il diritto commerciale d’oggi
    IV.2 – febbraio 2005

STUDÎ & COMMENTI

 

SAVERIO BARTOLI
Trust e fondi comuni d’investimento nella cartolarizzazione
del patrimonio immobiliare pubblico *

 

1. I fondi comuni d’investimento immobiliare nelle previsioni della legge 410/2001
   In base all’art. 4 del D.L. 25 settembre 2001 n°351, convertito con modificazioni nella legge 23 novembre 2001 n° 410 (1), è possibile perseguire il fine della dismissione degli immobili pubblici utilizzando uno strumento alternativo rispetto a quello della cartolarizzazione propriamente detta, che è descritto negli artt. da 1 a 3 della medesima legge.
   Detta norma attribuisce infatti al Ministero dell’Economia e Finanze (2) la facoltà di promuovere la costituzione di uno o più fondi comuni d’investimento immobiliare (3), conferendo negli stessi beni immobili ad uso non residenziale appartenenti allo Stato, all’Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato o agli enti pubblici non territoriali.
   Il compito d’individuare detti immobili viene dal primo comma della norma affidato ad uno o più decreti del M.E.F. soggetti a pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e volti altresì a regolare:
   a) le procedure per l’individuazione o l’eventuale costituzione ex novo della società di gestione del fondo;
   b) le procedure per il funzionamento della stessa;
   c) le procedure per il collocamento delle quote del fondo;
   d) i criteri di attribuzione del ricavato della vendita delle quote del fondo.
   Il secondo comma della norma, infine, dichiara applicabili nei limiti della compatibilità gli artt. da 1 a 3 legge cit. ai trasferimenti immobiliari in favore dei detti F.C.I.I (4).
   Poiché ad oggi il M.E.F. non ha emanato i decreti previsti dall’art. 4, i dettagli e le prospettive di questa operazione di dismissione di immobili pubblici mediante il ricorso ai F.C.I.I. possono per il momento solo essere immaginati, sulla falsariga di precedenti analoghe iniziative legislative (5).
   Prima di analizzare come possa addivenirsi alla dismissione d’immobili pubblici mediante lo strumento del F.C.I.I., appare però necessario esaminare le origini e la natura del F.C.I. in generale, partendo dall’esperienza anglosassone (cfr. § 2) per poi occuparsi del modo in cui l’istituto è penetrato, grazie ad una legislazione ad hoc, nel nostro ordinamento (cfr. § 3).

2. L’investment trust nell’esperienza anglosassone
   Il generico termine inglese “investment trust” (corrispondente all’altrettanto generico termine italiano “F.C.I. in senso lato”) sta a designare (6) quei fenomeni caratterizzati dalla presenza di un organismo che raccoglie in un fondo il risparmio apportato da una pluralità di soggetti, emette in favore di questi ultimi, a fronte di detti apporti, dei titoli di partecipazione ed investe quanto forma oggetto del fondo, nell’interesse di detti risparmiatori (onde remunerare e, giunta una scadenza prefissata, rimborsare loro il capitale conferito), in valori mobiliari, immobili o beni di altra natura, seguendo il criterio della massima diversificazione possibile del rischio.
   L’investment trust si caratterizza altresì per il fatto che sul fondo nel quale confluiscono gli apporti dei risparmiatori possono soddisfarsi unicamente questi ultimi (i quali, come si è detto, hanno diritto a veder remunerato il capitale apportato ed al rimborso dello stesso).
   All’interno della generale categoria dell’investment trust, è necessario però distinguere fra statutory investment trust (o società d’investimento) e contractual investment trust (o F.C.I. propriamente detto) (7).
   Nel primo caso, la sopra descritta finalità dell’investimento del risparmio collettivo è attuata facendo ricorso ad una società di capitali appositamente costituita, avente appunto quale oggetto detta attività d’investimento; ciò mediante il procedimento che segue:
   a) più soggetti conferiscono i propri risparmi in detta società;
   b) a fronte di detti conferimenti, i risparmiatori divengono soci di detta società (8);
   c) il fondo dell’investment trust altro non è che il patrimonio sociale di cui la società-persona giuridica è titolare e che essa impiegherà, nell’interesse dei risparmiatori-soci ed in conformità al proprio oggetto, nell’attività d’investimento.
   Nel secondo caso, invece, la finalità in questione viene realizzata facendo ricorso ad uno strumento negoziale di origine prettamente anglosassone, cioè il trust, e precisamente mediante la procedura che segue:
   a) Una società di capitali appositamente creata per la costituzione e gestione del F.C.I. (che chiameremo società di gestione del risparmio) (9) redige il regolamento del fondo, cioè l’atto disciplinante la raccolta del risparmio collettivo ed il suo investimento: tale atto ha natura di atto istitutivo del trust.
   b) I risparmiatori versano alla S.G.R. le somme destinate all’investimento: costoro assumono pertanto, al tempo stesso, la qualità di disponenti e di beneficiari del trust.
   c) L’insieme delle somme versate alla S.G.R. dai risparmiatori costituisce il fondo del trust, cioè un patrimonio separato (ovvero segregato) dal restante patrimonio della S.G.R., in quanto destinato all’attività d’investimento prevista nel regolamento ed all’esclusivo soddisfacimento dei risparmiatori-beneficiari (il fondo del F.C.I. pertanto - è bene evidenziarlo fin d’ora - non è un soggetto di diritto distinto dalla S.G.R., ma è un patrimonio affetto dal cennato vincolo di destinazione e di cui la stessa S.G.R. è titolare).
   d) Per effetto di quanto ora esposto sub c), la S.G.R. assume la qualità di trustee.
   e) A fronte dei versamenti effettuati dai risparmiatori aderenti al F.C.I., la S.G.R. emette dei titoli di partecipazione ad esso, detti “certificati o quote del fondo” (10) ed attestanti la loro qualità di beneficiari del trust (11).
   Come sopra chiarita la differenza fra statutory e contractual investment trust (12), occorre precisare che questi organismi per l’investimento collettivo possono essere “open-end” (cioè aperti) ovvero “closed-end” (cioè chiusi): nel primo caso l’importo del fondo in cui viene convogliato il risparmio raccolto non è predeterminato (sì che sono ammesse in ogni momento nuove adesioni) ed il sottoscrittore può uscire dal fondo in qualunque momento, ottenendo la liquidazione della propria quota; nel secondo caso, invece, l’importo del fondo è predeterminato (sì che, una volta raccolto il risparmio collettivo nella misura indicata dal regolamento del fondo, nessuna ulteriore sottoscrizione è possibile) e la quota del sottoscrittore è liquidabile solo alla scadenza del fondo (sì che l’unico modo per uscire anticipatamente da questo tipo di fondo ovvero per aderirvi consiste, rispettivamente, nel vendere la propria quota ad un terzo ovvero nell’acquistare la quota da uno dei sottoscrittori) (13).
   È pertanto evidente che mentre un contractual investment trust ben si adatta tanto alla forma chiusa quanto a quella aperta, uno statutory investment trust di tipo open-end postula la configurabilità, nell’ordinamento giuridico di riferimento, di una società a capitale variabile e non gravata da limiti normativi in tema di riacquisto delle proprie partecipazioni sociali.
   Pur se non vi è concordia sul punto, si tende a far risalire l’ingresso dell’investment trust nell’esperienza giuridica anglosassone alla seconda metà del XIX secolo, allorché comparvero in Inghilterra e Scozia le prime strutture di tal genere (14), le quali facevano ricorso al trust e dunque appartenevano alla tipologia “contractual” (15).
   Le ragioni dell’utilizzo del trust si spiegano (16) con il fatto che nel Regno Unito, nella vigenza del cosiddetto Bubble Act del 1720 (17), esso appariva lo strumento ideale per eludere il divieto - contenuto in detta legge - di esercitare un’impresa commerciale in forma associata facendo ricorso ad un organismo non già munito della personalità giuridica grazie al riconoscimento governativo (cioè la company), bensì privo di detta personalità (cosiddetto “unincorporated body”) (18).
   Ne discendeva che, nella prassi, le aggregazioni di soggetti cui la personalità giuridica non veniva concessa finivano per esercitare comunque la loro impresa collettiva affidando i beni strumentali all’esercizio della medesima ad uno o più trustees ed attribuendosi il ruolo di beneficiari del trust in tal modo istituito (il compito attribuito al trustee era quindi quello di amministrare i beni onde realizzare il fine dell’impresa collettiva non personificata) (19); ciò finì per accadere anche per i primi organismi d’investimento collettivi, in quanto il risparmio apportato dagli investitori venne affidato ad un trustee che avrebbe dovuto gestirlo nell’interesse di costoro.
   Nel 1879 una sentenza del Master of Rolls (20) apparve infliggere un duro colpo alla prassi in questione, dichiarandola illegale, ma tale decisione venne prontamente riformata in sede di appello (21).
   A fianco della forma contractual, ben presto comparvero nel Regno Unito gli investment trust di tipo statutory; tale complessiva esperienza finì per diffondersi nel restante mondo anglosassone e per suscitare interesse (a partire dall’inizio del XX secolo) anche nell’Europa continentale, Italia inclusa.
   Occorre a questo punto precisare che la successiva analisi si concentrerà sulla sola figura del contractual investment trust (22), sia perché è a tale tipologia di organismo che si è ispirata la nostra legislazione in tema di F.C.I. (23), sia soprattutto perché, come si è visto al § 1, l’art. 4 della legge 410/2001 prevede lo strumento dei F.C.I.I. per attuare la dismissione degli immobili pubblici.

