il diritto commerciale d’oggi
    IV.12 – dicembre 2005

STUDÎ & COMMENTI

 

ALDO RUGGIERO
Il ruolo del giudice delegato e del tribunale nella riforma della legge fallimentare *

 

   Tra i numerosi articoli pubblicati aventi per contenuto la riforma del diritto fallimentare, particolarmente pregnante appare una definizione del termine “novità legislative” riportata in un articolo di un magistrato, che, a sua volta, richiamava un autorevole esponente della dottrina, per il quale «ogni riforma dovrebbe essere valutata più con lo spirito costruttivo che deriva dalla constatazione che qualcosa è stato fatto che con lo spirito critico che deriva dalla constatazione che si potesse fare meglio», con la conseguenza considerazione «… che maggiore è l’attesa sottesa ad una determinata riforma più cocente potrebbe essere la delusione per la inadeguatezza dei suoi esiti. E le attese riposte nella legge fallimentare non erano di piccola portata». In tale ottica, si sono espressi anche autorevoli esponenti del Governo, rivendicando il merito di avere avviato il discorso della riforma del diritto fallimentare, dandogli anche immediata attuazione per quanto riguarda la revocatoria fallimentare ed il concordato preventivo con il ricorso alla legislazione di urgenza. In aggiunta a quest’ultima disciplina, la stesso Governo ha approvato uno schema di decreto legislativo, in attuazione della legge delega n. 80/2005, con il quale, rinunciando ad una revisione organica della legge fallimentare, ha provveduto ad una novellazione della attuale legge fallimentare, lasciando sostanzialmente inalterata la parte già modificata con la legislazione di urgenza (riduzione termine di decadenza azione revocatoria). Probabilmente, la delicatezza del tema, se non altra per il susseguirsi dei tentativi operati nel tempo per addivenire ad una riforma della legge fallimentare, avrebbe dovuto consigliare il legislatore a lasciare aperta la possibilità di una revisione della nuova normativa introdotta con il decreto legge sulla competitività, quantomeno per eliminare problemi di coordinamento tra le varie norme ed errori che, anche sotto un profilo di tecnica legislativa, sono emersi in sede di applicazione. In ogni caso, il testo della riforma, sottoposto al parere degli organi parlamentari, non si occupa della disciplina introdotta con il suddetto decreto – legge, la quale è rimasta sostanzialmente inalterata con tutti i problemi applicativi derivanti da errori di tecnica legislativa e di coordinamento tra le norme modificate e quelle lasciate inalterate. Il testo dello schema di decreto legislativo di riforma della legge fallimentare, invece, in applicazione dei criteri della legge delega, si occupa, tra l’altro, degli organi della procedura, con particolare riferimento al comitato dei creditori e curatore, incidendo indirettamente sulla sfera operativa degli altri due organi della procedura, tribunale e giudice delegato. Le prime valutazioni appaiono tutte orientate ad affermare un avvenuto ridimensionamento degli organi fallimentari di stampo giurisdizionale, riportandoli essenzialmente a compiti di natura giurisdizionale, a favore del comitato dei creditori e del curatore, per i quali il legislatore ha dedicato una particolare attenzione nell’ottica di un aumento della loro partecipazione alla procedura nella ricerca di una gestione della crisi dell’impresa improntata a criteri di stampo manageriale (in realtà, a stretto rigore, la legge delega se per il comitato dei creditori cita proprio un ampliamento di competenze ed un raccordo con gli altri organi della procedura, per il curatore prevede solo direttamente un ampliamento dei requisiti per la nomina). Tuttavia, il primo dato che emerge, attraverso l’esame dell’articolato della riforma, è nell’assenza di una revisione sistematica delle funzioni degli organi giurisdizionali rispetto agli altri due organi, curatore e comitato dei creditori, per cui, pur se annunciato un ritorno dei primi nell’orbita tipica giurisdizionale ed un ampliamento per i secondi di quella gestionale, manca la individuazione di un criterio generale e sistematico idoneo a orientare le scelte operate. Si pensi solo alle ipotesi di integrazione dei poteri del curatore (art. 35 legge fall.) e della liquidazione dei crediti prededucibili (art. 111 bis legge fall.) nonché della designazione dei componenti del comitato dei creditori o del curatore (vds. art. 37 bis). Nella prima ipotesi, per atti di straordinaria amministrazione sopra i 50.000,00 il curatore deve informare il giudice delegato con le conseguenze che di seguito saranno esposte, mentre, nella seconda ipotesi, il comitato dei creditori ed il giudice delegato, rispettivamente per liquidazione al di sotto di 25.000,00 ovvero al di sopra, possono soddisfare i crediti prededucibili se l’attivo è presumibilmente sufficiente a soddisfare tutti i titolari di tali crediti e se questi sono liquidi, esigibili e non contestati, Nella terza e quarta ipotesi, che rientrano tra le più discutibili, i creditori insinuati, possono effettuare nuove designazioni per il comitato dei creditori e gli stessi creditori possono chiedere la sostituzione del curatore indicando le ragioni al giudice delegato ed un nuovo nominativo, nel rispetto dei criteri di cui all’art. 28 legge fall. La natura dei poteri conferiti dalla norma è analoga, variando solo la rilevanza degli atti, per cui non appare comprensibile quale sia la linea di demarcazione operata dal legislatore. La sovrapposizione di competenze crea, peraltro, incertezza e conflitti tra i vari organi, la cui nomina e permanenza dovrebbero sempre essere improntate ad un principio di indipendenza, che si trova nella nomina, revoca e sostituzione da parte ed in via esclusiva degli organi di controllo e vigilanza (giudice delegato e tribunale). Ciò assicura anche una imparzialità, evitando possibili alleanze all’interno dello stesso organo. Probabilmente una accortezza da adottare da parte del giudice delegato è quella di nominare il comitato dei creditori sfruttando il numero massimo di componenti (n. 5) per cercare di allargarne la composizione e per evitare accordi tra gli stessi. Sempre nella stessa ottica, appare discutibile che, ove un organo abbia poteri di una determinata natura possa surrogarne un altro in caso di impossibilità di funzionamento ovvero in caso di urgenza, come nelle due ipotesi in cui il giudice delegato può provvedere in caso di inerzia o di impossibilità o di urgenza del comitato dei creditori, senza che sia prevista alcuna ratifica. Permane, dunque, una commistione di poteri ancorché residuale e sostitutiva, ma che non contribuisce a rendere chiarezza in ordine alle scelte operate dal legislatore. La stessa individuazione della novellazione appare poco opportuna quando si vogliono introdurre impostazione completamente nuove, apparendo difficile il raccordo con ciò che rimane, ponendo anche problemi di compatibilità con la legge delega che, in assenza di principi e criteri precisi, dovrebbe trovare una attuazione compatibile con i principi della legge che si va a novellare. La volontà del legislatore, nell’ottica del cambiamento, è tuttavia assolutamente evidente nella indicazione, più che di criteri e direttive con la legge delega, di veri e proprio obiettivi, senza alcun vincolo al legislatore delegato, al fine di lasciargli un ampio margine di manovra, ma ponendo problemi con la disciplina che regola il rapporto legge – delega, legge – delegata.
   Per comprendere lo spirito della riforma e soprattutto per valutarne le potenzialità di realizzazione positiva degli obiettivi perseguiti, occorre procedere ad una attenta lettura della legge delega n. 80/2005, che ha convertito il decreto legge n. 35/2005, il cui effetto macroscopico, se da un lato, è stato quello, tra l’altro, di accentrare la sua attenzione sulla figura del Curatore e del Comitato dei creditori, dall’altro, ha modificato sensibilmente gli altri due organi, tribunale e giudice delegato, incidendo sulla loro sfera operativa anche indipendentemente da quanto previsto per il curatore ed il comitato dei creditori. Infatti, la legge delega ha espressamente previsto l’ampliamento delle competenze del comitato dei creditori per consentire una maggiore partecipazione dell’organo alla gestione della crisi ed il coordinamento dei poteri degli altri organi della procedura nonché la modifica della disciplina di nomina dei curatori, ma ha anche previsto nuove procedure per il tribunale ed una nuova sfera operativa per il giudice delegato. L’obiettivo del legislatore è quello di realizzare una procedura più celere e proficua, nell’ottica di una possibile salvaguardia del bene “impresa”, tale da indurre la considerazione che «il curatore diventa imprenditore con una impresa fallita». Sicuramente il legislatore ha anche avvertito la responsabilità di dare una risposta forte e concreta alle lungaggini giudiziarie che oggi affliggono il settore esecuzioni individuali e/o concorsuali e che condizionano l’economia del Paese anche in una ottica europea. La riforma dovrebbe dare una risposta in tal senso. Si pensi che occorrono mediamente 1.390 giorni per far rispettare un contratto in Italia e che tale media pone l’Italia al penultimo posto al mondo (fonte Il Sole-24 Ore del 05.09.2005). Solo in Guatemala ci vuole un numero di giorni superiore, pari a 1.459 giorni.

   Va compiuta anche una riflessione, in una ottica di interpretazione valutativa ed ai fini della futura applicabilità della riforma, se la riforma è così evolutiva rispetto alla attuale legge fallimentare ovvero se non è il Curatore, per prassi più che per diritto, ed il Comitato dei creditori, per diritto aggravato anche dalla prassi e dal completo disinteresse dei creditori, che hanno abdicato ai loro poteri, tale da provocare la reazione del legislatore, che la legge fallimentare loro già riconosceva e che gli organi giurisdizionali hanno occupato con il benestare dello stesso curatore e comitato dei creditori. Il Curatore, infatti, secondo una prassi consolidata, per una serie di motivi facilmente intuibili, trova, soprattutto nel Giudice delegato, un “ombrello” sotto cui ripararsi nello svolgimento delle sue attività, soprattutto quelle che possono portare ad una maggiore responsabilità nella loro esecuzione ovvero ad una rilevante incertezza nella loro attuazione. È chiaro, pertanto, il motivo per il quale il legislatore ha voluto rivitalizzare due organi fallimentari, il cui contributo appariva decisamente limitato nella gestione delle procedure fallimentari e che quasi non trovava più giustificazione, come il comitato dei creditori, il cui unico intervento rilevante e vincolante era nell’ipotesi di esercizio provvisorio dell’impresa.
   In tale prospettiva si deve esaminare il rapporto tra i due organi giurisdizionali (tribunale e giudice delegato) e tra questi due e gli altri organi fallimentari, dove, in particolare, il Giudice delegato viene in rilievo, nell’ambito della bipartizione tra funzioni amministrative e giurisdizionali, se ancora ha un senso tale bipartizione, per i poteri di vigilanza e controllo ovvero per i provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio, misure cautelari ecc.; in realtà, forse più opportunamente, si potrebbe affermare il principio che tale bipartizione non esiste più (almeno nelle intenzioni iniziali del legislatore) perché è intervenuta una giurisdizionalizzazione integrale dei poteri riconosciuti agli organi giudiziari, diretta a lasciare a questi ultimi, ed ad epurare dalle loro competenze, quei poteri ovvero facoltà prettamente amministrative che si attagliano puntualmente ad un organo tecnico quali il curatore ovvero il comitato dei creditori, che sono chiamati rispettivamente ad adempiere a compiti gestionali ovvero a rappresentare i creditori.
   Sicuramente la riforma ha voluto incidere, modificandola, anche sulla visione inquisitoria degli organi giudiziari e soprattutto del Giudice delegato, dettata in origine da interessi pubblicistici (non va dimenticato, infatti, che la legge attualmente vigente trova le sue radici nella presenza essenziale dello Stato nel momento in cui il debitore è privato di tutti i suoi beni e di tutti i suoi rapporti giuridici patrimoniali in funzione della liquidazione concorsuale, al triplice scopo di tutelare la dignità ed il patrimonio del fallito, tutelare la parità di trattamento dei creditori e garantire l’attuazione della esecuzione in chiave giurisdizionale pubblicistica; è la globalità dell’ingerenza nella sfera del debitore che giustifica la presenza di un interesse pubblico e la presenza dello Stato nella gestione di tale posizione; gli interessi coinvolti sono molteplici e non possono essere lasciati in un contraddittorio tra parti) che improntano la intera procedura fallimentare attuale, per il cui raggiungimento la legge pone al centro lo stesso giudice delegato che opera con la collaborazione del curatore, verso il quale tuttavia, è opinione concorde, non c’è mai stato un rapporto di gerarchia.
   Peraltro, forse la nuova impostazione della riforma non è così innovativa come si paventa, atteso che la Relazione al Re del Ministro Guardasigilli sulla legge fallimentare del 1942, al paragrafo 3, già evidenziava l’esigenza di tutela dei creditori considerata quale «altissimo interesse pubblico», per cui la tutela della posizione creditoria si collocava in una sfera di rilevanza giuridica non strettamente privatistica, ma piuttosto connotata da un interesse pubblicistico, principalmente ravvisabile nella regolazione dei rapporti economici nel mercato, da improntare a caratteri di affidabilità e di correttezza di adempimento di obbligazioni assunte, così da garantire la sicurezza degli scambi, con la conseguente eliminazione dal mercato stesso degli imprenditori insolventi. Ancora, sempre la dottrina, nell’ottica di una interpretazione delle finalità del fallimento, affermava che era stato concepito sia per liberare risorse male impiegate per destinarle ad impieghi più produttivi sia per eliminare imprenditori incompetenti e sostituirne altri più affidabili sia per tutelare il credito commerciale in modo tale che tale realizzazione non fosse intralciata da alcun interesse del debitore e dei creditori. Leggendo e confrontando la suddetta relazione con la attuale “Riforma organica della disciplina delle procedure fallimentari” si trova nella relazione di quest’ultima che «l’attuale disciplina si ispira ad una finalità essenzialmente liquidatoria dell’impresa insolvente ed ad una tutela accentuata dei diritti dei creditori … In tale quadro, la finalità recuperatoria del patrimonio imprenditoriale ha finito per trovare collocazione secondaria rispetto allo scopo sanzionatorio del fallimento…». Dunque, è la stessa relazione alla riforma che afferma che è una certa prassi che ha posto in primo piano lo scopo sanzionatorio, ma indirettamente sembra dire che la finalità recuperatoria vi era anche nella legge del 1942, la cui applicazione pratica invero è risultata deviata verso alcune finalità piuttosto che altre, le quali, tuttavia, vi erano nella disciplina ispiratrice. Inoltre, nella stessa relazione alla riforma, si legge che la nuova disciplina deve risultare «compatibile con la legislazione europea, ma deve anche ispirarsi ad una nuova prospettiva di recupero delle capacità produttive dell’impresa, nelle quali non è più individuabile un esclusivo interesse dell’imprenditore, … ma confluiscono interessi economici e sociali più ampi che privilegiano il ricorso alla via del risanamento e del superamento della crisi aziendale … ma piuttosto destinate ad un risultato di conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa, assicurando la sopravvivenza … procurando alla collettività ed in primo luogo agli stessi creditori una più consistente garanzia patrimoniale attraverso il risanamento ed il trasferimento a terzi delle strutture aziendali … che semplifichi le procedure attualmente esistenti e sopperisca in modo agile e spedito alla conservazione dell’impresa e alla tutela dei creditori». Probabilmente, quindi, la chiave di lettura più corretta della riforma è quella di una rivitalizzazione di principi ispiratori che in qualche misura erano già contenuti anche nella attuale legge fallimentare che, tuttavia, in sede di applicazione, erano stati oscurati da una applicazione orientata esclusivamente alla realizzazione di una liquidità da distribuire ai creditori secondo il principio della par condicio. Si spiega così anche la tecnica della novellazione della legge attuale che, quindi, aveva già in sé determinati contenuti, e non quella di una legge completamente nuova con l’abrogazione completa di quella precedente. In questa ottica si deve interpretare la riforma.
   Peraltro, non è una novità nemmeno la ricerca della giurisdizionalizzazione della procedura, poiché tutto il cammino della legislazione in materia fallimentare è stato improntato all’obiettivo di avere un organo terzo ed imparziale che dirimesse ogni contrasto non solo tra il debitore ed i creditori, ma tra questi ultimi stessi. Gli interessi personalistici ed egoistici dei creditori ed i conflitti con gli aventi causa o danti causa del fallito hanno improntato il cammino verso una sempre maggiore rilevanza del giudice, tanto che autorevolissima dottrina (Ricci) in un articolo su un quotidiano economico – finanziario di commento alla riforma, ha stigmatizzato quest’ultima rilevando che l’unico organo imparziale e a costo zero nonché dotato mediamente di una preparazione superiore agli addetti ai lavori è stato ridimensionato, cioè il giudice.
   L’accentuazione dei suddetti principi ispiratori, nella ricerca di un giusto contemperamento degli obiettivi della legge fallimentare, sia in una ottica convenzionale (vds concordato, accordi di ristrutturazione, concordato fallimentare) sia in una ottica necessariamente liquidatoria- recuperatoria, comporta una revisione in senso giurisdizionale delle funzioni degli organi giurisdizionali ed una accentuazione dei compiti amministrativi del curatore e del comitato dei creditori anche al fine di una loro rivitalizzazione, consentendo loro di andare ad occupare quello spazio di autonomia che in qualche modo, seppure in nuce, trova le sue radici già nella attuale legge fallimentare. Peraltro, forse la raggiunta centralità, che è opportuno sottolineare “acquisita” del giudice delegato, si scontra con quella di un dinamismo cui si devono improntare le procedure fallimentari nell’ambito delle quali ogni organo si deve occupare di quello cui la legge lo demanda a compiere in relazione alla funzione da assolvere. Il Giudice deve fare il giudice e non può assecondare il curatore o il comitato dei creditori in scelte che, nella loro autonomia di organo, possono assolvere senza cercare ogni volta l’ombrello del giudice (giudice delegato o tribunale). I professionisti dovrebbero guardare con favore la riforma, leggendola nell’ottica di una esaltazione della loro professionalità da misurare nella gestione di una procedura secondo criteri “competitivi”, ricorrendo al giudice solo quando è veramente necessario il ricorso allo stesso e non quando ci si vuole ripararsi da una qualunque responsabilità. Il nuovo ruolo del curatore, se effettivamente si vogliono perseguire gli obiettivi della riforma, “pretende” una maggiore specializzazione dei professionisti chiamati a svolgere una attività di tipo manageriale improntata a criteri privatistici nell’ottica non solo di una liquidazione diretta al soddisfacimento dei creditori, ma anche ad un recupero, ove possibile, del bene “impresa” da ricollocare sul mercato (emblematico di tale visione è la predisposizione del programma di liquidazione cui sarà chiamato il curatore, i cui contenuti sembrano quasi richiamare la figura del business plain). Vi è poi l’obbligo dei curatore di rendere costantemente un rendiconto aggiornato della loro azione che va addirittura inserito nel registro delle imprese, conferendogli una pubblicità che pone in primo piano la professionalità del curatore. In tal senso, può, pertanto, apparire anche condivisibile la previsione di un allargamento della platea dei soggetti che possono assumere il ruolo di curatori, ma probabilmente detto ampliamento andava inserito in un quadro di previsioni dirette a garantire una soglia minima di accesso a tale ufficio, richiedendo una professionalità ed una assunzione di responsabilità non comuni. In tal senso si giustifica l’allargamento agli studi associati ovvero alle società tra professionisti ed a coloro che hanno dato prova di capacità di gestione manageriale. La previsione generica del legislatore non fa altro che demandare a coloro che dovranno applicare la norma (è il tribunale che sceglie il curatore) l’individuazione e la selezione di detti soggetti, con tutte le conseguenze. Si può già anticipare la considerazione che solo una legislazione completa nei suoi contenuti e redatta con una tecnica legislativa rigorosa può realizzare gli obiettivi prefissati, atteso che non si può demandare alla sua applicazione tale finalità, demandando all’interprete di occupare quegli spazi che il legislatore non solo non ha integrato, ma nemmeno previsto. L’esempio tipico è già all’attenzione degli interpreti che affannosamente cercano di dare attuazione alla disciplina del concordato preventivo attraverso una interpretazione sistematica ragionevole, fra le difficoltà interpretative sorte a seguito della nuova legislazione e del suo raccordo con quella parte non abrogata. È quasi inutile affermare che, pur nell’ottica di un ridimensionamento dei poteri del tribunale per quanto concerne il concordato preventivo, lo stesso tribunale, suo malgrado, è chiamato ad un intervento pregnante onde sopperire alle lacune legislative. Peraltro, l’utilizzo di una tecnica legislativa inidonea (si pensi che nel concordato si richiamano anche commi di articoli inesistenti) frustra anche l’applicazione dell’istituto con le sue novità, attese le incertezze che sorgono in sede applicativa e che allontanano dalla sua utilizzazione. Già si può affermare che il concordato preventivo, che nell’ottica del legislatore doveva diventare come una delle procedure più rilevanti, sta trovando una lenta attuazione proprio per le difficoltà applicative che comporta. Il pericolo che si profila all’orizzonte, analizzando la riforma della procedura fallimentare, è analogo proprio per lo stesso motivo: la genericità di talune norme di cui necessariamente dovranno occuparsi gli organi giurisdizionali, atteso che difficilmente potranno trovare una interpretazione adeguata da parte del comitato dei creditori o del curatore che sicuramente sconteranno un certo approccio culturale alla nuova procedura.

