il diritto commerciale d’oggi
    IV.10 – ottobre 2005

GIURISPRUDENZA

 

CORTE CASSAZIONE, 12 agosto 2005, n. 16874; Carbone Pres. – Criscuolo Est.; Banca Napoli s.p.a. c. Fall. Blue Bay Tours s.r.l.
   

 

Svolgimento del processo: A.F. e C.A. — fideiussori di Blue Bay Tours S.r.l. (d’ora in avanti Blue Bay), società della quale entrambi erano soci e il primo anche amministratore – in data 7 settembre 1990 versarono la somma di £. 60.481.487 sul conto corrente intestato alla medesima società presso il Banco di Napoli, filiale di Sorrento.
Con sentenza del Tribunale di Salerno in data 20-21 maggio 1991 Blue Bay fu dichiarata fallita.
Il curatore del fallimento convenne quindi in giudizio il Banco di Napoli davanti al detto Tribunale, chiedendo la revoca, ai sensi dell’art. 67 della legge fallimentare (d’ora in poi L.F.), del pagamento indicato. Tale domanda fu accolta dal Tribunale adito con sentenza del 18 novembre 1997.
Contro tale sentenza il Banco di Napoli propose appello, deducendo: a) che la pronuncia era viziata da difetto di motivazione sull’esistenza delle condizioni della revoca del pagamento, in quanto la curatela non aveva provato che il detto pagamento fosse avvenuto con denaro della società, essendo inoltre pacifico che il F. e l’A. non avevano esercitato l’azione di rivalsa nei confronti della società stessa; b) che i detti F. e A. erano fideiussori di Blue Bay s.r.l. e il Banco, in data 28 agosto 1989, aveva revocato il fido concesso, ottenendo poi il 22 novembre 1989 decreto ingiuntivo nei loro confronti per il pagamento della somma di £ 47.685.812, decreto in forza del quale aveva iscritto ipoteca su immobili appartenenti ai medesimi fideiussori; c) che costoro avevano effettuato il pagamento al fine di adempiere l’obbligazione di garanzia nei confronti del Banco, onde il pagamento stesso non era riferibile alla società; d) che non era stata provata la conoscenza, da parte dell’accipiens, dello stato d’insolvenza di Blue Bay s.r.l.
L’appellato si costituì per resistere al gravame, del quale chiese il rigetto contestandone la fondatezza. In via gradata spiegò appello incidentale, “tendente a riconoscere l’interposizione fittizia che sarebbe stata posta in essere dai fideiussori paganti” (sentenza impugnata, pag. 11).
La Corte di appello di Salerno, con sentenza depositata il 4 giugno 2001, rigettò l’impugnazione proposta dal Banco di Napoli e condannò l’appellante al pagamento delle spese processuali, dichiarando assorbito l’appello incidentale.
La Corte distrettuale premise che oggetto specifico della controversia era l’esatta qualificazione del versamento effettuato il 7 settembre 1990 ad opera dei fideiussori A.F. e C. A. per l’importo di £. 62.930.000 (debito sostanziale comprensivo di competenze e interessi maturati ma non ancora addebitati, corrispondente al debito contabile di £. 60.481.487) sul conto corrente n. 27/2399, assistito da apertura di credito, intrattenuto dalla società fallita con la filiale di Sorrento del Banco di Napoli.
Osservò, quindi, che si doveva stabilire se tale versamento fosse stato effettuato con finalità meramente solutore (risultando in tal caso suscettibile di revocatoria, come ritenuto dal primo giudice), oppure se fosse stato posto in essere con finalità dirette a ripristinare la provvista, restando perciò non soggetto a revoca.
In questo quadro la Corte di merito — richiamati gli atti che avevano preceduto la dichiarazione di fallimento — affermò di condividere il principio secondo il quale il pagamento effettuato dal terzo garante (nella specie, fideiussore) costituiva adempimento di una obbligazione del garante medesimo e, come tale, erano neutro nei confronti della massa dei creditori “solo quando venga effettuato con denaro del fallito, ovvero, se effettuato con denaro del fallito, non sia seguito dalla rivalsa concretamente posta in opera del pagante prima della dichiarazione di fallimento, all’uopo non essendo sufficiente la semplice dichiarazione o intenzione di volersi rivalere” (sentenza impugnata, pag. 7-8).