3. Il lento processo di recepimento del contractual investment trust nell’ordinamento italiano
   In Italia l’interesse per la figura del contractual investment trust è sorto all’incirca mezzo secolo fa; in tale epoca, caratterizzata da un ancora limitato approfondimento degli studi in tema di trust da parte della nostra dottrina (24) e da limitate occasioni di contatto dell’istituto con la nostra giurisprudenza (25), è naturale che risultassero difficoltose la piena comprensione del fenomeno e la sua riconduzione all’interno delle nostre tradizionali categorie civilistiche.
   Trattavasi di un periodo storico in cui il trust era ritenuto istituto incompatibile con i principi del nostro ordinamento giuridico essenzialmente per due motivi:
   a) in quanto fonte di uno “sdoppiamento della proprietà” fra trustee e beneficiario (titolari - si assumeva - l’uno della “proprietà formale”, l’altro della “proprietà sostanziale” dei beni in trust), inammissibile alla luce del principio del numero chiuso dei diritti reali (26);
   b) in quanto fonte di un’ipotesi di patrimonio separato non prevista da alcuna norma italiana e dunque contrastante con la riserva di legge fissata dall’art. 2740 secondo comma cod. civ.
   Nel ricostruire il fenomeno, pertanto, la dottrina dovette andare alla ricerca di strutture giuridiche alternative, le quali non a caso (27) divergono fra loro in punto di individuazione del soggetto da ritenersi proprietario del patrimonio apportato nel F.C.I. dai risparmiatori.
   Un primo orientamento (28) ritenne che il F.C.I. desse vita ad una situazione di comproprietà del fondo fra i risparmiatori (per quote corrispondenti alla somma di denaro versata) e che questi ultimi stipulassero con la S.G.R. un contratto di mandato avente ad oggetto l’attività d’investimento del fondo stesso.
   Una seconda tesi (29) ritenne invece che la costituzione del F.C.I. determinasse la nascita di un nuovo soggetto di diritto non personificato, distinto tanto dalla S.G.R. quanto dai singoli risparmiatori: si sarebbe trattato del fondo stesso, ente titolare di un “patrimonio allo scopo” (avente natura di “fondazione” secondo taluno (30), di “associazione atipica” secondo altri) (31) composto dei risparmi apportati dagli investitori e che gestisce i medesimi in ossequio al regolamento del F.C.I. (avente natura di atto costitutivo di tale ente).
   Un terzo orientamento (32), infine, ritenne che il fondo del F.C.I. appartenesse alla S.G.R. e che ad esso, trattandosi di patrimonio affetto da un vincolo di destinazione (cioè destinato all’attività d’investimento nell’interesse dei sottoscrittori ed all’esclusivo soddisfacimento di costoro), dovesse attribuirsi natura di patrimonio separato dal restante patrimonio personale della S.G.R (33).
   La teoria della comproprietà del fondo fra i risparmiatori venne sottoposta a numerose censure (34), in quanto:
   a) la comunione implica il mero godimento dei beni comuni, cioè il ricavo dai medesimi di quelle utilità che essi sono in grado di dare naturalmente ed a prescindere dall’esercizio di un’attività ad essi relativa, mentre nel F.C.I. la finalità è quella di trasformare quanto conferito (denaro) in beni di altra natura (valori mobiliari o immobiliari) esercitando un’attività economica d’investimento;
   b) nella comunione i comunisti vantano sui beni i poteri e diritti spettanti al proprietario, mentre nel F.C.I. i risparmiatori non hanno diritto al godimento immediato dei titoli in cui il fondo viene investito, ma vantano un diritto di credito nei confronti della S.G.R. a conseguire le utilità rivenienti dall’attività d’investimento;
   c) nella comunione i comunisti hanno poteri amministrativi che nel F.C.I. i risparmiatori non hanno affatto, poiché tali poteri sono affidati alla discrezionalità (sia pure vincolata al rispetto del regolamento del fondo) della S.G.R.;
   d) nella comunione il comunista ha di regola il potere di chiederne lo scioglimento anticipato (cfr art. 1111 cod.civ.), mentre nel F.C.I. la fine del fondo si avrà solo una volta giunta la scadenza fissata nel regolamento;
   e) lo scioglimento di una comunione comporta l’attribuzione al singolo comunista di una porzione in natura (pars quanta) dei beni comuni corrispondente alla quota ideale (pars quota), salvo che si tratti di beni non comodamente divisibili (cfr art. 1114 cod.civ.), mentre nel F.C.I. la regola è l’attribuzione al risparmiatore, al termine del fondo, di una somma di denaro d’importo pari al valore della sua quota (l’attribuzione di titoli al posto del denaro costituirebbe infatti un’anomalia, discendente dal fatto che la S.G.R. non è riuscita a liquidare, in tutto o in parte, i titoli in portafoglio al termine del fondo);
   f) delle obbligazioni discendenti dalla comunione i comunisti rispondono non solo con i beni comuni, ma anche con i loro restanti beni personali, mentre nel F.C.I. i risparmiatori rispondono delle obbligazioni del fondo soltanto nei limiti della somma versata;
   g) nella comunione il creditore personale del comunista può soddisfarsi sulla sua quota, cioè su una porzione di beni comuni di valore corrispondente alla quota del comunista, mentre nel F.C.I. un creditore siffatto può agire sulla quota di partecipazione di cui è titolare il risparmiatore suo debitore (cioè sul credito da costui vantato nei confronti del F.C.I., ma non (neppure pro quota) sui beni facenti parte del fondo.
   Critiche non minori (35) furono indirizzate alla tesi della soggettività non personificata del fondo del F.C.I., in quanto:
   a) la tesi dell’ente fondazionale (36) presuppone la configurabilità di una fondazione non riconosciuta (ipotesi assai controversa) (37), che svolge esclusivamente attività d’impresa (ipotesi tutto sommato ammissibile) e che persegue un fine non altruistico (ipotesi di difficile ammissibilità) (38);
   b) la tesi dell’ente associativo atipico (39) appare radicalmente al di fuori del nostro ordinamento (40).
   Quanto, infine, alla tesi del fondo come patrimonio separato dal restante patrimonio della S.G.R., essa era (e resta) indubbiamente la più aderente alla struttura del F.C.I. anglosassone di tipo contractual, cioè utilizzante il trust (in quanto individuava in sostanza in capo alla S.G.R. quella situazione proprietaria “vincolata nel fine” che è tipica del trustee, senza il non necessario orpello del fondo-nuovo soggetto di diritto), ma non poté sottrarsi alle critiche della dottrina (41) ancora legata al concetto tradizionale di proprietà (cioè all’idea di proprietà come diritto di usare e di godere del bene nel proprio esclusivo interesse, e non nell’interesse altrui come accadeva per la S.G.R. nei F.C.I.) ed alla fuorviante idea del trust quale fonte di un’inammissibile doppia proprietà su uno stesso bene.
   Tale dottrina, probabilmente, non aveva riflettuto a sufficienza sul fatto che nel nostro codice civile, in realtà, già esistono ipotesi di proprietà vincolata nel fine (e quindi fonte di un patrimonio separato) non troppo distanti dalla proprietà del trustee (mi riferisco, in principalità, alla proprietà oggetto di un fondo patrimoniale ed alla proprietà del mandatario senza rappresentanza) (42): un’attenta considerazione di queste ipotesi avrebbe probabilmente condotto, pertanto, a ridimensionare la portata asseritamente “eversiva” della tesi del fondo del F.C.I. come patrimonio separato.
   Ne discende che l’unica obiezione realmente insuperabile alla ricostruzione del F.C.I. in termini di patrimonio separato era, in quell’epoca, rappresentata dal fatto che l’art. 2740, secondo comma, cod.civ. demanda alle norme di legge il compito di inserire nell’ordinamento nuove ipotesi di limitazione di responsabilità (43).
   In questa incertezza interpretativa nacquero e si svilupparono svariati progetti di legge sui F.C.I.; dopo una ventina d’anni, si giunse così all’entrata in vigore della legge 77/1983, la quale introduceva la figura del F.C.I. mobiliare di tipo open-end, palesemente ispirandosi alla tipologia del contractual investment trust.
   Forse i tempi non erano ancora maturi per qualificare il F.C.I. come trust (la Convenzione di L’Aja era, infatti, ancora da venire), ma tale legge, poiché di fatto si muove in stretta aderenza al modello anglosassone di riferimento, ben avrebbe potuto almeno parlare in modo inequivoco del fondo come di un patrimonio separato appartenente alla S.G.R.
   La norma chiave in materia, cioè l’art. 3 comma secondo (44), nella sua approssimativa dizione palesa invece tutto il disagio del legislatore nel “metabolizzare” l’istituto: vi si parla infatti di patrimonio “distinto” dal patrimonio della S.G.R. e da quello dei risparmiatori, usando cioè un aggettivo che non sopirà affatto le dispute circa l’individuazione del proprietario del fondo del F.C.I.
   Il 1° luglio del 1985 venne approvata anche dall’Italia la Convenzione di L’Aja (45): ratificata dal nostro Stato con legge 364/1989, essa entrò in vigore il 1° gennaio 1992.
   L’avvenuta approvazione di detta Convenzione avrebbe dovuto esser fonte di una maggiore familiarità del legislatore con l’istituto del trust, in quanto essa ha fatto venir meno ogni pregiudiziale opposizione nei confronti tanto dei trust “esteri” quanto - sia pure nel contesto di un acceso dibattito non ancora del tutto sopito (46) - nei confronti dei trusts “interni” (cioè dei trusts costituiti in Italia e privi di elementi d’internazionalità, eccezion fatta per la legge regolatrice).
   I successivi passi compiuti dal nostro legislatore in tema di F.C.I. dimostrano, invece, che la sua scarsa dimestichezza con il trust è rimasta pressoché intatta.
   L’art. 2 del D. Lgs. 83/1992, nel modificare l’art. 3 comma secondo della citata legge 77/1983 (47), continua infatti ad ignorare la parola “trust” e parla del fondo del F.C.I. come di un patrimonio “autonomo, distinto” dal patrimonio della S.G.R. e da quello dei risparmiatori.
   L’aggiunta dell’aggettivo “autonomo” nella nuova formulazione della norma ha fatto ritenere a taluno (48) che il legislatore avesse optato per la soggettivizzazione del fondo del F.C.I., ma le successive scelte legislative appaiono dimostrare come dietro all’uso di tale aggettivo non vi fosse, in realtà, alcun disegno preciso (49), in quanto:
   a) la legge 344/1993, che ha introdotto la figura del F.C.I. mobiliare chiuso, all’art. 8 comma sesto torna a qualificare il fondo come patrimonio “distinto” (50);
   b) altrettanto fa la legge 86/1994, che ha introdotto il F.C.I. immobiliare chiuso, al suo art. 12 comma sesto (51).
   Non a caso, infatti, sia successivamente alla legge 77/1983 che successivamente al D. Lgs. 83/1992 ed alle leggi 344/1993 ed 86/1994 (52) una notevole parte della dottrina ha continuato a qualificare il fondo del F.C.I. come patrimonio separato appartenente alla S.G.R. (53).
   Si è giunti infine all’approvazione del D. Lgs. 58/1998 (cosiddetto Testo Unico sull’Intermediazione Finanziaria) (54), che ha predisposto una disciplina unitaria dei F.C.I. (55) abrogando - con il suo art. 214 - le leggi 77/1983, 344/1993 ed 86/1994 (56) ed ancora una volta accuratamente evitando di ricostruire l’istituto in termini di trust (e di fugare, in tal modo, le incertezze in ordine all’appartenenza del fondo).
   Ai fini del tema oggetto del presente scritto, le norme-chiave del Tuif appaiono essere gli artt. 1 primo comma lettera f), 22 primo e terzo comma, 36 sesto comma e 168.
   La prima norma definisce il F.C.I. come “il patrimonio autonomo, suddiviso in quote, di pertinenza di una pluralità di partecipanti, gestito in monte”.
   La seconda norma si intitola “separazione patrimoniale” ed al primo comma afferma: “Nella prestazione dei servizi di investimento e accessori gli strumenti finanziari e le somme di denaro dei singoli clienti, a qualunque titolo detenuti … dalla S.G.R..costituiscono patrimonio distinto a tutti gli effetti da quello dell’intermediario e da quello degli altri clienti. Su tale patrimonio non sono ammesse azioni dei creditori dell’intermediario … Le azioni dei creditori dei singoli clienti sono ammesse nei limiti del patrimonio di proprietà di questi ultimi”; il terzo comma della stessa norma afferma poi che “salvo consenso scritto dei clienti” la S.G.R. non può “utilizzare, nell’interesse proprio o di terzi, gli strumenti finanziari di pertinenza dei clienti” da essa “detenuti a qualsiasi titolo”.
   La terza norma afferma: “Ciascun F.C.I. … costituisce patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della S.G.R. e da quello di ciascun partecipante, nonché da ogni altro patrimonio gestito dalla medesima società. Su tale patrimonio non sono ammesse azioni dei creditori della S.G.R. … Le azioni dei creditori dei singoli investitori sono ammesse soltanto sulle quote di partecipazione dei medesimi. La S.G.R. non può in alcun caso utilizzare, nell’interesse proprio o di terzi, i beni di pertinenza dei fondi gestiti”.
   La quarta norma, infine, si intitola “confusione di patrimoni” e considera reato la condotta della S.G.R. che, “al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, viola le disposizioni concernenti la separazione patrimoniale arrecando danno agli investitori”.
   Tanto premesso, considerata la varietà degli aggettivi utilizzati dal Tuif per qualificare il fondo del F.C.I. (“autonomo”, “separato”, “distinto”), proprio non si comprende come una parte della dottrina abbia potuto tornare ad affermare (57) che il Tuif lo qualifica come patrimonio autonomo e, quindi, esso ha inequivocabilmente optato per la tesi del fondo come soggetto di diritto (58).
   Non a caso la più attenta dottrina (59) non ha mancato di ribadire come non si possa attribuire peso decisivo alle oscillanti aggettivazioni impiegate dal legislatore - il quale si ostina a non qualificare come trust un istituto (appunto il F.C.I.) nato nel suo ambiente d’origine come applicazione pratica del trust - onde concludere nel senso che il fondo è un patrimonio separato (anzi: segregato) (60) appartenente alla S.G.R. (61).