   Il passaggio dalla attuale normativa alla riforma è stato anche preceduto da diversi disegni di legge (si pensi alle elaborazioni della Commissione Trevisanato), fra i quali, quello predisposto dalla Commissione interministeriale, istituita con il decreto ministeriale del 27 febbraio 2004, autrice del c. d. maxi-emendamento, è decisamente ispirato verso una limitazione della giurisdizione alla tutela dei diritti, senza interferenze con la gestione della procedura, ed è quello che ha maggiormente influenzato l’attuale riforma.
Tuttavia, non occorre dimenticare che, in passato (che costituisce l’esperienza acquisita che dovrebbe consentirci il non ripetere certi errori salvaguardando i risultati raggiunti), un autorevole autore (Navarrini) in “Le nuove disposizioni in materia fallimentare illustrate con i lavori preparatori e con la dottrina”, scriveva che «i lamenti contro l’opera dei curatori che spesso abusavano a danno dei creditori e dello stesso fallito della loro posizione e delle loro funzioni, che premevano disastrosamente sulle sorti del fallimento che ne assorbivano a proprio vantaggio le attività che producevano in altri termini un vero fallimento nel fallimento …». Dunque, la genesi dell’impronta autoritaria della legge fallimentare del 1942, e la sua immediata attuazione, derivava, quindi, non solo dalla impronta dell’epoca storica che l’ha prodotta, ma anche quale reazione agli effetti distorsivi e degenerativi di un sistema che attribuiva i più penetranti poteri al ceto dei creditori. A questa degenerazione cominciò a porsi riparo con la legge n. 395/1930 che, tuttavia, nel lungo cammino del diritto fallimentare, già aveva consacrato il principio secondo il quale l’amministrazione fallimentare è una amministrazione di pubblico interesse affidata al G. D. come organo dello Stato con l’ausilio del Curatore. La soluzione di affermare il giudice delegato come colui che “dirige” la procedura nasce dunque da una esperienza negativa di gestione affidata ai creditori con il codice di commercio (che prevedeva l’assemblea dei creditori e la delegazione dei creditori quali organi collegiali del fallimento con rilevanti poteri non solo di controllo), dai quali si è andati progressivamente allontanandosi proprio per il cattivo risultato che avevano dato in applicazione della legge da ultimo citata e per il condizionamento che esercitavano sul curatore. Il ritorno ad un collegio di creditori di certi poteri autorizzatori e di nomina è innegabile che, ove trovasse una applicazione egoistica e meramente satisfattoria, pregiudicherebbe, anche in relazione alle esperienze del passato, ogni intento della riforma e costituirebbe un ritorno al passato dal quale faticosamente e lentamente si è sempre cercato di allontanarsi con ogni riforma che si è succeduta a partire dal 1930.
   In ogni caso, essendo completamente diversa la situazione socio-economico-culturale della Società odierna rispetto a quella del codice di commercio, con una continua evoluzione in senso democratico della Società stessa, ogni giudizio su una scelta che appare evocare il passato, in assenza di riscontri concreti potrebbe apparire un pre-giudizio, non confortato da alcun elemento, soprattutto perché il legislatore ha circondato di determinate cautele la procedura proprio richiamando quei poteri giurisdizionali che appartengono agli organi di tale natura. Infatti, se sicuramente vi è un aumento della sfera operativa del curatore e del comitato dei creditori, vi è anche un costante controllo e vigilanza previsti dal legislatore, il quale si è preoccupato di inserire diverse tutele tutte ispirate ad un intervento di varia natura dell’autorità giurisdizionale. Il risultato non è perfetto, ma l’intenzione probabilmente traspare da alcune disposizioni di apertura, ma non troppo. Peraltro, è la stessa tecnica utilizzata dal legislatore delegato che, per la genericità di talune previsione e per la mancata adozione a problemi cronici ed irrisolti dalla stesa giurisprudenza, lascia pensare che il legislatore abbia voluto introdurre dei principi nuovi, lasciando poi le soluzioni concrete agli interpreti, come il pagamento del compenso al curatore per i fallimenti privi di fondi o revocati ed ancora i criteri per la liquidazione dei coadiutori, per i quali lo stesso legislatore ha previsto che deve essere tenuto presente il compenso da corrispondere anche in relazione a quello da liquidarsi al curatore, ma senza dire nulla sui criteri. Tale mancanza di presa di posizione su problemi tuttora irrisolti e che il legislatore aveva l’occasione di risolvere lasceranno presumibilmente spazio a soluzioni interpretative che saranno poste a carico degli organi della procedura, anche se probabilmente solo in capo ad alcuni che hanno sostanzialmente il controllo della procedura e che fanno parte dell’apparato dell’autorità giudiziaria.
In ultimo, probabilmente ispiratrice della riforma è stato anche il decreto legislativo n. 99/270, dove vi è una netta distinzione tra gestione della procedura, affidata esclusivamente alla autorità amministrativa ed attività giurisdizionale, rimasta in capo al giudice, dove «lo scavalcamento della fase di osservazione che corre fra la sentenza dichiarativa di insolvenza e il decreto di apertura della amministrazione straordinaria manifesta la palese volontà di affidare la gestione della crisi alla discrezionalità amministrativa e politica e di porre l’autorità giudiziaria di fronte al fatto compiuto. Infatti, il profilo di gran lunga più rilevante che segna un distacco profondo dal sistema vigente è rappresentato dalla opzione di affidare alla autorità amministrativa la decisione sulla ammissione alla procedura sicché l’intervento della autorità giudiziaria è temporalmente differito e qualitativamente compresso» (“Dai tribunali ai ministeri: prove generali di degiurisdizionalizzazione della gestione della crisi di impresa” Fabiani- Ferro).

   Passando ad analizzare più nel dettaglio i rapporti tra gli organi giurisdizionali, in base alla legge attuale, sicuramente non sussiste un rapporto di gerarchia tra i due organi e tale situazione si ripropone nella riforma: autorevole dottrina (Azzolina, De Semo, Pajardi) lo riconosce, altri autori non lo inquadrano in tale ambito: la giurisprudenza di merito distingue tra funzioni decisorie riservate al giudice delegato rispetto alle quali il tribunale non potrebbe sostituirsi al giudice delegato stesso (come in materia di liquidazione compensi) e funzioni amministrative rispetto alle quali il tribunale, avendolo delegato, può sostituirsi.
   Il Tribunale, nell’attuale disciplina, ha poteri latu sensu amministrativi relativi alla gestione delle procedure tra cui quello dell’art. 35 legge fall. (la riforma, nella nuova formulazione dell’art. 35 legge fall. prevede la decisione del Curatore, previa autorizzazione del Comitato dei creditori. Tuttavia, per atti superiori nel valore a 50.000 € ed, in ogni caso, per le transazioni il curatore ne informa previamente il Giudice delegato). Il Tribunale perde questo potere e viene, in qualche misura, sostituito dal giudice delegato, il quale, perde anche il suo potere autorizzatorio controbilanciato da un obbligo del curatore di effettuare allo stesso giudice delegato la informazione di cui al comma due dell’art. 35 legge fall. Probabilmente, il legislatore ha inteso assegnare questo potere al curatore, condizionandolo all’autorizzazione del Comitato dei creditori, di cui si deve ritenere la natura vincolante a pena di perdita di ogni efficacia e di ogni controllo sull’operato del curatore, trattandosi di atti che hanno una valenza sostanziale e che si riflettono sulle possibilità satisfattorie dei creditori. Anche perché la realizzazione di tale atti di straordinaria amministrazione potrebbe riflettersi sulla possibilità di conservazione dell’impresa. Certo rimane tutto da interpretare la valenza che si intende attribuire alla informazione che il curatore è tenuto a dare al giudice delegato e la possibilità di reazione di quest’ultimo alla stessa che, in qualche misura, si scontra con gli obiettivi tipici della procedura. La tipologia di soluzioni va dalla possibilità del giudice delegato di provvedere alla revoca del curatore per il compimento di atti illeciti ovvero per la individuazione di giustificati motivi, alla possibilità di paralizzare il compimento di tali atti in quanto contrari alle finalità della procedura, quantomeno istituzionali. Si tratta di un tipico esempio di tecnica legislativa che mina la realizzazione degli obiettivi della legge, perché sicuramente il giudice delegato darà una sua interpretazione a tale informazione e troverà una soluzione a seconda di come interpreterà il potere di vigilanza e controllo sulla regolarità della procedura che l’art. 25 legge fall. gli assegna. Tutto da verificare poi nel caso che tale informazione sia del tutto omessa, atteso che, in tale caso, probabilmente l’opinione che si affermerà sarà quella di una revoca del curatore, sempreché il giudice delegato ne venga a conoscenza. In ogni caso, il dovere di informare il giudice delegato deve essere riempito di un contenuto interpretativo, atteso che il legislatore, proprio nell’ottica della vigilanza e del controllo, non può avere inserito tale obbligo come meramente informativo sprovvisto di ogni conseguenza sia nel caso di omissione che di inesattezza a pena dell’inutilità. Anche in una ottica di economia processuale occorre prediligere una interpretazione che conferisca un senso alla norma che non una che la svilisca.
   Il Tribunale mantiene i poteri giurisdizionali che discendono essenzialmente dagli art. 23-24 – 26 legge fall.).
   L’art. 23 legge fall. prevede, tra l’altro, il potere di nomina del curatore (e di sua revoca o sostituzione per giustificati motivi unitamente agli altri organi della procedura) che costituisce, con la nuova visione ed impostazione della riforma, una scelta carica di responsabilità ai fini del raggiungimento degli obiettivi della riforma medesima, dovendo individuare, nell’ambito della tipologia di professionisti indicati ovvero studi ovvero società, il soggetto che è più idoneo a rivestire la carica di curatore in relazione alle problematiche che presumibilmente si porranno nella gestione della procedura. Non è un potere di poco conto, anche perché, se il legislatore sul punto ha taciuto non dettando alcun requisito specifico se non in modo assolutamente generico, e lasciando ancora una volta all’interprete ogni decisione, non è possibile escludere che, per raggiungere un livello di professionalità adeguato, il tribunale possa predisporre un elenco di professionisti che appaiano, previa una idonea valutazione fondata su titoli e precedenti esperienza specifiche, adeguati a gestire in generale le nuove procedure fallimentari, salvo poi di volta in volta, all’interno dell’elenco, individuare, in relazione alle peculiarità delle procedure, le professionalità che meglio si attagliano agli obiettivi che, da un primo esame della situazione da parte del tribunale, sono raggiungibili. Ulteriore valutazione che il tribunale dovrà compiere, e che in qualche modo consigliano il curatore ad ottenere i migliori risultati per ogni procedura che gli sarà affidata, sarà quella di valutare le precedenti procedure gestite, valutando i risultati ottenuti, le percentuali di vendita, le percentuali di soddisfacimento dei creditori, il perseguimento dell’obiettivo di conservazione dell’impresa, i tempi di realizzazione. Questa valutazione sarà decisiva in una ottica futura e costituirà un rilevante incentivo per i curatori, alla stessa stregua di un manager privato. Il Tribunale provvede, anche di ufficio, alla revoca e sostituzione, per giustificati motivi, degli organi della procedura, giudice delegato e curatore, atteso che è prevista la competenza del giudice delegato per quanto riguarda il comitato dei creditori. Permane il potere di ufficio del tribunale per la revoca del curatore e tale facoltà si pone sicuramente come uno strumento rilevante ai fini della regolarità della procedura. L’unico vincolo che si pone alla sostituzione o revoca dei predetti organi è la sussistenza di un giustificato motivo ed anche questo concetto sarà riempito di contenuto dalla giurisprudenza in sede di applicazione, non avendo il legislatore dettato alcun criterio di riferimento. In ogni caso, si presenta una ulteriore novità, quella per la quale il decreto di sostituzione del curatore è reclamabile davanti alla Corte di appello, pur non sussistendo un diritto soggettivo del curatore alla permanenza nella carica, anche se l’art. 26 bis richiamato ai fini del reclamo non esiste (lo conferma anche la relazione alla riforma). Anche tale previsione si pone come una novità assoluta rispetto all’attuale normativa, per la quale, evidentemente, una eventuale revoca ingiustificata si pone come motivo di risarcimento del danno. Non è prevedibile quali potranno essere i rapporti tra gli organi giurisdizionali della procedura ed il curatore al quale fosse accolto il reclamo in corte di appello e quale la sorte del nuovo curatore nominato. Il legislatore tace, ma probabilmente ha inserito delle norme che minano fortemente la tanto auspicata celerità della procedura. Basti pensare all’eventuale passaggio di consegne da un curatore ad un altro e, in caso di accoglimento del reclamo, di un nuovo passaggio di consegna, con rendiconti da depositare ed approvare; senza considerare poi la continuazione della procedura tra organi privi di ogni fiducia tra loro. In sede di revoca del curatore poi viene sostituito il parere del pubblico ministero con quello del comitato dei creditori. La considerazione, ancorché epidermica per la novità della disciplina, è quella comunque di conservare all’organo giurisdizionale un potere comunque generale di controllo e di intervento sugli organi della procedura e forse questa è anche la ragione per la quale il legislatore in questa materia non ha optato per una scelta ancora più radicale, quella del giudice monocratico. Quest’ultima scelta sicuramente avrebbe comportato una notevole accelerazione delle procedure e risolto i problemi di incompatibilità che la riforma prevede per il giudice delegato. Soprattutto, tale scelta avrebbe trovato una sua giustificazione nell’ottica di un ritorno a compiti essenzialmente giurisdizionali del tribunale e del giudice delegato, la cui conoscenza della procedura verrebbe sfruttata appieno. È inutile dire che la suddetta selezione dei curatori potrà essere raggiunta solo dotando i tribunali di adeguati sistemi informativi, già in circolazione sul mercato, che consentano di fare le suddette valutazioni. Anche su questo punto il legislatore tace, limitandosi solamente a prevedere alcune comunicazioni in formato elettronico e alla previsione, non è dato capire se in via alternativa o meno, del fascicolo elettronico. Quest’ultima disposizione assume una valenza decisiva ai fini della buona riuscita della riforma, atteso che, soprattutto nei tribunali di notevoli dimensioni solo una completa informatizzazione del fascicolo consentirà la visione dello stesso ai vari comitati dei creditori ed ai falliti, per i quali non è più richiesta l’autorizzazione del giudice delegato ed anche ai creditori e terzi (soprattutto quelli interessati alla liquidazione dei beni), per i quali l’autorizzazione del giudice permane. Appare, infatti, alquanto difficile, se non impossibile, che il curatore o il comitato dei creditori, i quali devono comunque tenere in considerazione dell’esistenza di un fascicolo fallimentare, dove vengono depositati tutti gli atti, quali la relazione ex art. 33, lo stato passivo, il piano di riparto ecc…possano svolgere le loro funzioni in assenza di uno strumento informatico adeguato ed idoneo ad assolvere a tutte le loro richieste, soprattutto in considerazione anche di una diversa dislocazione territoriale rispetto al luogo dove è stato dichiarato il fallimento.

