il diritto commerciale d’oggi
    IV.11 – novembre 2005

STUDÎ & COMMENTI

 

GIOVANNI CABRAS
La governance del fallimento nella riforma della legge fallimentare

 

 

1. Tra passato e futuro
   Per comprendere meglio la riforma della legge fallimentare e la nuova disciplina delle tre figure, di cui devo occuparmi (fallito, curatore e comitato dei creditori), può essere utile guardare indietro nel tempo, per cogliere nel passato le radici del futuro.
   Lo spunto mi viene da un vecchio manifesto, scovato per caso sui banchi di un mercatino d’antiquariato.
«Essendosi per parte del negoziante Moise Ovazza di questa Città, depositato alla Segreteria di questo Magistrato il di lui bilancio, e con ciò trovandosi in istato di fallimento, Noi lo rendiamo noto al Pubblico». Con questo “Proclama di fallimento” il Regio Consolato, sedente in Torino, il 5 dicembre 1831 dettava le prescrizioni del caso, avvertendo innanzitutto che «già si è fatto procedere all’assicurazione di ogni suo effetto in pro de’ suoi creditori».
   Quel manifesto, in un pacco di tanti altri analoghi “proclami” della prima metà dell’Ottocento, aiuta a conoscere, molto più che da trattati e commentari giuridici, la realtà del diritto fallimentare negli Stati Sardi (ma il discorso sarebbe uguale per gli altri Stati preunitari e poi anche per lo Stato unitario, fino al primo scorcio del Novecento): tutti quei “proclami di fallimento” rivelano che la procedura fallimentare era aperta solitamente su istanza del debitore, il quale, evidentemente, trovava conveniente sottoporsi ad essa e dialogare con i creditori davanti al giudice.
   Facciamo un salto di cent’anni e dal 1831 di quel proclama arriviamo al 1932. In tale anno, il prof. Antonio Brunetti, licenziando il trattato sul “Diritto fallimentare italiano”, spiegava che era necessario riesaminare la materia fallimentare dopo la «recente riforma legislativa, modesta solo in apparenza, ma sostanziosa e lungimirante, che ha mutato la faccia di qualche istituto e liquidato alcune ideologie si può dire tradizionali». L’eminente giurista si riferiva alla legge 10 luglio 1930, n. 995, che aveva ribaltato la secolare impostazione del fallimento come «cosa che attiene soprattutto all’interesse privato dei creditori, per cui l’intervento dello Stato – così si esprimeva Antonio Brunetti, bollando come “democratica” tale impostazione – ha luogo per l’utilità dei singoli», con una nuova impostazione, di carattere fortemente dirigistico, secondo la quale nel fallimento si ha la sostituzione della volontà dello Stato alla volontà negoziale degli interessati.
   Dopo 75 anni il diritto fallimentare, sotto le spinte dello sviluppo economico e delle esigenze di competitività, sembra ritrovare la sua strada di strumento per la risoluzione dei conflitti tra debitore e creditori, alla stregua del principio di autonomia privata.
Peraltro, la comparazione degli ordinamenti giuridici mostra come la liquidazione dell’impresa fallita è tanto più rapida e proficua, quanto più è riconosciuto il ruolo dei creditori nello svolgimento della procedura (F. Fimmanò).

2. Sospensione dell’autonomia privata
   L’insolvenza, situazione che dà luogo all’apertura delle procedure concorsuali, rappresenta la rottura del rapporto personale – prima ancora che giuridico – tra debitore e creditore. Questi ha concesso credito al debitore, ritenendolo meritevole di fiducia (il “fido” o “affidamento” nella terminologia bancaria), ma vede frustrata la legittima aspettativa di ottenere completa e tempestiva soddisfazione per il suo diritto. Credito e fiducia, alla base dei rapporti obbligatori, sono messi a repentaglio, quando il debitore non è in grado di adempiere ed allora, nella cerchia dei suoi creditori, ognuno cerca di avvantaggiarsi a discapito degli altri.
   Tale situazione ha sempre generato tensioni in tutti coloro (i c.d. stakeholders), che intrattengono rapporti con l’impresa divenuta insolvente, ponendo ognuno contro tutti, nel tentativo di rafforzare la propria posizione, e dando luogo a tanti conflitti: tra creditori e impresa; dei creditori tra loro; dell’impresa con i dipendenti, i fornitori; e così via.
   Più precisamente, nella crisi dell’impresa la logica della proprietà (diritti soggettivi e proprietà dei beni) sembra prevalere sulla logica dell’attività (gestione di beni e diritti, dei quali si ha semplicemente la disponibilità e che si mettono a frutto in investimenti produttivi). Tutti coloro che avevano concesso all’impresa la disponibilità di beni, credito, forniture, lavoro, ecc., rivendicano i propri diritti quando essa diventa insolvente. Alla forza centripeta dell’impresa, che genera ricchezza ed attrae capitali, persone e beni, si sostituisce allora l’usuale forza centrifuga dei rapporti individuali, in cui ognuno vuole il suo per sé, strappandolo – non importa come – al processo produttivo.
   Per l’insolvenza delle imprese il nostro legislatore con la legge fallimentare aveva operato una scelta molto netta, accentuando la pubblicizzazione della disciplina: se la legge del 1930 aveva sottratto ai creditori la nomina del curatore, la legge del 1942 ha sottratto loro anche la nomina del comitato, che pure da essi prende nome e che ha sostituito la delegazione, prevista dal previgente codice di commercio.
Il risultato di questa scelta è che in Italia l’interesse pubblico fa da padrone sulla gestione delle crisi di impresa; in particolare, è sospeso, per l’intera durata (invero, sempre più lunga) delle procedure concorsuali, il principio di autonomia privata.
   In tal modo, però, i conflitti tra debitore insolvente e creditori, anziché essere composti e risolti efficacemente, sono definiti in modo autoritario, senza dar voce, non solo al debitore, ma neppure ai creditori.

