il diritto commerciale d’oggi
    IV.11 – novembre 2005

STUDÎ & COMMENTI

 

ANTONIO GIOVANNONI
La nuova disciplina dei contratti pendenti al momento della dichiarazione di fallimento:
il caso dell’imprenditore edile

 

   SOMMARIO: 1. Logica e ratio dinamica dei diritti contrattuali pendenti nei confronti della procedura fallimentare: in particolare, l’arresto del contratto in presenza della dichiarazione di fallimento di una parte negoziale – 2. L’attribuzione alla procedura del potere di impulso risolutorio o del subingresso quale parte del negozio pendente – 3. Il preliminare di vendita di cosa futura: problematiche legate alla crisi dell’imprenditore edile e alla tutela del promissario acquirente – 4. Le aporie dell’intervento riformatore: il problema della “vendita sulla carta” (vendita di cosa futura).

 

1. Logica e ratio dinamica dei diritti contrattuali pendenti nel nuovo modello di procedura fallimentare
   Con la sentenza dichiarativa di fallimento si pone un terminus a quo, una linea di confine fra il “prima” e il “dopo” dell’attività dell’impresa in crisi. Si può, quindi, in linea generale, definire l’apertura di una procedura concorsuale quale momento genetico di insorgenza di una serie dinamica di obbligazioni che ricevono una regolamentazione specifica, nel contesto strutturale degli equilibri dei vari soggetti coinvolti nella crisi dell’impresa. Quest’ultima, d’altronde, fotografa staticamente una condizione di insolvenza accertata ed è da quel momento che i diritti pendenti – vale a dire i diritti non ancora soddisfatti, primi fra tutti quelli dei creditori – trovano nella regolazione normativa il loro momento di valorizzazione, in un contesto normativo nel quale, dopo la riforma della legge fallimentare avvenuta con l’approvazione del relativo decreto legislativo da parte del Consiglio dei ministri il 25 settembre scorso, al ruolo del giudice è stato affiancato una più penetrante partecipazione del Comitato dei creditori e un più accentuato ricorso alle soluzioni concordate e, quindi, alle procedure, ispirate alla prassi nord-americana, c.d. di Corporate reorganization (1).
   Il modello che aveva informato in precedenza la legge fallimentare si curava innanzitutto, come è stato affermato da copiosa dottrina (3), di porre rimedio ad un ordine giuridico del mercato violato dal dissesto, considerato essenzialmente quale “colpa” del titolare dell’impresa, quando ovviamente non ricorressero fattispecie penali dolose quali la bancarotta fraudolenta, colpite da uno schema sanzionatorio collaterale. Da ciò derivava, secondo taluni, che almeno la gran parte della procedura era finalizzata ad una tutela di interessi collettivi o pubblicistici, cosicché i poteri del giudice delegato, in posizione di primazia gerarchica rispetto al curatore fallimentare, assicuravano quella tutela (unitamente alla possibilità che l’impulso originario all’apertura della procedura potesse non venire dalle parti ma dal pubblico ministero) (3). Il fatto, poi, che l’impianto strutturale della procedura concorsuale si manifestasse comunque attraverso un conflitto fra le parti non induceva l’originario legislatore ad attribuire a queste ultime (si pensi soprattutto ai creditori e al loro organo collegiale) un qualche potere di efficacia immediata. Lo sfondo culturale era, ovviamente, quello dell’ordine corporativo, che si riteneva vulnerato dalla colposità del soggetto-imprenditore, concepito alla stregua di un “custode” dell’ordine economico e sul quale, dunque, il fallimento doveva pesare sia civilmente, sia penalmente e al cui dissesto il giudice civile doveva porre rimedio soprattutto con l’apparato sanzionatorio e con la divisione della massa, liquidata ai creditori in “moneta fallimentare” (4).
   Questo schema concettuale sembrava riversarsi anche su uno spinoso problema, che era quello della sorte dei rapporti contrattuali pendenti alla data dell’apertura concorsuale. Con estrema contraddizione rispetto all’impianto del codice civile, la vecchia legge fallimentare si asteneva dal dettare un principio generale valido per tutti i contratti, per poi disciplinare compiutamente la sorte di quelli tipici per i quali più problematici potevano apparire le questioni legate alla loro risoluzione o al loro proseguimento in capo al curatore fallimentare. L’assenza di un principio di ordine generale, peraltro, produceva un’altra rilevante questione in ordine alla sorte dei contratti atipici (come, per esempio, il leasing o il franchising, fino all’approvazione della legge 6 maggio 2004, n. 129 che ha regolato la c.d. “affiliazione commerciale”) (5): che per questi ultimi era stato compito della giurisprudenza e della dottrina ricavare spunti regolatori in ordine allo scioglimento o meno del contratto (6).
   Ora, se l’impostazione generale seguita dal legislatore della novella del 2005 è nel senso di un rafforzamento degli aspetti privatistici della procedura, su ispirazione delle legislazioni anglosassoni e, in particolar modo, del Chapter 11 nord-americano, si deve osservare che, in materia di rapporti negoziali pendenti, la scelta legislativa è andata in direzione del tutto opposta, recependo, perfino pedissequamente, le indicazioni ultracinquantennali di dottrina e giurisprudenza, che si poggiavano su una primazia degli interessi della procedura – rectius: della massa dei creditori – rispetto a quelli del singolo contraente.
   Per approfondire questo tema, si deve fare riferimento espresso alle prescrizioni normative presenti complessivamente nell’art. 72 della legge fallimentare, così come riformulato dall’art. 56 del decreto legislativo di attuazione dell’art. 1, 5° comma della legge di delegazione 14 maggio 2005, n. 80.
   Il 1° comma di questo articolo dispone che ove un contratto non sia ancora stato eseguito, ovvero sia stato parzialmente eseguito e nei confronti di una delle parti è stata dichiarata sentenza di fallimento, l’esecuzione del contratto, fatte salve le diverse disposizioni presenti, «rimane sospesa fino a quanto il curatore, con l’autorizzazione del Comitato dei creditori, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo» (7).
   Se confrontiamo questa disposizione con la medesima del vecchio art. 72, possiamo cogliere agevolmente la differenza prospettica: nella riforma, a dispetto dell’impianto complessivo che l’ha ispirata, prevale l’interesse della procedura rispetto a quella del singolo contraente. Nel vecchio testo, invece, prevaleva l’interesse del singolo contraente rispetto a quello della procedura. Infatti, la vecchia norma, riferendosi esplicitamente al contratto di vendita, disponeva che «Se un contratto di vendita è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti quando il compratore è dichiarato fallito, il venditore ha diritto a compiere la sua prestazione, facendo valere nel passivo del fallimento il suo credito per il prezzo». Il 2° comma, poi, prevedeva l’arresto del contratto, ma solamente nel caso in cui il venditore avesse espressamente dichiarato di non volere esercitare il suo diritto. Conseguentemente, sulle esigenze della procedura – quindi, della massa dei creditori – finiva per prevalere, nonostante l’impianto “pubblicistico” (8) della legge fallimentare del 1942, quella del contraente-venditore, al quale, in sostanza, la legge attribuiva la facoltà di insinuare nel passivo fallimentare il suo credito quando, con evidenza, l’oggetto della vendita fosse reputato di difficile ricollocazione sul mercato, mentre poteva, al contempo, non esercitare tale diritto ed attendere la decisione del curatore (sperando in una vicenda risolutoria) quando l’oggetto della vendita fosse facilmente smerciabile (9). L’ipotesi prevista dalla vecchia norma, per quanto logicamente conciliabile con l’impianto normativo in materia di contratti, appariva comunque astratta, in quanto il venditore, rinunciando al suo diritto, finiva nella massa dei creditori commerciali, poco o punto protetti, come noto, dalle risultanze della divisione della massa fallimentare. Ma la legge fallimentare doveva ammettere comunque l’eccezione di inadempimento, in ossequio al principio disposto per i contratti a prestazioni corrispettive (art. 1460, 1° comma cod. civ.).