4. Caratteri essenziali dell’operazione di dismissione di immobili pubblici a mezzo di F.C.I.I. disciplinata dalla legge 410/2001
   L’art. 3 comma 111 della legge 662/1996, come si è accennato in precedenza (62), introdusse un ulteriore norma (l’art. 14bis) nella legge 86/1994 sui F.C.I.I. chiusi: essa consentiva l’istituzione di F.C.I.I. mediante apporto negli stessi di immobili in prevalenza pubblici (63), onde attuarne la dismissione.
   Lo stesso art. 3 della citata legge 662/1996, ai commi 86 e segg., utilizzava detta tecnica per attuare una concreta operazione di dismissione.
   Il Tuif ha abrogato la legge 86/1994, ma facendone salvo l’art. 14-bis.
   Anche l’art. 4 della legge 410/2001, infine, ha previsto che le operazioni di dismissione da essa avviate possano attuarsi a mezzo conferimento di beni pubblici in F.C.I.I.; per le ragioni tecniche già esposte nel § 1, però, tali operazioni non hanno ancora preso il via.
   Considerati i contenuti dell’operazione di dismissione a suo tempo varata dall’art. 3 commi 86 e segg. legge 662/1996, ad ogni modo, nelle sue linee essenziali quella prevista dall’art. 4 legge 410/2001 dovrebbe essere così strutturata:
   a) il M.E.F. individua con suoi decreti pubblicati in Gazzetta Ufficiale gli immobili pubblici conferibili in F.C.I.I. appositamente costituiti;
   b) i soggetti pubblici titolari di detti immobili li conferiscono nel F.C.I.I., ricevendone in cambio quote di partecipazione al fondo;
   c) dette quote vengono collocate dalla S.G.R. presso i risparmiatori, a fronte di apporti in denaro da parte di costoro;
   d) gli enti pubblici che apportarono gli immobili di cui alla lettera a) ricevono dalla S.G.R. le somme da questa introitate all’esito dell’attività di collocamento delle quote di cui alla lettera c);
   e) gli immobili oggetto del fondo vengono gestiti, valorizzati e venduti dalla S.G.R., la quale con il ricavato rimborsa gli investitori che rilevarono le quote del fondo come da lettera c).
   Nella struttura in esame, pertanto, avuto al solito riguardo per l’istituto del trust:
   a) la S.G.R. assume il ruolo di trustee;
   b) gli enti pubblici che apportano al fondo i beni immobili assumono il ruolo, al tempo stesso, di disponenti e di beneficiarii del trust (in quanto apportano immobili e ricevono quote del fondo);
   c) in un secondo momento, detti enti pubblici cederanno la loro posizione di beneficiarii ai risparmiatori che, all’esito dell’attività di collocamento delle quote del fondo, risulteranno averle acquistate.
   Considerato che il secondo comma dell’art. 4 della legge 410/2001 dichiara applicabili, nei limiti della compatibilità, i precedenti artt. da 1 a 3 della medesima legge (64) per quanto concerne i trasferimenti immobiliari ai F.C.I., e che tanto nel primo quanto nel secondo comma dell’art. 2 di detta legge (pur se in essa, ancora una volta, si evita qualunque riferimento al trust) è costante la qualificazione del patrimonio immobiliare da dismettere in termini di patrimonio “separato” (65), è auspicabile che sia finalmente colta quella che pare essere l’esatta essenza del fondo dei F.C.I., in stretta aderenza alle sue origini anglosassoni e, dunque, evitandone la soggettivizzazione.
   Non occorre però, a mio sommesso avviso, farsi troppe illusioni sul punto, come dimostrato dal fatto che, nel corso del non lontano anno 1999 (e ad ormai quasi quindici anni di distanza dall’approvazione della Convenzione di L’Aja) il Consiglio di Stato, Sez. III, con parere reso in data 11 maggio (66) a margine dell’operazione di dismissione a mezzo di F.C.I. varata dalla citata legge 662/1996, ha finito per affermare che “la titolarità dei beni, facenti parte dei fondi, spetta agli stessi fondi quali centri autonomi d’interessi, in base ai peculiari caratteri ad essi espressamente attribuiti dalle norme di legge (D. Lgs. 58/1998), salve le necessarie annotazioni riguardanti il vincolo gestorio esistente, anch’esso fissato in modo espresso dalla normativa vigente in materia” (67).