3. Fallito ed organi nel sistema vigente del fallimento
   Nel sistema della legge fallimentare si pongono, da un lato, il fallito e, dall’altro, gli organi della procedura (tribunale, giudice delegato, curatore e comitato dei creditori). Il primo, insieme al suo patrimonio, è oggetto del fallimento; i secondi ne sono i soggetti attivi, insieme ai creditori.
   Per spiegare la condizione del fallito e le sue incapacità, si parte solitamente dagli statuti medievali, quando il fallito, se fuggitivo, era posto al bando dalla città e, comunque, subiva conseguenze infamanti, nella presunzione che il decoctor fosse, in quanto tale, fraudator, secondo la celebre definizione del giureconsulto Baldo degli Ubaldi a metà del Trecento.
   Rispetto a quella situazione, la condizione del fallito nella legge fallimentare finora vigente sembrerebbe tutto sommato ottimale, con effetti personali e patrimoniali giustificati, anche nella diminutio di diritti costituzionalmente garantiti (elettorato attivo, segretezza della corrispondenza, libertà di movimento), dalla svolgimento della procedura e dall’esigenza di tutelare i creditori, danneggiati dall’insolvenza. Eppure, la Corte di Strasburgo non è stata di questo avviso ed ha ripetutamente giudicato non conforme ai diritti dell’uomo la nostra disciplina del fallimento. Peraltro, le sanzioni personali a carico del fallito hanno perso, nel comune sentire della gente, quel valore di deprecazione, che avevano in passato, restando soltanto un vuoto retaggio.
   Così attualmente, lo stigma di infamia per il fallito è soltanto un dato giuridico – se vogliamo – controproducente per la stessa procedura, in quanto il fallito resta estraniato: egli subisce la procedura, senza parteciparvi; espropriato di tutto il patrimonio e di molti dei suoi diritti personali, il fallito non ha possibilità o, comunque, interesse a collaborare per il migliore soddisfacimento dei creditori.
   Nel contempo, gli organi della procedura, pur nella loro molteplicità, non realizzano forme di composizione e dialogo per la gestione dell’impresa insolvente. Infatti, il curatore ed il comitato dei creditori sono subordinati al giudice delegato e, comunque, all’autorità giudiziaria, che provvede alla loro nomina, in modo assolutamente discrezionale.
   Per il comitato dei creditori si è parlato, all’indomani della legge del 1942, di organo “fantasma” (Antonio Segni) e tuttora si parla di “atrofia” di tale organo (Giovanni Caselli). La figura del curatore non è certo un organo fantasma, eppure non ha dimostrato, in tanti anni di applicazione della legge fallimentare, di essere lo strumento ideale per liquidare nel migliore dei modi il patrimonio del fallito, come rivelano le statistiche dell’ISTAT.
   Il nostro legislatore, nel segno della competitività, ha ora cambiato rotta, innovando, con l’emanando decreto legislativo (il testo, approvato dal Consiglio dei ministri il 23 settembre 2005, è sottoposto alle osservazioni delle Commissioni parlamentare), la disciplina delle procedure concorsuali, in particolare, circa la posizione del fallito, nonché circa il curatore ed il comitato dei creditori.