2. L’attribuzione alla procedura del potere di impulso risolutorio o del subingresso quale parte del negozio pendente
   La soluzione accolta dalla novella, come si è detto, riprende in pieno la conclusione maggioritaria di dottrina e giurisprudenza, estesa peraltro a tutte le tipologie negoziali e non solo al contratto di compravendita (10). Il fondamento dell’arresto del contratto si giustifica, per l’appunto, con le ragioni stesse della procedura concorsuale. Il negozio è actum voluntatis che coinvolge il rapporto individuale fra due soggetti, cui la legge assegna un’estesa libertà di disposizione, la quale, però, non può contrastare con l’interesse generale della collettività, nel quale viene a cadere, secondo la filosofia delle procedure fallimentari – pur con varie impostazioni nei vari sistemi – anche quello dei creditori concorsuali. Nel momento del dissesto dell’impresa, dunque, è quest’ultima – incarnata dall’azione della curatela – a dover prevalere sull’atto di disposizione. In altri termini, la sospensione dell’efficacia del contratto si dovrebbe giustificare, così come vedremo meglio successivamente, con la necessità e l’economia stessa del concorso dei creditori. Dato l’impatto sociale dell’impresa (il cui dissesto, evidentemente, coinvolge non soltanto i creditori commerciali e finanziari, ma anche i lavoratori che ne sono investiti), l’urgenza della procedura giustificherebbe di per sé la compressione della libertà negoziale (e, quindi, anche delle possibilità risolutorie poste in capo al contraente).
   Ma se questa è la ratio, diciamo così, “generica” del principio posto dal nuovo art. 72, 1° comma della legge fallimentare, la dottrina ha preferito giustificare il principio in forza delle stesse disposizioni “interne” all’economia normativa negoziale. In particolare, si è fatto ricorso al principio generale della sinallagmaticità del contratto e dell’equità o proporzionalità delle prestazioni delle parti. Il fondamento di tali posizioni si rinviene sia nell’art. 1460, 1° comma cod. civ., sia nel successivo art. 1461 cod. civ.
   Per quanto concerne la prima norma, essa è stata variamente definita in dottrina, alla stregua di uno strumento dotato di “forza compulsoria”, susseguente al principio di corrispettività delle prestazioni. Similmente alla diffida ad adempiere, il principio «mira a sollecitare il contraente che agisce per l’adempimento ad eseguire, dal canto suo, l’adempimento corrispettivo, evitando così il pericolo che il contratto possa avere esecuzione solo ex una parte, restando zoppicante» (11).
   Ma il ricorso all’istituto dell’eccezione di inadempimento non aveva del tutto convinto la dottrina. Secondo alcuni, infatti, la tesi così esposta poggerebbe sul presupposto – tutto da dimostrare – che l’eccezione di inadempimento dovrebbe esprimere la sua efficacia anche nei confronti dei terzi (quindi, dei creditori della parte verso la quale si indirizza l’eccezione di inadempimento) (12), mentre lo stesso legislatore avrebbe disposto, ex art. 1458, 2° comma cod. civ., l’impossibilità di far valere la risoluzione, anche espressamente pattuita, nei confronti dei terzi, facendo salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione (13).
   Semmai, può trovare maggiore accoglienza il rimando compiuto a quanto dispone l’art. 1461 cod. civ., in base al quale ciascun contraente può sospendere la propria prestazione quando «le condizioni patrimoniali dell’altro sono divenute tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della controprestazione», che giustificherebbe l’istituto dell’arresto del contratto sul piano dei principi emerneutici generali, anche se si sostiene in dottrina che sia il principio dell’art. 1461, sia l’eccezione di inadempimento precedentemente illustrata fanno parte entrambe di un medesimo istituto, quello dell’inadimplenti non est adimplendum (14).
Altra parte della dottrina preferisce interpretare il principio dell’arresto del contratto alla luce di un’impostazione che si fonda essenzialmente su un principio equitativo: il creditore ex contractu è indubbiamente favorito per il fatto che «dispone di uno strumento di pressione sul debitore che lo colloca su una posizione di indubbio vantaggio rispetto agli altri creditori». Egli, d’altronde, è meritevole di un trattamento di favore (qual è il fatto che l’esecuzione del contratto sia sospesa) «in quanto, omettendo di adempiere per primo, ha evitato di seguire imprudentemente la fiducia di un debitore non affidabile qual è senza dubbio l’insolvente, riservandosi così nei suoi confronti un’ulteriore possibilità di tutela» (15).
   Questione indubbiamente più complessa è quella relativa alla vendita, cui, peraltro, il principio suesposto si riferisce per quanto non espressamente, dato che la novella regola negli articoli successivi le vicende di altri contratti pendenti (preliminare di vendita, di cui ci occuperemo infra, contratto di finanziamento di uno specifico affare, vendita a termine o a rate, somministrazione, contratto di Borsa a termine, associazione in partecipazione, conto corrente, mandato, commissione, locazione di immobili, affitto di azienda, appalto, assicurazione). In particolare, come già avveniva per la vecchia legge fallimentare, è necessario stabilire che cosa si debba intendere per “rapporti pendenti”, di cui all’intitolazione dell’art. 72.
   In linea generale, la dizione utilizzata dal legislatore della novella si riferisce ad ogni genere di contratti (compresi quelli regolati specificamente dagli articoli successivi, salvo disposizioni contrarie, come, ad esempio, nel caso dei contratti di conto corrente, mandato, commissione, per i quali è disposto lo scioglimento automatico) nei quali l’esecuzione sia parziale, ovvero incompleta o del tutto assente di una o di entrambe le parti (16), ovvero nei contratti c.d. “di durata”. Se questa è la definizione di “rapporti pendenti”, soprattutto in relazione ai negozi non duraturi, dovrebbero essere inclusi, nonostante l’avviso contrario della dottrina e della giurisprudenza maggioritaria sotto la vigenza del vecchio testo (17), anche quei rapporti in cui vi sia stata completa esecuzione da parte di un solo soggetto (c.d. “adempimento unilaterale”). Infatti, un rapporto contrattuale nel quale una sola delle parti abbia adempiuto deve essere considerato “pendente” nel senso tecnico del termine (si pensi, ad es., al caso in cui un fornitore abbia consegnato le merci all’imprenditore e che questi si sia impegnato a pagare entro novanta giorni, periodo durante il quale si ha la dichiarazione di insolvenza e di fallimento dello stesso). Il terminus a quo dell’avvenuto adempimento di una parte nel contratto di vendita è dato, come ha sancito varie volte la giurisprudenza di legittimità, dal momento in cui sono state adempiute le obbligazioni fondamentali del rapporto e non quelle meramente accessorie (18).
   Indubbiamente a favore del contraente in bonis è la regola di cui al 2° comma dell’art. 72 del decreto legislativo di riforma, in base alla quale il «contraente può mettere in mora il curatore, facendogli assegnare dal giudice delegato un termine non superiore a sessanta giorni, decorso il quale il contratto si intende sciolto». Si deve, però, notare che, anche in questo caso, la scelta legislativa si è indirizzata verso un rafforzamento delle tutele della procedura, dato che il medesimo principio era già presente nel vecchio 2° comma del medesimo articolo, ma il termine assegnato per la messa in mora del curatore non superava gli otto giorni. Fra quest’ultimo tempo e quello previsto dal decreto di riforma la distanza è abbastanza lunga, forse spiegabile con il fatto che la nuova norma non si applica solamente al contratto di vendita ma, come si è detto, a qualsivoglia tipologia negoziale e si viene, dunque, a perdere quella urgenza commerciale che è tipica dello schema negoziale della vendita.
   Il caso dello scioglimento del contratto è regolato dal successivo 3° comma dell’art. 72. Esso dispone che il contraente ha diritto di insinuare nel passivo il credito prodotto dal mancato adempimento. Quando sia stata proposta la domanda di risoluzione in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento, questa spiega i suoi effetti nei confronti del curatore, quindi l’azione di risoluzione può essere portata a compimento, «fatta salva, nei casi previsti, l’efficacia della trascrizione della domanda». A differenza del vecchio testo, in base al quale il contraente in bonis non poteva richiedere i risarcimento del danno, l’attuale 3° comma dell’art. 72 prevede che «se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni dei cui al Capo V della presente legge».