* Relazione presentata al Convegno intitolato “Cartolarizzazione del patrimonio immobiliare pubblico”, tenutosi a Firenze in data 25 gennaio 2003 ed organizzato dalla Fondazione Cesifin (Centro per lo studio delle istituzioni finanziarie) – Alberto Predieri.

NOTE

   (1) Legge intitolata “Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni d’investimento immobiliare”.

   (2) D’ora in avanti, per brevità: M.E.F.

   (3) D’ora in avanti, per brevità: F.C.I.I. (quanto al termine “fondi comuni d’investimento”, si utilizzerà la sigla F.C.I.)

   (4) La legge 410/2001 dedica ai F.C.I.I. delle norme ulteriori: trattasi degli artt. da 5 a 10, di cui però il solo art. 5 (sul quale si avrà modo di tornare alla nota 54) contiene previsioni “civilistiche”, avendo le altre norme citate natura fiscale.

   (5) Mi riferisco in particolare alla legge 662 del 1996 (sul punto cfr la successiva nota 52 ed il § 4).

   (6) Per spunti in tal senso cfr ad es. A. Nigro, voce “Investment trust”, Enc. Dir., vol. XXII, Milano, 1972, 691; G.P. Savi, voce “Società finanziaria (“Holding”) e società d’investimento (“Investment trust”)”, NNDI, vol. XVII, Torino, 1970, 718 ss.

   (7) È solo quest’ultima figura, come meglio si vedrà nel prosieguo, ad assumere rilevanza nell’ambito del tema oggetto del presente scritto.

   (8) In questo caso, pertanto, i “titoli di partecipazione” emessi dall’investment trust a fronte dell’apporto dei risparmiatori altro non sono che partecipazioni sociali (cioè azioni o quote).

   (9) D’ora in avanti, per brevità: S.G.R.

   (10) In inglese denominati, per lo più, “units”.

   (11) Nell’analisi del contractual investment trust proposta, pertanto, la S.G.R. si limita a redigere l’atto istitutivo del trust e non assume il ruolo di disponente, che si ritiene preferibile attribuire invece ai risparmiatori, in quanto in effetti sono costoro ad attuare la dotazione patrimoniale del trust. Ne discende una ricostruzione del trust utilizzato per dar vita al F.C.I. in termini di trust “dinamico”, cioè di trust con trasferimento di beni da un disponente (nel caso: i risparmiatori che aderiscono al fondo, che sono altresì i beneficiari del trust medesimo) ad un trustee (nel caso: la S.G.R.).Ciò sulla falsariga di quanto parrebbe proposto altresì da un illustre autore (cfr M. Lupoi, Trusts, Milano 2001, 688-689; sul punto cfr anche la successiva nota 61).Ci si discosta così, consapevolmente, da quanto parrebbe sostenuto (sia pure in modo apodittico) da altra dottrina (cfr ad es. G.P. Savi, voce “Società finanziaria”[supra, nota 6], 719), per la quale la S.G.R. assumerebbe invece il ruolo di disponente: ove quest’ultima impostazione fosse esatta, pertanto, ci troveremmo di fronte ad un trust “statico”, nel quale cioè il disponente (nel caso: la S.G.R.) si autodichiara trustee dei beni di cui già è titolare (nel caso: delle somme versatele dai risparmiatori aderenti al fondo), istituendo un trust del quale - al solito - beneficiari sono gli investitori. Occorre altresì precisare che nel testo si è volutamente proposto uno schema semplificato del contractual investment trust, in quanto all’operazione partecipa non solo la S.G.R., ma anche un altro soggetto (trattasi di una banca o di una società finanziaria): in tale contesto, la S.G.R. gestisce il fondo ed assume il ruolo di “manager trustee”, mentre il soggetto di cui si è detto svolge mansioni sia di custodia degli strumenti finanziari e delle disponibilità liquide del fondo (che sono ad esso intestati), sia di controllo della regolarità della gestione della S.G.R., assumendo il ruolo di “custodian trustee”. È del resto normale che, in certi tipi di trust, i beni siano intestati ad un custodian trustee, il quale altro non è che un nominee del manager trustee (cfr d’altro canto l’art. 2 paragrafo 2 lettera b della Convenzione de L’Aja 1° luglio 1985 – della quale di dirà nel prosieguo – che afferma: “i beni in trust sono intestati al trustee o ad altro soggetto per conto del trustee”). Sul dualismo manager trustee-custodian trustee cfr altresì M. Graziadei, Diritti nell’interesse altrui, Trento 1995, 351-352. La figura della banca-custode è stata recepita anche dalla nostra legislazione in tema di F.C.I. (cfr la successiva nota 55).

   (12) Non sarà sfuggito al lettore più attento il fatto che il cosiddetto statutory investment trust, in realtà, nulla ha a che fare con il trust, in quanto attua le finalità dell’investimento collettivo creando una società-persona giuridica di cui i risparmiatori divengono soci. La persistente qualificazione di un fenomeno siffatto in termini di investment trust, pertanto, si spiega con ragioni di ordine meramente storico (sul punto cfr ad es. A. Nigro, voce “Investment trust” [supra, nota 5], 691 alla nota 6): come subito di vedrà nel testo, infatti, nell’esperienza anglosassone i primi organismi d’investimento collettivo furono attuati - nella seconda metà del XIX secolo - facendo ricorso al trust, sì che la denominazione “investment trust” per tali organismi utilizzata finì per designare - impropriamente - anche esperienze d’investimento collettivo attuate in epoca successiva mediante il (ben differente) strumento societario.