4. Il sistema di governance per l’impresa fallita
   Anche quando l’impresa è insolvente non cessa di essere impresa e di porre, sia pure per la gestione della procedura fallimentare e della liquidazione del patrimonio aziendale, i problemi usuali delle imprese: come assumere decisioni, regolando i rapporti con i portatori di interessi (stakeholder). Ciò avviene con le modalità di direzione e controllo, previste per il fallimento e che ne costituiscono la governance.
   Nel sistema di governance, disciplinato dalla riforma della legge fallimentare, pur parlandosi degli stessi organi previsti dalla legge del 1942, essi assumono una posizione assai diversa da quella degli attuali organi.
   A mio avviso, però, non è cambiata soltanto la posizione delle varie figure, ma anche la loro qualificazione di organi della procedura.
   In realtà, anche nel vigore della vecchia legge si è dubitato che nel fallimento, essendo privo di una sua soggettività, vi siano organi, in senso tecnico-giuridico, della procedura. Vi sono semplicemente uffici, tra loro correlati e dotati di poteri per la gestione e la liquidazione di un patrimonio altrui.
   A maggior ragione è opportuno non parlare ora di organi della procedura, essendo mutato il quadro di riferimento, soprattutto, nei rapporti tra l’autorità giudiziaria e le altre figure. Più precisamente, il tribunale ed il giudice delegato hanno riacquistato la loro funzione schiettamente giurisdizionale; mentre mi sembra che il curatore ed il comitato dei creditori, oltre ad aver rafforzato la loro autonomia, costituiscano organi, più che della procedura, dell’impresa insolvente, insieme con il fallito (o con gli amministratori della società fallita).
   Fallito, curatore e comitato dei creditori sono allora meccanismi con i quali si esplica il sistema di governance nell’impresa fallita, sotto la vigilanza dell’autorità giudiziaria e secondo le regole fissate nelle nuova legge fallimentare.
   Che genere di governance abbia adottato il decreto legislativo è ancora presto per dirlo; quel che si può fare è esaminare, senza farsi fuorviare dalle precedenti ricostruzioni della materia, le funzioni assegnate a quelle figure.

5. Fine delle sanzioni personali per il fallito
   La legge delega aveva previsto l’eliminazione delle sanzioni personali a carico del fallito (art. 1, 6° comma, n. 4, della legge n. 80/2005).
   In attuazione di tale disposizione l’emanando decreto legislativo:
   – con l’art. 47, ha abrogato l’art. 50 legge fall., che prevede il “pubblico registro dei falliti”;
   – con l’art. 151, ha abrogato le norme che prevedono due specifiche incapacità per il fallito, ossia la perdita dell’elettorato attivo di voto (art. 2 DPR n. 223/1967) e il divieto ad esercitare attività di consulenza in materia di trasporto (art. 3 della legge n. 264/1991).
   La specifica abrogazione delle norme riguardanti queste due incapacità è quanto mai opportuna, se si considera che la prima abrogazione riguarda la perdita di un diritto di rango costituzionale (il diritto di voto nelle elezioni politiche), tale da giustificare una esplicita modificazione della relativa legge (art. 2 della legge n. 223/1967); e la seconda abrogazione riguarda una incapacità disposta prima dell’iscrizione nel registro dei falliti (l’art. 3 della legge n. 264/1991 si riferisce, oltre che al fallito, anche al soggetto, nei cui confronti sia in corso un procedimento per dichiarazione di fallimento).
   Invero, incapacità del fallito sono presenti in tante altre norme. Senza pretesa di completezza, ricordo che il fallito:
   – non può essere nominato tutore, protutore o curatore di incapaci (art. 350, 355 e 393 cod. civ.); amministratore, sindaco di società di capitali (artt. 2382 e 2399 cod. civ.) o rappresentante comune degli obbligazionisti (2417 cod. civ.); arbitro (art. 812 cod. proc. civ.); commissario straordinario nelle amministrazioni straordinarie delle grandi imprese in crisi (art. 38, comma 1-bis, della legge n. 270/1999);
   – non può svolgere la professione di agente e rappresentante di commercio (art. 5 della legge n. 204/1985), o di mediatore di assicurazioni (art. 4 della legge n. 792/1984).
   Altri casi di incapacità per il fallito derivavano dalla perdita dell’elettorato attivo, che impedisce di svolgere molti uffici o professioni (magistrato, giudice di pace, avvocato, notaio, e così via) e che, però, la riforma non prevede più.
   L’aver abrogato soltanto di due ipotesi di incapacità per il fallito (perdita dell’elettorato attivo ed incapacità ad esercitare l’attività di consulente in materia di trasporto), tra le tante previste nel nostro ordinamento, potrebbe significare la sopravvivenza di tutte le altre ipotesi di incapacità.
   D’altro canto, quelle incapacità, secondo la più autorevole dottrina (vedi in particolare Francesco Ferrara), conseguivano non dalla dichiarazione di fallimento, ma dall’iscrizione del fallito nel registro dei falliti; peraltro, il 3° comma dell’art. 50 (di cui la riforma dispone l’abrogazione) disponeva che «finché l’iscrizione non è cancellata, il fallito è soggetto alle incapacità stabilite dalla legge»: la soppressione del registro dei falliti allora potrebbe essere intesa come implicita abrogazione di tutte le incapacità.
   Quest’ultima soluzione sembra preferibile, nel senso che, avendo la legge delega previsto – come già ricordato – l’eliminazione delle sanzioni personali, sembra incongruo pensare che se ne siano volute mantenere tante. Ciò non significa che nessun impedimento incontri il fallito nella sua attività dopo la dichiarazione di fallimento, poiché egli subisce sempre un effetto patrimoniale (perdita della disponibilità dei beni: art 42), tale da precludergli di svolgere le funzioni che richiedano di assumere responsabilità di carattere patrimoniale. Le eventuali preclusioni, però, sono prive di qualsiasi carattere sanzionatorio.
   Così può essere sciolto un piccolo dilemma posto dal nuovo art. 28 circa la nomina di un fallito quale curatore fallimentare, nomina che tuttora deve ritenersi vietata, ancorché non espressamente specificato nella nuova norma.