3. Il preliminare di vendita di cosa futura: problematiche legate alla crisi dell’imprenditore edile e alla tutela del promissario acquirente
   La legge fallimentare ha disciplinato anche un caso che, con il passare del tempo, aveva finito per produrre un certo impatto sociale. Si tratta della possibilità – sovente accaduta – per l’acquirente di vedere oggetto di azione revocatoria l’immobile, il quale è già entrato nella sua disponibilità materiale, dato in garanzia dal costruttore decotto alla banca per aperture di credito sorrette da ipoteca. L’apprensione materiale dell’immobile da parte dell’acquirente avviene, come è solito farsi nella prassi, o per effetto della stipula di un contratto definitivo od anche sulla sola base di un preliminare di vendita, che consente, peraltro, al costruttore, di acquisire un consistente anticipo monetario. In quest’ultimo caso,il promissario acquirente non ha alcuna garanzia reale sulla somma versata in anticipo al costruttore, se non l’obbligazione di concludere il contratto definitivo posto dal negozio preliminare (o “compromesso”, come suole chiamarsi atecnicamente) (19).
   La situazione che poteva crearsi dipendeva dallo stato della contrattazione fra acquirente e costruttore. Nel caso della stipulazione di un contratto definitivo di vendita di immobile, quest’ultimo poteva soggiacere ad azione revocatoria fallimentare, giustificata dal fatto che, solitamente, il prezzo pagato dall’acquirente ed iscritto nell’atto era inferiore a quello effettivamente pagato e coincidente con il valore catastale. In linea di massima, il prezzo “ufficioso” era considerato dai giudici del tribunale fallimentare “sospetto” e dunque giustificativo dell’azione revocatoria (20).
   Situazione ancora peggiore era quella del semplice promissario acquirente, il quale, sulla base di un accordo apertis verbis con il costruttore, usufruiva della disponibilità materiale dell’immobile, in attesa di stipulare il contratto definitivo. In questo caso, l’immobile rientrava semplicemente nella massa fallimentare e il promissario acquirente poteva solamente cercare di rivalersi su quella, come creditore chirografario (21).
   Il legislatore è intervenuto varie volte per eliminare i rischi della mancata apprensione del bene immobile da parte dell’incolpevole acquirente. Con la legge di conversione 28 febbraio 1997, n. 30 (d.l. 31 dicembre 1996, n. 669), che ha introdotto la trascrizione del contratto preliminare, il legislatore «ha avuto di mira la tutela del contraente debole, specie nelle compravendite di immobili da parte di società immobiliari, ponendolo al riparo da comportamenti scorretti da parte del venditore» (22).
   L’impatto principale che questo intervento legislativo ha prodotto nella direzione di una maggiore tutela del promissario acquirente, oltre a quella che è stata definita quale “funzione prenotativa della data dell’iscrizione pubblicitaria” (23), consiste soprattutto in quanto dispone l’art. 2825-bis cod. civ., introdotto dalla legge n. 30/1997. In base a questa norma, «l’ipoteca iscritta su edificio o complesso condominiale, anche da costruire o in corso di costruzione, a garanzia di finanziamento dell’intervento edilizio (…) prevale sulla trascrizione anteriore dei contratti preliminari (…) limitatamente alla quota di debito derivante dal suddetto finanziamento che il promissario acquirente si sia accollata con il contratto preliminare o con altro atto successivo».
   La regola introdotta dall’art. 2825-bis cod. civ. consente al promissario acquirente, come è stato notato, di non essere esposto «con tutto il valore del suo appartamento alla garanzia globalmente iscritta a favore dell’istituto bancario da parte del promittente venditore» (24). Infatti, l’ipoteca a garanzia del mutuo fondiario concesso dalla banca al promissario acquirente, trascritta anche successivamente alla trascrizione dei preliminari, prevale sulle garanzie apposte dal promittente venditore. In pratica, in caso di fallimento del costruttore, la banca creditrice del promissario acquirente potrà rivalersi direttamente sull’ipoteca relativa al mutuo concesso per l’acquisto, nei limiti della somma garantita. La regola opera, però, solamente nel periodo che intercorre fra preliminare e definitivo, in quanto «se il definitivo viene trascritto prima dell’iscrizione ipotecaria a favore della banca, quest’ultima non potrà prevalere rispetto alla precedente, ma dovrà seguire le sorti derivanti dalla priorità della data nella quale viene effettuata la pubblicità immobiliare» (25).
   L’intervento risolutivo in tema di tutela dell’acquirente di un immobile da costruire è stato però, in primo luogo, il d. lgs. 20 giugno 2005, n. 122 (espressamente intitolato “Disposizioni per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, a norma della legge 2 agosto 2004, n. 210”).
Questa legge ha disposto (art. 2, 1° comma) l’obbligo, per il costruttore, di rilasciare una garanzia fideiussoria a favore del promissario acquirente, a pena di nullità del contratto, per una somma corrispondente «alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso e, secondo i termini e le modalità del contratto, deve ancora riscuotere dall’acquirente prima del trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento» (26).
   Per quanto qui più di interesse, gli artt. 10 e 11 del d. lgs. n. 122/2005, hanno modificato, rispettivamente, il regime delle azioni revocatorie fallimentari e le vicende del contratto pendente avente ad oggetto immobili da costruire.
   Per quanto concerne l’azione revocatoria fallimentare, l’art. 10 citato restringe il suo campo di applicazione. In particolare, vieta la revocatoria per gli atti a titoli oneroso «che hanno come effetto il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento di immobili da costruire (…) se posti in essere al giusto prezzo da valutarsi alla data della stipula del preliminare».
   Si deve innanzitutto precisare che, il decreto legislativo di riforma della procedura fallimentare approvato dall’Esecutivo il 25 settembre scorso non ha modificato la disciplina generale della revocatoria fallimentare, perché quest’ultima è stata ampiamente riformulata (in senso restrittivo, come abbiamo già notato in apertura) dal d.l. 16 marzo 2005, n. 35 (c.d. “decreto sulla competitività”), convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80 (27). Il “decreto sulla competitività” ha, peraltro, anche previsto una norma che è, in parte, simile a quella disposta successivamente dal già citato art. 10 del d. lgs. n. 122/2005. In altri termini, il legislatore ha disciplinato, in un periodo non superiore ai tre mesi (per quanto, ovviamente, la legge di delegazione del d. lgs. n. 122/2005 fosse anteriore di circa un anno), la medesima fattispecie (cioè, l’esclusione dall’azione revocatoria degli atti pattuiti aventi ad oggetto immobili da costruire) con due norme differenti. Quella riformulata espressamente per la legge fallimentare (e cioè, l’art. 67, 3° comma, lett. c, legge fall.) dispone il divieto dell’azione revocatoria per «le vendite al giusto prezzo di immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti e affini fino al terzo grado» (28). Le differenze non sono marginali. Innanzitutto, la disposizione della legge fallimentare si riferisce, genericamente, ad immobili “ad uso abitativo”, mentre l’art. 10 del d. lgs. n. 122/2005 si riferisce più specificamente ad “immobili da costruire”. In secondo luogo, la legge fallimentare si riferisce solamente ai contratti di vendita, mentre la disposizione contenuta nel d. lgs. n. 122/2005 fa riferimento agli «atti a titolo oneroso che hanno come effetto il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento». La norma contenuta in quest’ultimo decreto legislativo appare più generica, volendo tutelare il promissario acquirente o l’acquirente tout court n conseguenza di qualsivoglia negozio traslativo di un diritto reale (si pensi, ad esempio, ad una permuta, o ad un leasing) (29).
   Infine, altro elemento di differenziazione consiste nel fatto che, nel d. lgs. n. 122/2005, il “giusto prezzo” deve essere individuato a partire dal contratto preliminare, mentre la norma contenuta nella legge fallimentare fa unicamente riferimento al “giusto prezzo” della vendita dell’immobile quale criterio discretivo per operare l’eventuale azione revocatoria.
   Passiamo ad esaminare l’altra norma risolutiva del problema qui esaminato, cioè la vicenda del contratto per immobile da costruire nel caso di crisi dell’imprenditore edile. Si tratta dell’art. 11 del d. lgs. n. 122/2005, il quale ha aggiunto l’art. 72-bis alla legge fallimentare. Originariamente, questo articolo disponeva che il contratto stipulato fra il costruttore, poi sottoposto a procedura fallimentare, e acquirente avente ad oggetto un immobile ancora da costruire si intende sciolto qualora quest’ultimo abbia escusso la fideiussione prima che il curatore abbia deciso per il subentro automatico nel contratto medesimo. In ogni caso, la fideiussione non può essere escussa dopo che il curatore abbia comunicato di voler fornire esecuzione al contratto.
   Con il decreto approvato dal Consiglio dei ministri il 25 settembre scorso, il legislatore è intervenuto sull’art. 72-bis della legge fallimentare, aggiungendo due commi. Il primo dispone che «In caso del fallimento del venditore, se la cosa venduta è già passata in proprietà del compratore, il contratto non si scioglie». Il secondo comma dispone che «Qualora l’immobile sia stato oggetto di preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis del codice civile e il curatore, a norma dell’articolo 72, scelga lo scioglimento del contratto, l’acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto il risarcimento del danno. All’acquirente spetta il privilegio di cui all’articolo 2775-bis del codice civile, a condizione che gli effetti della trascrizione del contratto preliminare non siano cessati anteriormente alla data di dichiarazione di fallimento». Infine, il terzo comma riproduce l’originario unico comma dell’art. 72-bis della legge fallimentare, introdotto dal d. lgs. n. 122/2005.
   Come appare evidente, il primo comma dispone l’impossibilità di una risoluzione contrattuale quando vi sia già stato il trasferimento della proprietà dell’immobile dal costruttore (poi sottoposto a procedimento fallimentare) e acquirente. In linea di massima, quindi, se consideriamo il combinato disposto di questa norma con quella in materia di revocatoria fallimentare (art. 67, 3° comma, lett. c), oramai l’acquirente di un immobile venduto da un costruttore può essere considerato ben tutelato dall’apparato normativo posto in essere dal legislatore.