   (13) Cfr. per tutti A. Nigro, voce “Investment trust” [supra, nota 6], 697-698, per il quale nelle strutture open-end “Le dimensioni del patrimonio variano continuamente in relazione all’emissione ed al rimborso delle quote di partecipazione. In sostanza, si riscontrano in questo tipo le seguenti caratteristiche: l’obbligo, per gli organi di gestione, di riacquistare in qualsiasi momento i certificati (o le azioni) emessi, su semplice richiesta dei sottoscrittori (recesso dei partecipanti e diminuzione del patrimonio); la facoltà per i suddetti organi di emettere nuovi certificati (o azioni) a favore di successivi sottoscrittori (ammissione di nuovi partecipanti e aumento del fondo)”; quanto alle strutture closed-end, per il citato autore in esse “Le dimensioni del patrimonio restano immutabili e non vi è vendita o riacquisto continuo dei titoli di partecipazione. In sostanza, questo tipo di investment trust emette titoli di partecipazione fino a raggiungere un certo prestabilito ammontare di capitale: raggiunto questo livello, chi vuole acquistare certificati dovrà rivolgersi ad uno dei partecipanti; e, d’altra parte, quello dei partecipanti che vuole cedere i suoi certificati dovrà trovare direttamente un acquirente”.

   (14) Si è soliti menzionare al riguardo organismi come la Scottish-American Investment Company (1860), l’International Financial Society (1863), la London Financial Association (1863) e la Foreign and Colonial Government Trust (1868).

   (15) Per cenni storici in tema di investment trust cfr B. Libonati, Holding ed investment trust, Milano 1967 (l’edizione originale è del 1959), 466 ss.; A. Nigro, voce “Investment trust” [supra, nota 6], 694 ss.; G.P. Savi, voce “Società finanziaria” [supra, nota 6], 719 ss.; M. Graziadei, Diritti nell’interesse [supra, nota 11], 362 ss.

   (16) Cfr M. Graziadei, Diritti nell’interesse [supra, nota 11], 362 ss.

   (17) Cioè dello Statute 6 Geo.I c. 18 (così M. Graziadei, Diritti nell’interesse [supra, nota 11], 362 nota 82).

   (18) Tale divieto fu in sostanza ribadito da una legge successiva - il Company Act del 1862 - il quale proibiva la creazione di un’associazione di più di venti persone non costituita in forma di registered company allo scopo di esercitare un’attività lucrativa.

   (19) “An unincorporated group could not hold property, but property could be held in trust for it. The unity of purpose of the group was thus committed to the care of a body of trustees acting under a trust deed” (così C.A. Cooke, Corporation, trust e company. An essay in legal history, Cambridge, Mass. 1951, 86).Sull’utilizzo del trust nell’esperienza inglese onde aggirare le problematiche sottese alla presenza di organismi collettivi privi della personalità giuridica cfr altresì G.C. Cheshire, Il concetto del trust secondo la common law inglese, Torino 1998 (l’edizione originale è del 1933), 57 ss.

   (20) Trattasi di Sykes v. Beadon (1879) 11 Ch.D. 170.

   (21) Si veda Smith v. Anderson (1870) 15 Ch. D. 247.

   (22) In Inghilterra, l’attuale normativa di riferimento in materia è il Financial Services Act del 1986 (come modificato dal Financial Services and Markets Act del 2000) che incisivamente definisce la figura come “A collective investment scheme under which the property in question is held on trust for the participants” e per il quale il diritto degli investitori-beneficiari “shall consist of units … each unit representing one undivided share in the property of the scheme”. Tale normativa (per maggiori dettagli sulla quale cfr M. Graziadei, Diritti nell’interesse [supra, nota 11], 352 ss.), impone quella separazione di ruoli fra manager trustee e custodian trustee cui si è accennato alla precedente nota 11.

   (23) La tipologia dello statutory investment trust, invece, ha condotto alla creazione di strutture come le SICAV (Società d’Investimento a Capitale Variabile), regolate prima con D. Lgs. 84/1992 e poi con gli artt. 43-50 del D. Lgs. 58/1998 (il cui art. 214 ha abrogato il citato D. Lgs. 84/1992, ad eccezione dell’art. 14).

   (24) Si pensi che la prima monografia in materia di trust è del 1935 (R. Franceschelli, Il trust nel diritto inglese, Padova) e che ad essa hanno fatto seguito, nei cinquanta anni successivi, soltanto cinque articoli su riviste (C. Grassetti, Il trust anglosassone, proprietà fiduciaria e negozio fiduciario, Riv. ir. Comm., 1936, 548 ss.; C. Angeloni, Il trust receipt nella prassi bancaria anglosassone, BBTC 1938, I, 37; E. Calabi, Anticipazioni di merci mediante trust receipt, Riv. ir. comm., 1951, I, 137; G. Bisconti, Deposito in nome di terzo e disposizione di ultima volontà, BBTC, 1959, I, 100; M. Buonincontro, Trust e civil law, Riv. ir. Civ. 1959, II, 680), due voci in enciclopedie giuridiche (R. Franceschelli, voce “Trust e trustee”, Dig. sc. priv. sez. civ., Torino 1940, 569; G. Corsani, Consegna in trust, Enc. Bancaria, Milano 1942, I, 452) e tre monografie (L. Bernardi, Il trust nel diritto internazionale privato, in Studi nelle scienze giuridiche e sociali, Univ. di Pavia, 1957, XXXV; P.G. Jaeger, La separazione del patrimonio fiduciario nel fallimento, Milano 1968; M. Lupoi, Appunti sulla real property e sul trust nel diritto inglese, Milano 1971).Quanto agli scritti di quel periodo specificamente dedicati all’investment trust, oltre a quelli di A. Nigro e di G.P. Savi citati alla nota 6 ed a quelli di B. Libonati citato alla nota 15, si vedano T. Bianchi, L’investment trust, Milano 1963; Aa.Vv., La diffusione della ricchezza mobiliare: investment trust e azionariato popolare, Milano 1963; Colombo-Dotti-Perletti-Schrans-Sostringer, L’investment trust nelle esperienze e nei progetti europei”, Padova 1967; D. Velo, Gli investment trusts: redditività e influenza della loro gestione sul mercato finanziario nell’esperienza statunitense, Milano 1971; A. Santangelo, L’investment trust: profili e strutture comparate, Dir. fall., 1982, I, 737, nonché gli ulteriori scritti indicati alle note 29 e segg. Solo a partire dalla metà degli anni ottanta, con l’approvazione della Convenzione di L’Aja e la sua successiva ratifica, si assisterà ad una vera e propria proliferazione degli studi sul trust (cfr l’elencazione contenuta in questa Rivista 2004, 150 ss.).

   (25) Si pensi che fino alla metà degli anni novanta dello scorso secolo si potevano contare solo 5 pronunzie in tema di trust, delle quali due risalivano alla fine del precedente XIX secolo ed una all’inizio del XX secolo (cfr App. Cagliari 12 maggio 1898, Giur. It., 1898, I, 2, 612; Cass. Roma 21 febbraio 1899, Giur. It., 1899, I, 2, 216 e Foro it., 1900, I, 501; Cass. Napoli 29 marzo 1909, Giur. It., 1909, I, 1, 649 e Trib. Giudiz., 1909, 249; Trib. Oristano 15 marzo 1956, Foro it., 1956, I, 1019 e Trib. Casale Monferrato (decr.) 13 aprile 1984, Riv. Not., 1985, 240 e Giur. It., 1986, I, 754).Per una ampia disamina di tali pronunzie cfr S. Bartoli,Il trust, Milano 2001, 725 ss. con ampi riferimenti bibliografici. Al solito, fu la Convenzione di L’Aja a far lievitare il numero delle decisioni in materia.

   (26) Trattasi di teoria elaborata per la prima volta, com’è noto, da R. Franceschelli, Il trust [supra, nota 24] e che ha goduto di una notevole diffusione nel nostro Paese in epoca anteriore alla Convenzione de L’Aja. In epoca successiva ad essa, cadute all’evidenza le ragioni ostative al riconoscimento dei trusts stranieri nel nostro ordinamento, detta tesi ha costituito uno dei pilastri su cui poggia l’orientamento (che tende ormai ad essere minoritario) contrario all’ammissibilità dei cosiddetti trusts interni (per un’elencazione dei fautori della tesi della doppia proprietà cfr S. Bartoli, Il trust [supra, nota 25], 96 ss.; quanto al tema del trust interno, su di esso si avrà modo di tornare nella successiva nota 46).

   (27) Il disagio della nostra dottrina nell’individuazione del “proprietario” del fondo, infatti, discendeva - e tuttora, come si vedrà, discende - dalla scarsa comprensione dell’istituto del trust, costituente il fulcro delle tipologie “contractual” dei F.C.I. anglosassoni.