6. Per il fallito: sistema premiale o di responsabilizzazione?
   Sebbene la riforma non elimini tutte le sanzioni a carico del fallito, la posizione di questo è profondamente mutata, tanto da indurre un autorevole studioso a parlare del fallimento come modello premiale per l’imprenditore insolvente (Guido Rossi).
   Certamente la posizione del fallito è migliorata nella riforma della legge fallimentare, ma di sicuro l’assoggettamento alla procedura non rappresenta per lui un vantaggio, ma un peso. D’altronde, neanche negli ordinamenti, come quello degli USA, in cui la procedura concorsuale non comporta alcuna sanzione giuridica e costituisce perciò semplicemente una protezione contro i creditori, nessuna impresa ne festeggia l’apertura, ma semmai la conclusione, se la stessa impresa riesce a sopravvivervi (vedi le notizie riportate dai giornali americani circa i festeggiamenti, con torta e candeline, di Kmart, terza catena di grandi magazzini negli USA, per la ripresa dell’attività, senza più il controllo dell’autorità giudiziaria, ma con la chiusura di 600 dei 2100 stores).
   La mutata posizione del fallito soddisfa un interesse, non solo del debitore insolvente, ma anche dei suoi creditori. Infatti, la riforma fa chiarezza nei reciproci rapporti tra le parti, nonché rende il fallito partecipe al buon esito della procedura. Naturalmente, parlando di fallito mi riferisco, nelle imprese individuali, al loro titolare e, nelle società, agli amministratori.
   Innanzitutto, sin dall’istruttoria prefallimentare, ora si forma un contraddittorio pieno e si richiede le collaborazione del debitore: non c’è più la dichiarazione di fallimento d’ufficio (nuovo art. 4); ci sono idonei termini a difesa (nuovo art. 13) e c’è l’obbligo di depositare una situazione aggiornata (nuovo art. 15, 4° c.). Dichiarato il fallimento, il fallito deve depositare, oltre alle scritture contabili e fiscali, l’elenco dei creditori (nuovo art. 15).
   Durante il corso della procedura, il fallito, come si è visto prima, non è più soggetto a talune incapacità, né iscritto nel pubblico registro dei falliti (soppresso dall’art. 50); ma gli è attribuita la responsabilità di collaborare alla stessa procedura. Così egli deve trasmettere al curatore la corrispondenza «riguardanti i rapporti compresi nel fallimento» (nuovo art. 45) e, se richiesto, fornire informazioni e chiarimenti al comitato dei creditori (nuovo art. 41), oltre che al curatore (art. 49).
   A fronte degli obblighi di collaborazione, sta il potere-dovere del fallito di accedere alle scritture contabili (nuovo art. 86) ed agli atti del fascicolo fallimentare (tranne la relazione del curatore e gli atti eventualmente secretati: nuovo art. 90). Parimenti, sono stati precisati meglio i poteri del fallito nella formazione dello stato passivo (nuovo art. 95); in particolare, al fallito devono essere notificate le opposizioni e le impugnazioni contro lo stato passivo (nuovo art. 99). Inoltre, il fallito va sentito, quando il fallimento si chiude per la previsione di un insufficiente realizzo dell’attivo, senza effettuare la verifica dei crediti (nuovo art. 102).
   Il fallito ha diritto, altresì, di chiedere al giudice delegato di sospendere per gravi motivi operazioni di vendita di beni, ovvero di impedirne il perfezionamento, se il prezzo offerto è notevolmente inferiore a quello giusto (nuovo art. 108).
   In questo quadro acquista una valenza nuova la possibilità che il curatore, ora espressione del ceto dei creditori (come si dirà tra poco), si avvalga della collaborazione del fallito come coadiutore (art. 28).
In definitiva, il fallito, pur privato del potere di disporre dei propri beni e di amministrare l’impresa, non è più totalmente estraniato da essa; egli è perciò responsabilizzato per collaborare e ricercare modi e forme per riallocare le risorse produttive, a vantaggio dei creditori e, in generale, del mercato. Ciò consente, non solo di considerare il fallito pienamente partecipe circa la sorte della sua impresa, ma anche di riconoscergli poteri che non intacchino il soddisfacimento dei creditori.
   In particolare, se fallita è un’impresa individuale, il titolare può trasferire non soltanto la sua residenza personale (dandone comunicazione al curatore: nuovo art. 49), ma anche la sede dell’impresa, qualora ciò sia funzionale allo svolgimento della procedura e, quindi, con il consenso del curatore.
   Se fallita è una società di capitali, i suoi organi ordinari (assemblea ed amministratori) mantengono importanti poteri, ancorché esercitabili previa approvazione del curatore: trasferimento della sede sociale; trasformazione, fusione o scissione della società; emissione di obbligazioni o di warrant, con effetti dopo la chiusura del fallimento ed al servizio di tale chiusura; e così tutte le operazioni idonee a favorire la liquidazione del patrimonio e la soddisfazione dei creditori, nell’ambito del fallimento o del concordato fallimentare.