4. Le aporie dell’intervento riformatore: il problema della “vendita sulla carta” (vendita di cosa futura)
   Il problema, semmai, è dato dall’estrema teoricità ed astrattezza nella quale il legislatore di questa parte della legge fallimentare sembra essere caduto. Infatti, l’intitolazione del nuovo art. 72-bis legge fall. si riferisce al “Fallimento del venditore e contratti relativi ad immobili da costruire”. Ora, anche in sede di primi commenti alle disposizioni presenti nel d. lgs. n. 122/2005, si sottolinea come il “cuore” delle tutele apprestate dal legislatore faccia riferimento esplicito ad un tipo negoziale che si riassume nella “vendita di cosa futura”, così come regolato dalla scarna norma contenuta nell’art. 1348 cod. civ. (30).
   Come noto, questo tipo di contratto presuppone la produzione di effetti solamente obbligatori ed è concepito dalla dottrina dominante quale negozio ad efficacia traslativa (o reale) differita (31). Secondo l’orientamento, peraltro, presente anche in sede di amministrazione finanziaria, la tipologia contrattuale in oggetto sarebbe caratterizzata dal fatto che produce un’efficacia semplicemente obbligatoria e non traslativa (se non, ipoteticamente, nel futuro) e quindi non dovrebbe essere soggetta alle prescrizioni della legge in materia di contratto preliminare (32). Un’opinione siffatta, peraltro, anche tenendo a mente quanto dispone il combinato disposto degli artt. 2 e 6 del d. lgs. n. 122/2005, potrebbe indurre perfino a ritenere che il contratto preliminare avente ad oggetto la costruzione futura di un appartamento non possa rientrare nelle tipologie previste dalla legge in materia di tutela dell’acquirente di un immobile da costruire, quando, nel contratto preliminare, non sia possibile citare per espresso le condizioni per il rilascio del certificato abitativo, ex art. 6, lett. c) e i). Peraltro, giusta il fatto che quest’ultimo viene rilasciato dall’amministrazione comunale competente (senza il quale, il contratto definitivo potrebbe essere affetto da “nullità relativa” in quanto mancante di un elemento essenziale per il perfezionamento dell’immobile e per la stessa efficacia traslativa del negozio), il medesimo contratto preliminare potrebbe essere sottoposto ad una condizione sospensiva e quindi presentare ampi margini di aleatorietà (33).
   Ma, a prescindere da ciò, quello che rileva in questa sede è il fatto che il 1° comma del nuovo art. 72-bis della legge fallimentare ipotizza un evento (il trasferimento della proprietà nelle mani dell’acquirente del costruttore fallito, a seguito del quale il contratto non è sciolto) in pratica impossibile, in quanto la norma stessa si riferisce al caso di immobili non ancora venuti ad esistenza, per i quali il trasferimento del diritto reale può avvenire solamente nel momento in cui vengono ad esistenza.
   Per quanto concerne il 2° comma del medesimo articolo, il legislatore ha previsto che il promissario acquirente che veda risolvere il contratto per decisione del curatore abbia diritto di insinuarsi nel passivo della massa fallimentare, senza ottenere il risarcimento del danno, ma con il privilegio speciale di cui all’art. 2775-bis cod. civ. (norma aggiunta dalla legge n. 30/1997).