   (28) Cfr T. Ascarelli, Investment trust, BBTC, 1951, I, 178 ss.; B. Libonati, Holding [supra, nota 15], 627 ss.; Corrado, L’investment trust nell’ordinamento italiano, in Studi in onore di P. Greco, I, Padova 1965,143 ss.; Riolo, Prime note sui fondi comuni di investimento mobiliare, Riv. Dir. Fin., 1970, I, 269 ss.
(29) Cfr R. Costi, La struttura dei fondi comuni d’investimento nell’ordinamento giuridico italiano e nello schema di riforma delle società commerciali, Riv. Soc., 1968, 299 ss.; A. Nigro, voce “Investment trust” [supra, nota 6], 703 ss.

   (30) Così R. Costi, La struttura [supra, nota 29].

   (31) Così A. Nigro, voce “Investment trust” [supra, nota 29].

   (32) Cfr G.P. Savi, voce “Società finanziaria” [supra, nota 6], 724-725 e 727-728.; Colombo in Colombo-Dotti-Perletti-Schrans-Sostringer, L’investment trust [supra, nota 24], 286 ss.; P.G. Jaeger, “Sui fondi comuni d’investimento”, Riv. Soc., 1969, 118 ss e 1142 ss.

   (33) “La società di gestione non è senza limiti o vincoli nell’esercizio dei suoi poteri sui beni ( … ). Non solo manca infatti ad essa la facoltà di godimento di quei beni, posta la destinazione ai sottoscrittori degli utili ritratti dalla gestione del fondo, ma l’esercizio dei poteri di amministrare e disporre deve indirizzarsi sempre e solo al perseguimento delle finalità istituzionali del fondo, sicché si può rappresentare sinteticamente la sua funzione affermando che i suoi poteri sono funzionalmente vincolati nell’interesse di altri soggetti ( … ). Se si deve perciò essere d’accordo che non può parlarsi di proprietà piena (dei beni) del fondo da parte della società di gestione, ci pare invece ( … ) che possa senz’altro riconoscersi a questa una posizione di potere avente il carattere della realità (nei confronti di tutti i terzi e nell’esercizio della sua attività inerente al fondo è la società di gestione che appare e viene considerata titolare dei beni di questo) e che, data la funzionalizzazione ad interessi altrui, si può convenire di chiamare ( … ) proprietà-funzione ( … )” (così G.P. Savi, voce “Società finanziaria” [supra, nota 6], 727-728).

   (34) Ben compendiate in G.P. Savi, voce “Società finanziaria” [supra, nota 6], 723-724; S. Tondo, Ambientazione del trust nel nostro ordinamento e controllo notarile sul trustee, Riv. ir. Priv., 1997, 176.

   (35) Per le quali cfr ancora le sintesi di G.P. Savi, voce “Società finanziaria” [supra, nota 6], 725-727 e di S. Tondo, Ambientazione del trust [supra, nota 34], 176-177.

   (36) Cfr precedente nota 30.

   (37) Ammette la fondazione non riconosciuta F. Galgano, Sull’ammissibilità di una fondazione non riconosciuta, Riv. r. Civ., 1963, II, 172 ss; in senso contrario, però, la dottrina prevalente (G. Tamburrino, Persone giuridiche. Associazioni riconosciute. Comitati, Giur. ist. Civ. e Comm. a cura di W. Bigiavi, Torino 1980, 497 ss.; P. Rescigno, Persona e comunità, II, Padova 1988, 33) e la Suprema Corte (Cass. 4681/1979).

   (38) Cfr ad es. P.G. Jaeger, Sui fondi comuni [supra, nota 32], 1133; G.P. Savi, voce “Società finanziaria” [supra, nota 6], 726-727.

   (39) Cfr precedente nota 31.

   (40) Cfr. G.P. Savi, voce “Società finanziaria” [supra, nota 6], 727 nota 4.

   (41) Cfr. per tutti R. Costi, La struttura dei fondi [supra, nota 29], 292 ss.

   (42) Un’approfondita analisi delle analogie e differenze fra trust da un lato e fondo patrimoniale e mandato senza rappresentanza dall’altro lato è stata infatti condotta dalla dottrina solo nell’ultimo decennio del secolo scorso: cfr S. Bartoli, Il trust [supra, nota 25], 314 ss e 343 ss., con ampia bibliografia; Id., La conversione del fondo patrimoniale in trust”, in Aa.Vv., Il trust nel diritto delle persone e della famiglia, Milano 2003, 207 ss.; M.L. Cenni, Trust e fondo patrimoniale, ivi, 111,ss. Più in generale, per le ragioni della non configurabilità del trust quale fonte di una doppia proprietà, v. amplius S. Bartoli, Il trust [supra, nota 26], 98 ss. e 582 ss. con ampia bibliografia.
(43) Come già all’epoca intuiva G.P. Savi, voce “Società finanziaria” [supra, nota 6], 727-728, il quale conclude nel senso che, nel regolare i F.C.I., il legislatore italiano si sarebbe posto nella prospettiva corretta solo seguendo la via del patrimonio separato.

   (44) Eccone il testo integrale: “Ciascun fondo comune costituisce patrimonio distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione e da quelli dei partecipanti, nonché da ogni altro fondo gestito dalla medesima società di gestione. Sul fondo non sono ammesse azioni dei creditori della società gerente. Le azioni dei creditori dei singoli partecipanti sono ammesse soltanto sulle quote di partecipazione dei medesimi”.

(45) Per un commento ad essa cfr, limitatamente alla dottrina italiana, A. Gambaro-A. Giardina-G. Ponzanelli, Convenzione relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento”, NLCC, 1993, 1211 ss.; M. Lupoi, Trusts [supra, nota 11], 578 ss.; S. Bartoli, Il trust [supra, nota 25], 500 ss.; T. Arrigo - S. Cavanna, Convenzione dell’Aja sulla legge applicabile ai trusts ed al loro riconoscimento, Comm. breve al cod.civ.-Leggi complem. a cura di di G. Alpa - C. Zatti, Padova 1999, 24 e 33 ss.; G. Contaldi, Il trust nel diritto internazionale privato italiano, Milano 2001.

   (46) La tesi - ormai dominante - favorevole ai trusts interni è stata per la prima volta elaborata da M. Lupoi (cfr M. Lupoi, Trusts [supra, nota 11], 533 ss.; Id., I trust nel diritto civile, Torino 2004; Id. in Aa.Vv., I trusts in Italia oggi, a cura di I. Beneventi, Milano 1996, 30 ss.; Id., Il trust nell’ordinamento giuridico italiano dopo la Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, Vita Not., 1992, 978 ss.; Id., Lettera a un notaio curioso di trusts, Riv. Not., 1996, 348 ss.; Id., Lettera a un notaio conoscitore dei trusts, Riv. Not., 2001, 1159 ss.; Id., Riflessioni comparatistiche sui trusts, Eur.e Dir.Priv., 1998, 436 ss.; Id., La sfida dei trusts in Italia, Corr..Giur., 1995, 1205 ss.; Id. in Aa.Vv., Il trust nell’operatività delle banche italiane, Roma 1997, 17 ss.). In dottrina, hanno tra gli altri aderito alla tesi in questione: S. Bartoli, Trusts [supra, nota 25], 597 ss.; A. De Donato - V. De Donato - M. D’Errico, Trust convenzionale. Lineamenti di teoria e pratica, Roma 1999, 80 ss.; A. Braun, Trusts interni, Riv. Dir. Civ., 2000, 577 ss.; L. Salvatore, Il trend favorevole all’operatività del trust in Italia: esame ragionato di alcuni trusts compatibili in un’ottica notarile, Contr. e Impr., 2000, 644 ss.; U. Morello in Aa.Vv., Fiducia, trust, mandato ed agency, Milano 1991, 97 ss.; R. Luzzatto, Legge applicabile e riconoscimento di trusts secondo la Convenzione dell’Aja, in questa Rivista, 2000, 14 ss.; S.M.Carbone, Autonomia privata, scelta della legge regolatrice del trust e riconoscimento dei suoi effetti nella Convenzione dell’Aja del 1985, in questa Rivista, 2000, 145 ss.; S. Buttà, Effetti diretti della Convenzione dell’Aja nell’ordinamento italiano, in questa Rivista, 2000, 557 ss.; A. Gambaro, Il diritto di proprietà, in Trattato di dir.civ. e comm. diretto da Cicu-Messineo, Milano 1995, 637 ss.; Id., voce “Trusts” , Digesto Disc.Priv. - Sez.Civ. vol.XIX, Torino 1999, 464 ss. Per la giurisprudenza sui trusts interni cfr A. Braun, La giurisprudenza italiana sui trusts, in Aa.Vv., Il diritto delle persone [supra, nota 55], 37 ss.; S. Bartoli, Il Trust [supra, nota 25], 725 ss ed il sito dell’associazione Il Trust in Italia (www.il-trust-in-italia.it).

