persona giuridica) assumevano un’opposta valenza ideologica, di rifiuto di ogni legittimazione del ruolo dell’impresa come titolare di per sé di una funzione sociale, e quindi meritevole per ciò solo di protezione nella sua esistenza e nei suoi risultati.
   Per A. invece la funzione finale dell’impresa è solo quella di conseguire profitti, e la legittimazione del ruolo dell’impresa nasce solo dal giudizio del mercato, cioè dal consenso che la massa anonima dei consumatori esprime nei confronti delle offerte di mercato dell’impresa. La giustificazione dell’impresa, e della ricerca del profitto, sta proprio nel fatto che essa si sottoponga, giorno dopo giorno, al giudizio del mercato, cioè di quella massa anonima di consumatori, le cui scelte sono decisive nel sancire il successo o l’insuccesso di una certa offerta di beni o servizi. In altri termini, l’impresa e il profitto traggono giustificazione dalla sovranità del consumatore. Dall’incontro tra le scelte egoistiche dell’imprenditore e quelle, pur altrettanto egoistiche, dei consumatori, l’economia di mercato continua ad esprimere la sua superiorità, come strumento di progresso economico e di benessere collettivo.
   L’individualismo ascarelliano, dunque, esprime motivi tipici del pensiero liberale europeo. Il punto merita di essere sottolineato sol perché, nell’Italia della metà del secolo scorso, queste posizioni liberali erano invero minoritarie, mentre dominavano le ideologie del solidarismo cattolico e del marxismo, rivoluzionario o riformista.
   Nella storia delle idee, dunque, la posizione di A. può dirsi, anzitutto, importante perché ha tenuto ferme, in tempi difficili, alcune posizioni di principio la cui importanza e vitalità sarebbe banale oggi sottolineare, dopo aver vissuto la ripresa neoliberale che ha dominato in anni successivi, e non di poco, alla scomparsa dell’a.

2. Concorrenza e regolazione amministrativa dei mercati
   L’individualismo, che può cogliersi nelle teorizzazioni ascarelliane riguardanti la disciplina privatistica dell’impresa, aveva dunque un significato più che altro reattivo nei confronti delle ideologie comunitarie di stampo totalitario, che avevano dominato in Italia non molto tempo prima. Nulla era però più lontano dal pensiero di A. di una linea ideologica libertarian, cioè dell’estremismo individualista (o anarco-capitalista che dir si voglia). Il pensiero di A. si colloca invece coerentemente nel filone che può qualificarsi come liberalismo “di sinistra”, cioè quel filone che, pur riconoscendo l’essenzialità dell’economia di mercato per realizzare un continuo progresso economico, contemporaneamente vede nel funzionamento della concorrenza nel mercato la causa inevitabile di squilibri e di nuovi poteri che richiedono contrappesi e controlli.
   Tali squilibri e poteri devono essere corretti o controllati attraverso l’intervento pubblico. A., pur non apparendo direttamente influenzato dal pensiero “ordoliberale” tedesco, si muove chiaramente su un terreno ideale simile (2): il mercato è visto come una struttura preziosa e insostituibile, che però dev’essere disciplinata dall’ordinamento per essere diretta verso esiti virtuosi. L’intervento statale in funzione correttiva o sostitutiva, per il superamento degli squilibri, e l’intervento statale in funzione di controllo dei poteri privati (contesto nel quale si colloca la disciplina antitrust) appaiono così ugualmente necessari.
   Nell’auspicare sostanzialmente un’economia “mista”, caratterizzata da un ampio intervento pubblico correttivo, A. era un uomo del suo tempo (ma, si potrebbe aggiungere, era difficile ragionare diversamente in un momento storico in cui quel modello di economia mista sembrava sorreggere livelli eccezionali di sviluppo dell’economia italiana, paragonabili a quelli che oggi si osservano in altri paesi emergenti) (3).
   A quel tempo, la regolazione amministrativa dei mercati appariva, per definizione, dettata per il conseguimento di finalità sociali. Eppure si deve evidenziare che, con riguardo all’intervento pubblico e alla regolazione amministrativa dei mercati, A. ne coglieva perfettamente la possibile ambivalenza, e rilevava la possibilità che le regolazioni amministrative svolgessero una funzione di protezione di modelli corporativi di funzionamento (T 17) (4), anziché di correzione dei difetti dell’economia di mercato per finalità sociali. Ed altrettanto nettamente A. avvertiva che le scelte della Costituzione italiana, sancite dall’art.41 Cost., legittimavano l’intervento pubblico in funzione sociale (A. collocava in questo contesto anche la legislazione antitrust, allora di là da venire) e non l’intervento pubblico in funzione di protezione delle imprese esistenti in quanto tali (T 18). Da qui anche una lettura dell’art. 41 della Costituzione come fondamento di una auspicata legislazione a tutela del consumatore e della concorrenza (5).
   La modernità e la validità di questa posizione ascarelliana sono dimostrate dal fatto che, ancor oggi, malgrado la lunga attività di segnalazione e di proposta, svolta dall’autorità antitrust nazionale, l’idea che qualsiasi regolazione pubblica dei mercati debba trovare una propria legittimazione costituzionale, in termini di tutela di interessi generali esterni a quelli delle categorie interessate, non è divenuta senso comune, anche se tale idea si fa strada progressivamente nella giurisprudenza amministrativa e costituzionale (fra l’altro, con la riforma del 2001, la “tutela della concorrenza” ha avuto, per la prima volta, un espresso riconoscimento costituzionale) (6).

3. La concorrenza come gioco sempre aperto e necessariamente regolato dal diritto
   Sul terreno del diritto generale dell’economia, A. non sviluppò analiticamente l’importante assunto sopra ricordato, che avrebbe consentito sviluppi, nell’interpretazione dell’art. 41 Cost., ben diversi da quelli che si sono storicamente affermati. A. rimaneva infatti un giurista privatista, seppur caratterizzato da interessi scientifici molto vasti, che spaziavano su tutto il campo del diritto commerciale e delle obbligazioni.
   La visione del mondo, che abbiamo sommariamente ricordata nel § 1, portava però A. a concepire un’idea di fondo, nella ricostruzione dei contenuti del diritto commerciale e industriale.
   Questa idea può essere riassunta, a mio avviso, in due punti:
   (i) la concorrenza – intesa non come mera possibilità astratta, ma come concorrenza effettiva – è il perno su cui si regge l’organizzazione giuridica dell’economia di mercato: la libertà d’impresa (e la connessa facoltà di conseguimento del profitto d’impresa) trova il suo contrappeso e la sua giustificazione nel fatto che l’imprenditore partecipi ad un gioco ad esito incerto, qual è quello che consiste nell’affrontare un mercato concorrenziale;
   (ii) il gioco della concorrenza è un gioco regolato (non “naturale” o spontaneo): appare quindi fondamentale la selezione, da parte dell’ordinamento (7), delle regole giuridiche più opportune per indirizzare il gioco concorrenziale delle imprese verso risultati di utilità sociale.
   Prima ancora di esaminare gli sviluppi di tale concezione di fondo nell’elaborazione dei contenuti della disciplina, sembra opportuno sottolineare che la centralità attribuita alla concorrenza (effettiva) come bene giuridico induceva A. a leggere in questa chiave quanti più contenuti fosse possibile. I confini della disciplina (“Diritto industriale”, secondo la tradizione accademica italiana) erano così dilatati al massimo, sì da comprendere una serie di fenomeni che andava dalla circolazione dell’azienda al diritto d’autore. Fenomeni accomunati, nel pensiero dell’A., da una funzione comune: quella di garantire, in capo a determinati soggetti, lo sfruttamento commerciale di una certa risorsa nel gioco competitivo, a fini di “probabilità di guadagno”.
   Anche qui l’approccio funzionalistico di A. merita di essere apprezzato per la sua modernità, soprattutto se si pensa che larga e autorevole parte della dottrina italiana (penso soprattutto all’insegnamento di Vanzetti e all’importante pubblicistica che ad esso si richiama) (8) ha continuato, anche nei decenni successivi, a considerare il diritto d’autore come materia prettamente civilistica, estranea al contenuto tipico del diritto industriale.

4. Il diritto della concorrenza come insieme di regole comportamentali. La contrarietà di principio verso l’analogia con la proprietà di beni materiali
   Sul piano dei contenuti della disciplina, l’idea di fondo ascarelliana si traduceva nell’affermazione per cui il riconoscimento, da parte dell’ordinamento, della libertà d’impresa, trova (deve trovare) il suo necessario contrappeso nel rifiuto di qualsiasi strumento di garanzia del profitto (il profitto, come si è già detto, si giustifica solo come premio conferito dalla giuria anonima del mercato, a seguito di una gara ripetuta ad esito incerto).
   Da questo assunto A. trae una delle idee-guida della sua ricostruzione degli istituti del diritto industriale, e precisamente la contrarietà, in linea di principio, verso l’impiego dello schema concettuale del diritto di proprietà, al fine dell’inquadramento delle norme del diritto industriale.
   Questa linea di pensiero si trova già negli scritti giovanili di A. sul divieto di concorrenza nella circolazione di azienda, in cui l’a. rifiuta la tesi – allora prevalente – dell’applicazione delle norme sulla garanzia per evizione, e riconduce il problema dell’obbligo di non concorrenza dell’alienante al principio dell’esecuzione in buona fede del contratto (9).
   Più avanti, nella stessa linea di pensiero si inserisce la critica alle concezioni dogmatiche – allora prevalenti in Italia – che fondavano sistematicamente la disciplina della concorrenza sleale sul riconoscimento di un diritto assoluto (di godimento, quindi di tipo proprietario) su un quid variamente determinato (azienda, avviamento, clientela).La soluzione ascarelliana, che si richiamava a sua volta a J. Kohler, fondava invece la concorrenza sleale sull’idea di un diritto soggettivo della personalità, definito come diritto alla lealtà del comportamento concorrenziale.
   Questa costruzione è apparsa a molti debole (credo a ragione) (10), perché il presunto diritto alla lealtà concorrenziale si riduce alla facoltà di attivare certi rimedi giuridici in presenza di casi di violazione di norme di condotta (oggettive) da parte di un concorrente: nulla a che vedere con lo jus excludendi o con le pretese titolate, che costituiscono le figure tipiche su cui si è storicamente costruito il concetto di diritto soggettivo. Ma in questa sede conta evidenziare che, nella concezione di A., si compieva comunque un passo importante, nello spostamento del nucleo fondante dell’istituto della concorrenza sleale dall’idea della protezione di diritti acquisiti da imprenditori presenti nel mercato, all’idea dell’esigenza di rispetto di regole del gioco, uguali per tutti gli imprenditori concorrenti.