Note

   (1) Infatti, uno degli elementi caratterizzanti la riforma della legge fallimentare, oltre all’accresciuto peso delle funzioni del Comitato dei creditori, è proprio quello di aver accordato, nell’ambito di una “filosofia di mercato” neo-liberista – non da tutti condivisa – maggiori poteri all’imprenditore in crisi sottoposto alla procedura concorsuale. Come si sottolinea nell’ambito delle scienze aziendalistiche, lo spirito di fondo della riforma «è quello negoziale e cooperativo tra debitore e creditori». Si assiste in questo modo «ad una specie di privatizzazione dei dissesti, che richiama in parte il Chapter 11 americano, con la magistratura nel ruolo di controllore della legalità e di arbitro nei contrasti tra i soggetti coinvolti» (in tal senso BRUNETTI, La crisi tra prevenzione e superamento. Un punto di vista aziendale, in «Crisi dell’impresa e riforme delle procedure concorsuali», XX Convegno di Courmayeur, 23-24 settembre 2005, p. 12). D’altronde, almeno secondo alcuni studiosi americani, la prassi delle “soluzioni concordate” nelle crisi di impresa mostra un’efficacia statisticamente più significativa rispetto al modello meramente liquidatorio, tipico dei Paesi di Civil law. Le procedure di Corporate reorganization, fondate su ampi poteri degli attori (debitore-creditori) produce risultati migliori dal punto di vista della salvaguardia dei valori economici dell’azienda (vedi, fra gli altri, su questo punto: CAPRIO, L’efficienza economica delle procedure di gestione del dissesto in Italia: un’intepretazione delle evidenze empiriche della ricerca, in CAPRIO (a cura di), Gli strumenti di gestione delle crisi finanziarie in Italia: un’analisi economica, Milano, 1997, pp. 91 ss.).

   (2) Vedi, per una disamina prospettica del modello concorsuale italiano, fra gli altri: INZITARI, Azioni revocatorie e tutela del credito, in «Crisi dell’impresa e riforme delle procedure concorsuali», XX Convegno di Courmayeur, cit., pp. 2 ss., il quale, a proposito del restringimento dell’azione revocatoria disposto dal decreto legge 16 marzo 2005, n. 35, pone numerose eccezioni critiche. Sulla natura essenzialmente liquidatoria della vecchia legge fallimentare, in ogni caso, la dottrina sembrava abbastanza concorde, in ciò rimarcando uno schema concettuale omogeneo che, però, la stessa legislazione (unitamente alla dottrina più interessata ad introdurre elementi evolutivi del sistema meramente liquidatorio) aveva con il tempo modificato, introducendo strumenti operativi finalizzati alla ristrutturazione, quindi alla Corporate reorganization. Ciò perché «il fallimento comporta la dispersione del patrimonio aziendale e la dissoluzione dell’impresa; non salvaguarda gli interessi collettivi che sono lesi dalla crisi aziendale. Anzi, finisce con il pregiudicarli, spesso irreparabilmente: al conflitto di interessi fra imprenditore dissestato e suoi creditori, che il fallimento risolve a vantaggio dei secondi, si sovrappone un secondo conflitto di interessi, fra creditori e dipendenti dell’imprenditore dissestato, che il fallimento risolve a vantaggio dei primi» (GALGANO, Diritto commerciale, Bologna, 2002, vol. I, pp. 301-2). Vedi anche, sulla natura essenziale della procedura concorsuale, BONSIGNORI, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, diretto da Galgano, vol. XI, Padova, 1986, pp. 83 ss.