Aggiunse, tuttavia, che, come di recente affermato da questa Corte regolatrice, il principio non era applicabile qualora il versamento fosse stato effettuato sul conto corrente del debitore, perché in detta ipotesi nell’operazione si inseriva il diaframma del rapporto di conto corrente nel quale il versamento del terzo rimaneva attratto, venendo a costituire una variazione quantitativa del conto, cioè una posta attiva del correntista, nella cui titolarità l’importo accreditato andava a confluire, con conseguente applicabilità della regola generale che governa la revoca delle rimesse sul conto corrente, indipendentemente dalla causa delle stesse.
La Corte salernitana, dunque, passando all’esame della fattispecie concreta, affermò che la banca era consapevole dello stato d’insolvenza della società; che il versamento eseguito dai due fideiussori aveva natura solutoria, essendo stato effettuato a seguito della pronunzia del decreto ingiuntivo e della successiva iscrizione d’ipoteca in danno dei paganti, i quali, con la predetta operazione, avevano inteso estinguere un debito della società, sicché soltanto in via indiretta il versamento si risolveva a loro beneficio, liberandoli dall’obbligo assunto col contratto di fideiussione (essendo irrilevante stabilire, in questo contesto, se il versamento fosse avvenuto con denaro della fallita o dei fideiussori, punto sul quale nessuna prova in un senso o nell’altro si poteva trarre dai documenti contabili prodotti dall’appellante).
Pertanto, ad avviso della Corte distrettuale si doveva ritenere che il versamento de quo, “in quanto diretto ad eliminare un debito della fallita e non a ripristinare la provvista del conto corrente di corrispondenza n. 27/2399”, fosse lesivo degli interessi e della par condicio dei creditori, sicché, in quanto intervenuto nel periodo sospetto di cui all’art. 67 L.F., doveva essere revocato, con conseguente rigetto dell’impugnazione principale ed assorbimento di quella incidentale.
Avverso la suddetta pronunzia il Banco di Napoli ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un motivo.
Il curatore del fallimento ha resistito con controricorso, col quale ha chiesto il rigetto del ricorso; “solo in via estremamente subordinata” ha chiesto altresì che “in caso di cassazione, venga disposto il rinvio al giudice di merito, onde consentire l’accoglimento della domanda sotto il profilo della dissimulazione della provenienza dall’effettivo autore del versamento e della provenienza del denaro, ovvero ancora l’accoglimento della domanda subordinata circa la revocatoria della quota ideale del versamento impugnato da imputarsi al sig. F.A. in quanto amministratore della società”.
La prima sezione civile di questa Corte cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza depositata il 27 ottobre 2004 ha osservato che l’orientamento della Corte medesima in ordine alla possibilità di esperire l’azione revocatoria di pagamenti eseguiti dal terzo con denaro proprio, e senza che sia intervenuta rivalsa, non è univoco.
In base ad un primo orientamento, se il terzo esegue il pagamento con somme proprie, senza esercitare l’azione di rivalsa prima del fallimento, il pagamento stesso costituirebbe un atto neutro, ininfluente sulla par condicio, perché non idoneo a determinare una riduzione di attivo o un incremento di passivo, in quanto il terzo non potrebbe trovarsi in posizione diversa dall’originario creditore.
Un secondo orientamento ha invece affermato che, quando il pagamento del terzo sia stato eseguito con versamento sul conto corrente del debitore, il principio ora indicato non potrebbe trovare applicazione, perché il versamento stesso sarebbe attratto nel rapporto di conto corrente, nel cui ambito darebbe luogo ad una semplice variazione quantitativa traducendosi in una posta attiva del correntista, come tale rientrante nella sua titolarità e disponibilità.
In presenza del contrasto così prospettato, gli atti sono stati trasmessi al Primo Presidente ai sensi dell’art. 374 c.p.c..
La causa è stata quindi assegnata alle sezioni unite di questa Corte ed è stata chiamata all’odierna udienza di discussione, in vista della quale le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione: 1. Il fallimento resistente adduce l’inammissibilità dell’impugnazione sotto tre profili.
Per un primo aspetto il ricorso sarebbe inammissibile “nella parte in cui sollecita il giudice di legittimità ad effettuare apprezzamenti su situazioni di fatto, rimasti sorretti da valide motivazioni del giudice di merito”. Si tratta però di un’affermazione del tutto generica, in quanto non indica gli apprezzamenti e le situazioni cui intende riferirsi, sicché essa non può trovare ingresso in questa sede.