   Peculiare e notevolmente discussa nei dibattiti sulla riforma è il potere riconosciuto ai creditori in rapporto alla maggioranza dei crediti insinuati di effettuare nuove designazioni in ordine al comitato dei creditori nel rispetto dei criteri di cui all’art. 40 e di chiedere la sostituzione del curatore indicando un nominativo: la domanda più ricorrente riguarda la natura di tale proposta, vincolante o meno, ma ove si optasse per la prima soluzione sarebbe difficilmente giustificabile il conflitto che si crea con il potere riconosciuto al tribunale di disporre la nomina del curatore e la sua revoca o sostituzione: non si tratta di una norma vincolante per l’autorità giudiziaria, ma di un potere di proposizione che deve in ogni caso trovare una sua giustificazione accettabile o meno da parte del tribunale (appare opportuno ricordare che occorre sempre un giustificato motivo al tribunale per procedere alla sostituzione del curatore ed il comitato dei creditori lo deve indicare quando propone un altro curatore, ed, anzi, probabilmente, vista la competenza e la professionalità che si chiede alla nuova figura di curatore, potrebbe trovare successo una interpretazione tesa a motivare in ordine non solo alla richiesta di sostituzione, ma anche ai motivi per i quali il soggetto proposto dal comitato dei creditori sarebbe meglio in grado di gestire la procedura: è assolutamente peculiare che il potere di richiedere una sostituzione si concretizzi anche nell’indicare un nominativo ove il potere risieda in un organo che è chiamato a fare diverse valutazioni sulla platea dei professionisti a cui si può rivolgere). Non appare nemmeno avulso da un contesto procedurale ove si pensi che il curatore, per scelte anche legittime, potrebbe perdere la fiducia dei creditori ovvero potrebbe trovarsi in situazioni obiettive di incompatibilità che sconsigliano una sua permanenza nella procedura; peraltro, la richiesta di sostituzione del curatore da parte del comitato dei creditori già esisteva nell’attuale art. 37 legge fall. Non appare così traumatica la circostanza concessa al comitato dei creditori di proporre anche il successore del curatore, quindi, indicando i motivi della scelta. In ogni caso, permane, e non appare assolutamente essere in dubbio, il potere del tribunale di nominare, sostituire o revocare il curatore.

   Assolutamente peculiare sarà la valutazione che il tribunale sarà chiamato a svolgere in ordine al presupposto soggettivo ai fini della dichiarazione di fallimento (vds. art. 1 legge fall., essendo rimasto invariato l’art. 5 legge fall.).
   L’indicazione di criteri quantitativi e non qualitativi comporterà notevoli problemi di individuazione in relazione alla individuazione degli investimenti di capitali e della media dei ricavi lordi, soprattutto perché i poteri di ufficio, quali il ricorso alla Guardia di Finanza, soprattutto nei grandi tribunali richiedono tempi non compatibili con la celerità della procedura. L’accertamento potrà avvenire sia sulla base delle scritture contabili di natura civilistica sia fiscale, ma sussiste il pericolo che dette scritture che già oggi subiscono pesanti condizionamenti in ordine alla loro veridicità, possono subire un aggravamento per sfuggire alla statuizione della dichiarazione di fallimento. Probabilmente la soluzione è migliorabile attribuendo, come nel rito societario, una valenza al principio di non contestazione anche nella ipotesi di mancata costituzione. Peraltro, la mancata costituzione dell’imprenditore ovvero del legale rappresentante potrebbe assumere anche una valenza sotto il profilo della insolvenza: a fronte, infatti, di un ricorso per la dichiarazione di fallimento, l’assoluta latitanza del legale rappresentante acquista un significato altamente qualificato.
   In ogni caso, il criterio quantitativo non appare assicurare una effettiva parità di trattamento nella misura in cui sussistono zone estese dove le imprese svolgono la loro attività commerciale con dimensioni ridotte ed in nero, e non consente di intervenire tempestivamente in occasione dei c. d. fallimenti creati che possono avere anche una durata infrannuale, soprattutto nelle zone ad alta densità mafiosa. L’istituto fallimento potrebbe cadere in disuso in certe zone territoriali.

   La competenza del tribunale per le controversie relative alla procedura deriva dall’art. 24 legge fall., il quale nella sua formulazione appare aumentare il potere dello stesso tribunale, non sussistendo più la esclusione delle azioni reali immobiliari ed il richiamo alle cause relative a rapporti di lavoro. La modifica appare rilevante per la circostanza che appare ampliare la c. d. vis actractiva del Tribunale, demandando alla sua conoscenza tutte le controversia che traggano origine dalla procedura.
   Probabilmente nell’ottica della accelerazione delle controversie derivanti dalla procedura, il legislatore avrebbe potuto fare una scelta più coraggiosa e demandare al tribunale fallimentare anche le azioni che il curatore trova nel patrimonio del fallito che sono pur sempre destinate a fare valere diritti di credito ovvero risarcitori che portano ad un aumento del patrimonio da liquidare ai creditori. Oggi una delle cause maggiori per la quale le procedure fallimentari non si chiudono sono i processi civili davanti al giudice civile ordinario che scontano la lentezza dei processi. Sarebbe interessante verificare la possibilità di svolgere da parte di una procedura la applicazione della legge Pinto per i ritardi dei giudizi civili.
   Rilevante innovazione è il richiamo alle norme procedurali di cui all’art. 737 a 742 cod. proc. civ. quale rito prescelto per tali controversie. In sede di discussione, le varie commissioni che si sono succedute hanno manifestato diverse opzioni processuali, ritenuto idonee ad assolvere la direttiva contenuta nella legge delega relativa a «l’accelerazione delle procedure applicabili alle controversie in materia». Testimonianza di tale incertezza emerge ancora nella relazione alla riforma attuale, la quale sotto l’art. 24 legge fall. fa ancora riferimento all’opzione per il rito societario. La scelta del legislatore, tuttavia, è caduta sul rito camerale, integrato da alcune previsioni specifiche soprattutto nell’ottica di una sua costituzionalizzazione in ossequio all’art. 111 Cost. Il dubbio, infatti, che sorgeva era proprio quello di una carenza in tale procedimento dei requisiti di cui alla nuova versione dell’art. 111 Cost. sul giusto processo, atteso che le garanzie del contraddittorio rimanevano notevolmente attenuate, soprattutto in considerazione della assoluta discrezionalità del giudice nella conduzione del procedimento in assenza di uno specifico rito ed anche in considerazione della equivoca natura contenziosa o di volontaria giurisdizione di questo procedimento. È una norma cardine dal punto di vista processuale dove possono essere poste in discussione e risolti i conflitti che nascono all’interno della procedura e che vengono decisi dagli organi giurisdizionali; c’è una specifica procedura da seguire con termini previsti a pena di decadenza per sollecitare una pronta decisione e che riafferma il procedimento camerale, secondo modalità che esaltano i principi dell’art. 111 cost., come procedimento tipico all’interno della procedura concorsuale. Si tratta di una scelta fondamentale del legislatore che presiede a tutte le decisioni degli organi giudiziari, optando tra i vari procedimenti disponibili, tra cui quello ordinario e quello societario; sicuramente si tratta di un procedimento elastico e celere, che consente una procedimentalizzazione scevra da forme vincolate e che, pur rientrando tra i procedimenti di cui si dubitava di una piena conformità all’art. 111 cost., è stato modificato con l’introduzione di un pieno contraddittorio senza snaturarne la celerità. Dubbi si prospettano in ordine allo strumento prescelto attese le critiche operate ai procedimenti camerali in rapporto alla concreta operatività delle garanzie di azione e difesa, del principio del contraddittorio, del diritto alla prova e, riunendole tutte, del giusto processo (a tale proposito, si ritiene il procedimento camerale, vista la natura di procedimento di giurisdizione volontaria o contenzioso dove il giudice convoca le parti e assunte le informazioni decide, come un procedimento che mal si concilia con il principio del giusto processo, ma le modifiche introdotte dal legislatore delegato, dove lo spazio di autonomia procedimentale del giudice è ristretto con la attuazione dei suddetti principi appaiono idonee a ritenere corretto l’operato dello stesso legislatore delegato; peraltro, il legislatore ha già fatto largo uso del procedimento camerale nella legge concernente la Nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell'articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274).
   Con tale rito, quindi, il tribunale decide i ricorsi per le dichiarazioni di fallimento, le opposizioni allo stato passivo, le impugnazione, le revocazioni, le insinuazioni tardive ed i reclami avverso i provvedimenti del giudice delegato nonché ogni controversia nell’ambito della procedura fallimentare. Singolare è l’introduzione da parte del legislatore di una incompatibilità per il giudice delegato chiamato a comporre il Collegio nel caso di reclamo ovvero di decisioni concernenti giudizi autorizzati dallo stesso giudice delegato ai sensi dell’art. 25, n. 6, legge fall.: nell’attuale normativa il Giudice delegato può fare parte del Collegio sia quando quest’ultimo decide il reclamo sia l’opposizione allo stato passivo. Sul punto si è espressa anche la Corte Costituzionale (sent. n. 363/1998 e ord. n. 304/1998), la quale ha detto che il giudice delegato non giudica due volte sulla medesima res iudicanda, ma esiste un unico procedimento con una fase a cognizione sommaria e rapida ed una di maggiore approfondimento; anche in relazione al reclamo, la diversa disciplina rispetto al 669 terdecies cod. proc. civ. era motivata dalla rilevanza pubblicistica dell’istituto fallimentare e dalla necessità che non venga disperso il valore delle informazioni e conoscenze di tutti gli aspetti della procedura di cui è a conoscenza il giudice delegato. La riforma, in una ottica garantista e richiamando anche quanto previsto in sede di reclamo nel procedimento cautelare, all’art. 25 legge fall. prevede espressamente che «Il Giudice delegato non può trattare i giudizi che abbia autorizzato né può fare parte del Collegio investito del reclamo proposto contro i suoi atti». Il legislatore, in una ottica di bilanciamento degli interessi, soprattutto alla luce della modifica intervenuta dell’art. 111 Cost., per come ha espressamente indicato nella relazione di accompagnamento della riforma, ha preferito perseguire gli obiettivi della serietà ed imparzialità del giudice delegato rispetto ai predetti di conoscenza ed informazione dei contenuti della procedura, ritenendo, altresì, che, anche negli uffici giudiziari di minori dimensioni non sussistano problemi, potendo fare ricorso alla applicazione infradistrettuale di magistrati. La soluzione, pur interpretabile in una ottica garantistica, lascia dubbi sia in ordine alla più volte ritenuta costituzionalità ribadita dalla corte costituzionale pur con la nuova versione dell’art. 111 Cost. sia in relazione alla funzionalità degli uffici, soprattutto quelli di minori dimensioni, con ripercussioni sull’obiettivo della accelerazione della procedura, senza considerare i riflessi derivanti dalla conoscenza di una procedura così complessa come quella fallimentare solo da parte del Giudice delegato e non dagli altri.