7. Funzioni di amministrazione e controllo
   Nella riforma della legge fallimentare, protagonisti della procedura sono il curatore ed il comitato dei creditori; l’uno e l’altro completamente rinnovati, per quanto riguarda, sia il sistema e le modalità della loro nomina, sia i loro compiti e poteri.
   Prima di esaminare partitamente le funzioni attribuite alle due figure dall’emanando decreto legislativo, è opportuno valutarne le rispettive posizioni in quello che ho indicato come sistema di governance dell’impresa fallita.
   Al riguardo, si deve considerare che, secondo la riforma, il giudice delegato non «dirige le operazioni del fallimento» (come previsto, invece, nel vecchio testo dell’art. 25), ma «esercita funzioni di vigilanza e controllo sulla regolarità della procedura» (nuovo art. 25). La funzione di vigilanza, però, è attribuita anche al comitato dei creditori, che «vigila sull’operato del curatore» (nuovo art. 41).
   Se non si vuole negare la significatività delle espressioni utilizzate dall’emanando decreto legislativo, bisogna riconoscere che la funzione di vigilanza e di controllo è esercitata nel fallimento su due livelli: una funzione, di tipo sintetico e globale, attribuita all’autorità giudiziaria sulla legittimità degli atti; l’altra funzione, di tipo analitico, attribuita al comitato sul merito delle singole operazioni.
   L’aver riservato al giudice delegato l’alta vigilanza ed al comitato la vigilanza più puntuale sui singoli atti, porta a riconoscere al curatore la funzione piena di gestione dell’impresa insolvente: infatti, egli «ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite» (nuovo art. 31).
   Più precisamente, alle due figure della procedura fallimentare, il curatore ed il comitato dei creditori, la riforma attribuisce funzioni esclusive, ripartite tra la funzione di amministrazione del curatore e la funzione di controllo del comitato. Non vi è chi non veda come tale ripartizione di funzioni è assimilabile a quella delle società di capitali, secondo il sistema tradizionale, laddove l’amministrazione e la gestione dell’impresa sono riservate agli amministratori ed il controllo al collegio sindacale.

8. Rappresentatività degli organi concorsuali
   Che la governance della nuova legge fallimentare riprenda la impostazione delle società di capitali è confermato dal criterio di diligenza richiesto per l’esercizio di quelle due funzioni nel fallimento.
   Infatti, il curatore ora deve adempiere «ai doveri del proprio ufficio … con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico», espressione che riprende pedissequamente quella dell’art. 2392 cod. civ. per gli amministratori delle società per azioni, imponendo loro una diligenza di tipo professionale. Inoltre, «ai componenti del comitato dei creditori si applica, in quanto compatibile, l’articolo 2407 del codice civile» (nuovo art. 41), riguardante il collegio sindacale nelle società di capitali.
   Si tratta allora di due richiami alle società capitalistiche altamente significativi per ricostruire la governance del fallimento come funzione di amministrazione, esercitata dal curatore, e funzione di controllo, esercitata dal comitato dei creditori. L’una e l’altra funzione implicano una professionalizzazione dell’incarico, con il conseguente maggior rigore in tema di responsabilità, ma anche una valutazione degli interessi, per la cura dei quali quelle funzioni sono esercitate.
   Orbene, se gli interessi da curare sono quelli dei creditori concorsuali ed anche quelli dell’impresa fallita, svanisce l’interesse pubblico, da riconoscere soltanto per l’esistere del sistema delle procedure concorsuali e per l’affidamento di funzioni di alta vigilanza all’autorità giudiziaria. Gli interessi che devono orientare la gestione e del controllo sono interessi assolutamente privati e, più precisamente, particolari: dei creditori e dell’impresa fallita.
   Piuttosto, l’impresa fallita, nel sistema di governance sopra delineato, ha modo di esprimere direttamente, essendo parte della procedura fallimentare e partecipe del suo svolgimento, il proprio interesse. Sono i creditori, invece, che non possono partecipare direttamente alla procedura: ad essi è riconosciuto allora il potere di intervenire nella nomina dell’organo di amministrazione ed in quello di controllo. Pertanto, questi organi, pur curando una pluralità di interessi, sono rappresentativi esclusivamente dei creditori.
   Nello stesso senso si pone la disposizione, secondo cui il presidente del comitato dei creditori è nominato dallo stesso comitato (e non più dal giudice delegato con decisione adottata a maggioranza (nuovo art. 40, 3° comma).