5. I diritti di proprietà intellettuale come strumenti di supporto del dinamismo concorrenziale
   Ovviamente, la concezione tendenzialmente contraria all’impiego di schemi proprietari doveva poi fare i conti con l’esistenza dei diritti di “privativa”, rispetto ai quali lo schema proprietario (in forma di jus excludendi alios, avente ad oggetto la fruizione del c.d. bene immateriale) appariva difficilmente contestabile. Sul piano della storia delle idee, l’alternativa alla costruzione del diritto di proprietà sul bene immateriale era costituita dalla concezione delle privative come veri e propri diritti di monopolio; costruzione che ancor più strideva con l’ideologia filoconcorrenziale, a cui A. si ispirava.
   Da qui, con un eclettismo tuttavia apprezzabile nella sua ispirazione di fondo, il recupero, da parte di A., della teoria della proprietà sul bene immateriale, della quale egli enfatizzava però particolarmente la differenza funzionale rispetto alla proprietà dei beni materiali. A. insiste infatti sul punto che “il ricorso allo schema della proprietà non deve far dimenticare l’impossibilità di una trasposizione della disciplina delle cose materiali alle creazioni intellettuali: non deve cioè far dimenticare che il ricorso allo schema della proprietà vuole solo indicare un diritto assoluto che ha il suo punto di riferimento in un bene esterno al soggetto” (T 771).
   L’accento dell’analisi ascarelliana è poi posto soprattutto sulla peculiare struttura dei diritti sui beni immateriali, definiti come facoltà esclusive di sfruttare la probabilità di guadagno connessa all’utilizzazione imprenditoriale di una certa creazione intellettuale, e sulla funzione degli stessi, come strumenti essenziali di sostegno di un continuo sviluppo economico fondato sul processo concorrenziale.
   Invero brillanti sono le pagine di A. che descrivono la funzione di premio-incentivo delle esclusive brevettali o della protezione delle opere dell’ingegno, o la funzione proconcorrenziale delle esclusive sui segni distintivi.
   Con una espressione sintetica, che più volte ricorre negli scritti ascarelliani, la distinzione fra proprietà di beni materiali e proprietà di beni immateriali è formulata nel senso che la prima ha la funzione di ripartire facoltà di godimento su ricchezze già esistenti, mentre la seconda ha la funzione di consentire lo sfruttamento esclusivo di alcune risorse utilizzabili nel processo concorrenziale, con le relative probabilità di guadagno. Non dunque la funzione di godere ricchezze già esistenti, bensì quella di concorrere al conseguimento di ricchezze future.
   L’intero diritto industriale viene dunque ricostruito, con forte coerenza sistematica, intorno al concetto di concorrenza, anche se sul piano dei concetti utilizzati può notarsi un notevole eclettismo (principi di correttezza contrattuale, diritti della personalità, diritti di proprietà su beni immateriali).

6. L’unità funzionale della disciplina generale della concorrenza e della disciplina della proprietà intellettuale
   Non importa per ora insistere sulla forza o sulla debolezza delle singole costruzioni giuridiche, accolte da A. Ciò che conta è la contrarietà di principio all’impiego dello schema concettuale proprietario, in quanto ritenuto portatore di un rischio potenziale di iperprotezione delle posizioni acquisite dall’imprenditore nel mercato, e la preferenza netta per costruzioni che leggono le norme del diritto industriale in termini di regole comportamentali, attinenti al gioco concorrenziale di imprenditori in un mercato aperto.
   La scelta ascarelliana di cui si parla ha certo, anzitutto, un significato ideologico, ma non può dirsi per questo priva di significato sul piano della concreta ricostruzione della disciplina. Il rischio di iperprotezione delle posizioni acquisite è costante, nell’elaborazione giurisprudenziale della disciplina della concorrenza.
   La modernità della concezione ascarelliana mi sembra, per questo profilo, indiscutibile.
   La visione ascarelliana anticipa quella che, nell’economia industriale contemporanea, è la concezione, che può dirsi oggi dominante, della resource based view of the firm (11) (che ha sostituito il vecchio schema structure / conduct / performance, che invece era quello corrente ai tempi di Ascarelli).
   In questa visione, disciplina generale della concorrenza e disciplina della proprietà intellettuale appaiono componenti omogenee di un complesso disciplinare avente come scopo quello di dettare le regole di un grande gioco non cooperativo, in cui le imprese sono continuamente alla ricerca di vantaggi competitivi da spendere nel mercato, e il diritto asseconda lo sforzo creativo e gli investimenti tendenti all’acquisizione di tali vantaggi competitivi, nella misura in cui questo assecondamento si riveli necessario per mantenere elevato il flusso della ricerca di innovazioni nel mercato.
   Questa concezione, che ravvisa una identità funzionale (o almeno una complementarietà) fra diritto generale della concorrenza e diritto della proprietà intellettuale, è oggi divenuta piuttosto diffusa (12). Però hanno avuto, ed hanno ancora, grande peso, concezioni del tutto diverse.
   Da un lato, un autorevole filone di pensiero ha sempre ritenuto che, nella disciplina della proprietà intellettuale “l’esclusiva discende naturalmente dalla appartenenza del risultato al suo creatore e dalla natura di bene del risultato medesimo” (13). Questo filone di pensiero è anzi oggi rappresentato con vigore, in Italia, da tutta una corrente dottrinale di matrice civilistica, che tende ad inquadrare sistematicamente la difesa dei diritti di proprietà intellettuale, anche se in misura più o meno ampia nei diversi contributi dottrinali, nei termini della tradizionale tutela restitutoria di stampo romanistico, anziché nei termini della tutela risarcitoria (14).
   Questo filone di pensiero tende a leggere la disciplina della proprietà intellettuale come fenomeno di appartenenza di beni in capo al “primo occupante”, e quindi come una precondizione della disciplina della concorrenza (alla stessa stregua dei diritti di proprietà su beni materiali e di tutti gli altri diritti fondati su titoli riconosciuti dall’ordinamento).
   Un diverso filone di pensiero, probabilmente ispirato a un diverso archetipo, che vede i prodotti culturali come “naturalmente” insuscettibili di appartenenza, e viceversa a disposizione di chiunque sia in grado di valorizzarli, ritiene invece che i diritti di proprietà intellettuale costituiscano eccezioni al principio di libertà di concorrenza; eccezioni ammesse dall’ordinamento propter aliquam utilitatem, ma comunque destinate a costituire situazioni di monopolio, come tali “agli antipodi” del principio di libertà di concorrenza (15).
   Per contrastare idealmente questi due filoni di pensiero, A. scrisse le pagine più appassionate e brillanti della sua Teoria della concorrenza e dei beni immateriali.
   Contro la teoria giusnaturalistica dei diritti di proprietà intellettuale come premio del lavoro compiuto dal creatore, A. osservava che le creazioni intellettuali non costituiscono uno stock di cose suscettibili di appropriazione separata ed esclusiva, ma un flusso in cui ogni creazione è concatenata con l’esperienza culturale formatasi nel passato.
   Solo per la proprietà materiale, dunque, può comprendersi un nesso originario proprietà/lavoro, secondo gli archetipi dell’occupazione di res nullius e della specificazione, così come può comprendersi anche la definitività dell’attribuzione originaria. La proprietà intellettuale, invece, premia, attribuendogli un vantaggio temporaneo, chi supera per primo un traguardo in una gara sempre aperta (sicché il lavoro del secondo arrivato rimarrà privo di remunerazione). In altri termini, la funzione della proprietà intellettuale è quella di alimentare una gara continua che contribuisce al progresso economico collettivo, e non quella di remunerare il lavoro in quanto tale (16).
   Queste critiche indurrebbero, a prima vista, ad accogliere la tesi dei diritti di proprietà intellettuale come diritti di monopolio, cioè come esclusive aventi ad oggetto lo svolgimento di una determinata attività economica. Ma questa costruzione suscitava in A. una contrarietà forse ancora più forte. Per A. la proprietà intellettuale non ha la funzione di attribuire riserve su una certa quota di domanda nel mercato, ma attribuisce solo un’esclusiva temporanea nella facoltà di sfruttare un certo vantaggio competitivo ad un’impresa che comunque (malgrado l’esclusiva su uno o più beni immateriali) continuerà ad operare in concorrenza con altre.
   Questa descrizione del fenomeno appare immediatamente più plausibile e corretta, se si tiene conto che le innovazioni, nell’economia contemporanea, non sono eccezionali momenti di rottura di una situazione di equilibrio di mercato, ma un flusso continuo proveniente da fonti disparate. In questa prospettiva, il fatto che il diritto stabilisca quali esclusive, e per quanto tempo e da chi possano essere godute, costituisce solo una delle tante regole del gioco della concorrenza (17), che A. vedeva come un processo continuativo, destinato ad accrescere insieme le conoscenze ed il benessere economico; un processo – come già notato – “artificiale”, in quanto governato da regole convenzionali e non naturali, e proprio perciò comprendente premi e handicap.