   Particolare rilievo assume, sotto il profilo delle modifiche, il procedimento per la dichiarazione di fallimento cui fa da sfondo la normativa generale in materia di procedimenti camerali sempre secondo una ottica di costituzionalizzazione del procedimento ai sensi dell’art. 111 Cost., con la previsione di un procedimento puntualizzato in alcuni passaggi, venendo meno il procedimento di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento e la iniziativa di ufficio, che rimane solo in capo al pubblico ministero in particolari situazioni, anche quelle occasionate da procedimenti civilistici di cui lo stesso pubblico ministero riceverà notizia dal giudice civile. La competenza, ai sensi dell’art. 9 legge fall., in applicazione di un principio giurisprudenziale consolidato, non muta in relazione al tribunale del luogo in cui l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa, ma permane anche ove il trasferimento della sede legale sia intervenuto nell’anno antecedente, come non rileva, anche ai fini della giurisdizione, il trasferimento se è avvenuto dopo il deposito del ricorso ai sensi dell’art. 6 o la presentazione della richiesta di cui all’art. 7. Una critica che è stata sollevata al contenuto della legge delega è stata quella di essersi “dimenticata” completamente il regolamento comunitario n. 1346/2000 in materia di procedure di insolvenza, la cui rilevanza deriva dalla circostanza che proprio perché fonte comunitaria, è destinato a prevalere, nella gerarchia delle fonti, sulla normativa interna. L’unico accenno su questo punto fatto dal legislatore delegato attiene alla indicazione della compatibilità della normativa con le convenzioni internazionali e con la normativa dell’Unione europea, ma non pone alcun raccordo specifico, soprattutto in ordine alla individuazione della sede legale, nella legge fallimentare, in rapporto al centro principale degli interessi, nel regolamento. Il legislatore delegato risolve poi anche i conflitti di competenza che possono nascere tra più tribunali tutti dichiaratisi incompetenti ovvero competenti, prevedendo, agli artt. 9 bis e ter, una trasmissione di ufficio degli atti ovvero la riassunzione dei giudizi avviati davanti al giudice ritenuto competente.
   In particolare, il rito camerale delineato dal legislatore delegato per la istruttoria prefallimentare prevede, ad integrazione della normativa generale in tema di procedimenti camerale e nell’ottica della sua costituzionalizzazione, una scansione di adempimenti, partendo dalla indicazione che il procedimento è volto all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento e alla previsione dei termini minimi a comparire (da 15 a 30 giorni), alla concessione di termini per predisporre le difese (sino a 7 giorni prima dell’udienza per memorie, deposito documenti e relazioni tecniche) , alla individuazione di una fase istruttoria e anche alla possibilità di emettere provvedimenti cautelari (decreto di convocazione delegabile anche ad un giudice relatore; termine minimo a comparire da un minimo di 15 giorni ad un massimo di 30 giorni, riducibili per particolari ragioni di urgenza dal tribunale con decreto motivato; termine non inferiore a sette giorni prima dell’udienza per la presentazione di memorie ed il deposito di documenti e relazioni tecniche presumibilmente a favore di entrambe le parti; possibilità per il tribunale di disporre gli accertamenti necessari e dispone che l’imprenditore depositi una situazione patrimoniale economica e finanziaria aggiornata; deposito da parte dell’imprenditore di una situazione patrimoniale economica e finanziaria aggiornata; indicazione nel ricorso che il procedimento è volto all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento; possibilità di nomina di consulenti tecnici di parte; facoltà del tribunale di disporre provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio). È mancata, tuttavia, come già anticipato, una scelta coraggiosa del legislatore nel senso di non richiamare, e così introdurre anche nel processo fallimentare, la valenza data al principio di non contestazione nel processo societario a carico del convenuto che non si costituisce tempestivamente, data l’importanza che assumerebbe, ai fini della decisione. Particolarmente rilevante è il limite posto alla dichiarazione di fallimento contenuta nell’ultimo comma dell’art. 15 legge fall., per il quale il tribunale non può dichiarare il fallimento ove i debiti scaduti e non pagati risultino complessivamente inferiori all’ammontare di € 25.000,00. Il legislatore individua così un limite che istituzionalizza una prassi giurisprudenziale contraria alla dichiarazione di fallimento per esposizioni debitorie di non rilevante entità, soprattutto in considerazione della anti-economicità della procedura a fronte di certi debiti e di fallimenti di imprenditori commerciali di ridotte dimensioni, in ossequio ad un principio di economia processuale. Sicuramente lo sbarramento si pone in sintonia con le finalità dettate per la novellata procedura fallimentare e con i limiti introdotti all’art. 1 relativi alla sussistenza del presupposto soggettivo per poter essere considerato imprenditore commerciale e, quindi, assoggettabile a fallimento. Sicuramente sorgeranno notevoli dispute sulla concreta individuazione del limite, soprattutto in relazione alle componenti che possono e devono rientrare nel limite suindicato e potranno trovare attuazione anche comportamenti elusivi diretti a corrispondere solo una somma tale da integrare tale sbarramento al fine di evitare il fallimento.
   Il contenuto del provvedimento dichiarativo di fallimento subisce anch’esso gli influssi della riforma, la quale recepisce alcune indicazioni che hanno fatto discutere la dottrina e giurisprudenza e che consistono nell’intimare: il deposito delle scritture contabili e fiscali (queste ultime costituiscono una vera novità) obbligatorie e dell’elenco dei creditori entro tre giorni (e non più 24 ore); la fissazione dell’udienza di verifica entro il termine perentorio di 120 giorni dal deposito della sentenza; il termine perentorio di 30 giorni prima della verifica per il deposito della domande dei creditori; la produzione degli effetti della sentenza dalla pubblicazione ovvero dalla iscrizione nel registro delle imprese per i terzi. Quest’ultima previsione, particolarmente sentita in ordine alle attuali interpretazioni giurisprudenziali che collegano al deposito della sentenza ogni effetto, ancorché presuntivo, anche nei confronti dei terzi, pone termine ad una diatriba in ordine agli effetti della sentenza che appariva iniqua soprattutto nei confronti dei terzi, per la obiettiva difficoltà di conoscenza da parte di questi ultimi di ogni sentenza dichiarativa di fallimento. In secondo luogo, se appare condivisibile tale previsione, suscitano perplessità l’adozione della perentorietà dei termini quantomeno per l’udienza di verifica dello stato passivo. A parte la considerazione in ordine alle conseguenze del mancato rispetto del termine perentorio fissato per la verifica, anche in considerazione della recente sentenza della Corte di Cassazione che ha ritenuto presentabile nuovamente la domanda di ammissione tardiva al passivo del fallimento in caso di mancata iscrizione a ruolo nel termine decadenziale poiché l’estinzione non produce la perdita del diritto, il termine appare particolarmente ravvicinato sia rispetto ai tempi dell’inventario sia del programma di liquidazione. Peraltro, lo stesso legislatore della riforma prevede la possibilità di presentare nuovamente la domanda in caso di inammissibilità.
   Viene eliminato il giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, venendo meno una competenza del tribunale fallimentare, controbilanciata, peraltro, da una procedura per la dichiarazione di fallimento più articolata seppure improntata ai procedimenti camerali. Il legislazione ha inteso, infatti, adottare sicuramente una procedura che consente al tribunale una certa flessibilità, circondandola, tuttavia, di quelle garanzie che risultano imprescindibili nell’ottica del giusto processo. Si pone, tuttavia, un problema di celerità della procedura pre-fallimentare, soprattutto in relazione ai termini stringenti previsti per la riformata revocatoria.
   È previsto direttamente l’appello quale mezzo di impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento, ai sensi dell’art. 18 legge fall. L’appello può essere proposto dal debitore e da qualunque interessato entro 30 giorni, prevedendo la decorrenza del termine per la impugnazione, compatibilmente con l’orientamento della Corte Costituzionale, dalla notificazione a favore dei soggetti che hanno partecipato al procedimento precedente ovvero dalla data della iscrizione nel registro delle imprese (in ogni caso si applica il termine di cui all’art. 327 cod. proc. civ., tenendo presente che non dovrebbe applicarsi la sospensione feriale dei termini). Interessante appare anche la previsione di termini, in una ottica acceleratoria, sia per la fissazione dell’udienza (45 giorni) sia per la notifica del ricorso e del decreto (10 giorni dalla fissazione del provvedimento presidenziale) che per il deposito di memorie a favore delle parti resistenti (cinque giorni prima dell’udienza); la decisione, previa istruttoria anche d’ufficio, viene emessa ai sensi dell’art. 281 sexies, salvo i casi di particolare complessità per i quali la corte può riservarsi di depositare la motivazione entro quindici giorni; restano salvi, in caso di revoca, gli effetti degli atti legalmente compiuti dal curatore.
   Nulla prevede ancora il legislatore sull’annoso problema di chi debba corrispondere il compenso al curatore per l’attività svolta in caso di revoca del fallimento (creditore, procedura, debitore, Stato: quest’ultimo è stata invocato da una sentenza della Corte di Cassazione, ma non appare in linea con il dettato normativo del testo unico sulle spese di giustizia), come anche nulla ancora prevede il legislatore in ordine alle procedure che si rivelano priva di ogni attivo per la corresponsione del compenso al curatore.
   L’assenza di ogni previsione e l’impossibilità da parte degli organi giurisdizionali della procedura di ricorrere ad interpretazioni analogiche, estensive per la liquidazione del compenso ad opera del tribunale ovvero per la concessione del rimborso delle spese, lascia aperta una grave lacuna che mal si concilia con la professionalità che si pretende dal curatore.
   Sempre in ordine all’appello, peculiare ed innovativa è la possibilità di sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza dichiarativa di fallimento (art. 19: sospensione per gravi motivi, in tutto o in parte o temporaneamente, della liquidazione dell’attivo). Indubbiamente, la valutazione a cui è chiamato il tribunale ovvero la corte di appello in caso di ricorso in cassazione si pone nell’ottica della sospensiva comune al procedimento civile tipico, dove vengono in rilievo sia il fumus che il periculum ai fini dell’accoglimento dell’istanza di sospensiva (infatti, la relazione al progetto di decreto legislativo cita proprio l’inibitoria, come rimedio cautelare tipico alla provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado ex art. 282 cod. proc. civ.). L’organo che decide sulla istanza, pertanto, si troverà a dover fare complessivamente le stesse valutazioni che ordinariamente compie la corte di appello in caso di sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva. Il rito applicabile è quello camerale il quale non subisce particolari deviazioni dallo schema libero di cui all’art. 737 cod. proc. civ. e seguenti.
   In ordine all’articolo 22 non sussistono divergenze rilevanti, salvo la previsione, che è opportuno segnalare, dell’ultimo comma per cui «i termini di cui agli articoli 10 e 11 si computano con riferimento al decreto della corte di appello». Il legislatore introduce così una sorta di sospensione dei suddetti termini per evitare che il tempo successivo al decreto della corte di accoglimento del reclamo venga ad incidere negativamente sul decorso dei termini in questione (vds. relazione alla riforma).
   Da segnalare, in tema di liquidazione del compenso del curatore, la novità introdotta dopo il secondo comma dell’art. 39 legge fall. per la quale «… se nell’incarico si sono succeduti più curatore il compenso è stabilito secondo criteri di proporzionalità ed è liquidato, in ogni caso, al termine della procedura salvi eventuali acconti …». Il legislatore è così finalmente intervenuto sull’annoso problema della liquidazione dei compensi a favore dei curatori sostituiti ovvero revocati sancendo il principio che non solo il compenso è unico, ma va liquidato alla fine salvo eventuali acconti che possono essere concessi. Anche in questo caso, il legislatore è intervenuto ad istituzionalizzare un orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità che non aveva ancora trovato una attuazione a livello di disciplina legislativa.

   Con la dichiarazione di fallimento il tribunale nomina il giudice delegato che trova la fonte dei suoi poteri nell’ 25 legge fall. La nuova formulazione evidenzia la cancellazione del verbo “dirige” e conserva il verbo “vigila”, aggiungendo il termine “controllo” sulla regolarità della procedura: l’eliminazione del verbo “dirige” è stato interpretato come una riduzione dei poteri del giudice a favore del curatore e del comitato dei creditori, divenuti titolari di alcuni poteri di carattere autorizzatorio che con l’attuale normativa spettano allo stesso giudice delegato. Tuttavia, non va dimenticato che, secondo le definizioni correnti, se da un lato, il giudice delegato è definito come l’organo che dirige l’intero fallimento, dall’altro, il curatore è definito come l’organo motore del fallimento al quale compete l’amministrazione, la custodia e la successiva liquidazione delle attività fallimentare (vds. art. 31 legge fall.); peraltro, l’art. 31 legge fall. rimane invariato nell’attribuire al curatore l’amministrazione del patrimonio fallimentare, con la specificazione della vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori in luogo della direzione del primo.
   A parte la eliminazione del verbo “dirige” (che peraltro era riferito alle operazioni e non alla procedura), la riforma interviene sul punto n. 2 dell’art. 25, specificando ed istituzionalizzando un orientamento giurisprudenziale per il quale il decreto di acquisizione di beni da parte del giudice delegato non può essere emesso nei confronti di terzi che rivendichino un diritto incompatibile con l’acquisizione, il quale decreto, secondo un orientamento attuale della Cassazione, è stato tacciato anche di abnormità («La facoltà del giudice delegato, a norma dell'art. 25 l. fall., di adottare provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio del fallito implica il potere di emettere decreti di acquisizione alla procedura concorsuale di eventuali sopravvenienze attive, in possesso dello stesso fallito o del coniuge o di altri soggetti che ne contestino la spettanza al fallimento, ma non anche di disporre l'acquisizione di beni sui quali il terzo possessore rivendichi un proprio diritto esclusivo incompatibile con la loro inclusione nell'attivo fallimentare. In tale seconda ipotesi il decreto del giudice delegato, così come il decreto reso dal tribunale in esito al reclamo, devono ritenersi giuridicamente inesistenti, per carenza assoluta del relativo potere, con l'ulteriore conseguenza che avverso i medesimi, non suscettibili di acquistare autorità di giudicato, non è esperibile il ricorso per cassazione, a norma dell'art. 111 cost., restando in facoltà degli interessati di farne valere, in ogni tempo ed in ogni sede, la radicale nullità ed inidoneità a produrre effetti giuridici» Cass. civ., sez. I, 14/07/1997, n. 6353).
   Al n. 3 dell’art. 25 viene aggiunta la possibilità di convocare il curatore, oltre il comitato dei creditori, ma tale previsione sembra più formale che sostanziale, atteso che tutt’oggi nessuno ha mai dubito che esistesse tale potere in capo al giudice delegato, se non altro in esplicazione del potere di vigilanza. Interessante si presenta invece, in tale fattispecie, il contenuto della convocazione da parte del giudice delegato sia in relazione al comitato dei creditori sia in relazione al curatore. È abbastanza presumibile che occorre dare una interpretazione alla convocazione del curatore o del comitato dei creditori «ogni qualvolta lo ravvisi opportuno per il corretto e sollecito svolgimento della procedura», avendo lasciato il legislatore il suo contenuto in bianco, che potrà di volta in volta essere riempito di contenuti per dette finalità.
   Singolare è il punto 4) dell’art. 25 in virtù del quale il giudice delegato, su proposta del curatore, liquida i compensi e dispone la revoca dell’incarico conferito alle persone nominate dal curatore: non si comprende il motivo per il quale il potere di revoca non sia rimasto in capo al curatore, salvo non volerlo interpretare come un potere di controllo dell’operato del curatore da parte del giudice delegato per evitare che la revoca da parte del curatore possa essere uno strumento in mano a quest’ultimo nella ipotesi in cui il professionista nominato non ritenga di seguire indicazioni «particolari del curatore»: l’intervento del giudice delegato è a tutela del soggetto nominato dal curatore, a cui è sottratto il potere di revoca di quest’ultimo evidentemente per evitare il pericolo di coartazioni indebite; la liquidazione del compenso rimane in capo al giudice delegato ed anche questa previsione è una forte tutela rimasta in capo all’autorità giudiziaria nell’ambito dei poteri giurisdizionali veri e propri;
   Al punto n. 5) il giudice delegato è l’autorità deputata a decidere i reclami contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori: potrebbe essere uno strumento di rilevante controllo di entrambi i suddetti organi soprattutto nell’ottica della realizzazione di un ampio contraddittorio tra tutti i creditori partecipanti alla procedura ai fini di una puntuale osservanza e costante aderenza ai principi che governano la procedura fallimentare. Si tratta di una possibilità rilevante per il giudice delegato che, investito di un reclamo avverso un provvedimento del curatore o del comitato dei creditori, avrà la possibilità di sostituirsi a loro nella decisione. La norma nulla dice in ordine alla legittimazione, ma appare da escludere la possibilità di una iniziativa di ufficio.
   Permane la autorizzazione del giudice delegato, prevista al punto 6, al curatore a stare in giudizio, per atti determinati e per ogni grado e la liquidazione dei compensi nonché il potere di disporre la eventuale revoca dall’incarico: la novità, quindi, è la nomina del legale da parte del curatore che, tuttavia, è costantemente sotto il controllo del giudice delegato.
   Al punto 7 il giudice delegato nomina gli arbitri su proposta del curatore;
   Al punto 8 procede all’accertamento dei crediti e dei diritti reali e personali.
Peraltro, rimane il potere del giudice delegato di proporre la sostituzione del curatore ai sensi dell’art. 37 legge fall. che va coordinato con l’art. 23 legge fall. che demanda il potere di decisione al tribunale, condizionandolo all’esistenza di un giustificato motivo, che, a parte la casistica che si potrà creare, indubbiamente può essere riempito di un contenuto di legittimità o di merito. È un potere di iniziativa pregnante che rimane nella sfera operativa del giudice delegato, il quale, a seguito dell’avvenuta sostituzione, potrà autorizzare anche l’azione di responsabilità nei confronti del curatore sostituito non solo per violazione dei doveri imposti dalla legge all’ufficio di curatore, ma anche al piano di liquidazione approvato dallo stesso giudice delegato. Il programma di liquidazione, che in questo articolo il legislatore denomina piano secondo una tecnica legislativa ormai acclarata come approssimativa, diventa, quindi, fonte di responsabilità per il curatore nel momento in cui non dovesse per qualsiasi motivo nella sua attuazione risultare perfettamente aderente alle premesse. Il potere del giudice delegato, quindi, non si limita alla approvazione del piano, ma anche ad un costante controllo in ordine alla sua attuazione, chiamando il curatore a risponderne qualora individui violazioni allo stesso. Lascia qualche perplessità il potere concesso al comitato dei creditori, assolutamente eccezionale nel contesto della legge, di autorizzare l’azione di responsabilità avverso il curatore sostituito, atteso che si pone in contrasto con il potere del giudice delegato di autorizzare il curatore ad instaurare i giudizi e presuppone delle valutazioni concorrenti da parte dei due organi che sicuramente non hanno la stessa natura. Sarebbe probabilmente stato più opportuno prevedere la possibilità per il comitato dei creditori di richiedere al giudice delegato l’autorizzazione a svolgere l’azione di responsabilità contro il curatore, risultando così più coerente con il sistema generale e non introducendo una eccezione che potrebbe costituire una minore indipendenza dell’organo-curatore, al quale occorre, comunque, sempre nell’ottica di una vigilanza e controllo, garantire la sua sfera di autonomia.
   L’art. 25 legge fall. introduce una ormai inevitabile incompatibilità del giudice delegato nei giudizi che abbia autorizzato e per i reclami proposti contro i suoi atti: come già rilevato, la disposizione appare attuativa di quegli orientamenti che, con la modifica dell’art. 111 Cost., ritenevano contrario ai principi del giusto processo che il giudice delegato componesse il collegio avverso il reclamo a suoi provvedimenti ovvero per giudizi dallo stesso autorizzato, nonostante il Giudice delle leggi affermasse il contrario. Il legislatore, tuttavia, ha ritenuto di operare una scelta diversa nonostante la Corte Costituzionale avesse più volte affermato e ribadito il principio dell’inesistenza di un problema di compatibilità con i principi costituzionali, soprattutto alla luce della nuova formulazione dell’art. 111 Cost., ritenendo di perseguire un indirizzo formale, eliminando il giudice delegato da ogni giudizio di cui in qualche modo sia venuto a conoscenza in precedenza nell’esercizio della sua funzione di giudice delegato. Al procedimento di reclamo avverso i provvedimenti del tribunale e del giudice delegato si applica l’art. 27 del decreto legislativo n. 5/2003.
   Legittimati al reclamo sono il curatore, il fallito, il comitato dei creditori e chiunque vi abbia interesse: singolare è la proponibilità del reclamo da parte del fallito e da parte di chiunque vi abbia interesse sia perché il fallito, secondo l’ottica dell’attuale legge fallimentare, non aveva alcuna possibilità di ingerirsi nella procedura se non in sede di rendiconto sia perché il reclamo da parte di chiunque vi abbia interesse ribadisce la necessità di ricorrere a questo strumenti e non a quelli in materia di esecuzione individuale (615 cod. proc. civ. e ss.). Anche per il reclamo avverso i decreti del giudice delegato e del tribunale, il legislatore, pur richiamando il procedimento camerale della succitata normativa societaria, ha poi previsto una disciplina puntuale sia in relazione ai termini (termine di 10 giorni per proporre il reclamo; improponibilità del reclamo decorsi 90 giorni dal deposito del provvedimento in cancelleria; non sospensione del provvedimento reclamato; indicazione dei mezzi di prova a pena di decadenza; termini minimi a comparire da un minimo di 10 giorni ad un massimo di 20 giorni; termine di cinque giorni prima per il resistente per deposito memoria difensiva e documenti, termine di 30 giorni dalla convocazione delle parti per la decisione).