9. Nomina del curatore e del comitato: intervento dei creditori
   Finora la nomina del curatore e del comitato dei creditori apparteneva in via esclusiva alla competenza, rispettivamente, del tribunale e del giudice delegato. Ora è ugualmente prevista la nomina giudiziaria; tuttavia, è riconosciuto alla maggioranza dei creditori di indicare nuovi nominativi, sia per l’incarico di curatore, sia per quelli di componente del comitato.
   Come nel sistema attuale, il curatore è nominato dalla sentenza dichiarativa di fallimento (art. 16) ovvero, in caso di sostituzione o revoca, con decreto dello stesso tribunale (nuovo art. 27). Per il comitato dei creditori, invece, la nomina, rimasta nella competenza del giudice delegato, è anticipata rispetto al sistema attuale; infatti, è previsto che il comitato sia nominato entro 30 giorni dalla dichiarazione di fallimento (nuovo art. 40).
   Un’importante novità della riforma è rappresentata dal nuovo art. 37-bis, secondo cui i creditori, rappresentanti la maggioranza dei crediti insinuati al passivo, nell’adunanza di verifica dei crediti possono:
   a) effettuare nuove designazioni per i componenti del comitato dei creditori;
   b) chiedere la sostituzione del curatore, «indicando al giudice delegato le ragioni della richiesta ed un nuovo nominativo»
   La formulazione legislativa è diversa per la sostituzione del comitato e del curatore: ai creditori è attribuito, nel primo caso, un potere di designazione, senza darne una giustificazione, e, nel secondo caso, un potere propositivo, dandone una giustificazione («indicare le ragioni della richiesta»). Ciò ha fatto pensare ai primi interpreti che i creditori possano sostituire il curatore soltanto per giustificato motivo.
   Certamente è avvertibile nel legislatore delegato maggiore prudenza per la sostituzione del curatore, che per quella dei componenti del comitato, in relazione alla maggiore importanza delle funzioni attribuite al curatore e da questi già esercitate per un periodo fino a 120 giorni (la sentenza dichiarativa di fallimento deve fissare l’adunanza dei creditori entro tale termine: nuovo art. 16, n. 4).
   Tuttavia, le “ragioni della richiesta” non possono essere scambiate con un giustificato motivo o una giusta causa di revoca del curatore. Peraltro, nel sistema finora vigente e che non è modificato sul punto dalla riforma, la revoca può aversi, «su proposta del giudice delegato o su richiesta del comitato dei creditori o d’ufficio» (art. 37, 1° comma), oltre che quando il curatore non svolga diligentemente le sue funzioni, anche per mera opportunità (così Francesco Ferrara; Giovanni Caselli). Se non si vuole porre nel nulla il nuovo art. 37-bis, bisogna ritenere che le “ragioni” da indicare per la sostituzione del curatore possano consistere in una mera opportunità di affidare l’incarico ad altro soggetto, ovvero la divergenza di vedute tra i creditori ed il curatore circa la gestione della procedura (in particolare, per il programma di liquidazione: art. 104-ter). Diversamente, la sostituzione del curatore per determinazione dei creditori sarebbe legittimata soltanto in situazioni più gravi di quelle che giustificano la revoca. In ogni caso, se per la sostituzione del curatore da parte dei creditori fosse necessaria una giustificazione (sindacabile nel merito da parte del tribunale), la nuova disposizione sarebbe del tutto inutile, perché la revoca del curatore era già prevista nella legge fallimentare.
   In definitiva, i creditori devono dare una motivazione alla sostituzione del curatore; ma il tribunale non può sindacare nel merito le ragioni indicate (salvo siano palesemente inconsistenti). In caso di sostituzione, la nuova nomina del curatore è effettuata dal tribunale con decreto.
   Invece, per sostituire i componenti del comitato dei creditori non sembra necessario che questi forniscano una motivazione. La nomina dei nuovi componenti è effettuata dal giudice delegato con decreto.