L’impugnazione sarebbe altresì inammissibile (nonché infondata), “nella parte in cui utilizza frasi estrapolate nel contesto della motivazione della sentenza, per contrapporle al fine di dimostrare l’esistenza di motivazioni contraddittorie, laddove invece la sentenza tale non è”. Anche per questo motivo il carattere totalmente generico dell’assunto rende l’eccezione (in senso lato) inammissibile.
Infine, secondo il resistente “l’unico effettivo motivo di ricorso, quello avverso il rilievo che il versamento effettuato in conto corrente assumerebbe per qualificare il denaro ivi confluito come un bene del correntista, risulta irrilevante ai fini della riforma dell’impugnata sentenza, in quanto la sentenza stessa utilizza — per pervenire alla decisione gravata — un complesso di argomenti, di cui quello censurato è solo una parte, di talché, se anche la censura mossa fosse fondata, non si potrebbe pervenire ad una riforma della sentenza impugnata, giacché la stessa è sorretta da altre motivazioni valide, e comunque non più censurabili (anche per decorrenza dei termini d’impugnazione di cui all’art. 326 c.p.c.)”.
L’eccezione non ha fondamento perché, come emerge dalla normativa che precede, la sentenza impugnata non presenta affatto una pluralità di rationes decidendi, ma è affidata, in adesione ad un orientamento espresso dalla giurisprudenza di questa Corte (v. sentenza impugnata, pag. 8), alla ritenuta natura solutoria del pagamento eseguito dai fideiussori sul conto corrente della società poi fallita, operazione che sarebbe stata posta in essere (con la consapevolezza, da parte del Banco di Napoli, dello stato d’insolvenza in cui la società versava) per eliminare un debito della fallita e non per ripristinare la provvista del conto corrente di corrispondenza, nel periodo sospetto di cui all’art. 67 L.F. e con lesione della par condicio.
Sussiste, dunque, un’unica ratio, sorretta da vari passaggi argomentativi tra loro coordinati, fermo il punto che in questa sede la sentenza impugnata è quella di secondo grado, sulla quale l’esame di conformità a diritto va condotto.
Quanto ad una serie di circostanze di fatto addotte nel controricorso (impossibilità per i creditori di far valere le loro ragioni di credito nei confronti dei signori A. e F. perché essi avrebbero posto l’esistenza del versamento de quo; disponibilità di denaro nelle casse della società; possibilità per il F. di utilizzare quel denaro in quanto amministratore; versamento del denaro in un conto corrente ancora operativo, con conseguente disponibilità da parte della società), si tratta di elementi non valutati dalla sentenza impugnata, perché considerati irrilevanti o assorbiti, sicché non possono assumere rilievo in questa sede di legittimità, restando affidati al giudice dell’eventuale rinvio.
Per concludere sul punto, le eccezioni di inammissibilità del ricorso devono essere respinte.
2. Con l’unico mezzo di cassazione il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 67 della L.F., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo.
La Corte distrettuale avrebbe errato in diritto, perché avrebbe conferito centrale rilievo al punto che il versamento in esame, pur pacificamente proveniente dai fideiussori (cui peraltro incombeva l’obbligo di garanzia in base a decreto ingiuntivo e successiva iscrizione ipotecaria), sarebbe comunque affluito sul conto corrente intestato alla società.
Tuttavia, tale forma di “pagamento indiretto” da parte del fideiussore sarebbe stato considerato da questa Corte del tutto analogo all’ipotesi nella quale lo stesso fideiussore paghi direttamente al creditore.
Richiamato l’orientamento affermato con le sentenze n. 7695 del 1998 e n. 570 del 1999 – secondo cui il principio di autonomia contrattuale consente che il fideiussore di uno scoperto di conto corrente bancario estingua il proprio debito fideiussorio in modo indiretto (ossia mediante accreditamento della somma sul conto perché la banca se ne giovi), anziché in modo diretto (cioè mediante versamento alla banca personalmente)-il ricorrente rileva che la banca che riceve il pagamento del fideiussore non potrebbe fare a meno di annotare l’avvenuto versamento del terzo sul conto corrente del debitore principale, altrimenti il conto resterebbe passivo pure in presenza dell’avvenuto pagamento. Si tratterebbe, dunque, di scritturazione tecnicamente indispensabile e, del resto, l’accreditamento sarebbe atto neutro con valenza meramente contabile, cui non sempre sarebbe sottesa una datio pecuniae effettuata al titolare del conto. Si tratterebbe di verificare la causa dell’accreditamento, che potrebbe anche rispondere, come nella specie, a mere esigenze tecnico-contabili.