   Proseguendo nell’ambito dei rapporti, soprattutto del giudice delegato con il curatore, l’aumento di autonomia di quest’ultimo è controbilanciato da un sensibile aumento di rendiconti periodici a carico del Curatore. Si pensi all’art. 33 legge fall. nella nuova versione, dove, a parte il potere del Giudice delegato di ordinare il deposito in cancelleria della relazione disponendo la segretazione delle parti relative alla responsabilità penale del fallito e di terzi ed alle azioni che il curatore intende proporre qualora possa importare azioni cautelari nonché a circostanze estranee alla procedura e che investano la sfera personale del fallito, il curatore deve procedere a depositare ogni sei mesi un rapporto riepilogativo delle attività svolte, con la indicazione di tutte le informazioni raccolte dopo la prima relazione, accompagnato dal conto della sua gestione, in ordine alla quale, il comitato dei creditori può formulare osservazioni scritte, salvo poi verificare la valenza e la utilizzazione di tale osservazioni soprattutto in relazione all’approvazione finale. A parte il potere del giudice delegato di chiedere anche una relazione sommaria prima del termine concesso per la relazione da inviare al P.M., indubbiamente si pone il problema del rapporto e della sua eventuale segretazione ove contenga indicazioni analoghe alla relazione iniziale, introducendole il curatore quale sviluppo delle indicazioni precedenti ed anche della sorte delle osservazioni scritte che, in assenza di qualsiasi indicazione, potrebbero essere riprese in sede di approvazione finale del rendiconto sempreché sussistano ancora, dato che la loro indicazione da parte del comitato dei creditori potrebbe avere proprio la finalità di invitare il curatore ad agire per rimuovere tali osservazioni ovvero in caso di inerzia del curatore quantomeno alla loro considerazione, anche ai fini di una eventuale proposta di revoca. Singolare è la circostanza che il rapporto semestrale non risulta espressamente oggetto di deposito presso la cancelleria del giudice delegato, per cui si potrebbe addivenire all’assurda situazione che un aggiornamento di situazioni segretate possano essere addirittura pubblicate sul registro delle imprese. In realtà, si ricava implicitamente dalla circostanza che copia del rapporto è altresì trasmessa, assieme alle osservazioni e comunque entro 15 giorni dal deposito, per via telematica all’ufficio del registro delle imprese. In ogni caso, interpretando la norma nel suo complesso ed alla luce delle finalità espresse, deve ritenersi che il giudice delegato, nell’ambito di un potere generale che gli assegna la legge, deve potere essere in grado di visionare tali rapporti e di segretare tali notizie per la tutela delle stesse informazioni di cui alla prima relazione. L’unico correttivo che appare ipotizzabile è quello della trasmissione del rapporto al comitato dei creditori a mezzo deposito in cancelleria, dove dovranno risultare anche le osservazioni all’operato del curatore. Si consideri, inoltre, che il curatore deve depositare, altresì, gli estratti conto dei depositi postali e bancari relativi al periodo di riferimento, i cui mandati di pagamento spettano sempre al giudice delegato che, solo con tale rapporto, può controllare l’esatta rispondenza dei prelievi effettuati. Peraltro, non appare nemmeno sovrapponibile il controllo del comitato dei creditori con quello del giudice delegato, atteso il diverso ruolo e funzione rivestita all’interno della procedura. In ogni caso, richiamando la norma sul fascicolo informatico, la norma prevede, in via esclusiva, la trasmissione per via telematica dei rapporti del curatore all’ufficio del registro delle imprese.
   Sussistono articoli poi che risultano particolarmente contestati, quali quelli in materia di integrazione dei poteri del Curatore, dove la nuova formulazione dell’art. 35 prevede al primo comma il compimento di atti di straordinaria amministrazione che passano dal Tribunale – Giudice delegato al comitato dei creditori: tuttavia, una analisi più approfondita consente di rilevare che quando detti atti superano il limite di € 50.000,00 ed in ogni caso per la transazione, il Curatore ne informa previamente il giudice delegato: tuttavia la norma non dice nulla né in ordine al potere del giudice a seguito della comunicazione né in ordine al motivo del “previamente”, il quale trova una giustificazione nel momento in cui si ritenga la possibilità per il giudice delegato di reagire ad una segnalazione di un notizia da lui non condivisa anche per motivi di merito. Peraltro, si pone il problema di cosa succeda ove il Giudice delegato non condivida l’atto sottoposto alla sua attenzione, proponendo la soluzione che ove si tratti di una ipotesi di violazione di legge il giudice delegato potrà anche arrivare a fare una contestazione al curatore davanti al tribunale ovvero a modificare la composizione del comitato dei creditori sussistendo un giustificato motivo ai sensi dell’art. 40 legge fall.; sicuramente più problematica si pone il problema di una non condivisione nel merito della vicenda di cui viene informato il giudice delegato: anche in questo caso è comunque ipotizzabile un intervento del giudice delegato ove l’atto risulti eccessivamente gravoso per la procedura e si ponga in contrasto con le finalità della stessa; sintomatico in tal senso è l’obbligo posto al curatore di segnalare in ogni caso la transazione al giudice delegato, atteso che si tratta di effettuare una concessione alla controparte che può assumere contorni rilevanti: il legislatore nulla specifica al riguardo.
   Non particolarmente rilevante appare il nuovo potere del curatore di decidere dove accendere il conto, potendo scegliere l’ufficio postale o la banca, ma lasciando al giudice delegato il compito di fissargli un termine per tale deposito al fine di evitare che somme della procedura possano rimanere nella disponibilità del curatore. Tale ultima facoltà concessa al giudice delegato è tanto avvertita dal legislatore che ha mantenuto la possibilità per il tribunale di sanzionare il mancato rispetto con la revoca del curatore. Nell’ambito della stessa norma, un potere nuovo e rilevante il legislatore lo assegna al giudice delegato, dando ancora attuazione a prassi che sono state attuate in alcuni tribunale, consentendogli, su richiesta del curatore e previa approvazione del comitato dei creditori, di investire somme non immediatamente ripartibili nell’acquisto di titoli di stato.
   Permane, come già detto, il potere del giudice delegato di emettere il mandato di pagamento per ogni somma da prelevarsi dal deposito del fallimento che va interpretato ovviamente in una ottica di controllo sulla gestione della massa attiva della procedura.
   Permane, altresì, il potere del giudice delegato a decidere in ordine al reclamo per violazione di legge avverso gli atti di amministrazione del curatore, le autorizzazioni o i dinieghi del comitato dei creditori da parte del fallito e di ogni altro interessato.
   Da rilevare ancora la legittimazione del fallito a proporre reclamo avverso provvedimenti del curatore o autorizzazioni o dinieghi del comitato dei creditori che può giustificarsi nell’ottica di una costituzionalizzazione della procedura, ma che probabilmente inciderà pesantemente sulla celerità della stessa. È sicuramente una novità questa legittimazione del fallito che può ingerirsi nella procedura fallimentare, mentre nella attuale legge fallimentare aveva uno spazio limitatissimo per tutelarsi contro eventuali responsabilità penali (vds. art. 43 legge fall.) ovvero in sede di rendiconto del curatore (vds. art. 116 legge fall.). Singolare, almeno sembra, il conferimento di un reclamo di secondo grado avverso il provvedimento del giudice delegato: si deve intendere in questo modo, atteso che la rubrica si intitola “reclamo contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori” ed anche in considerazione della circostanza che la riforma inserisce l’art. 26 che concerne il reclamo avverso gli atti del giudice delegato e del Tribunale. Rimane peraltro incomprensibile perché il reclamo per atti del giudice delegato e tribunale sia onnicomprensivo e quello del curatore e del comitato dei creditori sia limitato a violazione di legge.

   Due elementi nuovi risultano introdotti anche nell’art. 49, il quale, rispetto alla versione precedente, non prevede più l’obbligo di dimora, ma quello di comunicare al curatore ogni cambiamento della residenza o del domicilio, con il conseguente obbligo di presentarsi per rendere chiarimenti o informazioni, ai fini della gestione della procedura, al giudice delegato, al curatore ed al comitato dei creditori; la novità si trova nell’introduzione del comitato dei creditori come soggetto davanti al quale il fallito o gli altri soggetti obbligati si devono presentare per le suddette finalità; in ogni caso permane non solo il potere del giudice delegato di convocarlo per chiarimenti ed informazioni non sulla gestione, che potrebbe far pensare a quella del fallito, ma ai fini della gestione del procedura (la quale previsione ancora una volta aggiunge un nuovo riscontro all’apparente ridimensionamento del ruolo del giudice delegato); non sussiste più l’obbligo di residenza, pertanto, già interpretato come obbligo di domicilio, ma la riforma prevede l’obbligo di comunicazione al curatore della nuova residenza o domicilio, modificando una situazione normativa che probabilmente già di fatto trovava attuazione in base ad una prassi; inoltre al giudice delegato permane il potere di autorizzare il fallito a comparire a mezzo di un mandatario; viene eliminato l’accompagnamento coattivo, la cui ratio deve ricondursi presumibilmente ad una previsione anacronistica nell’ottica evolutiva della riforma; il cambiamento normativo non muta lo spirito della legge che voleva e vuole la possibilità di una audizione del fallito ogniqualvolta si rendesse necessario;
   Permane in capo al giudice delegato la nomina del comitato dei creditori, ai sensi dell’art. 40 legge fall., che lo esercita sulla base delle risultanze documentali e sentiti i creditori ed il curatore, designando una rappresentanza equilibrata per quantità e qualità dei crediti nonché per la possibilità della loro soddisfazione. A parte la interpretazione di questo criterio che, ancora una volta appare assolutamente generico («… in modo da rappresentare in misura equilibrata quantità e qualità dei crediti ed avuto riguardo alla possibilità di soddisfacimento dei crediti stessi …»), cosa succede se i creditori sono in numero inferiore ad almeno 3?Il legislatore tace sul punto: sotto la vigenza dell’attuale normativa il problema di un numero di creditori inferiore a quello minimo, veniva risolto, trattandosi di un organo consultivo, inviando la richiesta di parere a tutti i creditori. Ma in un sistema ove il comitato dei creditori assurge ad organo decisorio, richiamando un sistema di deliberazioni, il legislatore nulla dice in ordina alla insussistenza di un numero minimo di creditori ammesso. Inoltre, nasce qualche perplessità in ordine alla applicabilità di tale criterio entro il termine di 30 giorni dalla dichiarazione di fallimento, anche se poi il giudice delegato può modificare la composizione in relazione alle variazioni dello stato passivo o per altro giustificato motivo. Peraltro, perché il legislatore non ha pensato di introdurre un criterio oggettivo di nomina del Comitato dei creditori, al fine di assicurargli una effettiva trasparenza ed imparzialità, prevedendo la nomina a partire dal creditore chirografo più rilevante a scendere, che poi sono i meno garantiti. Sul punto si innesta tutto il problema dei rapporti tra il giudice delegato ed il comitato dei creditori atteso che già dal potere di nomina può nascere un conflitto: il potere di nomina appartiene al giudice delegato, ma, tuttavia, il legislatore ha introdotto all’art. 37 bis la possibilità per «la maggioranza dei crediti» di effettuare nuove designazioni in ordine ai componenti del comitato dei creditori nel rispetto dei criteri di cui all’art. 40 legge fall. Tale potere desta qualche perplessità, atteso che, anche per garantire una autonomia e imparzialità dell’organo in questione, sarebbe stato opportuno lasciare ad un unico soggetto detto potere, sottoponendolo anche al reclamo, concedendo l’iniziativa alla «maggioranza dei crediti insinuati al passivo» per la proposizione di nuovi nomi e dell’eventuale reclamo in caso di rigetto. La concorrenza dei poteri non offre sufficienti garanzie: allora sarebbe stato più opportuno lasciare agli stessi creditori di indicare tra loro quali risultassero più rappresentativi e garantirgli comunque una certa stabilità per impedire coinvolgimenti egoistici e attuare gli scopi della procedura nell’interesse di tutti i creditori.
   Inoltre, si potrebbe innestare una spirale di nomine che sicuramente nuocerebbe alla procedura, paralizzandola. La considerazione è tanto più valida nella misura in cui si prevede poi la possibilità concessa al giudice delegato di sostituirsi al comitato dei creditori in caso di impossibilità di funzionamento o di urgenza. Anche in quest’ultimo caso, il potere di sostituzione del giudice delegato è definitivo ovvero successivamente la decisione del giudice delegato deve essere confermata dal comitato dei creditori, soprattutto quando questa è dovuta a ragioni di urgenza. Il legislatore tace, come, peraltro, tace su chi sia competente a rimborsare le spese al comitato dei creditori ed a chi sia legittimato ad esercitare l’azione di cui all’art. 2407 c. c.
   Una notevole contraddizione nasce nel momento in cui si limita il reclamo contro atti del comitato dei creditori alla violazione di legge e poi si prevede una responsabilità che, la legge non lo prevede, ma sicuramente deve essere autorizzata dal Giudice delegato. Come la si interpreta poi la previsione che si può esercitare durante ma anche dopo la procedura e che è legittimato: nulla dice il legislatore.
   L’art. 42 legge fall., comma 3, legge fall. esclude poi un ruolo al giudice delegato in ordine alla rinuncia alla acquisizione di beni i cui costi per l’acquisto e la conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi: tale potere non spettava nemmeno al giudice delegato prima della riforma e nella legge vigente, costituendo una prassi di diversi tribunali; la esclusione di ogni ingerenza da parte del giudice delegato appare condivisibile trattandosi di un mero atto dispositivo di beni, ispirato a criteri di economicità, difficilmente contestabili, avverso il quale occorre procedere solo ad una valutazione negativa e dannosa per la procedura: difficilmente, a fronte di detti criteri, il giudice delegato potrebbe compiere valutazioni diverse da quelle che può effettuare il curatore ed il comitato dei creditori; si tratta di un criterio anelastico e non discrezionale, atteso che le valutazioni sono vincolante ai suddetti criteri: in ogni caso, sussiste il potere di impugnare l’atto davanti al giudice delegato che può, quindi, essere investito della questione ancorché limitatamente alla prospettazione del reclamante, il quale a sua volta può, tuttavia, solo porre in discussione l’applicazione dei criteri suddetti. In ultimo va specificato che permane la valutazione con decreto del giudice delegato dei limiti di cui al n. 2) dell’art. 46 legge fall. motivandoli con decreto, tenendo conto delle condizioni personali del fallito e della sua famiglia.
   Assolutamente non condivisibile si presenta la modifica dell’art. 48 legge fall. che lascia interamente al fallito la piena disponibilità della corrispondenza, ribaltando il rapporto contenuto nella attuale formulazione e prevedendo che sia il fallito a consegnare la propria corrispondenza di ogni genere, incluse quella elettronica, concernenti i rapporti compresi nel fallito. Si viene a perdere uno degli strumenti più efficacia ai fini della ricostruzione del patrimonio del fallito.