7. Concorrenza dinamica e direzione del mercato tramite intervento pubblico come capisaldi dell’ideologia ascarelliana del diritto industriale
   La concezione ascarelliana della concorrenza era dunque essenzialmente dinamica: la concorrenza era vista come un processo ininterrotto e non come uno stato di equilibrio; le innovazioni non erano momenti eccezionali di rottura di un equilibrio raggiunto, ma anelli della catena ininterrotta del progresso economico. Compito dell’ordinamento era quello di creare un sistema razionale di incentivi e di divieti, per far sì che il processo si svolgesse sempre a ritmo intenso e fosse orientato verso risultati di massimo benessere collettivo.
   È facile vedere, in questa concezione del processo concorrenziale, le stesse idee ispiratrici della c.d. scuola austriaca di economia, le cui opere fondamentali (von Mises, Schumpeter, Hayek) erano già note al tempo in cui A. scriveva (e da A. anche sporadicamente citate). Ma anche qui, come per l’ordoliberalismo, sarebbe vano cercare negli scritti di A. un preciso riferimento in appoggio alle idee espresse. Il fatto ha, probabilmente, due ordini di spiegazioni. Da un lato, lo stile espositivo di A. tendeva a collocare le opinioni da lui espresse sulle “onde lunghe” della storia delle idee, evitando il richiamo a specifiche auctoritates o l’adesione a specifiche correnti di pensiero (18). Dall’altro, gli esponenti della Scuola austriaca erano probabilmente percepiti, nell’Italia degli anni Cinquanta, come troppo “di destra” per poter apparire come valida fonte di ispirazione ad un autore dalle idee politiche “progressiste”, come era A.
   A me sembra tuttavia, ripensando le idee di fondo di A. sulla funzione dell’economia di mercato e sui principi giuridici da applicare alla stessa per realizzare finalità di benessere collettivo, che egli avesse intuito, con mezzo secolo di anticipo, come la linea maestra, in materia di politica e di diritto della concorrenza, può esser data solo da una sintesi – a prima vista difficilissima e stridente – fra il quadro fornito dalla scuola austriaca (concorrenza come processo, efficienza dei mercati intesa soprattutto come efficienza dinamica) e la cornice fornita dalla scuola ordoliberale (necessità di un forte intervento correttivo pubblico per garantire la continuità di un processo concorrenziale virtuoso).

8. L’approccio ascarelliano all’analisi dei problemi del diritto industriale. La “prudenza” di Ascarelli interprete
   Ho voluto finora sottolineare soprattutto la “ideologia” ascarelliana del diritto della concorrenza, nella convinzione che essa costituisca un lascito di grande importanza culturale, e tuttora in larga parte valido.
La produzione ascarelliana si è caratterizzata però per una trattazione completa della materia; una trattazione, secondo lo stile e l’impegno dell’a., mai limitata a descrivere il pensiero altrui o lo stato della giurisprudenza, ma anzi sempre fortemente personalizzata.
   Di fronte ad una personalità prorompente, come quella di A., ci si potrebbe attendere una serie di soluzioni molto originali, nella trattazione analitica dei problemi di diritto industriale. L’impressione complessiva, che si ricava dalla lettura della produzione ascarelliana, è però diversa. Da un lato, una grande conoscenza della casistica (anche sotto il profilo comparatistico) ed un impegno esemplare nell’approfondire e maturare personalmente la soluzione di ogni problema. Dall’altro, una evidente prudenza nel proporre soluzioni troppo distanti da quello che, con espressione ancora non consolidata nell’uso al tempo di A., potrebbe dirsi il “diritto vivente”.
   Vorrei esporre, nei paragrafi che seguono, alcuni esempi, volti a corroborare il giudizio di sintesi sopra espresso.

9. I divieti legali di concorrenza e il rifiuto delle interpretazioni evolutive
   Il codice civile italiano del 1942 conteneva (e contiene ancora) una serie di disposizioni di diritto della concorrenza: dall’obbligo di contrarre e di parità di trattamento imposto ai monopolisti legali (art. 2597), alle indicazioni di principio sui controlli pubblicistici relativi agli scopi e all’attività dei consorzi (artt. 2618-9), ai divieti di concorrenza dell’alienante di azienda (art. 2557), del lavoratore dipendente (art. 2105), dell’amministratore di società di capitali (art. 2390), ecc.
   Guardando retrospettivamente e col senno di poi, si potrebbe dire che da queste disposizioni, attraverso l’attenta individuazione della ratio e l’uso accorto del ragionamento analogico, si sarebbe potuta costruire una disciplina organica e moderna della concorrenza, pur nella limitatezza dei dati offerti dal legislatore, e pur in mancanza di una legislazione antitrust nazionale (19).
   Invece, l’orientamento interpretativo prevalente, in dottrina e in giurisprudenza, si è fondato sull’idea che queste disposizioni costituissero un insieme eterogeneo di norme eccezionali, perché configgenti con i principi di liberà di iniziativa economica e di libertà contrattuale. Tali principi sono stati intesi in una portata invero formalistica, senza considerazioni di funzionalità economica. Il risultato è stato comunque il rifiuto di possibili sviluppi analogici della ratio di quelle disposizioni.
   A. aveva certamente la sensibilità ideologica necessaria per avvertire l’esigenza, nell’ordinamento italiano, di norme di tipo antitrust (e del resto lo dichiarava espressamente). Aveva anche la sensibilità metodologica per avvertire la possibilità, per il giurista, di contribuire all’evoluzione dell’ordinamento anche – e soprattutto – attraverso un’adeguata ricostruzione tipologica della realtà sociale in funzione dell’applicazione di norme di diritto positivo.
   Malgrado ciò, A. rimane legato all’idea che le norme sui divieti legali di concorrenza abbiano carattere eccezionale (T 40) e rifiuta pertanto diverse ipotesi interpretative fondate sull’analogia. Così, ad esempio, l’ipotesi di considerare contrario al divieto legale di concorrenza dell’alienante di azienda l’acquisto di una partecipazione di controllo in una società esercente un’attività concorrente con quella dell’azienda ceduta (T 67); o l’ipotesi di applicare la disposizione anche alla cessione di uno studio professionale. L’unica apertura analogica (e comunque assai significativa, se si pensa che la Cassazione italiana giungerà alla stessa soluzione soltanto nel 2000), sta nel ritenere che il divieto legale di concorrenza possa valere anche nel caso (speculare a quello sopra ricordato) in cui sia ceduto un pacchetto di controllo da parte di chi era effettivo gestore di un’impresa costituita in forma societaria.
   Un esempio particolarmente evidente di quella che ho chiamato la “prudenza” interpretativa ascarelliana può vedersi nell’analisi della disposizione sul divieto di concorrenza degli amministratori di s.p.a. A. critica espressamente l’indifferenza del legislatore italiano nei confronti del fenomeno degli interlocked directorates (T 70), ma non per questo ritiene di poter aderire ad un’interpretazione estensiva o analogica del divieto sancito nel c.c., il cui testo (“né esercitare un’attività concorrente per conto proprio o di terzi”) non poneva ostacoli proibitivi a soluzioni interpretative volte a contrastare quel fenomeno (allora assai diffuso in Italia e da A. criticato); soluzioni che erano state peraltro già avanzate nella fondamentale trattazione monografica di G. Minervini (che è del 1956) (20).

10. I patti limitativi della concorrenza nel codice civile italiano del 1942. Il tentativo di limitare una legittimazione generale del fenomeno
   Un altro esempio, idealmente ricollegabile al precedente ma ancor più significativo per il suo contenuto, può vedersi nell’analisi che A. dà della (allora) unica disposizione in materia di intese restrittive della concorrenza, che era costituita dall’art. 2596 del codice civile.
   Questa disposizione si preoccupa solo di tutelare la libertà di iniziativa dell’imprenditore, e pone quindi limiti di tempo e di oggetto alla validità dei patti restrittivi della concorrenza. Per il resto, non pone alcun limite con riguardo al contenuto e alla finalità dell’intesa. Lo stesso vale per le norme sui consorzi industriali, che il codice civile, nella sua versione originaria, disciplinava proprio e soltanto come organizzazioni volte a coordinare la concorrenza fra le imprese partecipanti (in altre parole, come organizzazioni di cartello).
   A. si era occupato del fenomeno già in diversi scritti giovanili (21), ed aveva lucidamente individuato l’ambivalenza funzionale delle intese regolatrici della concorrenza, che potevano essere strumenti di efficienza (22) oppure strumenti di irrigidimento monopolistico del mercato, a danno dei consumatori. A. riconosceva dunque, sin da allora, la possibilità che le intese regolatrici della concorrenza, pur valutate in linea di principio in modo positivo dall’ordinamento (di allora), potessero in certi casi dar luogo a fenomeni di nullità, totale o parziale. Il fenomeno era dunque inquadrato in modo assolutamente corretto (del resto, non diversamente ragioniamo oggi, in linea di principio, quando interpretiamo i paragrafi 1 e 3 del Trattato istitutivo della Comunità Europea).
   Nel sistema giuridico del tempo, la tutela dell’interesse collettivo contro i possibili abusi dello strumento consortile era affidata (almeno sulla carta) a strumenti di carattere pubblicistico; più precisamente, all’ordinamento corporativo ed ai suoi strumenti di controllo e direzione delle attività economiche. Questa impostazione era stata ripresa e ratificata negli artt. 2618 e 2619 del codice civile. Però, nel frattempo, l’ordinamento corporativo era stato abolito e nessuna regolazione amministrativa era intervenuta a sostituirlo, in materia di controllo delle intese restrittive della concorrenza.
La disciplina delle intese restrittive della concorrenza, che i primi interpreti del codice civile si trovavano di fronte, era dunque vistosamente monca sotto il profilo funzionale. Per altro verso, il codice civile conteneva alcune clausole generali (in particolare l’illiceità della causa negoziale per contrarietà all’ordine pubblico, di cui all’art. 1343 c.c.), che ben si prestavano ad inquadrare la distinzione fra intese “buone” e “cattive”.
Peraltro, A. era molto sensibile all’esigenza di una legislazione proconcorrenziale, al punto da farsi promotore di progetti di legge antitrust nazionale (su ciò torneremo infra, § 11) e da criticare, in prospettiva de jure condendo, l’eccessiva condiscendenza del legislatore italiano verso i limiti contrattuali della concorrenza (T 85, 122).
Però, al momento di tradurre in soluzioni de jure condito questa esigenza, pur fortemente sentita, A. non formula neanche l’ipotesi di utilizzare la clausola generale dell’ordine pubblico economico. Per lui l’art. 2596 c.c. disciplina un contratto a causa tipica lecita, sicché, per cercare di recuperare qualche criterio limitativo della soluzione circa la validità delle intese restrittive, A. propone una complicata interpretazione sistematica, leggendo l’art. 2596 in connessione con l’art. 1379 c.c. (che ammette la validità dei divieti convenzionali di alienazione dei beni solo quando questi rispondano “ad un apprezzabile interesse di una delle parti”). Soluzione funzionalmente debole, perché è ovvio che non tutte le intese restrittive hanno ad oggetto “alienazioni di beni”, ed anche perché l’interesse “apprezzabile” dell’art. 1379 è chiaramente un interesse strettamente individuale, che ben scarsa parentela può avere con gli interessi tutelati dalla legislazione antitrust.
   Non solo, ma, fermo restando il riconoscimento di principio della validità generale delle intese restrittive della concorrenza, A. arrivava poi ad ammettere che singole clausole potessero essere illecite, facendo a tal proposito l’esempio dei patti di boicottaggio o di discriminazione (T 151-2). Anche questa soluzione appariva debole, perché non era chiaramente individuato il fondamento di tale nullità parziale, che implicitamente sembrava doversi ravvisare proprio nella contrarietà all’ordine pubblico; ma, in tale prospettiva, sarebbe rimasto da spiegare perché la contrarietà all’ordine pubblico potesse determinare solo nullità parziale e non anche nullità totale dell’intesa restrittiva della concorrenza.