   (3) Un’autorevole dottrina, a questo proposito, chiariva che «comunque venga dichiarato il fallimento, tutti gli atti attraverso i quali esso si snoda e si articola sono compiuti d’ufficio. Non c’è un creditore che abbia un potere di impulso ai fini dell’esecuzione. La macchina del processo di muove da sé dal principio alla fine. Sono rimossi perfino gli incagli che possono derivare dalla necessità di far fronte alle spese degli atti, perché se nel patrimonio del fallito non vi è il denaro all’uopo occorrente, le spese vengono anticipate dall’erario su decreto del giudice delegato» (FERRARA JR., Il fallimento, Milano, 1989, p. 45).

   (4) Per molto tempo la legge fallimentare, così come, d’altronde, il procedimento penale fino alla riforma della fine degli anni ’80, è stata interpretata alla luce di una procedura sostanzialmente inquisitoria, a seguito della quale non vi era alcuna possibilità, salvo i rimedi composti dal concordato fallimentare, di salvare l’impresa. In ogni caso, la dottrina, perlomeno a partire dagli anni Ottanta, ha rimarcato la natura essenzialmente privatistica del fallimento, anche se permeata dall’aspetto “inquisitoriale” proprio di un sistema di tutele collettive. Scrive a questo proposito il Galgano: «Attribuire una funzione pubblicistica al fallimento e, al tempo stesso, pretendere che sia l’autorità giudiziaria ad assolverla, significa, da un lato, frustrare un’effettiva realizzazione degli interessi pubblici che certamente la crisi aziendale solleva (…) e significa, d’altro lato, snaturare la funzione giudiziaria, con la grave conseguenza – tante volte constata nella prassi dei tribunali – di trasformare in puro e semplice autoritarismo, privo di ragionevole giustificazione, quei poteri autoritari che la concezione pubblicistica del fallimento conferisce agli organi togati della procedura e che spesso fanno di questi gli arbitri, assoluti quanto innaturali, della sorte di imprese, di patrimoni, di maestranze» (GALGANO, Diritto commerciale, vol. I, cit., pp. 314-15). Si deve osservare, comunque, che i primi commenti alla novella legislativa non sembrano affatto favorevoli. Si veda su questo punto le penetranti critiche espressa da una dottrina (FABIANI, Le trasformazioni della legge fallimentare, in Foro it., V, 2005, c. 153), secondo cui non soltanto è criticabile il metodo utilizzato per riformare la legge fallimentare (quello dell’integrazione normativa e non una riforma complessiva delle procedure concorsuali), avvenuto peraltro tramite l’utilizzazione di un escamotage nel quale sarebbe possibile rinvenire una violazione del procedimento di formazione della legge (in pratica, si sarebbe aggirato il divieto, disposto dalla legge n. 400/1988, di predisporre una legge delega in un decreto legge). La dottrina da ultimo citata sottolinea come «le scelte non paiono adeguate a risolvere il problema della gestione dell’impresa in crisi per la semplice ragione che si è preferito abbandonare la via della riforma complessiva del sistema concorsuale nel suo complesso (…) per privilegiare una riforma solo parziale (…) dell’impianto del 1942, così rendendo assai complicata l’attività dell’interprete, costretto a confrontarsi con norme pensate oltre sessant’anni fa e con le disposizioni novellate, nel contesto di una cornice economica e di rapporti fra imprese completamente modificati».

   (5) Vedi sulla legge che ha regolato il franchising: BARBUTO, Il legislatore si adegua alla prassi del mercato. Addio alle interpretazioni acrobatiche dei giudici, in «Guida al diritto», 22, 5 giugno 2004, pp. 14 ss.

   (6) In tal senso si esprime la “Relazione” che accompagna il decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri il 25 settembre scorso, in www.giustizia.it/dis_legge/relazioni/Fallimentare_relazione.htm, p. 15: «Non essendo state previste regole per ciascuno dei contratti disciplinati dal codice civile, si sono venuti così a determinare due inconvenienti, da un lato è stata lasciata priva di regolamentazione una parte dei contratti, dall’altro e nel contempo si è lasciata nell’incertezza la sorte dei nuovi contratti venuti ad esistenza in tempi recenti. È così spettato all’interprete e alla giurisprudenza trarre dalla disciplina dei singoli contratti, e fondamentalmente da quella del contratto di vendita, alcune indicazioni di carattere generale dirette a riempire gli spazi vuoti lasciati dalla legge». Vedi sull’impostazione generale della vecchia legge fallimentare l’analisi di Guglielmucci, in GIGLIELMUCCI-ZANARONE-DI CHIO-MAGINI-TEDESCHI, Effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, in Commentario alla legge fallimentare, diretto da Scialoja-Branca, a cura di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, 1979, pp. 1 ss. Si può notare, in chiave storico-ermeneutica, che precedenti progetti di legge fallimentare, proposti negli anni Venti del secolo scorso (come ad esempio, il “Progetto Bonelli” sul fallimento, pubblicato in Riv. dir. comm., 1921, I, pp. 522 ss., o quello di D’Amelio del 1925) prevedevano la predisposizione di una regola generale, valida per tutti i contratti pendenti nel momento di apertura della procedura concorsuale.

   (7) Sul principio dell’arresto del contratto, vedi ZANARONE, La risoluzione del contratto nel fallimento, Milano, 1970, pp. 19 ss.