FASE rapporti pendenti
   Permane in capo al giudice delegato un particolare potere autorizzatorio in ordine alla richiesta di un finanziatore di realizzare o continuare l’operazione finanziata al fallito in proprio o delegandola a terzi in caso di mancato subentro del curatore nel contratto, trattenendo per sé i proventi ed insinuandosi per il residuo ed eventuale credito ai sensi dell’art. 72 ter legge fall. La norma trova una sua ragione di essere per i riflessi che comporta nell’ambito dello stato passivo e nell’acquisizione dei proventi, per evitare la dichiarazione di inefficacia.
   Peraltro, a livello generale, il legislatore, oltre a codificare carenze normative che avevano trovato soluzioni giurisprudenziali, detta il principio che il curatore può decidere di subentrare o meno nei contratti con l’autorizzazione del comitato dei creditori e non più del giudice delegato, il quale è chiamato in causa per la eventuale determinazione dell’equo indennizzo sia nell’ipotesi di locazione che nell’affittodi azienda. Ove, tuttavia, il curatore decida di subentrare nel contratto, resta fermo il principio dell’assunzione in capo alla procedura di tutti gli obblighi relativi. In via orientativa, salvo andare poi a valutare le conseguenze peculiari di ogni rapporto, il principio generale è quello sopra indicato in attuazione della delega al punto 7. Rimangono fuori alcuni contratti, tra i quali il contratto di affitto di azienda e quello di locazione.

CUSTODIA e Amministrazione
   Peculiare appare la disposizione di cui all’art. 84 legge fall. dove risulta il potere del giudice delegato di nominare coadiutori per l’apposizione dei sigilli, come anche peculiare la permanenza di tale norma ove il curatore di regola dovrebbe avere la assistenza di un notaio (anche se poi sorge il problema di chi nomina il notaio, chi lo paga e con quali modalità);
   Singolare il potere del giudice delegato di autorizzare il deposito in luogo idoneo, anche presso terzi, delle scritture contabili ed analogo potere per la esibizione e rilascio di copie. Tale ultimo potere rientra in quello più ampio del giudice delegato di consentire la visione del fascicolo da parte del fallito e di terzi, mentre non si comprende la autorizzazione al deposito in luogo idoneo delle scritture contabili (e fiscali secondo la novità introdotta dal legislatore), trattandosi di un mero atto di conservazione e vista la qualifica di organo della procedura rivestita dal curatore, il quale deve anche poterle consultare ai fini della relazione di cui all’art. 33 legge fall.
   Ai sensi dell’art. 87 bis il giudice delegato può disporre la immediata restituzione dei beni mobili «chiaramente riconoscibili» come di terzi su istanza della parte interessata e con il consenso del curatore e del comitato dei creditori anche provvisoriamente nominato;in tale caso i beni non vengono inventariati. La norma, come sottolinea la relazione, è diretta ad assecondare esigenze di certezza dei traffici commerciali e di semplificazione.
   Si scorge altra contraddizione ove si prevede, ai sensi dell’art. 87 bis, la possibilità di una nomina provvisoria del comitato dei creditori quando la stessa dizione è stata eliminata dall’art. 47 legge fall., nel senso che non dovrebbe sussistere l’ipotesi di una procedura senza comitato dei creditori.

STATO PASSIVO.
   Il giudice delegato provvede all’udienza di verifica sulla base del progetto provvisorio depositato dal curatore in cancelleria, il quale va comunicato a cura del curatore stesso ai creditori ed al fallito; costituisce una novità peculiare la legittimazione che viene data al fallito di depositare osservazioni: ma che valenza hanno le osservazioni? La natura di tale osservazioni in che misura incide sulla proposta del curatore e sulla decisione del giudice? La costituzionalizzazione della normativa attribuisce una diversa valenza alle dichiarazioni del fallito, mettendo in discussione il principio dello spossessamento e della indisponibilità del patrimonio da parte del fallito? Il giudice delegato, in ogni caso, accoglie, respinge o dichiara inammissibile il ricorso che può essere presentato personalmente dalla parte (la dichiarazione di inammissibilità non ne preclude la riproposizione: tale principio è assolutamente contrario ad ogni esigenza di celerità e frustra ogni termine inserito dal legislatore. Appare, infatti priva di ogni significato la previsione di un contenuto della domanda di ammissione, ai sensi dell’art. 93 legge fall., dove si afferma che il ricorso è inammissibile se è omesso ovvero è assolutamente incerto uno dei requisiti di cui ai nn. 1, 2, 3 e poi consente la riproposizione ancorché tardiva. Peraltro, non ha senso prevedere un termine diverso per il deposito di documenti ed un termine ancora diverso per memorie: si frustra così il termine di 30 giorni prima della verifica, che serviva soprattutto per le procedure più complesse a predisporre il progetto di stato passivo), nei limiti delle conclusioni formulate ed avuto riguardo alle eccezioni del curatore nonché a quelle rilevabili di ufficio e formulate dagli altri interessati. Significativa sarebbe stato l’introduzione di non frazionabilità del credito, per cui il creditore quando decide di richiedere l’ammissione del credito lo deve fare integralmente, senza che possa poi richiedere altra ammissione in una ottica di celerità e nel rispetto del principio di novità della domanda. Particolarmente significativo e nell’ottica di un semplificazione del procedimento di verifica, è il potere conferito al giudice delegato di procedere anche ad una istruttoria dei ricorsi compatibilmente con le esigenze di speditezza del procedimento e per un principio di economia processuali per evitare, ove possibile, l’opposizione avverso un eventuale rigetto per una carenza probatoria. Altrettanto innovativa, nell’ambito dei rapporti giudice delegato – curatore è la possibilità di quest’ultimo di contestare la domanda proposta a seguito della quale il giudice delegato dovrà motivare. La novità non appare pienamente in linea con quella che è la natura di organi della procedura da parte di entrambi né il curatore ha un potere di contestazione dei provvedimenti del G. D., per cui non si comprende come possa essere dato un potere di contestazione al curatore avverso la quale il giudice delegato deve succintamente motivare. Ancora una volta c’è una promiscuità di competenze che testimonia l’inesistenza di una vera e propria linea di demarcazione tra quelle che sono le competenze del Giudice delegato e quelle del curatore ovvero comitato dei creditori. Sempre in una ottica acceleratoria si deve inquadrare il termine di 8 giorni per la prosecuzione, anche se poi il legislatore nulla dice se il rinvio deve essere uno solo o possa essere più di uno ad una distanza di non più di 8 giorni l’uno dall’altro. Peraltro, è tutta da interpretare la natura del termine, se perentoria o meno.
   Il giudice delegato, concluso, pertanto, l’esame dello stato passivo per come predisposto in via provvisoria dal curatore, deve dichiarare la esecutività dello stato passivo e non può più riservarsi come nell’attuale normativa. La valenza di questa decisione, in ordine alla ammissione o meno del credito, come anche quella del tribunale in seguito allo svolgimento dei giudizi di cui al novellato art. 99 legge fall. acquistano una efficacia solo endofallimentare. Il legislatore ha avvertito il bisogno di tale specificazione sia in relazione agli orientamenti che si sono sviluppati con l’attuale legge, ma soprattutto perché, nell’ottica di una accelerazione della verifica, l’accertamento posto in essere dagli organi fallimentari si distingue da quello del giudice ordinario per la sommarietà dell’accertamento del credito, ormai nettamente improntato nell’ambito di un procedimento camerale e non più di cognizione ordinaria. Peraltro, il legislatore, prevedendo il deposito del progetto provvisorio redatto dal curatore, ha comunque inteso salvaguardare il contraddittorio tra i creditori nella misura in cui consente di affrontare l’udienza davanti al giudice delegato conoscendo le osservazioni del curatore non solo in relazione al proprio credito, ma anche a quello degli altri creditori.
   Le impugnazioni dello stato passivo possono essere la opposizione, la impugnazione di crediti ammessi e la revocazione. Il procedimento prescelto è quello del rito camerale davanti al tribunale, nella cui composizione non può essere presente il giudice delegato, determinando così una sorta di costituzionalizzazione del procedimento medesimo sia in relazione al collegio sia in relazione al procedimento che viene integrato con una serie di previsione concernenti i termini per la notifica, i termini minimi a comparire, i termini per costituirsi e, soprattutto, il contenuto degli atti a pena di decadenza. Singolari sono anche le modalità di decisione: il tribunale, infatti, può ammettere, in tutto o in parte anche in via provvisoria, le domande non contestate dal curatore o dai creditori intervenuti. La previsione lascia perplessi nella misura in cui si è sempre ritenuto che il curatore, nella verifica di stato passivo non fosse una parte e, pertanto, non fosse dotato di poteri di acquiescenza proprio perché organo della procedura ed, in quanto, tale terzo. Concedergli la possibilità di non contestare ed attribuire a tale comportamento un valore sostanziale non appare in linea con l’ufficio del curatore, anche perché si presta a posizioni strumentalizzate, soprattutto ove si pensi che in sede di verifica i creditori o parte di essi potrebbero proporre la sostituzione del curatore, nominandone uno di loro fiducia. Tra l’altro la dizione «… Il Tribunale ammette …» non sembra lasciare spazi alla decisione del tribunale che appare quasi obbligata. Ancora più discutibile appare la mancata contestazione dei curatori. L’obiezione rilevante attiene alla circostanza che l’ammissione dei crediti è tipico provvedimento del giudice delegato ed eventualmente del tribunale, tanto è vero che la stessa riforma prevede che non ha efficacia endo-fallimentare e che può costituire il titolo per ottenere un decreto ingiuntivo. Il fallito, quindi, potrebbe vedersi emesso un decreto ingiuntivo a suo carico, una volta tornato in bonis, sulla base di una ammissione del curatore a cui il tribunale non può opporsi. Peraltro, non appare chiaro se la mancata contestazione del curatore presume la sua costituzione nel giudizio o meno dato che per i creditori il legislatore fa riferimento a quelli intervenuti. Ove fosse possibile per il curatore nemmeno costituirsi, la norma andrebbe di contrario avviso anche al principio generale di non contestazione che presuppone in ogni caso al contestazione della parte, attesa la valenza neutra della contumacia. Assolutamente criticabile il ricorso diretto in Cassazione, al cui ratio acceleratoria non può costituire valido motivo per saltare il giudizio di appello.

   Particolarmente rilevante poi, sempre nell’ottica di una accelerazione della verifica sono le modalità di presentazione delle domande tardive che devono essere depositate entro un determinato lasso temporale che va dal periodo successivo al termine perentorio di 30 giorni previsto per il deposito delle istanze tempestive sino a dodici mesi dopo la dichiarazione di esecutività dello stato passivo.
   La norma non appare in linea con tutti i differimenti che il legislatore ha previsto sino a 15 giorni prima della verifica per il deposito documenti e sino a due giorni prima osservazione al progetto depositato dal curatore almeno sette giorni prima della verifica medesima. Successivamente il legislatore fissa il termine ulteriore dell’esaurimento di tutte le ripartizioni dell’attivo vanificando di fatto quello sopra detto, a meno che non si voglia dare una valenza precisa all’onere che grava sull’istante in ordine alla prova che il ritardo non è dipeso da causa a lui imputabile. Le domande tardive seguiranno poi lo stesso iter di quelle tempestive, con il richiamo alle norme in tema di verifica, con l’unica particolarità che il legislatore non detta alcun raccordo tra la eventuale ammissione in via breve e le impugnazioni.
   Assolutamente innovativa e recuperata dai precedenti progetti di riforma è la facoltatività della verifica dei crediti che si determina quando non può essere acquisito attivo da distribuire ad alcuno dei creditori, ai sensi dell’art. 102 legge fall.
   La decisione spetta al tribunale su istanza del curatore e sentiti il comitato dei creditori ed il fallito (anche se la norma per come formulata «… dispone … in conformità» appare come una decisione obbligata). Probabilmente si porrà anche un problema di compatibilità della previsione con la legge delega, la quale non sembra consentire l’eliminazione della verifica, pur dandosi atto che effettivamente la previsione si pone in linea con il principio generale di economia processuale, evitando un adempimento complesso e, nel caso di assenza di attivo, inutile, anche in considerazione dell’efficacia endofallimentare delle sue decisioni. Sussiste poi una vasta legittimazione a reclamare il provvedimento del tribunale, il cui ricorso dovrebbe quantomeno indicare le attività da recuperare.
   L’articolo 103 legge fall. introduce poi il principio dell’art. 621 cod. proc. civ. e la possibilità di modifica della domanda ove il bene rivendicato o di cui si chiede la restituzione non sia stato acquisito dalla procedura, con possibilità di ammissione in prededuzione nell’ipotesi di acquisizione del bene e successiva perdita da parte del curatore.
Viene previsto, in ultimo, il potere del giudice delegato di correggere gli errori materiali.