11. La concorrenza sleale: un approccio “conservatore”
   Una significativa conferma dell’approccio complessivo di A. nell’analisi dei contenuti del diritto della concorrenza si ha considerando la trattazione dedicata alla concorrenza sleale.
   Anche in questo caso è corretto l’approccio funzionale di principio: le norme sulla concorrenza sleale non limitano la concorrenza, ma ne consentono l’effettivo funzionamento, garantendo la lealtà complessiva del gioco concorrenziale (T 190). Abbiamo già ricordato (supra, § 4) che questa lealtà diveniva, nel pensiero ascarelliano, oggetto di un vero e proprio diritto soggettivo (della personalità), facente capo a ciascun imprenditore. Ma il punto centrale della trattazione non è questo. Il problema centrale della concorrenza sleale è come costruire il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, nel mare magnum dei comportamenti imprenditoriali diretti a conquistare posizioni di mercato.
   Anche in questo caso il codice civile del 1942 offriva all’interprete una clausola generale, definita in termini di “correttezza professionale” (art. 2598 c.c.). La dottrina si era immediatamente divisa (23) fra una corrente di pensiero, secondo cui il contenuto delle regole di correttezza andava determinato all’interno dei ceti professionali interessati (in termini di usi commerciali o di deontologia professionale) e una corrente, allora minoritaria, che riteneva, al contrario, che il contenuto della correttezza si determinasse all’esterno del ceto imprenditoriale, e dovesse essere rispettato dagli imprenditori nell’interesse della generalità.
   Quest’ultima tesi, allora definita come “tesi etica”, era stata sostenuta, in un’ importante trattazione monografica del 1947, da Giuseppe Auletta, che era allievo prediletto di A. Questa tesi comportava una serie importante di conseguenze applicative, in termini di aperture all’applicabilità della disciplina della concorrenza sleale anche a soggetti non imprenditori, di ammissibilità della critica veritiera anche nei rapporti reciproci fra imprenditori, di divieto della pubblicità ingannevole, di qualificazione come atti di concorrenza sleale anche degli illeciti amministrativi o fiscali comportanti vantaggi concorrenziali, e via dicendo.
   Rispetto alla trattazione di Auletta, quella di A., che interviene parecchi anni dopo, appare molto più “conservatrice”. E può notarsi una sorta di reticenza di A. nel valutare le tesi dell’allievo, che gli erano certamente note ma non vengono espressamente considerate né confutate (24).
   Per A. la correttezza professionale è “buon costume commerciale”, cioè deontologia professionale. La disciplina relativa è una disciplina privilegiata per la fonte e per i rimedi ammessi, e si giustifica solo a condizione di reciprocità (T 260). Le conseguenze applicative sono coerenti: la denigrazione è illecita anche se veritiera (T 239), gli illeciti amministrativi e fiscali non rilevano direttamente come atti di concorrenza sleale (T 214), è esclusa l’applicabilità della disciplina al di fuori dei rapporti fra imprenditori commerciali. Più in generale, A. sostiene a più riprese la tesi secondo cui la disciplina della concorrenza sleale può riguardare solo singole modalità dell’attività imprenditoriale e non l’attività in sé (T 31). In concreto, la tesi ascarelliana portava a ritenere irrilevante, per la disciplina della concorrenza sleale, lo svolgimento di attività abusive (ad esempio per mancanza di autorizzazioni amministrative) o l’impiego di mezzi illeciti (ad esempio: vendita di merci di contrabbando), perché non si sarebbe potuta concepire una sanzione civile consistente nel divieto di prosecuzione dell’attività di impresa in quanto tale.
   La tesi era debole, perché presupponeva implicitamente l’idea dell’attività di impresa come “professione” e dell’inizio dell’attività come accesso ad una professione. Per contro, ogni attività può essere qualificata come una modalità di svolgimento di un’attività più ampia, e l’eventuale ordine giudiziale di sospensione di un’attività illecita non toccherebbe affatto la generale libertà d’impresa del soggetto destinatario dell’ordine inibitorio.
   Piuttosto, nella cautela ascarelliana circa i possibili impieghi estensivi della clausola di correttezza professionale e dei rimedi offerti dalla disciplina della concorrenza sleale, si può leggere un più generale atteggiamento di cautela verso formule di “governo dei giudici”. E non è forse un caso che, nell’interpretare le norme in materia di concorrenza sleale, A., conservatore nell’approccio alla clausola generale di correttezza e ai suoi possibili sviluppi, sia interprete coraggioso e coerente quando deve affrontare problemi ricostruttivi di fattispecie già individuate in testi legislativi. Così, appaiono brillanti (al di là di ogni valutazione di merito) le pagine in cui viene difesa una interpretazione restrittiva della nozione di imitazione servile, escludendone l’applicabilità ad ipotesi di parassitismo non con fusorio (T 231 ss.). Così ancora, appare molto apprezzabile (in questo caso anche nel merito) l’interpretazione estensiva del divieto di appropriazione di pregi altrui, fino a comprendervi le ipotesi di pubblicità ingannevole, a quel tempo ancora tollerate come dolus bonus da molti interpreti italiani (T 236).

12. La disciplina della proprietà intellettuale
   Nei paragrafi precedenti abbiamo ritenuto di potere individuare un orientamento generale di A. interprete, cauto e diffidente verso l’argomentazione per principi (25) e verso interpretazioni evolutive e ragionamenti analogici audaci (26), e per contro molto più a suo agio nell’affrontare problemi interpretativi di disposizioni di legge già dotate di un contenuto normativo articolato.
   Credo che questa impressione possa essere confermata dalla brillante trattazione che, nella Teoria della concorrenza, viene fatta di tutta la materia della proprietà intellettuale, ove A. si trovava di fronte ad un ricco materiale normativo. Ovviamente, la trattazione appare oggi per molti aspetti datata, proprio perché le riforme legislative dei decenni successivi hanno modificato molte delle disposizioni su cui A. interprete ragionava nella sua opera. E tuttavia, la profondità e la finezza della trattazione appaiono ancor oggi evidenti, sia quando le soluzioni sono state superate dall’evoluzione normativa (come, ad esempio, nella resistenza ascarelliana ad ammettere una tutela allargata dei marchi notori [T 482 ss.] o nel rifiuto di interpretazioni restrittive volte ad attenuare la portata del divieto, allora vigente, di brevettazione dei farmaci [T 559 ss.]), sia quando esse appaiono ancora attuali (ad esempio, in materia di invenzioni dei dipendenti, ove A. sostiene la soluzione – che sarà accolta dalla Cassazione solo quarant’anni dopo – secondo cui in tutte le ipotesi disciplinate dall’art. 21 l. inv. le mansioni del lavoratore sono identiche e consistono in attività di ricerca, mentre il diritto all’equo premio spetta in tutti i casi in cui il contratto di lavoro non prevede già una speciale remunerazione per l’eventuale conseguimento dell’invenzione) (27).