   (8) Si fa qui riferimento al fatto che, a prescindere dall’impostazione più o meno “pubblicistica” della vecchia legge fallimentare che, come abbiamo visto, non trovava affatto concorde la dottrina, non v’è dubbio che, rispetto alla novella legislativa, il suo impianto fosse globalmente sbilanciato a favore di un potere autoritativo del giudice delegato, il quale non si limitava al controllo degli atti e delle disposizioni negoziali fra le parti, come avviene, almeno in alcuni punti, nella regolamentazione disposta dalla novella. Si può, quindi, ritenere che, in ossequio ad un indirizzo tipico dell’economia normativa del periodo fascista, la vecchia legge fallimentare fosse connotata da un sapiente trade off fra le esigenze, tipicamente autoritarie e di rango pubblicistico, derivanti dall’ordine corporativo e l’ispirazione liberistica propria anche dell’impianto complessivo del codice civile del 1942. In modo abbastanza chiaro, dunque, la legge fallimentare riproduceva lo schema culturale cui si era ispirato il legislatore della riforma del codice civile, a metà strada fra potere dispositivo delle parti (ad esempio, in materia di obbligazioni contrattuali) e supremazia gerarchica dell’autorità pubblica (ad esempio, in materia di impresa, società e rapporti familiari). Vedi, soprattutto sull’impianto liberistico e, al tempo stesso, autoritario del codice civile, SALVI, La giusprivatistica fra codice e scienza, in SCHIAVONE, Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, Roma-Bari, 1990, pp. 253 ss., il quale sottolinea come la critica complessiva da parte della dottrina al vecchio codice del 1865 si fondasse sul fatto che l’ordine corporativo aveva complessivamente modificato l’impianto strutturale dell’economia capitalistica, che da modello prettamente individuale si era tramutata, ad opera del fascismo, in fatto collettivo e, dunque, socialmente rilevante. A questo modello non poteva più corrispondere una regolamentazione, considerata oramai superata, che si fondasse esclusivamente sul diritto privato (il maggiore teorico di tale impostazione fu Vassalli, vedi, fra le altre opere, Della legislazione di guerra e dei nuovi confini del diritto privato (1919), in ID., Studi giuridici, Milano, 1960, vol. II, pp. 337 ss.). Vedi anche, per quanto concerne il processo di unificazione del diritto privato italiano a ridosso dell’unificazione politica della penisola, il classico GHISALBERTI, Unità nazionale e unificazione giuridica in Italia, Roma-Bari, 1988, pp. 307 ss.

   (9) In tali termini FERRARA JR., Il fallimento, cit., p. 357, il quale appunto sottolinea come «in caso di tracollo dei prezzi sul mercato e di un deterioramento della merce, che in forza dei principi del passaggio dei rischi e pericolo fosse a carico del compratore, il venditore può trovare conveniente di eseguire il contratto alle condizioni consentite dal fallimento».

   (10) Una sintesi compiuta dei principi generali elaborati da dottrina e giurisprudenza in materia di rapporti negoziali pendenti nel fallimento è compiuta da ZANARONE, Fallimento, VII) Effetti sui rapporti giuridici preesistenti, in Enc. giur., «Istituto dell’Enciclopedia italiana», vol. XIII, § 2.2. ss., al quale faremo in questa sede costante riferimento. Contra la desumibilià ermeneutica di questa regola generale, ANDRIOLI, Fallimento (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XVI, Milano, 1967, p. 410, il quale fonda la sua contrarietà a questa interpretazione sul disposto dell’art.1372, 1° comma cod. civ. Su questa linea è parte della giurisprudenza più risalente. Vedi, Cass. 31 marzo 1969, n. 1052, in Dir. fall., 1969, II, p. 861.

   (11) DI MAJO, La responsabilità contrattuale, Torino, 1997, p. 107, il quale sottolinea che il rimedio posto dall’eccezione di inadempimento è, in qualche modo, alternativa alla risoluzione e, per l’appunto, consiste nell’utilizzazione di una vis compulsiva che sospende l’attuazione della sinallgmaticità. Infatti, scrive ancora l’autore citato, «a fronte di tale finalità non avrebbe senso condizionare l’esperibilità del rimedio agli stessi presupposti di quello risolutivo».

   (12) Tale convinzione è presente in BIGLIAZZI GERI, Profili sistematici dell’autotutela privata, vol. II, Milano, 1974, pp. 59 ss.

   (13) SACCO, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1975, p. 968.

   (14) MIRABELLI, Dei contratti in generale, in «Commentario del codice civile», Torino, 1979, pp. 501 ss.

   (15) ZANARONE, Fallimento, VII) Effetti sui rapporti giuridici preesistenti, cit., § 2.3.2.; nello stesso senso, AULETTA-SALNITRO, Diritto commerciale, Milano, 1987, pp. 645 ss.

   (16) Il problema è quanto mai spinoso e riteniamo che l’estrema genericità del principio presente nell’art. 72 della nuova legge fallimentare produrrà le incertezze ermeneutiche già presenti nella precedente formulazione. Ciò anche perché, il legislatore non ha ritenuto di dover regolare la sorte di tutti i possibili contratti della moderna impresa (che, ovviamente, non si esauriscono in quello di vendita, anche se quest’ultimo è a fondamento della sua attività economica). Si può ad esempio pensare, in questo caso, al franchising e alla sorte di questo contratto di durata, che non è legislativamente regolata dalla legge fallimentare. In casi come questo dianzi citato, dovrebbe continuare a valere la regola dell’interpretazione analogica, variamente seguita da dottrina e giurisprudenza, anche se con molti distinguo. Ad esempio, la giurisprudenza ha ripetutamente negato il ricorso all’interpretazione analogica per le vicende contrattuali non espressamente prese in considerazione dalla legge fallimentare, preferendo ricorrere ai principi generali in materia contrattuale (vedi sul punto, ZANARONE, Fallimento, VII) Effetti sui rapporti giuridici preesistenti, cit., § 4.2).

   (17) Vedi sul punto, ZANARONE, Fallimento, VII) Effetti sui rapporti giuridici preesistenti, cit., § 2.3.1. e, in giurisprudenza, Cass. 19 febbraio 1981, n. 1007, in Giust. civ., 1981, I, p. 1699.

   (18) Questo indirizzo è oramai consolidato. Vedi Cass. 4 aprile 1973, n. 934, in Dir. fall., 1973, II, p. 831; Cass. 30 aprile 1983, n. 3708, in Fallimento, 1983, p. 1384 e, da ultimo, Cass. 14 febbraio 2001, n. 2104, in Fallimento, 2001, secondo la quale «In caso di fallimento per ritenere se è eseguito il contratto di compravendita di autoveicoli – affinché si producano gli effetti dell’articolo 72 della legge fallimentare (…) non acquista rilievo la mancata consegna dei certificati di circolazione. Per accertare che il contratto sia eseguito, deve farsi riferimento, infatti, alle obbligazioni fondamentali e tipiche delle parti. In questa situazione, dunque, l’obbligazione fondamentale del venditore è il trasferimento della proprietà, essendo i titoli concernenti la circolazione soltanto documenti relativi a un diritto già trasferito».

(19) Secondo stime fornite dalle associazioni di categoria, dal 1995 al 2005, circa 200 mila famiglie italiane sono state coinvolte in circa 9 mila dissesti di imprenditori edili. Sembra superfluo sottolineare che, in molti casi, ad essere coinvolte sono state famiglie il cui unico risparmio era stato utilizzato per l’acquisto della casa di abitazione, anche sotto forma di cooperativa edilizia. Per una panoramica generale del caso, vedi COSTOLA, Verso nuove forme di tutela degli acquirenti di immobili da costruire, in St. iuris, 2004, pp. 1495 ss.