Fase liquidatoria:
   Appare assolutamente condivisibile l’ampliamento del campo dei professionisti che possono assumere la qualifica di curatori, che necessariamente comporta una maggiore professionalità anche del giudice delegato, il cui compito viene epurato da zone di mera operatività che possono essere autonome nell’ambito delle preventive direttive dell’organo giurisdizionale. Si pensi a tale proposito all’art. 104 ter in virtù del quale il curatore, entro 60 giorni dalla redazione dell’inventario, predispone un programma di liquidazione da sottoporre, acquisito il parere favorevole del comitato dei creditori, alla approvazione del giudice delegato; in tal senso, non sono state accolte le sollecitazioni che provenivano dai progetti elaborati dalla Commissione Trevisanato e nel maxi-emendamento presentato al progetto di riforma in discussione in Commissione Giustizia del Senato, dirette ad una esclusione del Giudice delegato dalla approvazione del programma di liquidazione; in realtà, la legge delega non ha ripreso tali sollecitazioni se non al punto 8, concernente l’esercizio provvisorio ed ha mantenuto l’approvazione del giudice delegato su parere favorevole del comitato dei creditori (ci si chiede se tale parere sia vincolante o meno: nella relazione di accompagnamento viene espressamente detto che è vincolante): tale programma, peraltro, dovrà quindi essere approvato dal Giudice delegato che mantiene almeno in parte i poteri del sistema ancora attuale (Panzani); il programma redatto dal curatore è inteso a stabilire le modalità ed i termini della realizzazione dell’attivo; è chiaro che, nell’ambito di un progetto già approvato dall’organo giudiziario, il curatore deve provvedere alla sua esecuzione, lasciandogli un margine di discrezionalità solo nella sua attuazione e rispondendone, peraltro, personalmente; il contenuto del programma è infatti molto dettagliato per cui la approvazione del Giudice delegato appare sufficiente ad imprimere un sigillo di legalità e anche convenienza della sua attuazione, superando così i singoli momenti autorizzatori e consentendo al curatore una margine di autonomia che dovrebbe permettere una attuazione più sollecita del programma: la norma peraltro lo prevede espressamente dettando «L’approvazione del programma di liquidazione tiene luogo delle singole autorizzazioni eventualmente necessarie ai sensi della presente legge per l’adozione di atti o l’effettuazione di operazioni inclusi nel programma»; tuttavia, il lasso temporale entro il quale deve essere predisposto, 60 giorni, porta a presumere che, molto spesso, in pratica, sarà abbastanza generico, con la conseguenza della necessità di una integrazione al programma che dovrà seguire lo stesso iter di quello originario (parere favorevole del comitato dei creditori e approvazione del giudice delegato) ricorrendo alle «sopravvenute esigenze». Il legislatore ha previsto la possibilità di presentare un supplemento al piano (notare che il legislatore parla sempre di programma mentre disciplinando il supplemento parla di piano, il che appare discutibile sotto il profilo della tecnica legislativa, ingenerando il dubbio che si tratti o meno dello stesso istituto magari richiamato in altra parte del testo con tale terminologia). Si tratta anche di stabilire l’organo che deciderà se e quando sussistano le sopravvenute esigenze ovvero se si tratti di una valutazione tipica ed insindacabile lasciata al curatore. Peraltro, nulla dice il legislatore anche in ordine alla possibilità di modificare il piano in relazione ad esigenze sopravvenute, atteso che queste ultime si possono ripetere più volte all’interno di una procedura. L’esperienza insegna che spesso il curatore solo dopo accurate ricerche, che non sempre danno risultati immediati, riesce ad avere una quadro completo della situazione attiva della procedura, salvo poi valutare (ove effettivamente si ponga il problema alla luce della modifica della azione revocatoria) i beni che sopravvengono dalle revocatorie oppure, in senso più lato, di eventi che si realizzano in corso di procedura. Problemi si potranno porre in ordine alla individuazione della massa passiva da soddisfare ed al suo rapporto con il programma di liquidazione, atteso che quest’ultimo deve essere presentato entro 60 giorni dalla redazione dell’inventario, mentre lo stato passivo potrebbe non essere ancora completo anche se, in questo caso, si potrebbe affermare che non necessariamente il programma si deve portare a compimento quando è stata raggiunta una massa attiva sufficiente per soddisfare quella passiva (la relazione accompagnatoria al decreto delegato specifica espressamente che così si potrà procedere più speditamente indipendentemente dalla chiusura dello stato passivo). Difficoltà possono sorgere anche per i beni che devono essere sottoposti a valutazione, soprattutto per quanto concerne i beni immobili, dove le lungaggini discendono dalla acquisizione della documentazione presso la agenzia delle entrate e dalla stima nonché anche dal complesso dei beni che potrebbero essere numerosi. Si pone poi il problema del mancato rispetto dei 60 giorni che non risulta sanzionato dal legislatore, ma che potrebbe rientrare in una ipotesi di revoca per violazione di legge (come peraltro analogamente previsto nella procedura dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi), salvo eventi che giustifichino il ritardo secondo il brocardo “ad impossibilia nemo tenetur”, che dovrebbe essere sancito dal giudice delegato visto che è l’organo che dovrebbe approvare il programma. La legge, peraltro, non prevede la proroga del termine di 60 giorni, ma solo la possibilità di un supplemento, anche se quest’ultimo è connesso a sopravvenute esigenze: probabilmente il termine non è perentorio, ma non è nemmeno prorogabile, ma solo integrabile per fatti sopravvenuti non potuti essere tenuti presenti in sede di redazione del programma; il giudice delegato, altresì, deve provvedere ad autorizzare il curatore per l’affidamento ad altri professionisti della procedura di liquidazione (la disposizione desta qualche perplessità nella misura in cui la responsabilità permane in capo al curatore, il quale deve solo dare esecuzione al programma, dove deve essere necessariamente ricompresa anche l’utilizzo di altri soggetti; tuttavia, il legislatore nulla esplicita sulle modalità di nomina, sui compensi e se debbano presentare rendiconti quantomeno al curatore e nei limiti dell’incarico ricevuto), dove il comitato dei creditori non viene chiamato in causa, mentre può proporre eventuali modifiche al programma probabilmente sia quello originale che al supplemento. Così anche il giudice delegato deve autorizzare una liquidazione immediata dei beni ove possa derivare un pregiudizio agli interessi dei creditori, peraltro solo sentito il comitato dei creditori, se nominato. Invece, il giudice delegato rimane fuori dalla valutazione in ordine alla non convenienza di taluni beni la cui liquidazione appaia manifestamente non conveniente: l’aggettivo usato dal legislatore non lascia spazio a dubbi di sorta, ove il “manifestamente” rende evidente non solo l’inutilità dell’acquisizione (modesto valore venale, oggettiva in vendibilità nel senso di non commerciabilità ecc.), ma anche della valutazione del giudice delegato, atteso il richiamo ad un criterio tipicamente di impronta imprenditoriale che esula dalla competenza del giudice delegato e sempre in ossequio ai principi di speditezza ed economicità.
   Argomento non marginale, nell’ambito del programma di liquidazione, è la possibilità di autorizzare l’esercizio provvisorio in capo al giudice delegato anziché, come nella disciplina attuale, in capo al Tribunale ovvero di disporre l’affitto di azienda, anche prima del programma di liquidazione (anche in questo caso autorevole esponenti della dottrina, che hanno scritto in materia di esercizio provvisorio della impresa, hanno esplicitamente affermato che la nuova disciplina normativa non appare come “una rivoluzione copernicana”, atteso che già l’attuale normativa vigente contempla un incisivo condizionamento del comitato sulle determinazioni del tribunale prevedendo eccezionalmente la vincolatività del suo parere negativo in ordine all’avvio ovvero alla continuazione dell’esercizio già disposto, in via di urgenza, ai sensi del primo comma); peraltro, il giudice delegato compie una serie di valutazioni assolutamente similari alle attuali (possibilità di ispezionare l’azienda da parte del curatore, idonee garanzie, diritto di recesso: tutte condizioni che generalmente fanno parte del provvedimento autorizzatorio del giudice delegato) ed è sempre il giudice delegato che può autorizzare il curatore, previo parere favorevole del comitato dei creditori a concedere il diritto di prelazione a favore dell’affittuario (questi ultimi poteri del giudice delegato hanno natura amministrativa o giurisdizionale, viste le valutazioni che il giudice delegato deve operare prima di autorizzare e soprattutto il criterio ispiratore della utilità richiamato espressamente nell’art. 104 bis legge fall.).
   Approfondendo la previsione di cui all’art. 104 legge fall. (dapprima art. 90 legge fall.), che concerne l’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito, la riforma, prevede la possibilità per il tribunale (quando ancora non c’è un giudice delegato), in sede di dichiarazione di fallimento, di autorizzarlo avendo come parametro di riferimento la necessità di evitare “un danno grave”, contemperandolo, tuttavia, con la necessità di non arrecare un pregiudizio ai creditori: probabilmente la previsione va anche correlata con la possibilità di adottare strumenti cautelari che, depositando la sentenza dichiarativa di fallimento, vengono a perdere di efficacia, lasciando, ancorché per un periodo minimo, privi di tutela i beni sottoposti al vincolo cautelare. Il potere “successivamente” passa al Giudice delegato, il quale può autorizzare la continuazione temporanea dell’esercizio della impresa anche limitatamente a specifici rami di azienda, fissandone la durata. È vero che la proposta è di iniziativa del curatore (anche nell’ottica del programma di liquidazione) e occorre il parere favorevole del comitato dei creditori (che già nella legge attuale è vincolante), ma la valutazione che sorregge una continuazione dell’esercizio provvisorio dell’impresa è del giudice delegato. Questi, a differenza del tribunale che può autorizzare l’esercizio provvisorio solo con la sentenza che dichiara il fallimento e solo giustificandolo con l’esigenza di evitare un danno grave, deve ancorare la sua valutazione al semplice principio di opportunità che si concretizza nel perseguimento di finalità di conservazione o di diretto realizzo di un attivo (come la ultimazione di prodotti in corso di lavorazione). In ogni caso, detta valutazione deve essere sempre funzionale alla tutela dell’interesse dei creditori, costituente un limite insuperabile per lo stesso giudice delegato rientrando tra le finalità precipue della procedura fallimentare. Il comitato dei creditori risulta coinvolto negli stessi termini di cui all’attuale art. 90 legge fall., atteso che deve essere informato periodicamente e può ravvisare la opportunità di non continuare l’esercizio provvisorio. Potrebbe affermarsi che l’attuale art. 90 è addirittura più pregnante della nuova formulazione, atteso che il termine di aggiornamento è bimestrale mentre successivamente sarà trimestrale, rimanendo invariate le altre facoltà. La disciplina dell’esercizio provvisorio prevede altresì, l’obbligo a carico del curatore (…il curatore deve presentare…) un rendiconto dell’attività svolta, semestralmente ovvero alla conclusione dell’esercizio provvisorio, il quale, depositato in cancelleria, in assenza di ogni indicazione della norma, deve reputarsi che debba essere approvato, come il rendiconto finale del curatore, anche in considerazione della circostanza che l’effettuazione dell’esercizio provvisorio determina riflessi sul compenso del curatore, aumentandolo. Sussiste anche un obbligo di informazione a carico del curatore ed a favore del Giudice delegato sulle circostanze sopravvenute che possono influire sull’esercizio provvisorio. Il tribunale, espropriato della possibilità di autorizzare l’esercizio provvisorio al di fuori della sentenza dichiarativa di fallimento, conserva tuttavia, un potere, definibile assoluto, il cui esercizio può portare alla chiusura della procedura ove ne ravvisi l’opportunità con decreto in camera di consiglio non soggetto a reclamo. La disposizione appare assai pregnante, soprattutto nell’ottica della riforma orientata anche verso una costituzionalizzazione della stessa, assegnando un potere non reclamabile per una valutazione orientata da un criterio di opportunità. Il legislatore pare avere detto che, in ogni caso, anche in merito alla opportunità, permane un potere assai penetrante del curatore e del comitato dei creditori, ma vi è sempre una supervisione degli organi giudiziari che così come possono autorizzare la continuazione provvisoria della impresa, dall’altro, possono concluderla senza che alcuno possa obiettare alcunché non solo per motivi di legittimità, ma anche di opportunità. Il concetto indubbiamente richiama valutazioni di merito sulla continuazione dell’esercizio provvisorio sia nell’ottica conservativa che liquidatoria che di tutela di altri interessi che possono essere coinvolti e che richiedono una valutazione superiore.
   Discorso analogo può essere compiuto per l’affitto di azienda ovvero di rami di azienda, il quale viene sempre autorizzato dal giudice delegato su proposta del curatore, previo parere favorevole del comitato dei creditori (e qui si pone il problema della vincolatività di questo parere che potrebbe essere positivo nella misura in cui l’affitto di azienda si ispira alle stesse esigenza dell’esercizio provvisorio, anzi per taluni autori è una modalità dell’esercizio provvisorio, mentre per altri assume una sua fisionomia autonoma e distinta anche in una ottica di individuazione del probabile acquirente, garantendogli il diritto di prelazione, emancipandosi da una ottica prettamente conservativa, per cui potrebbe essere dubbia la vincolatività del parere del comitato dei creditori), quando appaia utile ai fini della più proficua vendita dell’azienda ovvero di parti di essa. Ancora una volta l’intervento del giudice delegato assume carattere autorizzatorio in ordine ad una scelta di gestione dei beni acquisiti alla massa fallimentare, che si fonda su scelte di merito e non di mera legalità. Di qui, come in altre disposizioni già esaminate, la necessità di una visione più evoluta del giudice delegato, inserito in un contesto dove si trova ancora ad effettuare valutazioni prettamente giuridiche e scelte quasi di carattere aziendalistico, perché solo evolvendosi può rispondere alla utilità dell’affitto di azienda ovvero alla opportunità dell’esercizio provvisorio dell’impresa. Infatti, autorizzare una delle due attività presuppone delle valutazioni di disponibilità economica e di previsione della sua sufficienza (atteso che quando si autorizza l’esercizio provvisorio si tratta di una gestione autonoma che deve operare di vita propria e non può chiedere l’ausilio di eventuali proventi di altre attività estranee alla attività di impresa o a quella attività di impresa e pur sempre acquisite alla massa attiva) nonché di costi e ricavi che colloca il giudice delegato ancora più avanti rispetto al piano attuale se non fosse per la circostanza che la prassi, soprattutto nei tribunali più avanzati, aveva già sopravanzato il legislatore, il quale non ha fatto altro che consacrare ed istituzionalizzare un evento che già esisteva. Peraltro, la scelta del curatore è limitata alla individuazione del soggetto cui affittare l’azienda, ma questa scelta è circondata da una serie di previsione che, in base alla attuale prassi, comunemente vengono effettuate per concedere l’affitto di azienda. Detto potere pertanto è circondato da una serie di cautele che sicuramente lo rendono meno innovativo di quello che può apparire in un primo momento. Lo stesso diritto di prelazione non viene attribuito né al curatore né al comitato dei creditori, ma al giudice delegato, il quale può autorizzarlo o meno, previo parere favorevole del comitato dei creditori. La concedibilità o meno appare orientata da quegli stessi criteri che hanno già operato la scelta dell’affittuario, al quale si ritiene di concedere anche il diritto di prelazione soprattutto per il piano di prosecuzione e la conservazione dei posti di lavoro nonché per gli investimenti e la salvaguardia del patrimonio che necessariamente devono attuarsi per la continuazione dell’attività di impresa. Un ingente investimento (si pensi ad una ipotesi di uno stabilimento siderurgico che sostiene ingenti costi di smaltimento di rifiuti speciali) può rendere appetibile l’affitto di azienda solo nella misura in cui si garantisca al soggetto un diritto di prelazione con la possibilità di acquistare il bene al prezzo di mercato, senza sottostare allo stillicidio di una eventuale concorrenza nell’acquisto. Infatti, determinato il prezzo di mercato attraverso una consulenza tecnica, il curatore lo comunicherà all’affittuario il quale potrà o meno esercitare il diritto di prelazione. Il legislatore, in questo modo, ha voluto contemperare, da un lato, l’esigenza della procedura di vendere comunque ad un prezzo competitivo, che è quello di mercato, dall’altro, ha inteso favorire l’affitto assicurando all’affittuario di salvaguardare il suo investimento anche al termine dell’affitto di azienda, dandogli la possibilità di completare l’investimento. Infatti, appariva assolutamente iniquo richiedere un investimento per la continuazione dell’impresa, salvo poi interrompere il rapporto in ogni caso con la vendita del bene senza dare alcuna possibilità aggiuntiva all’affittuario rispetto ai normali offerenti. La bontà dell’interpretazione trova conferma nella relazione illustrativa del decreto legislativo che prevede espressamente «… questa soluzione è stata ritenuta opportuna proprio come mezzo per incentivare l’affittuario ad effettuare investimenti sull’azienda onde rafforzare il suo successivo interesse acquisitivo…». In ogni caso, a tutela dei creditori, i debiti eventualmente contratti dall’affittuario che non dovesse godere del diritto di prelazione o, pur avendolo, non dovesse esercitarlo, non passano ai creditori.
   Sempre in tema di liquidazione, acquista una notevole valenza il curatore sia nel caso della vendita dell’azienda che della cessione dei crediti che nella scelta delle modalità di vendita, ma non va dimenticato il programma di liquidazione che deve essere approvato dal giudice delegato, il quale deve essere informato degli esiti della procedure di vendita (il dato assume un notevole rilievo atteso che in una ottica di privatizzazione il tribunale dovrà controllare la percentuale di vendita di realizzo per le future nomine al punto da realizzare una sorta di concorrenza tra i curatori, soprattutto ai fini della scelta). Permane un potere di sospensione del giudice delegato, ai sensi dell’art. 108 legge fall., delle operazioni di vendita per gravi e giustificati motivi ovvero di impedire il perfezionamento della vendita quando il prezzo risulti notevolmente inferiore a quello giusto tenuto conto delle condizioni di mercato. L’esigenza della conservazione di questo potere in capo al giudice delegato discende dalla unificazione del regime di vendita degli immobili a quello dei mobili, ricorrendo a procedure competitive che richiamano essenzialmente il ricorso alla trattativa privata anche per gli immobili. Il sistema di vendita citata, e proprio per eliminare ogni dubbio in ordine alla effettiva volontà del legislatore di ricorrere alla vendita privata, viene richiamato nella relazione alla riforma, che lo prevede espressamente per orientare la vendita verso una direzione di efficienza e di massimizzazione degli introiti. Singolare e di contrario avviso appare poi la determinazione di regolamento ministeriale che dovrebbe stabilire i requisiti di onorabilità e professionalità dei soggetti specializzati e degli operatori esperti dei quali il curatore può (ma non deve) avvalersi nonché dei mezzi di pubblicità e trasparenza delle operazioni di vendita.
   È stato eliminato il decreto di trasferimento degli immobili e dei beni mobili registrati, ma la cancellazione dei vincoli permane in capo al giudice delegato.
   Il legislatore della riforma si è occupato, altresì, del nuovo istituto introdotto dalla riforma di diritto societario, quello del patrimonio separato avente particolare destinazione e che assume una sua autonomia all’interno della società. Il curatore, in caso di fallimento della società, ne acquista la amministrazione e cerca di liquidarlo integralmente a terzi per la salvaguardia della sua funzione produttiva. Solo in caso di esito negativo di tale tentativo, il curatore provvede alla sua liquidazione secondo le regole della liquidazione delle società in quanto compatibili. Il curatore poi deve ricorrere alla autorizzazione al giudice delegato per la liquidazione in caso di incapienza del patrimonio separato secondo le regole della liquidazione delle società.