13. L’antitrust: Ascarelli interprete ed autore di proposte legislative
   Ultimo argomento (non certo per importanza) nella trattazione ascarelliana del diritto della concorrenza è la legislazione antitrust.
   La sensibilità di A. verso l’argomento è nota, così come l’azione da lui svolta per propugnare l’introduzione di una disciplina antitrust nazionale.
   Se ci si interroga sulle ragioni della sensibilità ascarelliana verso l’argomento, non si trovano certo le giustificazioni, in termini di efficienza economica, che oggi prevalgono nel dibattito politico e scientifico in materia di antitrust (28). Per A. invece la giustificazione dell’antitrust era in primo luogo politica. Il problema principale era quello di evitare che le grandi imprese, spesso operanti a livello mondiale, dessero vita ad un “reale governo privato dell’economia” e minassero “lo stesso fondamento delle strutture democratiche” (T 133).
   Non mancano però altri passi in cui le ragioni dell’antitrust, per A., appaiono meno legate ad esigenze politiche di controllo del potere privato, ed invece connesse a profili di efficienza del mercato. Il problema fondamentale dell’antitrust, scrive in un altro punto A., è quello di precludere concentrazioni di potere che pregiudichino il funzionamento del sistema economico, irrigidendolo in posizioni monopolistiche (T 150-1).
   Credo che la percezione della diversità fra le due linee ispiratrici non fosse nitida, nel pensiero ascarelliano (ma del resto sarebbe stato ben difficile trovare a quel tempo, nella dottrina giuridica europea, analisi più approfondite sulla funzione della legislazione antitrust).
   Su queste basi, comunque, A. faceva anche una osservazione interessante sull’esperienza antitrust americana. Questa – egli osservava (T 159) – non aveva realizzato il suo scopo originario, di evitare la formazione di grandi concentrazioni di potere economico e di mantenere invece un sistema economico “jeffersoniano”, di piccole e medie imprese guidate da soggetti proprietari (29). Ciò non toglie che le leggi antitrust abbiano “concorso nel mantenere negli Stati Uniti una atmosfera di concorrenza e di iniziativa … assai più viva di quella dell’Europa continentale … Questa atmosfera ha certo contribuito e contribuisce al progresso economico degli Stati Uniti”.
   In modo, se si vuole, empirico e intuitivo, A. esprimeva un’opinione tuttora valida: la legislazione antitrust rimane un supporto essenziale dell’efficienza dinamica dei mercati e di contrappeso al rischio di formazione di un “governo privato dell’economia” diretto dalle imprese già affermate nei mercati e quindi destinato a frenare lo sviluppo economico.
   Queste valutazioni di fondo, nel momento in cui A. scriveva la sua Teoria della concorrenza, cominciavano a tradursi sul terreno del diritto positivo. Era infatti appena entrato in vigore il Trattato istitutivo della Comunità Europea (anche se non era stato ancora emanato il Reg. 17/62).
   A. dedica, nel suo corso, notevole attenzione alle norme antitrust comunitarie, e ai primi problemi interpretativi che esse ponevano, ancora senza il supporto della casistica giurisprudenziale che si sarebbe formata negli anni a venire. Il dato più saliente di questo primo approccio interpretativo è costituito dall’opinione, certamente eterodossa, che ritiene applicabile la norma sul divieto delle intese anche alla formazione di gruppi societari (T 136 ss.) e alle operazioni di concentrazione verticale (T 166). Questa opinione certo travisava la reale intenzione del legislatore comunitario, che aveva inizialmente escluso qualsiasi controllo delle concentrazioni proprio per non creare impedimenti alla crescita delle imprese europee, a fronte dei colossi industriali americani, e comunque nella convinzione che la crescita della dimensione delle imprese comporti, normalmente, guadagni di efficienza (30).
   Probabilmente, nella proposta interpretativa ascarelliana, esegeticamente audace (anche se può dirsi anticipatrice di una soluzione a cui la Corte di Giustizia giungerà solo nel 1987, nel caso Philip Morris), si mescolavano, come abbiamo notato poc’anzi, ragioni generiche di diffidenza politica verso le concentrazioni di potere economico privato e percezione acuta dei rischi che un’ammissibilità tout court delle operazioni di concentrazione potesse portare ad un “irrigidimento monopolistico del sistema economico” (che è la valutazione che poi portò, nel 1989, all’emanazione del primo regolamento comunitario sulle concentrazioni).
   In ogni caso, l’approccio di A. ai problemi dell’antitrust è pervaso, ancor più che per gli altri istituti del diritto industriale, da valutazioni di ordine politico. In questa prospettiva si può anche collocare, nel giusto valore, il tentativo di A. di dare un contributo riformatore al processo legislativo italiano, elaborando un progetto di legge antitrust nazionale. Tentativo “illuministico”, nato dai convegni degli “Amici del ‘Mondo’” e sfociato in un testo di progetto di legge che non ricevette reale attenzione da parte del mondo politico italiano (31). La redazione del progetto nasceva comunque da un sentimento civico fortemente sentito da A., e dalla convinzione di poter fornire un reale contributo al processo legislativo del Paese.
   Per questo è interessante rileggere oggi il testo del progetto di legge antitrust nazionale redatto da A. (32). Il testo si caratterizza, rispetto al modello normativo dell’antitrust comunitario, che A. certamente ben conosceva, per numerosi caratteri originali: (i) la disciplina era limitata al divieto delle intese, senza alcuna previsione per gli abusi di posizione dominante e per le operazioni di concentrazione; (ii) la fattispecie dell’intesa vietata era descritta con cura, come a voler prevenire possibili espedienti elusivi del divieto da parte delle intese (in particolare, il divieto era espressamente esteso ad ipotesi che potremmo definire come joint-venture cooperative); (iii) il divieto era limitato alle intese aventi come scopo la restrizione della concorrenza a livello orizzontale (intese “che mirino ad escludere o restringere la reciproca concorrenza fra più imprenditori nel mercato italiano”); (iv) erano esentate dal divieto le intese formate in applicazione di norme legislative o regolamentari; (v) il divieto era però formulato in termini assoluti, senza possibilità di esenzione (con netta differenza, su questo punto, con il modello normativo comunitario); (vi) la violazione del divieto era sanzionata penalmente con un’ammenda (per il cui pagamento sarebbero stati obbligati, solidalmente, le imprese e i loro amministratori delegati o direttori generali) e civilmente con la nullità (33); (vii) era prevista l’istituzione di un’autorità amministrativa sostanzialmente indipendente (anche se non formalmente dichiarata tale), con compiti esclusivi di intervento correttivo delle disfunzioni del mercato: l’autorità avrebbe dovuto avviare, d’ufficio o su invito del Governo, inchieste su casi di violazione del divieto delle intese, e l’inchiesta poteva concludersi con provvedimenti amministrativi inibitori e/o con misure specifiche di ripristino della libertà di concorrenza; (viii) l’ottemperanza agli ordini della commissione antitrust nazionale avrebbe comportato l’estinzione del reato, e quindi del relativo obbligo di pagamento dell’ammenda.
   La lettura del progetto di legge, a distanza di tanti anni, oltre a dare ennesima conferma dell’originalità di pensiero personale dell’a., fa trasparire una alta sensibilità politica. A. infatti conosceva bene le norme antitrust comunitarie, ed anche le norme CECA che contenevano controlli espressi sulle concentrazioni. Le differenze di contenuto, che si evidenziano nel suo progetto di legge, sono dunque frutto di un preciso disegno politico-legislativo.
   Credo che tale progetto possa essere agevolmente ricostruito nei seguenti punti:
   a) per A. il fenomeno da combattere, nell’economia italiana, era quello dei cartelli nazionali, che frenavano lo sviluppo e l’ammodernamento del sistema economico (34);
   b) non appariva invece opportuno frenare la libertà d’azione dei “campioni nazionali”, cioè delle imprese dominanti su singoli mercati nazionali (spesso, a quel tempo, appartenenti al sistema delle partecipazioni statali);
   c) non appariva neanche opportuno limitare la libertà di organizzazione delle imprese nel campo della distribuzione (e quindi non erano posti limiti alle intese verticali);
   d) tanto meno appariva opportuno porre limiti alle operazioni di concentrazione a livello nazionale, cioè ai processi di crescita dimensionale delle imprese italiane;
   e) per combattere il fenomeno dei cartelli, lo strumento principe appariva la costituzione di un potere amministrativo ad hoc, concentrato in un’unica autorità specializzata, a livello nazionale;
   f) il ruolo del giudice era sostanzialmente complementare, limitato all’irrogazione di ammende nei casi di inottemperanza agli ordini dell’autorità amministrativa;
   g) il fenomeno andava dunque contrastato soprattutto con misure soft, consistenti in ordine di fare o di non fare, provenienti dall’autorità amministrativa specializzata.
   Credo anche che il disegno enunciato meriti grande rispetto ed ammirazione. Di esso segnalerei soprattutto tre profili, che mi sembrano appunto espressione di “pensiero forte”.
   In primo luogo, nel progetto ascarelliano è percepibile (analogamente a quanto abbiamo notato per la sua attività di giurista-interprete) una notevole prudenza nei confronti del potere politico costituito: così nell’escludere il divieto degli abusi di posizione dominante, che avrebbe allora colpito (come poi storicamente è avvenuto dopo il 1990, ma in tutt’altro clima politico) soprattutto imprese in mano pubblica; così pure nell’escludere ogni sindacato sulle misure di regolazione amministrativa dei mercati (che pur A. sapeva essere spesso di stampo corporativo). In ciò non vedrei però soltanto una scelta di prudenza (che peraltro leggerei come espressione di sensibilità politica, se è vero che la politica è “arte del possibile”) (35), ma anche la non dichiarata percezione del ruolo positivo che i “campioni nazionali”, operanti nel mercato interno con le spalle fortemente protette, stavano svolgendo, a quel tempo, per lo sviluppo dell’economia del paese (non si dimentichi che A. scriveva il suo progetto di legge negli anni del “miracolo economico italiano”).
   In secondo luogo, il progetto ascarelliano conferma la diffidenza dell’a. verso possibili forme di “governo dei giudici”: il ruolo repressivo decentrato dell’autorità giudiziaria, lungi dal costituire lo strumento fondamentale di controllo dei cartelli (36), in quel progetto appariva solo come uno strumento finale di intervento, privo di discrezionalità perché condizionato sostanzialmente all’accertamento di un’inottemperanza ad un ordine amministrativo. Per contro, il modello proposto era quello di una legislazione antitrust ad attuazione amministrativa, con una fiducia nell’intervento pubblico amministrativo ancora non scalfita delle analisi economiche che avrebbero supportato la deregulation degli anni a venire, eppure tuttora valida nelle sue scelte di fondo (in particolare, nella sottolineatura dell’esigenza di formare un’autorità indipendente a competenza esclusiva e non affidare le competenze in materia ad uffici ministeriali).
   In terzo luogo, il progetto ascarelliano si caratterizza per il ruolo centrale attribuito ad un’azione amministrativa discrezionale ma dotata di strumenti soft, costituiti da ordini di fare o di non fare, senza il deterrente costituito dalle sanzioni pecuniarie (che si sarebbero applicate invece, ed allora in sede penale, in caso di inottemperanza agli ordini). A mio avviso, un’azione amministrativa così impostata potrebbe essere probabilmente più credibile ed efficace nei confronti delle imprese di quanto non lo sia il modello di intervento altamente conflittuale e punitivo che è prevalso nell’antitrust comunitario e nazionale (37), con strascichi pesanti e inevitabili di contenziosi su ogni intervento sanzionatorio.