   (20) In questo caso, il prezzo “ufficioso” iscritto nell’atto, il quale consente all’acquirente di ottenere un risparmio sull’imposta di registro, si ritorce contro di lui, in quanto consente al giudice di motivare l’azione revocatoria. Inoltre, la presentazione di copia degli assegni, con i quali l’acquirente può cercare di dimostrare il prezzo reale pagato al costruttore, può nondimeno produrre un’azione penale nei suoi confronti, per evasione fiscale. Il problema non è facilmente risolvibile, almeno fino a quando una riforma generale delle rendite catastali riesca ad equiparare quest’ultimo valore al valore di mercato, cosa peraltro non agevole, essendo quest’ultimo soggetto, come tutti i prezzi in regime concorrenziale, ad ampie oscillazioni (in senso positivo, come avviene oramai sul mercato immobiliare da almeno un quinquennio) conseguenti alle dinamiche fra domanda e offerta di immobili.

   (21) Vedi in tema, RIZZI, Prime considerazioni sul decreto legislativo in tema di tutela degli acquirenti di immobili da costruire o in corso di costruzione, in Notariato on line, 24 novembre 2004.

   (22) Così COMMISSIONE STUDI DEL CONSIGLIO DEL NOTARIATO, La trascrizione del contratto preliminare, luglio 1997, Studio n. 1702/b, p. 3. Sulla trascrizione del contratto preliminare, vedi, fra gli altri, GABRIELLI, L’efficacia prenotativa della trascrizione del contratto preliminare, in Studium iuris, 1997, pp. 455 ss.; DI MAJO, La trascrizione del contratto preliminare e regole di conflitto, in Corr. giur., 1997, pp. 515 ss.; CARUSI, Trascrizione dei preliminari immobiliari. Considerazioni che vanno oltre gli istituti che la riguardano, in Notaro, 1997, pp. 21 ss.

   (23) GABRIELLI, L’efficacia prenotativa della trascrizione del contratto preliminare, cit., p. 457.

   (24) COMMISSIONE STUDI DEL CONSIGLIO DEL NOTARIATO, La trascrizione del contratto preliminare, cit., p. 6.

   (25) COMMISSIONE STUDI DEL CONSIGLIO DEL NOTARIATO, La trascrizione del contratto preliminare, cit., p. 7.

   (26) Vedi sull’obbligo disposto da questa legge, soprattutto in relazione alla questione della “nullità relativa” del contratto dove non sia prestata la garanzia fideiussoria, i vari problemi interpretativi, che esulano dal presente studio, sollevati dalle prime osservazioni della dottrina: RIZZI, Prime considerazioni sul decreto legislativo in tema di tutela degli acquirenti di immobili da costruire o in corso di costruzione, cit., pp. 10 ss.

   (27) La restrizione delle ipotesi in materia di revocatoria consiste nel fatto [nuovo art. 67, 3° comma, lett. d) ed e)] che tale azione è preclusa per gli atti, i pagamenti, le garanzie concesse sui veni del debitore, quando siano posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo ad assicurare il risanamento dell’esposizione debitoria ed il riequilibrio della situazione finanziaria e la cui ragionevolezza sia attestata ai sensi dell’art. 2501-bis, 4° comma cod. civ. (vedi in senso critico, INZITARI, Azioni revocatorie e tutela del credito, cit., p. 7).

   (28) RIZZI, Prime considerazioni sul decreto legislativo in tema di tutela degli acquirenti di immobili da costruire o in corso di costruzione, cit., p. 11.

   (29) In realtà, la dizione più generica utilizzata dal d. lgs. n. 122/2005 risponde meglio al criterio di tutela dell’acquirente dell’immobile. Infatti, le tipologie negoziali che possono ricadere nell’area di previsione normativa sono: vendita di fabbricato da costruire dedotto in contratto come cosa futura, vendita di fabbricato in corso di costruzione e di proprietà altrui, permuta di area con unità da costruire, cessione di quota indivisa di area, con condominio precostituito, vendita con riserva di proprietà, vendita soggetta a condizione sospensiva. Come si vede, vi possono essere varie tipologia di vendita ma anche contratti, come la permuta, che evidentemente non rientrano nello schema negoziale previsto dal nuovo art. 67, 3° comma, lett. c) della legge fallimentare.

   (30) Sulla nozione di “vendita di cosa futura” in generale, vedi: BIANCA, La vendita e la permuta, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1993, pp. 379 ss.; GRECO-COTTINO, Vendita, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1981, pp. 73 ss.; FURGIUELE, Vendita di “cosa futura” e aspetti di teoria del contratto, Milano, 1974, pp. 167 ss.

   (31) Una teoria più risalente aveva inquadrato la vendita di cosa futura quale negozio condizionato sospensivamente alla venuta ad esistenza della cosa oggetto dello scambio, o come contratto sottoposto a condicio iuris (vedi in tal senso, CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1965, p. 641; vedi anche PERLINGIERI, I negozi su beni futuri. La compravendita di “cosa futura”, Napoli, 1962, pp. 151 ss.). Successivamente, la dottrina maggioritaria ha concepito il negozio in questione quale contratto completo, del quale è solamente rinviata l’efficacia traslativa ma che produce immediatamente effetti obbligatori (BIANCA, La vendita e la permuta, cit., pp. 379 ss. Vedi nello stesso senso, fra le altre sentenze, Cass. 6 novembre 1991, in Foro it. rep., 1991, voce «Vendita», n. 29).

   (32) L’opinione è espressa dalla Circolare del Ministero delle finanze in materia di condono edilizio, vedi CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, La legge 28 febbraio 1985, n. 47. Criteri applicativi, in «Il condono edilizio», Milano, 1999, p. 8.

   (33) Questi dubbi sono espressi da RIZZI, Prime considerazioni sul decreto legislativo in tema di tutela degli acquirenti di immobili da costruire o in corso di costruzione, cit., p. 22. Interessante notare l’opinione dei giudici della Suprema Corte, i quali avevano statuito la nullità per impossibilità dell’oggetto, del contratto «con il quale una parte cede un terreno all’altra, che si obbliga a trasferirle alcune parti di un complesso edilizio, da costruire nel terreno acquistato, in assenza di regolare concessione edilizia, atteso che ciò costituisce un impedimento giuridico assoluta della prestazione dovuta dall’acquirente del terreno, restando irrilevante la possibilità del successivo condono edilizio, i cui effetti restano circoscritti al rapporto con la pubblica amministrazione e non possono, quindi, influire retroattivamente sulla validità del negozio» (Cass. 27 novembre 1992, n. 12709, in Riv. giur. edilizia, 1993, I, p. 239).

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