10. Procedimento per la sostituzione di curatore e comitato
   Il nuovo art. 37-bis non disciplina il procedimento di sostituzione del curatore o dei componenti del comitato. Si deve ritenere perciò che qualunque creditore sia legittimato a chiedere la sostituzione di alcuni o di tutti i componenti del comitato dei creditori, nonché del curatore, proposte che poi il giudice delegato, cui compete presiedere e dirigere l’udienza, dovrà sottoporre al voto dei creditori.
   Come spiegato nella relazione illustrativa all’emanando decreto legislativo, si è voluto – discostandosi un po’ dalla legge delega che rimetteva alla maggioranza dei creditori il potere di confermare o effettuare nuove designazioni – escludere che in sede di verifica si debbano mettere sempre in discussione le nomine del curatore e del comitato dei creditori; in particolare, le nomine dell’autorità giudiziaria non sono provvisorie (così avveniva, invece, nel vigore del codice di commercio), con conseguente pienezza dei poteri in capo ai soggetti nominati, salva la possibilità per i creditori di chiedere la loro sostituzione. Pertanto, il procedimento per la sostituzione deve essere avviato, nell’abito dell’udienza di verifica, soltanto se un creditore lo chieda, proponendo una o più sostituzioni.
   Circa le modalità di votazione, non sembra necessario seguire, in mancanza di una prescrizione legislativa, un metodo collegiale, potendosi raccogliere in qualsiasi modo il voto dei creditori, anche per iscritto o fuori dell’udienza di verifica. È possibile che l’udienza di verifica sia rinviata ad una data successiva per consentire di raccogliere le determinazioni dei creditori, con le modalità stabilite dal giudice delegato.
   Per la formazione della maggioranza (semplice o meglio assoluta, e non qualificata) l’art. 37-bis fa riferimento esclusivamente all’entità dei crediti insinuati; non si richiede perciò una maggioranza per teste, ma solo per ammontare dei crediti, di cui sia chiesta l’ammissione. È previsto soltanto che il giudice delegato possa escludere dal voto i creditori che si trovino in conflitto di interesse (art. 37-bis, ult. comma).
   Essendo richiesta la maggioranza assoluta dei crediti insinuati, è possibile che la decisione di sostituire il curatore o i componenti del comitato sia adottata con l’approvazione soltanto di un numero esiguo di creditori, i quali vantino crediti percentualmente determinanti. Poiché in tale posizione si trovano solitamente le banche o altri enti finanziari, si è criticata la novella, per il potere attribuito ai creditori forti a discapito di quelli minori (Guido Rossi ha parlato di sistema bancocentrico).
   L’alternativa, però, sarebbe quella di richiedere maggioranze molto elevate o l’unanimità, assai difficili o impossibili da raggiungere; ovvero di rimettere la decisione, come previsto nella legge fallimentare finora vigente, all’autorità giudiziaria. Caldeggiare quest’ultima soluzione non significa, però, offrire una maggiore tutela agli interessi dei creditori minori, bensì non tutelare alcuno specifico interesse, come l’esperienza di applicazione della attuale legge insegna.
   Invece, il principio di maggioranza, temperato dalla esclusione dal voto dei creditori in conflitto di interessi, assicura che il curatore ed il comitato dei creditori siano espressione degli interessi prevalenti – nel senso del maggior capitale investito a titolo di credito nell’impresa insolvente – dei creditori.
   La novella parla di nuove designazioni, effettuate dalla maggioranza dei creditori per il loro comitato; mentre parla di nuovo nominativo indicato dalla stessa maggioranza per la sostituzione del curatore. Ci si è chiesto, allora, se, rispettivamente, il giudice delegato ed il tribunale debbano rispettare le determinazioni dei creditori o possano discostarsene. Pur essendo diversa la formulazione normativa, nell’uno e nell’altro caso, ritengo che, in entrambi i casi, la volontà dei creditori debba essere rispettata, salvo che i nominativi indicati non possiedano i requisiti di legge.
   Essendo ripristinata l’autonomia privata circa la nomina del curatore e del comitato dei creditori, tale autonomia non si esaurisce una volta per tutte con la sostituzione – in sede di verifica dei crediti – dei soggetti nominati dall’autorità giudiziaria. Infatti, deve riconoscersi ai creditori la facoltà di procedere a nuove designazioni anche successivamente, per sostituire, sia le nomine giudiziarie, sia le precedenti designazioni degli stessi creditori.
   In ogni caso, il decreto del tribunale che sostituisce il curatore (ovvero che rifiuta di sostituire il curatore) può essere impugnato mediante reclamo alla corte d’appello da parte del fallito, del comitato dei creditori e di chiunque ne abbia interesse (nuovo art. 26).