   (47) Ecco il testo risultante dalla modifica: “Ciascun fondo comune costituisce patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione e da quelli dei partecipanti, nonché da ogni altro fondo gestito dalla medesima società di gestione. I creditori della società di gestione non possono far valere i loro diritti sul fondo. I creditori dei singoli partecipanti possono far valere i loro diritto esclusivamente sui certificati di partecipazione di questi ultimi”.

(48) Cfr ad es. Carbone, Organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (D.L. 25 gennaio 1992 n°89). Commentario, NLCC, 1993, 157, che afferma: “La definizione di patrimonio autonomo rappresenta un’ulteriore consapevole precisazione ordinamentale, diretta a ripartire ed a ripercorrere la c.d. terza via, superando ogni discussione fra le due tesi opposte … tra la comunione dei partecipanti, da un lato, e la proprietà separata … della società di gestione, dall’altro”; R. Lener, Valori mobiliari. Soggetti intermediari, in Enc. Giur., Roma 1994, secondo il quale “la nuova dizione ha sostituito quella di patrimonio distinto originariamente contenuta” nella legge 77/1983 “in tal modo perfezionando, in punto di scelta dei termini, il dettato legislativo, e recependo le indicazioni di quella dottrina che distingue patrimonio autonomo da patrimonio separato (entrambe subcategorie del patrimonio di destinazione), in quanto il primo costituito dai rapporti che fanno capo a più soggetti, e il secondo da rapporti che fanno capo ad uno solo”. Appare evidente il richiamo dell’autore in esame alla teoria di chi (cfr F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli 1986, 85-86; L. Bigliazzi Geri, voce “Patrimonio autonomo e separato”, Enc. Dir., vol. XXXII, Milano 1982, 280 ss.) qualifica come patrimonio separato il patrimonio affetto da un vincolo di destinazione e di cui è titolare un solo soggetto (si pensi all’eredità beneficiata o al fondo patrimoniale), e come patrimonio autonomo il patrimonio affetto da un vincolo di destinazione e del quale è titolare, invece, un’organizzazione composta di una pluralità di soggetti che è priva di personalità giuridica, ma non di soggettività giuridica (si pensi all’associazione non riconosciuta, ovvero alla società di persone).

   (49) Ad ulteriore riprova della confusione concettuale che appare affliggere il legislatore allorché si tratti di disciplinare istituti collegati all’istituto del trust, si consideri che in una legge dello stesso periodo (cfr art. 6 comma quattro ter D. Lgs.124/1993 sui fondi pensione) si afferma: “I fondi pensione possono essere costituiti altresì nell’ambito del patrimonio di una singola società o di un singolo ente pubblico anche economico attraverso la formazione con apposita deliberazione di un patrimonio di destinazione, separato ed autonomo, nell’ambito del patrimonio della medesima società o ente”.

   (50) Ecco il testo integrale della norma citata: “Ciascun fondo costituisce patrimonio distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione e da quelli dei partecipanti, nonché da quello di ogni altro fondo gestito dalla medesima società di gestione. Sul fondo non sono ammesse azioni dei creditori della società di gestione. Le azioni dei creditori dei singoli partecipanti sono ammesse soltanto sulle quote di partecipazione dei medesimi”.

   (51) La norma citata è di contenuto identico a quello dell’art. 8 comma sesto legge 344/1993, riportato alla nota precedente. Si segnala inoltre che il primo F.C.I.I. italiano (denominato “Valore Immobiliare Globale”, facente capo alla Deutsche Bank S.G.R. s.p.a. e della durata di 15 anni) è stato istituito soltanto nel novembre 1998, ha iniziato l’attività nel febbraio 1999 ed ha ottenuto la quotazione in borsa nel novembre 1999. Ad oggi i F.C.I.I. italiani sono circa una quindicina.

   (52) Si evidenzia fin d’ora che l’art. 3 comma 111 della legge 662/1996 (legge cui già si è fatto riferimento nella nota 5) introdusse un ulteriore norma (l’art. 14bis) nella legge 86/1994 sui F.C.I. immobiliari chiusi, la quale consentiva la dismissione di immobili pubblici con la tecnica del conferimento dei medesimi in uno di siffatti F.C.I. Lo stesso art. 3 della citata legge 662/1996, ai commi 86 e segg., utilizzava detta tecnica per attuare una concreta operazione di dismissione. Come si è anticipato nel § 1 e come si avrà modo di vedere più diffusamente nel § 4, è sulla scorta di tale norma che possono immaginarsi gli scenari aperti dall’art.4 legge 410/2001.

   (53) Cfr Salonico, Saggio introduttivo in Aa.Vv., I fondi comuni di investimento nella legge 77/1983, Firenze 1985, 30 ss.; P. Rescigno, Il patrimonio separato nella disciplina dei fondi comuni di investimento, ivi, 85 ss.; S. Tondo, Riconoscimento del trust nel nostro ordinamento, in Aa.Vv., Fiducia, trust [supra, nota 46], 122 ss.; Id., Ambientazione del trust [supra, nota 34], 177 ss.; Cottino, Diritto commerciale, vol. II, Padova 1992, 153; G.F. Campobasso, Diritto commerciale. 3 Contratti, titoli di credito, procedure concorsuali, Torino 1994, 161; M. Lupoi, Trust [supra, nota 11], 687 ss., sia pure esprimendosi in termini di patrimonio “segregato”. Tale aggettivazione è in sintonia con quella che detto autore ha scelto di utilizzare (sin dalla prima ediz. del 1997 della sua opera “Trusts”, 472-481) per qualificare la condizione giuridica del trust fund. L’autore, premesso che nel caso di patrimonio separato “esiste pur sempre un punto di passaggio unidirezionale fra il patrimonio separato e il patrimonio ordinario del soggetto: tramite esso si può comunicare l’arricchimento del patrimonio separato, che può non rimanere ivi confinato perché anche esso appartiene al soggetto titolare del patrimonio ed egli può disporne come crede”, conclude nel senso che “la distinzione risiede nella incomunicabilità bidirezionale (propria del trust: NDR) fra il patrimonio separato e il soggetto che ne è titolare. La peculiarità del trust ( … ) sta nella chiusura di quello che altrimenti sarebbe il punto di passaggio fra patrimonio generale e oggetto del trust, pur esistente perché entrambi appartengono al medesimo soggetto. Ed invece manca ( … ) la ( … ) potenziale comunicazione diretta degli arricchimenti del patrimonio generale a quello separato; un distacco totale e definitivo fra le due sfere”. L’espressione “patrimonio segregato” riferita al trust fund, pur se ha finito per trovare ampio seguito, è stata sottoposta a severa critica da chi (cfr S.T ondo, Ambientazione [supra, nota 34], 183-184) l’ha definita come il frutto di un mero “anglismo di ritorno”, privo di qualunque apprezzabile differenziazione rispetto al concetto nostrano di patrimonio separato: “per quanto innegabile la notevole produttività dell’analisi (condotta da M. Lupoi: NDR) ( … ), sembrerebbe nondimeno che ( … ) vi si possa sempre e correttamente opporre, a mo’ di un’anticritica piuttosto recisa, come la stessa radicalità e distinzione, che il trust sembra normalmente involgere, non sia affatto incompatibile con la logica che presiede al patrimonio separato. Al punto, anzi, da aversi l’impressione che ( … ) non altro poi s’arrivi a effettivamente guadagnare, sul piano della caratterizzazione qualificatoria, che una sorta di “anglismo di ritorno” (l’autore si riferisce al corrente uso da parte della dottrina di common law, con riguardo al fenomeno discendente dal trust, del sostantivo “segregation”: NDR).

   (54) D’ora in avanti, per brevità: Tuif. Alcune delle norme di esso riguardanti i F.C.I. sono state modificate proprio dalla legge 410/2001, e precisamente dal suo art.5: cfr infatti gli artt.1 comma primo lettera j) (la cui parte finale pare aprire la strada anche ai F.C.I.I. di tipo aperto, finora non contemplati dal nostro ordinamento), 37 comma primo lettera d bis), 37 comma secondo lettere b) e b bis) Tuif.