14. Riflessioni conclusive
   A conclusione di questa rilettura del contributo ascarelliano al diritto della concorrenza, mi sembra possibile formulare due osservazioni finali, riguardanti il giudizio complessivo sulla personalità dello studioso che onoriamo.
   La prima osservazione riguarda la grandezza dello studioso. Come per tutti i grandi Maestri, la grandezza di A. sta nel bisogno, da lui sempre avvertito, di inserire ogni problema trattato in una visione complessiva del mondo. Come giurista, la sua grandezza stava nel bisogno, altrettanto forte, di sentirsi partecipe e responsabile di un processo di costruzione collettiva delle regole della vita civile ed economica (38). Il diritto della concorrenza certamente si prestava, forse più di qualsiasi altro settore del diritto privato e commerciale, ad esprimere questa sensibilità politica e civile dello studioso.
   In un momento come l’attuale, in cui la produzione giuridica italiana segue spesso la moda filosofica del “pensiero debole”, e altrettanto spesso ritiene il suo compito limitato all’esegesi delle decisioni giurisprudenziali, il modello di giurista che A. aveva in mente appare nobile e monumentale (anche se viene da chiedersi se oggi la società civile e il mondo politico esprimano il bisogno di giuristi di questo tipo, e se giuristi di questo tipo possano esistere senza una società civile e un ceto politico che ne reclamino l’esistenza).
   La seconda osservazione riguarda la “prudenza” di A. giurista interprete, che costituisce, a mio avviso, l’altra faccia della medaglia del suo senso di responsabilità civica e del suo atteggiamento politico riformista.
   Un giudizio superficiale ha portato a presentare A., nella storia del pensiero giuridico italiano, come una sorta di campione del diritto giurisprudenziale e del pluralismo delle fonti, in contrapposizione all’ideologia del primato della legge, propria del positivismo giuridico (39). La realtà era ben diversa: l’atteggiamento metodologico di A. era pienamente caratterizzato da quello che, nella teoria del positivismo giuridico, è definiti lo “approccio interno” ad un certo ordinamento. Questo approccio era sentito da A. in termini di essere e di dover essere: in tal senso va letto il suo continuo riferirsi al vincolo della “continuità” del giurista interprete con l’ordinamento in cui opera (40).
   In questa prospettiva, il suo approccio era quello di un giurista che vuole mantenere ben saldi i legami con il diritto vivente e rifiuta di usare argomenti che non siano legittimati dalla tradizione culturale in cui si inserisce (41). In particolare, A. rifiuta categoricamente (in tutta la sua produzione scientifica, e non solo nel campo della concorrenza) argomenti di tipo giusnaturalistico (quand’anche ammantati di ragionamenti di tipo economico). Il suo rispetto del principio di tassatività delle fonti riconosciute dall’ordinamento legale è assoluto. La sua diffidenza nei confronti delle clausole generali perfino sorprendente.
   Certo, A. aveva anche una formazione filosofica di stampo idealistico e storicistico, alla quale rimase sempre legato. Non poteva dunque credere che tutto il contenuto del diritto fosse implicitamente compreso nei testi legislativi. Ma, nel teorizzare l’apporto inevitabilmente creativo del lavoro dei giuristi, A. era certamente un “dottrinarista” e non un “giurisprudenzialista”. L’evoluzione del diritto era, nella sua concezione, affidata soprattutto al compito costante di affinamento delle costruzioni dogmatiche compiuto dalla dottrina, secondo i meccanismi lenti e profondi dell’evoluzione culturale, e non al decisionismo giurisprudenziale. Una lettura attenta della produzione metodologica ascarelliana porta a sottolineare, in essa, l’esigenza di evitare il decisionismo giurisprudenziale spinto: l’esortazione ad esplicitare i giudizi di valore e ad affinare l’impiego dei concetti giuridici nel ragionamento giurisprudenziale esprimono piuttosto un bisogno di inquadrare e rendere razionalmente controllabile la creatività giurisprudenziale, che non quello di giustificarla in linea di principio.
   Per questo gran parte della riflessione metodologica di A. fu dedicata alla dogmatica giuridica e ai concetti giuridici, in particolare. Le teorie e le definizioni espresse in quel contesto non appaiono oggi valide, a mio avviso. Ma questo conta poco. Quello che rimane è il fascino di una visione (di cui A. era partecipe) che vedeva l’evoluzione del diritto incentrata sul ruolo di una dottrina giuridica, accorta e responsabile costruttrice di regulae juris. E l’auspicio che quel modello di giurista, di cui A. diede testimonianza nell’Italia del secolo scorso, possa tornare un giorno di attualità.

 

NOTE

   (1) Per una esposizione complessiva, sintetica ma esauriente, dei contributi ascarelliani nei vari campi del diritto commerciale, v. B. LIBONATI, Diritto commerciale e mercato (l’insegnamento di Tullio Ascarelli), in Studi in onore di Pietro Rescigno, Giuffrè, Milano, 1998, vol. IV, p. 303 ss.

   (2) La mancanza di un riferimento diretto all’ordoliberalismo della scuola di Friburgo è probabilmente spiegabile con la considerazione che questa scuola di pensiero era sostanzialmente cristallizzata, al tempo in cui A. scriveva le opere a cui ci riferiamo nel testo, nel suo ruolo (pur storicamente reale) di ispiratrice della soziale Marktwirtschaft, propria dell’ordinamento tedesco. Questo modello di economia mista, agli osservatori italiani dell’epoca, appariva soprattutto (e in modo riduttivo) caratterizzato dall’istituto della cogestione delle grandi imprese; istituto inviso, in Italia, tanto alla parte imprenditoriale, quanto ai sindacati operai (che vi vedevano una soluzione corporativa, incompatibile con l’ideologia marxista allora dominante nel movimento sindacale italiano).A., come si osserva nel testo, era uomo del suo tempo, partecipe (anche se non in modo continuo) al dibattito politico ed ivi collocato su posizioni di sinistra moderata (per una sintetica ma esauriente biografia intellettuale dell’A., comprendente anche questi aspetti, v. G. FERRI, Il pensiero di Tullio Ascarelli, in Scritti giuridici in memoria di T. Ascarelli, Giuffrè, Milano, 1969, vol. I, p. CLII ss.). Anche la scelta dei referenti culturali, come si tornerà a notare più avanti, era naturalmente influenzata dal complessivo dibattito politico-culturale dell’epoca.

   (3) Cfr. NARDOZZI, Miracolo e declino. L’Italia tra concorrenza e protezione, Laterza, Bari, 2004.

   (4) La citazione siglata fra parentesi, come quelle analoghe che seguiranno, si riferisce a T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali. Istituzioni di diritto industriale3, Giuffrè, Milano, 1960. Com’è noto, quest’opera costituisce l’ultima e più sistematica espressione del pensiero ascarelliano sui temi trattati nel testo.

   (5) L’originalità e l’importanza di questa posizione ascarelliana, nella cultura giuridica italiana degli anni Cinquanta, sono sottolineate da B. SORDI, Ordine e disordine giuridico del mercato (in margine ad alcuni scritti di Tullio Ascarelli), in M. BRICCOLI e aa., Ordo juris. Storia e forme dell’esperienza giuridica, Giuffrè, Milano, 2003, p. 350 ss.

   (6) Mi permetto di richiamare, in proposito, M. LIBERTINI, La prospettiva giuridica: caratteristiche della normativa antitrust e sistema giuridico italiano, in Concorrenza e Autorità Antitrust – Un bilancio a 10 anni dalla legge, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Roma, 2000, p. 69 ss.; ID., Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, in Riv. dir. comm., 2002, p. 433 ss.; ID., Regolazione e concorrenza, in Diritto dell’economia, a cura di M. De Tilla, G. Alpa, S. Patti, Il Sole/24 Ore, Milano, 2002, p. 875 ss.
   Sulla rilevanza costituzionale della tutela della concorrenza, dopo la riforma del 2001, v., fra gli altri, L. BUFFONI, La “tutela della concorrenza” dopo la riforma del titolo V: il fondamento costituzionale ed il riparto di competenze legislative, in Le istituzioni del federalismo, 2003, p. 345 ss.

   (7) È appena il caso di ricordare che, nella concezione del diritto di A., l’ordinamento è costruito giorno dopo giorno dall’opera interpretativa dei giuristi, che si caratterizza per una ineliminabile (ma non arbitraria, né illimitata) componente creativa. Per una esposizione generale della metodologia ascarelliana v., come più analitica e recente, la trattazione di F. CASA, Tullio Ascarelli. Dell’interpretazione giuridica tra positivismo e idealismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1999. Tra i vari scritti, che sono stati dedicati ai contributi metodologici di A., si segnala per profondità ed impegno (ancorché non sia condivisibile, a mio avviso, in alcune tesi di fondo), quello di P. GROSSI, Le aporie dell’assolutismo giuridico, in Scritti in onore di Pietro Rescigno, Giuffrè, Milano, 1998, vol. I, p. 471 ss. Dagli scritti citati di Casa e Grossi si può facilmente ricostruire una bibliografia completa degli scritti che si sono occupati della produzione teorica e metodologica di A.
   Il punto sarà comunque toccato nuovamente nell’ultimo paragrafo del presente scritto.