11. Requisiti per l’incarico di curatore
   Per la nomina nel comitato dei creditori non è previsto alcun requisito professionale; i componenti (3 o 5 componenti) devono essere scelti tra i creditori «in modo da rappresentare in misura equilibrata quantità e qualità dei crediti ed avuto riguardo alla possibilità di soddisfacimento dei crediti stessi» (nuovo art. 40, 2° comma). Ciascun componente, però, può delegare, in tutto o in parte, le sue funzioni a soggetti che possiedano i requisiti per la nomina a curatore (art. 40, 6° comma).
   La novella perciò fissa i requisiti professionali per il curatore (nuovo art. 28), requisiti che poi si estendono anche ai delegati del comitato dei creditori.
   Per meglio apprezzare le innovazioni in tema di requisiti per la nomina a curatore, è opportuno considerare la situazione finora vigente.
   La legge fallimentare del 1942 disponeva, all’art. 27, che il curatore dovesse essere nominato tra gli iscritti al ruolo degli amministratori giudiziari e, in casi eccezionali e motivatamente, tra persone non iscritte in tale ruolo. Nel 1946 il ruolo degli amministratori giudiziari è stato soppresso ed è stato previsto che i curatori dovessero essere scelti tra gli iscritti negli albi degli avvocati e dei procuratori legali, degli esercenti in economia e commercio e dei ragionieri ovvero, per motivi da indicarsi nel provvedimento di nomina, tra professionisti iscritti in altri albi o a persone non iscritte in alcun albo (d. lgs. n. 153/1946).
   La legge fallimentare prevedeva poi, all’art. 28, alcune cause di incompatibilità e di decadenza, tra le quali l’interdizione, l’inabilitazione e l’assoggettamento a fallimento (1° comma), nonché essere coniuge, parente o affine del fallito, suo creditore, aver prestato attività professionale a favore del medesimo o essersi ingerito nell’impresa fallita nei due anni anteriori al fallimento (2° comma).
   La novella ha indicato specifici requisiti professionali per l’incarico di curatore, omettendo le incompatibilità previste dal primo comma della vecchia norma e mantenendo, invece, sostanzialmente le preclusioni del secondo comma, estese a chiunque sia in conflitto di interessi con il fallimento (nuovo secondo comma). Non esiste, però, una preclusione per chi abbia prestato attività professionale a favore del fallito e neppure per chi si sia ingerito nell’impresa fallita: escluso è soltanto chi abbia concorso al dissesto dell’impresa.
   Le funzioni di curatore possono essere attribuite a tre tipologie di soggetti:
   – professionisti singoli, iscritti negli albi di avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e dottori commercialisti (nuovo art. 28, lettera a, prima parte);
   – associazioni professionali e società tra professionisti, che abbiano i soci iscritti nei predetti albi (nuovo art. 28, lettera b);
   – chi abbia svolto funzioni di amministrazione, direzione e controllo in società per azioni (nuovo art. 28, lettera a, seconda parte).
   Nel caso sia nominato curatore uno studio associato o una società fra professionisti, all’atto dell’accettazione dell’incarico, deve essere designata la persona fisica responsabile della procedura.
   Nella nomina a curatore di chi abbia svolto funzioni di amministrazione, direzione e controllo in società per azioni, disposizione che ha suscitato le maggiori critiche (E. Ricci; D. Posca; A. Di Carlo), si richiede che la persona abbia «dato prova di adeguate capacità imprenditoriali» e non sia stato dichiarato fallito negli ultimi dieci anni. Probabilmente, questi ulteriori requisiti appaiono eccessivi e come pure appare eccessivo aver limitato ad amministratori e sindaci di società per azioni l’accesso alle funzioni di curatore, con esclusione di chi abbia svolto le medesime funzioni in altri tipi di società o sia stato imprenditore individuale.
   Tuttavia, il richiedere “adeguate capacità imprenditoriali” non è un non senso (così, invece, A. Di Carlo), siccome la gestione dell’impresa insolvente o la liquidazione delle sue attività necessitano anche di quelle qualità capacità.
   Piuttosto, essendo previste varie tipologie di soggetti, qualificati professionalmente in modo diverso, la scelta compiuta tribunale per la nomina del curatore deve essere giustificata in relazione all’incarico concreto da svolgere. In questa prospettiva l’adeguatezza – rispetto all’impresa fallita – delle capacità possedute dal curatore costituisce il parametro da seguire, onde evitare che la nomina sia arbitraria.
   Ritengo perciò che, come i creditori devono giustificare la sostituzione del curatore, così il tribunale deve motivare le ragioni della scelta tra un professionista individuale, uno studio professionale ovvero un amministratore o sindaco di società per azioni.

12. Nuove prospettive per i professionisti
   La possibilità di nominare come curatore amministratori o sindaci di società per azioni ha sollevato contestazioni, anche dai rappresentanti degli ordini professionali, nel timore che diminuiscano le possibilità di lavoro per i loro iscritti.
   Tale critica risente di interessi meramente corporativi, che non merita seguire, e, soprattutto, è miope, perché non coglie le nuove opportunità aperte per i professionisti dalla riforma della legge fallimentare.
Innanzitutto, la pretesa che curatori siano nominati solo avvocati, dottori commercialisti e ragionieri (come avviene ora; invero la disciplina vigente consente di nominare, sia pure in presenza di particolari motivi, persone non iscritte in alcun albo, come ricordato prima) è assolutamente ingiustificata, specie con riferimento alle nuove competenze attribuite al curatore. Questi, infatti, deve gestire sostanzialmente la riallocazione di un’attività produttiva, compito che sovente non riguarda soltanto la messa in vendita di singoli beni, o di beni in blocco, ma la formazione di rami aziendali e di attività da vendere in blocco, senza dimenticare che, per vendere “attività” bisogna conservarne la continuità con una gestione imprenditoriale. Per questa ragione è stata esclusa la preclusione per chi «in qualunque modo si è ingerito nell’impresa … nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento» (vecchio 2° comma dell’art. 28), preclusione che ora riguarda soltanto «chi ha concorso al dissesto dell’impresa durante i due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento». L’identikit del curatore, secondo la novella, allora comprende perciò a pieno titolo gli amministratori della società fallita (se si tratta di società per azioni), che non abbiano concorso al dissesto.
   Nel contempo, proprio l’esigenza di affidare sovente l’incarico di curatore a figure dotate di capacità imprenditoriali (mi auguro che i tribunali non si arrocchino sulla prassi precedente, con la nomina soltanto di professionisti) richiede la collaborazione di professionisti, che si affianchino o assistano il curatore, come avviene usualmente nelle imprese, soprattutto nei momenti di maggiore complessità dell’agire imprenditoriale. Serve così, ancora di più e non certo di meno, nelle procedure concorsuali il contributo di avvocati, esperti contabili e, in genere, di professionisti, affinché la gestione della procedura sia proficua e conforme alle nuove regole ed ai nuovi compiti del curatore.

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