   (55) Cfr. infatti artt. 34-42 Tuif, che prevedono e disciplinano, in sintonia con quanto accade nel modello anglosassone del contractual investment trust, non solo la figura della S.G.R., ma anche quella della banca depositaria degli strumenti finanziari e delle disponibilità liquide del fondo (cfr la precedente nota 11). La differenziazione fra i F.C.I. mobiliari ed immobiliari è ora affidata dal Tuif alla normativa di rango regolamentare, avendo detta legge attuato un’ampia delegificazione. Per maggiori dettagli sulla vigente disciplina dei F.C.I. cfr Alpa-Capriglione, Commentario al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, Padova 1998; Lacaita-Napoleoni (a cura di), Il Testo Unico dei mercati finanziari. Commento al D. Lgs.58/1998, Milano 1998; Rabitti-Bedogni (a cura di), Il Testo Unico della intermediazione finanziaria, Milano 1998; più sinteticamente, E. Ntuk, voce “Fondi comuni di investimento”, in Digesto Disc.Priv.Sez.Comm. (aggiornamento 2000), Torino, 332 ss.

   (56) Sono sopravvissute all’abrogazione talune disposizioni, di natura per lo più tributaria: trattasi rispettivamente degli artt.9 e 10ter (quanto alla prima legge), dell’art. 11 (quanto alla seconda) e degli artt. 14bis e 15 (quanto alla terza). Vedremo nel § 4 il particolare interesse rivestito, ai fini del presente scritto, dall’art. 14bis legge 86/1994.

   (57) Come già faceva parte della dottrina ai tempi dell’art. 3 comma secondo legge 77/1983 sui F.C.I. mobiliari aperti, come modificato dall’art. 2 del D. Lgs.83/1992: si vedano le precedenti note 48 e 49.

   (58) Cfr ad es. E. Ntuk, voce “Fondi comuni di investimento” [supra, nota 55], 344, il quale sofferma la sua attenzione sul solo art. 1 comma primo lettera f) Tuif ed afferma: “L’ansia definitoria che permea l’art. 1 del Decreto ha fatto sì che il Testo Unico si sbilanciasse a definire la natura dei F.C.I. In argomento si deve ricordare come vi sia stato un grande dibattito, nel nostro Paese,, circa la natura dei F.C.I. Tra le varie teorie prospettate, alla fine si è affermata la nozione di patrimonio autonomo, in conformità alla terminologia utilizzata dal legislatore nell’art. 3 della legge 77/1983, come modificata dal D. Lgs.83/1992”. Dello stesso avviso Cons. Stato, sez. III, 11/5/1999, Foro Amm., 2000, 2225 ss., di cui si dirà più diffusamente nel § 4.

   (59) Cfr M. Lupoi, Trusts [supra, nota 11], 687 ss.

   (60) Sulla separazione o segregazione del trust fund cfr la precedente nota 53.

   (61) M. Lupoi, Trusts [supra, nota 11], 687 ss. afferma infatti che la normativa italiana in tema di F.C.I. (da ultimo l’art. 36 sesto comma Tuif, di cui si è detto nel testo) attua “la segregazione bilaterale tipica del trust … : due patrimoni, dunque, pur appartenenti al medesimo soggetto (cioè alla S.G.R.: NDR). Un patrimonio generale e un altro patrimonio, che è segregato tanto rispetto ai creditori del soggetto che ne è titolare (si tratterebbe del trustee ove si facesse ricorso al trust) quanto rispetto ai creditori del disponente (cioè della collettività degli investitori: NDR): se fossimo nel quadro di un trust il disponente sarebbe anche il beneficiario e quindi, come in diritto inglese, i creditori del beneficiario di un trust possono fare valere i loro diritti unicamente sulla posizione creditoria del beneficiario verso il trustee, la quale può ben essere attestata da un certificato rilasciato dal trustee (cioè dal certificato attestante la sottoscrizione, da parte dell’investitore, di quote del F.C.I.: NDR)”. Per questa ricostruzione del F.C.I. cfr altresì la precedente nota 11.

   (62) Cfr. la nota 52.

   (63) La norma parla infatti di “apporto di beni immobili o di diritti reali su immobili costituito per oltre il 51% da beni e diritti apportati esclusivamente dallo Stato, da Enti previdenziali pubblici, da Regioni, da Enti locali e loro consorzi, nonché da società interamente possedute, anche indirettamente, dagli stessi soggetti”.

   (64) Norme le quali, come si è detto al § 1, disciplinano la dismissione degli immobili pubblici mediante lo strumento della cartolarizzazione.

   (65) L’art. 2 comma primo terzo periodo recita infatti: “Delle obbligazioni nei confronti dei portatori dei titoli (cioè, nel nostro caso, dei sottoscrittori del F.C.I.: NDR) … risponde esclusivamente il patrimonio separato …”; quanto all’art. 2 comma secondo terzo e quarto periodo, esso afferma: “I beni così individuati … costituiscono patrimonio separato a tutti gli effetti da quello delle società (cioè, nel nostro caso, della S.G.R: NDR) … .Su ciascun patrimonio separato non sono ammesse azioni da parte di qualsiasi creditore diverso dai portatori dei titoli emessi dalle società … ”.

   (66) Già citato alla precedente nota 58.

   (67) Si riportano qui di seguito i passi più significativi del parere, i quali palesano una volta di più il persistente impaccio degli interpreti di fronte ad un fenomeno intimamente connesso al trust: “Secondo il Dicastero del Tesoro, nell’interesse di terzi dovrebbe farsi risultare con chiarezza l’intestazione della proprietà immobiliare a favore delle società di gestione, ma per conto del fondo; ed a tale riguardo ha rilevato l’esigenza di modifiche al sistema informatico attualmente in uso, per consentire la predetta intestazione alla singola società di gestione, con una sorta di sottorubricazione al fondo gestito. Il Ministero delle Finanze … ha interpellato in proposito anche il Ministero di Grazia e Giustizia, la quale ha fatto presente che ciascuno dei fondi in questione costituisce un patrimonio autonomo … per cui … le formalità di trascrizione dovrebbero avvenire esclusivamente a favore del singolo fondo, salva l’annotazione a margine dell’esistenza del rapporto di gestione con la società in parola. Nell’esporre il proprio punto di vista, il Ministero di Grazie e Giustizia, constatato che l’analisi della disciplina relativa ai fondi immobiliari non consentirebbe di individuare nel fondo immobiliare uno specifico soggetto giuridico, riterrebbe invece, in linea di massima, che la proprietà dei beni costituenti il fondo dovrebbe attribuirsi alla società di gestione e che all’intestazione … dovrebbe accompagnarsi, in forma di pubblicità giuridica, il vincolo di destinazione dei beni al fondo medesimo. Secondo il riferente Ministro delle Finanze … tuttavia … una siffatta soluzione … non assicurerebbe una corretta ed esaustiva informazione sui registri immobiliari … ; in considerazione di ciò la problematica è stata ulteriormente rappresentata all’Ufficio del coordinamento legislativo dello stesso Dicastero. Quest’ultimo ufficio ha quindi osservato che, a suo avviso, sono possibili due soluzioni: o il fondo costituisce un mero contenitore temporaneo di beni, senza attribuzione della relativa titolarità degli stessi, ancora da ritenersi appartenenti allo Stato, o il fondo rappresenta un centro autonomo di imputazione di interessi, distinto dallo Stato nonché, a maggior ragione, dalle società di gestione. Conseguentemente, secondo il detto Ufficio, per quanto riguarda il problema della trascrizione, o essa non deve essere effettuata in ragione della permanenza della titolarità dei beni in capo alo Stato, ovvero dovrà essere effettuata in modo da rappresentare compiutamente il trasferimento dei beni al fondo. Su tali questioni viene chiesto il parere del Consiglio di Stato … Osserva il Collegio che … le stesse norme sopra citate di cui all’art. 3 commi 86 e segg. della legge 662/1996, pur non prevedendo l’attribuzione in maniera esplicita della personalità giuridica ai fondi immobiliari da istituire per l’attivazione del processo di dismissione di tlauni beni dello Stato, dispongono tuttavia che i fondi stessi siano istituiti ai sensi dell’art. 14bis della legge 86/1994 (come sostituito dal successivo comma 111 dello stesso art. 3 della legge 662/1996), ossia sulla base di una disciplina che riconosce a tale istituenda entità il grado massimo di autonomia patrimoniale, come di norma riconosciuto soltanto ad organismi dotati di una propria specifica soggettività … sembra doversi concludere che … dovendosi dare rilievo primario alle specifiche finalità di tutela degli interessi dei terzi perseguite dalle trascrizioni immobiliari, non possa prescindersi dagli evidenziati caratteri di integrale autonomia soggettiva dei fondi … Ad avviso della Sezione, pertanto, la titolarità dei beni facenti parte dei fondi dovrebbe essere correttamente riferita agli stessi fondi quali centri autonomi di imputazione di interessi … salve le necessarie annotazioni riguardanti il vincolo gestorio esistente, anch’esso fissato in modo espresso dalla normativa vigente in materia”.

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