   (8) Mi riferisco, in primo luogo, alla fondamentale rivista Giurisprudenza annotata di diritto industriale, nonché al più diffuso (e per tanti aspetti pregevolissimo) manuale della materia (A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale4, Giuffrè, Milano, 2003).

   (9) T. ASCARELLI, Vendita dell’azienda e divieto di concorrenza, in Temi emil., 1936, I, c. 357 ss.

   (10) Il contributo fondamentale in tal senso, che ha portato al progressivo esaurimento del dibattito dottrinale italiano sul “diritto” tutelato dalla disciplina della concorrenza sleale, e all’intendimento dell’istituto come un insieme di norme di diritto oggettivo, è quello di G. SANTINI, I diritti della personalità nel diritto industriale, Cedam, Padova, 1959.

   (11) Cfr. F. GOLFETTO, Impresa e concorrenza nella nuova economia. Dalle strutture settoriali alle dinamiche della conoscenza, EGEA, Milano, 2000. Per il collegamento ideale fra questi orientamenti di teoria dell’organizzazione industriale e la teoria della concorrenza dinamica della c.d. scuola austriaca di economia (punto che sarà ripreso nel testo nel § successivo), cfr. J.A. MATHEWS, A resource-based view of Schumpeterian economic dynamics, in Journal of Evolutionary Economics, 2002, p. 106 ss.

   (12) V. soprattutto To promote innovation: The proper balance between Competition and Patent Law and Policy. A report of the Federal Trade Commission (october 2003).
   Per ulteriori indicazioni bibliografiche sul dibattito corrente negli Stati Uniti sul tema v. G. COLANGELO, L’antitrust, i patent pools e le tragedie della (intellectual) property governance, in Mercato Concorrenza Regole, 2004, p. 54 ss., spec. pp. 57-58.
   L’idea è comunque oggetto di crescenti consensi anche in Italia. V., come più recente, M. BERTANI, Proprietà intellettuale, antitrust e rifiuto di licenze, Giuffrè, Milano, 2004, p. 206 ss. (ove ulteriori indicazioni bibliografiche).

   (13) Così di recente, riassumendo sue note posizioni teoriche, G. OPPO, Conversazione sul diritto industriale, in Studi di diritto industriale in onore di Adriano Vanzetti – Proprietà intellettuale e concorrenza, Giuffrè, Milano, 2004, vol. II, p. 1146.

   (14) V., come più recente, A. PLAJA, La violazione della proprietà intellettuale tra risarcimento e restituzione, in Riv. ir. comm., 2004, p. 1021 ss.

   (15) Cfr. R. PARDOLESI – M. GRANIERI, Vizi e virtù dei diritti di proprietà intellettuale nell’era digitale, in Mercato Concorrenza Regole, 2004, p. 10: “Inutile negare che proprietà intellettuale e antitrust sono agli antipodi, proprio perché la logica sottesa alla prima è ciò che la seconda e deputata a combattere”.

   (16) Nella prospettiva ascarelliana, sia la temporaneità della tutela dell’innovatore (seguita dalla caduta in dominio pubblico della creazione intellettuale), sia la mancanza di premio al “secondo arrivato” avevano una coerente giustificazione funzionale.
   In G. OPPO, Creazione ed esclusiva nel diritto industriale, in Riv. dir. comm., 1964, I, p. 189 ss., che ha costruito la sua teoria proprio in contrapposizione alle tesi ascarelliane, questi aspetti non trovano invece una giustificazione sistematica, e sono fatti dipendere soltanto dalla volontà legislativa.
   La diversa ispirazione ideologica ha portato poi Oppo a sostenere, per quanto possibile, soluzioni interpretative che ammettono la tutela plurima di creazioni intellettuali di identico contenuto (così in materia di “incontri fortuiti” come con riferimento alla convalida del marchio), nel quadro di un riconoscimento tendenzialmente generale della protezione dei risultati del lavoro.
   A. invece, in coerenza con la sua diversa concezione della funzione della proprietà intellettuale, si opponeva al riconoscimento di tutele plurime sullo stesso trovato, così negando la possibilità di incontri fortuiti in materia di diritto d’autore (T 730) o la possibilità di tutela del preuso nelle invenzioni (T 569 ss.). Quanto alla convalidazione del marchio, la giustificazione che egli ne dava (e se ne può ancora apprezzare la finezza e la modernità) era in chiave funzionalistica e proconcorrenziale: se i due marchi hanno convissuto per cinque anni senza contestazioni, ciò vuol dire che il mercato li ha accettati come segni distintivi di due imprese differenti. L’istituto era pertanto letto in chiave di assecondamento dell’evoluzione del mercato.

   (17) Per sottolineare ancora la distanza fra la visione ascarelliana e altre correnti di pensiero che hanno avuto gran peso nel dibattito giuridico italiano in materia, si può ricordare ancora OPPO, Creazione ed esclusiva, cit., il quale scrive: “Una funzione concorrenziale non può assegnarsi senza artificio alla disciplina delle creazioni intellettuali la quale ha la sua ragion d’essere nel fatto e nell’apporto creativo, non nel regolamento di un conflitto concorrenziale”.

   (18) Questo stile, se da un lato ha costituito una delle grandi ragioni di fascino degli scritti dell’A., dall’altro ne ha indebolito, a mio avviso, l’efficacia comunicativa. A molti lettori A. è infatti apparso come una personalità isolata e in qualche modo “irregolare”.
   A questa superficiale impressione ha però contribuito lo stile della produzione ascarelliana, soprattutto dell’ultimo decennio di vita dall’a.
   Negli scritti dell’ultimo decennio, susseguenti al ritorno di A. in Italia, è avvertibile lo stupore e la delusione in lui suscitati dalla scienza giuridica ritrovata nel suo paese, dopo la fine della guerra. Di fronte ad una nuova Costituzione e ad un ordine politico democratico, che avrebbero dovuto stimolare la dottrina giuridica a compiere un’opera di ripensamento capillare dei contenuti dell’ordinamento, la dottrina giuridica italiana apparve ad A. come richiusa in se stessa e volta a teorizzare il disimpegno politico del giurista (e significative sono in proposito le critiche di A., espresse in tempi non sospetti, agli atteggiamenti riduttivi nei confronti della rilevanza delle norme costituzionali nel processo interpretativo). Una dottrina che, per di più, mostrava scarso interesse per l’esame dell’effettiva realtà economica e sociale, chiudendosi in una sterile alternativa fra l’esegesi fine a se stessa dei testi di legge (ancorché destinati a scarsa applicazione) e l’esercitazione virtuosistica su strumenti concettuali ricevuti dalla tradizione.
   Di fronte a questa situazione, l’atteggiamento di A. non fu però mai di chiusura pessimistica (e in questo senso egli espressamente dissentì dal pessimismo di un’altra grandissima e isolata personalità della cultura giuridica italiana del secolo XX, quale Arturo Carlo Jemolo). Tuttavia è trasparente, negli scritti dell’ultimo decennio, una sensazione di isolamento culturale, che sfocia in una contrapposizione insistita del proprio pensiero a quello della dottrina corrente. Questa sensazione sta probabilmente alla base di una produzione scientifica quantitativamente enorme, spesso disorganica ed infarcita di ripetizioni. La produzione dell’A. dell’ultimo decennio non è quella di uno studioso che, fiducioso in un progresso culturale in atto, si sente partecipe di in un movimento culturale e riflette analiticamente sui contenuti del proprio pensiero, perseguendo ideali di chiarezza e distinzione. È piuttosto l’atteggiamento di chi compie una battaglia ideale, e sacrifica talora l’approfondimento puramente “scientifico” ad una finalità mobilmente propagandistica.
   Eppure è proprio in questo atteggiamento, nella fedeltà ad una concezione storicistica ed umanistica del diritto, e nella coerenza con cui egli perseguiva un ideale di vita culturale, in cui il lavoro intellettuale trova giustificazione nella sua capacità di incidere sulla realtà sociale in vista dell’affermazione di certi valori, che, a mio avviso, risiede la grandezza di A. studioso e giurista, e insieme la ragione del fascino esercitato dal suo insegnamento.
   È in questa tensione morale, nella concezione di una “missione” del giurista, considerato come un tecnico impegnato e responsabile nella costruzione dello sviluppo sociale, che si può ravvisare la chiave per intendere tutta la riflessione ascarelliana, dagli scritti giovanili a quelli della maturità.

   (19) In particolare, per quanto riguarda la norma sugli obblighi del monopolista legale, l’esperienza riduttiva dell’interpretazione datane da dottrina e giurisprudenza italiane è oggi ricostruita, e riguardata con un certo stupore, da C. OSTI, Nuovi obblighi a contrarre, Giappichelli, Torino, 2004.

   (20) Solo con la riforma del 2004 il fenomeno è stato oggetto di espresso divieto di principio da parte del legislatore italiano. Gli orientamenti interpretativi si erano però già largamente evoluti, nel senso dell’accoglimento dell’interpretazione estensiva (v., per una ricostruzione della problematica, G. POSITANO, in La riforma delle società, a cura di M. Sandulli e V. Santoro, Giappichelli, Torino, 2003, tomo I, p. 458).

   (21) Il lavoro principale è I consorzi volontari tra imprenditori (Giuffrè, Milano, 1937).

   (22) Naturalmente la terminologia del tempo, e dello stesso A., era ben diversa, e preferiva parlare di strumenti positivi per l’interesse dell’economia nazionale.

   (23) Per la ricostruzione del problema mi permetto di rinviare a M. LIBERTINI, I principi della correttezza professionale nella disciplina della concorrenza sleale, in Studi in onore di A. Pavone La Rosa, Giuffrè, Milano, 1999, vol. II, p. 575 ss.