Fase di riparto.
  È stata modificata in attuazione della legge delega che prevedeva la direttiva di «modificare la disciplina della ripartizione dell’attivo, abbreviando i tempi della procedura e semplificando gli adempimenti connessi». L’articolo 110 legge fall., nuova versione, prevede, ogni quattro mesi o nel diverso termine stabilito dal giudice delegato, che il curatore presenti un prospetto delle somme disponibili ed un progetto di ripartizione delle medesime, riservate quelle occorrenti per la procedura. È prevista la acquisizione del parere del comitato dei creditori (è già previsto nella legge attuale) e successivamente il giudice delegato ordina il deposito del progetto. La prima novità è rappresentata dalla comunicazione del deposito ai creditori per i quale risultano pendenti i procedimenti ex art. 98. I creditori, possono proporre reclamo ex art. 26 legge fall. entro il termine di 15 giorni dalla ricezione. In assenza di contestazioni il Giudice delegato, al quale è stato tolto il potere di fare osservazioni e di chiedere la modifica del piano, dichiara la esecutività (si pone il problema sulla sua ulteriore reclamabilità e come si concilia con la circostanza che tutti i provvedimenti del giudice delegato sono reclamabili). In ogni caso, però, cioè in presenza di contestazioni che danno luogo a reclami, il giudice delegato lo dichiara esecutivo, con l’accorgimento di accantonare le somme corrispondenti ai crediti oggetto di contestazione. Singolare è la soluzione adottata all’esito del reclamo, in quanto ove fosse accolto, il provvedimento di accoglimento decide anche in ordine alla destinazione delle somme accantonate. La soluzione è ispirata dalla esigenza di celerità a dare attuazione al piano di riparto, senza che eventuali contestazioni possano bloccare il riparto di somme nei confronti di creditori per i quali il credito non è oggetto di reclamo.
   Altra novità riguarda la definizione dei crediti prededucibili: la fonte principale è la legge, ma sono riconosciuti tali anche quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge. La norma introduce due concetti assolutamente generici che daranno luogo alle interpretazioni di varie, determinando conflitti ai fini dell’individuazione del rango, soprattutto nel rapporto con le altre procedure concorsuali c. d. minori (occorrerebbe, pertanto, procedere alla modificazione dell’art. 1, comprendendo anche le procedure della ristrutturazione che del piano attestato). Il legislatore con l’art. 111 bis detta una disciplina speciale dei crediti prededucibili prevedendo l’applicabilità delle norme in tema di ammissione tempestiva ovvero tardiva, salvo per quelli non contestati per collocazione ed ammontare e quelli sorti a seguito dei provvedimenti di liquidazione dei soggetti nominati ai sensi dell’art. 25 legge fall. La particolarità e nel contempo la novità è quella per la quale se i crediti prededucibili sorti nel corso del fallimento, liquidi, esigibili e non contestati per collocazione e per ammontare, possono esser soddisfatti con autorizzazione del comitato dei creditori ovvero dal giudice delegato se l’importo è superiore ad € 25. 000,00 (dando luogo a problema di compatibilità con l’art. 25 n. 4, soprattutto dove la determinazione del credito debba ancora essere liquidato dal giudice e le modalità di calcolo siano indeterminate: tuttavia, ove si interpreti nel senso che il giudice delegato deve avere provveduto alla sua liquidazione, non si comprende quale pagamento dovrebbe autorizzare il comitato dei creditori una volta che anche il mandato di pagamento è rimasto nella sfera del giudice delegato; peraltro, la norma si pone in contrasto con l’art. 115 che prevede il pagamento ai creditori nei modi stabiliti dal giudice delegato). L’articolo prevede, altresì, come vanno calcolati i crediti prededucibili (capitale spese ed interessi secondo un criterio proporzionale ovvero secondo l’ordine assegnato dalla legge nel caso di insufficienza; quest’ultima disposizione presumibilmente va interpretata nel senso di tenere in considerazione l’ordine dei privilegi anche per i crediti prededucibili). Ulteriore novità è quella della introduzione dei conti speciali ai sensi dell’art. 111 ter (individua la massa attiva immobiliare e dispone la separazione delle masse derivanti dalla liquidazione dei beni mobili ed immobili imputando le spese generali in proporzione). L’art. 111 quater disciplina i crediti assistiti da prelazione creando una norma di coordinamento con il sistema del concorso dei diritti di prelazione. L’art. 112 legge fall. prevede poi il principio generale per il quale i creditori tardivi partecipano ai piani di riparto successivi alla loro ammissione, salvo che non siano privilegiati e non venga riconosciuto che il ritardo è dipeso da causa ad essi non imputabili (occorrerà sempre un accertamento per come è formulata la norma, di cui non è dato sapere l’organo). Viene prevista poi la possibilità di predisporre piani di riparto parziali per la redazione dei quali il legislatore ha fissato un limite di riparto nella percentuale dell’80% che potrà essere ulteriormente abbassato e lo stesso legislatore ha tipizzato gli accantonamenti, prevedendo ad esempio le ammissioni con riserva per il cui scioglimento, l’art. 113 bis prevede, nell’ottica del amplificazione, un semplice provvedimento del giudice delegato e non più il giudizio di opposizione (viene così intaccata la dichiarazione di esecutività dello stato passivo che ne statuiva la sua immodificabilità: peraltro, nel caso di cessione del credito ammesso, una volta effettuate le comunicazioni di rito, il curatore può procedere alla rettifica formale dello stato passivo). L’art. 114 legge fall. regola poi la restituzione di pagamenti avvenuti a favore dei creditori. L’art. 115 legge fall. prevede le modalità di pagamento che devono essere stabilite dal giudice delegato e le modalità nel caso di cessione del credito (è sufficiente la comunicazione al curatore; rimangono fuori dalla previsione le surroghe come per i crediti dei lavoratori che vengono anticipati dal Fondo di garanzia, a meno che non la si voglia interpretare, di fronte al vuoto legislativo, come una cessione di un credito del lavoratore all’Inps) che deve essere comunicato al curatore che provvede alla rettifica dello stato passivo. Il giudice delegato provvede al riparto finale con la distribuzione degli accantonamenti ovvero, in caso di necessità della permanenza degli accantonamenti, con la forma dei depositi per giudizi e condizioni ancora pendenti. Peculiare è la possibilità per il giudice delegato, ove vi sia il consenso di singoli creditori, di “assegnare” i crediti di imposta non ancora rimborsati (i problemi che ne scaturiscono riguardano le modalità di tale assegnazione se al valore nominale ovvero in altro modo e che cosa succede in caso di più creditori che chiedono l’assegnazione dello stesso credito. Inoltre, quale grado di certezza deve essere raggiunto in ordine al pagamento del credito tributario e se quest’ultimo possa o meno influire sul prezzo. Il tutto dovrebbe anche esser raccordato con il programma di liquidazione nel senso se deve essere o meno già prevista tale possibilità. L’applicazione di tale istituto richiama probabilmente, nella sua disciplina, quello previsto per le esecuzioni individuali, dalle quali vi è stata una emancipazione costante soprattutto per le vendite, pur permanendo qualche richiamo). Rimane l’interrogativo in ordine ai motivi per i quali il legislatore non ha ritenuto applicabile l’istituto dell’assegnazione in via generalizzata Rimane nei poteri del giudice delegato provvedere alla distribuzione delle somme accantonate e non riscosse sia ai creditori insoddisfatti che ne facciano richiesta e solo a loro ovvero allo Stato.

Rendiconto.
   Ai sensi dell’art. 116 il giudice delegato approva il rendiconto ovvero apre il giudizio di rendiconto. La nuova dizione dell’art. 116 legge fall. «… il curatore presenta al giudice delegato l’esposizione analitica delle operazioni contabili e della attività di gestione della procedura…» si colloca sulla stessa linea dell’attuale normativa che prevede la predisposizione del rendiconto nel senso che il curatore deve esplicare la attività svolta e le scelte eseguite o non eseguite, indicando i motivi, al fine di consentire ai soggetti legittimati il controllo di legittimità e merito sulla attività del curatore, e non solo un prospetto contabile. Si apre il problema dei rendiconti periodici se debbano o meno essere approvati durante la procedura ovvero debbano tutti confluire nel rendiconto finale.
   In ogni caso, il rendiconto di cui all’art. 116 legge fall. si presenta come quello concernente la ricognizione di tutta l’attività svolta dal curatore. La peculiarità, rispetto all’attuale normativa, è che il rendiconto deve essere comunicato anche «… a coloro che hanno proposto opposizione, ai creditori in prededuzione non soddisfatti …», anche in considerazione della circostanza che successivamente potrebbero trovare soddisfazione per cui devono trovare la parificazione con i creditori ammessi allo al passivo. Anche in questo caso, il legislatore istituzionalizza una prassi che era invalsa a livello giurisprudenziale, specificando che il curatore deve presentare il rendiconto «… in ogni caso in cui cessa dalle funzioni …», dove la dizione copre sia il caso di revoca o sostituzione in corso di procedura, ma probabilmente anche l’ipotesi in cui non vi sia un attivo o un riparto da effettuare. Infatti, a livello di prassi, era invalso l’uso di non richiedere il deposito del rendiconto nel caso di procedure negative. Il legislatore ha risolto anche questo nodo, affermando che il rendiconto in ogni caso va presentato e deve essere approvato. Anche una gestione in negativo deve essere rendicontata.

Chiusura della procedura.
   Non sussistono modifiche rilevanti ai fini della chiusura della procedura.
   Le uniche modifiche riguardano la chiusura di cui al n. 2 dell’art. 118, per la quale il legislatore specifica che devono essere pagati tutti i debiti e le spese prededucibili, secondo il significato che vengono ad assumere con la riforma. La chiusura ai sensi dell’art. 118 comma 1 n. 4, prima dell’approvazione del programma di liquidazione, di competenza del Tribunale, è preceduto dal parere del comitato dei creditori ed il fallito: il decreto è soggetto a reclamo.
   Il legislatore si è preoccupato anche di dettare alcune disposizioni relative alle azioni pendenti, determinandone la improseguibilità e tutelando il creditore insoddisfatto prevedendone il riacquisto del libero esercizio delle azioni e la possibilità di ottenere un decreto ingiuntivo sulla scorta del decreto o sentenza di ammissione del credito. Dunque, se da un lato, la ammissione al passivo è strumentale all’eventuale riparto e non acquista efficacia di giudicato, tuttavia, indirettamente, può dare luogo alla formazione di un titolo ancorché sommario, ma idoneo anche eventualmente ad acquistare efficacia esecutiva.
   Di minore rilevanza è la posizione del tribunale e del giudice delegato in ordine al concordato fallimentare, attesa l’intervento connotato da funzione di mera legittimità, soprattutto in relazione alla larga disponibilità lasciata ai creditori e comitato dei creditori nella sua predisposizione, dove sicuramente uno degli effetti più rilevanti è la possibilità che non vengano soddisfatti integralmente i creditori privilegiati. Permane solo l’autorizzazione che il giudice delegato deve dare per la cessione delle azioni di pertinenza della massa ed il controllo omologatorio del tribunale, il quale assume anche il controllo della correttezza della formazione delle classi.

Esdebitazione.
   È di competenza del tribunale, previo parere del curatore e del comitato dei creditori. L’introduzione dell’istituto è molto discussa ed è stato, comunque, introdotto in luogo della riabilitazione. Il potere di decidere l’applicazione dell’istituto è interamente del tribunale tanto è vero che è previsto che il curatore ed il comitato dei creditori siano solo sentiti. Il legislatore lo ha poi circondato di particolari cautele sia in relazione alla soglia minima per accedervi, per evitare che fosse troppo premiale e nello stesso tempo svantaggioso per i creditori, sia in relazione ai presupposti per la sua concessione.
   Rimane nella sfera di cognizione del giudice delegato l’autorizzazione all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e soci, perdendo, tuttavia, quei poteri cautelari che la dottrina aveva posto in seria discussione soprattutto con l’introduzione del rito cautelare uniforme.
   La conclusione finale della panoramica esposta in ordine agli spazi lasciati al tribunale ed al giudice delegato dalla riforma conferma l’esigenza costante e permanente di una giurisdizionalizzazione della procedura, dove i momenti rilevanti permangono nell’orbita di controllo ed anche di gestione degli organi giurisdizionali, pur con temperamenti discutibili e che talvolta appaiono ingiustificati e discutibili. Tuttavia, l’essenzialità deriva anche dagli ampi spazi vuoti lasciati dal legislatore desideroso di lanciare istituti innovativi, ma non completamente disciplinati proprio per la loro novità, i quali probabilmente non saranno coperti né dai creditori né dal comitato dei creditori né dal curatore, ma solo dal giudice delegato e dal tribunale a tutela costante degli interessi pubblici che sottendono e permangono nella procedura fallimentare, garantendo quella imparzialità ed indipendenza che non sono mai mancate nella conduzione dei fallimenti.

* Relazione svolta al Convegno su “La riforma delle procedure concorsuali: soluzioni per la crisi e sorte per l’impresa” (Università degli Studi di Roma Tor Vergata 3 novembre 2005), e destinata a Il Fallimento.