All’errore di diritto — prosegue il ricorrente — si sarebbero poi affiancate carenze di motivazione.
Infatti la sentenza impugnata, dopo avere affermato che i fideiussori avrebbero inteso pagare un debito del fallito, sicché soltanto indirettamente il versamento sarebbe ricaduto a loro beneficio, liberandoli dall’obbligo assunto con il contratto di fideiussori, avrebbe ritenuto irrilevante accertare se il passivo conto fosse stato pagato con denaro della fallita o dei fideiussori, per poi concludere che il versamento in esame “in quanto diretto ad eliminare un debito della fallita e non a ripristinare la provvista del conto corrente di corrispondenza 27/2399, lede gli interessi e la par condicio della massa dei creditori”. Si tratterebbe di argomenti incongrui sul piano logico e in violazione dell’art. 67 L.F., perché la Corte di merito dai presupposti affermati avrebbe dovuto trarre la conseguenza che il pagamento eseguito dai fideiussori aveva estinto simultaneamente l’obbligazione principale di Blue Bay e quella accessoria a loro carico.
La motivazione della sentenza impugnata, poi, sarebbe ancora viziata nella parte in cui avrebbe affermato che il pagamento eseguito dal fideiussore costituisce adempimento di un obbligazione del garante ed è, come tale, neutro nei confronti della massa dei creditori “solo quando venga effettuato con denaro non del fallito, ovvero, se effettuato con denaro del fallito, non sia seguito dalla rivalsa concretamente posta in opera dal pagante prima della dichiarazione di fallimento, all’uopo non essendo sufficiente la semplice dichiarazione o intenzione di volersi rivalere”.
Tale passaggio argomentativi non consentirebbe di cogliere il pensiero della Corte di merito perché, se il pagamento è eseguito con denaro del fallito, non sarebbe dato comprendere quale azione di rivalsa potrebbe essere esperita. In ogni caso, sarebbe ius receptum che il pagamento del fideiussore non si sottrae a revocatoria ex art. 67 L.F. solo quando il fideiussore medesimo abbia concretamente esercitato l’azione di rivalsa prima del fallimento (e la relativa prova dovrebbe essere fornita dall’attore).
Tanto premesso in ordine alle censure mosse dal ricorrente, il collegio osserva che la questione sottoposta all’esame delle sezioni unite richiede di accertare se il pagamento effettuato dal fideiussore del fallito mediante rimessa sul conto corrente dell’insolvente — con denaro proprio e senza che prima del fallimento sia stata esercitata l’azione di rivalsa — sia revocabile ex art. 67, comma 2, L.F., anche qualora risulti provata l’assunzione con atto opponibile al curatore del fallimento, dell’obbligazione di garanzia nei confronti della banca.
Così delimitato il tema dell’indagine, si deve rilevare che nella giurisprudenza di questa Corte risulta consolidato l’orientamento secondo cui il pagamento del debito del fallito da parte di un terzo può essere revocato soltanto qualora abbia comportato una lesione della par condicio creditorum, ossia quando il terzo abbia eseguito il pagamento avvalendosi, direttamente o indirettamente, del denaro del fallito, ovvero quando, prima del fallimento il terzo abbia utilmente effettuato la rivalsa (cfr., ex multis e tra le più recenti, Cass., 10 gennaio 2003, n. 142; 16 settembre 2002, n. 13479; 23 novembre 2001, n. 14869; 10 luglio 1999, n. 7275; 22 gennaio 1999, n. 570; 16 novembre 1998, n. 11520; 11 settembre 1998, n. 9018; 13 marzo 1997, n. 2256).
Alla base di tale indirizzo si trova il principio che il solvens — il quale non abbia utilizzato denaro del fallito e non abbia esercitato la rivalsa prima del fallimento — non determina un depauperamento del patrimonio dell’insolvente e non modifica l’ammontare dei crediti concorrenti nella ripartizione, perché, qualora proponga istanza di ammissione al passivo, si insinua al posto dell’originario creditore, per lo stesso importo e nei medesimi diritti, onde rispetto alla massa viene a trovarsi nella stessa situazione dell’accipiens.
In questo quadro si è affermato che la deduzione con la quale il creditore, convenuto in revocatoria, fa valere la provenienza del pagamento dal terzo configura un eccezione in senso proprio e, quindi, egli è tenuto a produrre la relativa prova. Una volta accertato che il pagamento è stato eseguito dal terzo, grava invece sul curatore istante l’onere di provare, anche mediante presunzioni semplici, che la somma è stata fornita dal fallito.