   (24) Per rimarcare il punto si può ricordare che, come riportato in una nota dell’editore, le bozze di stampa dell’ultima edizione della Teoria della concorrenza “sono state rivedute dall’allievo, che più Gli fu vicino, Prof. Giuseppe G. Auletta”.

   (25) Si può ricordare che l’importanza dell’argomentazione per principi e della valorizzazione delle clausole generali erano state ampiamente sottolineate nel dibattito metodologico in Germania (che A. conosceva bene) e, proprio negli ultimi anni della vita di Ascarelli, iniziavano ad essere riprese anche nelle discussioni della dottrina giuridica italiana (il fondamentale libro di S. Rodotà in materia di responsabilità civile, che segna il punto di svolta sul tema, è del 1964).

   (26) Al di fuori del diritto della concorrenza, lo stesso approccio metodologico può vedersi, mi sembra, nella memorabile polemica che A. condusse contro W. Bigiavi, per combattere la tesi di quest’ultimo in ordine alla soggezione a fallimento del c.d. imprenditore occulto (per una precisa ricostruzione recente della problematica, cfr. V. BUONOCORE, L’impresa, in Tratt. dir. comm., dir. da V. Buonocore, Giappichelli, Torino, 2002, p. 211 ss.).
   In una valutazione retrospettiva di quella polemica, credo che debba riconoscersi che le migliori ragioni, sul piano dell’interpretazione sistematica, stavano dalla parte di Bigiavi. Al contempo può apprezzarsi la particolare sensibilità di A. verso i pericoli di abuso nell’impiego della teoria in sede giudiziaria.

   (27) Si ricorda che l’interpretazione, allora e per lungo tempo prevalente, costruiva la figura della “invenzione di servizio” sulla base del criterio della considerazione dell’attività inventiva come specifica mansione del lavoratore. Essendo tale criterio sostanzialmente irrealistico, l’esito pratico era dato da una elevata imprevedibilità dei risultati dell’applicazione ai casi concreti del criterio medesimo.

   (28) Mi piace segnalare in proposito, come punto d’arrivo (s’intende: allo stato, e per quanto a conoscenza di chi scrive) della riflessione in materia, M. MOTTA, Competition Policy. Theory and Practice, Cambridge University Press, 2004. L’opera si segnala, oltre che per i pregi di sistematicità dell’esposizione, per aver fondato l’analisi della problematica su un concetto articolato di efficienza economica, comprendente, oltre al profilo allocativo, anche i profili dell’efficienza produttiva e dell’efficienza dinamica.

   (29) Cfr. G. AMATO, Il potere e l’antitrust, Il Mulino, Bologna, 1998.

   (30) Sul punto, per un’indagine ormai classica, e quasi coeva alla Teoria della concorrenza ascarelliana, v. R. PRODI, Concorrenza dinamica e potere di mercato, Angeli, Milano, 1968.

   (31) Il progetto di legge fu formalmente presentato alla Camera dall’on. Villabruna, esponente del minuscolo partito radicale, allora nato da poco a seguito di una scissione “da sinistra” del partito liberale italiano, e non ancora caratterizzato dallo stile libertario estremista, che lo segnerà nella storia dei decenni successivi.

   (32) Il testo è pubblicato in Rivista delle Società, 1956, pp. 602-3.

   (33) Non era prevista alcuna specifica misura di carattere risarcitorio, ma ciò si spiega perché in proposito A. considerava già sufficiente la norma generale dell’art. 2043 c.c. (T 164).

   (34) Non a caso, anche sul piano terminologico A. preferiva usare un’espressione inusuale, che è quella di “legislazione anticonsortile”, per definire la disciplina antitrust.

   (35) Questo aspetto dell’atteggiamento ascarelliano è bene rilevato da A. ASQUINI, Nell’anniversario della morte di Tullio Ascarelli, in Riv. soc., 1960, p. 1019: “egli, per quanto radicale innovatore, non dimenticò l’insegnamento che anche il legislatore non può del tutto bruciare i ponti col passato, perché, se il diritto è storia, anche le riforme legislative sono vincolate ad una esigenza di continuità”.

   (36) In tal senso il progetto è stato invece letto da diversi osservatori (cfr. V. DONATIVI, in Diritto antitrust italiano, a cura di A. Frignani e aa., Zanichelli, Bologna, 1994, vol. II, p. 828).

   (37) Avevo già espresso questa opinione, fors’anche sulla base di reminiscenze (non coscienti) della lettura ascarelliana, nello scritto Posizione dominante individuale e posizione dominante collettiva, in Riv. dir. comm., 2003, I, p. 570.

   (38) Una mirabile e commossa riflessione sulla personalità di A., che ne mette in luce le qualità ricordate nel testo, è in G. AULETTA, Tullio Ascarelli, in Riv. soc., 1970, p. 493 ss. (che felicemente sintetizza tali qualità nell’espressione “devozione alla conoscenza”).

   (39) Questo giudizio è stato autorevolmente accreditato da P. Grossi (di cui v. soprattutto lo scritto citato supra, alla nota 6). G. attribuisce ad A. (erroneamente, a mio avviso) la teorizzazione di un “pluralismo di fonti di produzione nell’ambito di una interpretazione concepita come creativa”, ma poi è costretto a rilevare, in molti passi di A., un’accettazione ortodossa dell’assunto della statalità del diritto. Perciò G. (per sua parte fautore di una concezione antistatalistica e tendenzialmente anarchica del diritto) afferma che “il discorso ascarelliano si vena di aporeticità, si dimostra coraggioso, anche eticamente e culturalmente coraggioso, ma insoddisfacente”.
   In realtà, per A. il riconoscimento della creatività dell’interpretazione era il risultato di un giudizio storico-descrittivo. Il diritto, storicamente, è costituito, per A., da un insieme di convinzioni collettive che sono professate da un ceto professionale specializzato, che è quello dei giuristi. L’insistenza di A. su questo punto si spiega storicamente, perché quell’enunciato doveva, nella cultura giuridica italiana degli anni Cinquanta, scontrarsi con l’opposta e prevalente ideologia, che attribuiva al giurista-interprete un compito meramente ricognitivo.
   Tuttavia, per A., il riconoscimento della creatività giurisprudenziale era solo il punto di partenza, su cui si fondava un ragionamento di metodologia prescrittiva, che si fondava su alcuni punti fondamentali: (i) il dovere del giurista di disvelare i giudizi di valore di cui inevitabilmente è intriso il ragionamento interpretativo; (ii) il ruolo centrale della dogmatica giuridica, come costruzione di concetti (storicamente mutevoli) atti a dare coerenza all’insieme delle soluzioni particolari; (iii) il dovere del giurista di ragionare le soluzioni proposte in termini di “continuità” con l’ordinamento giuridico dato, in cui egli opera.
   Quest’ultimo punto (su cui v. anche la nota successiva) comportava poi il netto rifiuto dell’idea di pluralità delle fonti, e all’opposto il riconoscimento della regola deontologica che imponeva al giurista di argomentare con gli strumenti logici propri della tradizione giuspositivistica.
   La metodologia prescrittiva ascarelliana appare dunque preoccupata soprattutto dall’idea di inquadrare entro confini precisi l’inevitabile creatività giurisprudenziale, e di consentire una controllo razionale e collettivo dei risultati dell’interpretazione giuridica. Il nemico da combattere, per lui, non era tanto un’ideologia di passività del giurista verso la legge dello Stato, bensì un’ideologia che (ammantando di carattere neutro e “scientifico” le soluzioni interpretative e nascondendo i giudizi di valore ad esse sottostanti) portava facilmente a legittimare soluzioni arbitrarie ed incoerenti rispetto alle finalità politiche espresse dall’ordinamento.
   Nel saggio di Grossi non è considerata la distinzione di piani, tra i profili descrittivi e quelli prescrittivi degli scritti metodologici ascarelliani.

   (40) Il concetto della “continuità”, come limite alla creatività della giurisprudenza, compare per la prima volta nel saggio di A. su L’idea di codice nel diritto privato e la funzione dell’interpretazione [1945], ora in Saggi giuridici, Giuffrè, Milano, 1950, p. 64 ss., e costituisce, dopo di allora, un motivo dominante della riflessione metodologica ascarelliana.
   Il concetto è apparso spesso oscuro agli studiosi che si sono occupati della produzione metodologica ascarelliana.
   Il punto è stato messo a fuoco da N. BOBBIO, L’itinerario di Tullio Ascarelli, in Scritti in memoria di Tullio Ascarelli, Giuffrè, Milano, 1969, vol. I, p. LXXXVII ss., il quale rilevava non essere chiaro se il rilievo relativo alla continuità fosse frutto dell’osservazione storica o di un’esigenza deontologica. In realtà, i due piani non sono distinti da A. nello scritto del 1945, e neanche lo sono chiaramente negli scritti successivi. Probabilmente A. intendeva affermare il criterio di continuità su ambedue i piani del discorso.
   Mi sembra però che i due piani, per quanto diversi, siano perfettamente conciliabili. In ogni caso, mi sembra evidente che A. sempre più sottolineasse la continuità come valore e quindi come regola deontologica (al punto di definirla, in qualche passo, come “regola costituzionale non scritta”, su cui si fondava l’attività del giurista-interprete).

   (41) A. non teorizzò mai chiaramente questo aspetto del suo metodo interpretativo, né d’altra parte dedicò molta attenzione all’approfondimento analitico dell’argomentazione giuridica. Il suo impegno principale era invece quello di costruire e propagandare una metodologia prescrittiva adatta ad un ceto di giuristi impegnato nella costruzione di un ordinamento democratico.
   Anche questo spiega perché, nel successivo dibattito teorico svoltosi in Italia, A. possa essere apparso “superato”. Ad esempio, nella più recente trattazione italiana della teoria dell’interpretazione giuridica (R. GUASTINI, L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, Milano, 2004), A. non è mai citato (e peraltro, la trattazione di G., puramente analitica, non si occupa delle teorie prescrittive sull’interpretazione giuridica).

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