Nell’ambito dell’orientamento ora richiamato — che il collegio condivide ed al quale intende dare continuità — si deve avere per certo che il pagamento effettuato dal fideiussore del fallito con denaro proprio (qualora egli non abbia utilmente esercitato l’azione di rivalsa prima del fallimento) non è revocabile ex art. 67, secondo comma, L.F., in quanto non realizza un depauperamento del patrimonio del fallito e non viola la par condicio creditorum.
Nella giurisprudenza di questa Corte è però insorto un contrasto, sul quale le sezioni unite sono richiamate a pronunziarsi, in relazione al caso in cui il pagamento sia stato eseguito dal fideiussore mediante rimessa sul conto corrente dell’insolvente.
In particolare, si sono manifestati due indirizzi:
a) a)il primo (che risulta prevalente) ha ritenuto che il pagamento, effettuato dal terzo fideiussore con denaro proprio tramite rimessa sul conto corrente intrattenuto dal debitore insolvente con la banca creditrice, costituisce semplice modalità di adempimento dell’obbligazione di garanzia (nascente da contratto di fideiussore opponibile al curatore), e quindi — in assenza di azione di rivalsa — ha applicato i principi affermati in tema di revocabilità del pagamento del terzo (Cass., 22 settembre 2004, n. 18998; 19 novembre 2003, n. 17532; 11 settembre 1998, n. 9018; 6 agosto 1998, n. 7695; 19 gennaio 1998, n. 458; 13 marzo 1997, n. 2256; 29 novembre 1985, n. 5956);
b) b) il secondo, invece, ha affermato che la detta modalità adottata per il pagamento ne giustificherebbe la revoca, anche qualora il terzo abbia effettuato la rimessa con denaro proprio, per adempiere l’obbligazione di garanzia (Cass., 8 aprile 2004, n. 6943; 10 settembre 2002, n. 13159; 16 novembre 1998, n. 11520).
Il primo orientamento, che prende le mosse dalla sentenza n. 5956 del 985, si fonda, per quanto qui rileva, sulle seguenti considerazioni: Il conto corrente bancario di corrispondenza è caratterizzato dall’esplicazione di un servizio di cassa, in relazione ad operazioni di pagamento o di riscossione di somme, da effettuarsi a qualsiasi titolo per conto del cliente. I corrispondenti addebiti ed accrediti sul conto comportano mere operazioni di conguaglio che non possono essere considerate come frutto di compensazione in senso tecnico giuridico, ma costituiscono effetto contabile dell’esercizio del diritto (spettante al correntista) di variare la disponibilità del conto con versamenti e prelievi; con l’ulteriore conseguenza che i versamenti eseguiti nel momento in cui il conto è scoperto, avendo natura di atti solutori (a differenza dei versamenti sul conto coperto, diretti soltanto a formare la provvista per operazioni future), sono soggetti alla revocatoria fallimentare. Tuttavia, qualora un simile versamento sia eseguito dal terzo con allegazione di averlo compiuto a titolo di fideiussione e con impegno a non rivalersi sull’imprenditore poi fallito, tale allegazione equivale a quella di un adempimento di obbligazione di garanzia contratta nei confronti della banca creditrice. In tale ipotesi la somma non è pagata al correntista fallito, né da quest’ultimo alla banca. Dall’allegazione e dall’operazione non deriva un danno alla massa, non essendo lesa la par condicio creditorum e quindi venendo meno il presupposto dell’azione revocatoria fallimentare.
In sintesi, la ratio decidendi sta nella considerazione che la modalità del pagamento non costituisce elemento in grado di giustificarne la soggezione ad una disciplina diversa da quella applicabile al pagamento diretto a mani del creditore, sicché la rimessa non è revocabile se il fideiussore non abbia esercitato il diritto di rivalsa e l’accipiens abbia allegato e provato l’esistenza dell’obbligazione di garanzia in virtù di un contratto munito di data certa (art. 2704 cod. civ.). Quest’ultimo profilo, che pure ha dato luogo ad un ulteriore contrasto, non è peraltro rilevante in questa sede, in quanto nella fattispecie in esame risulta incontroverso che la banca chiese ed ottenne decreto ingiuntivo nei confronti dei fideiussori, sulla base del contratto di garanzia, in data anteriore alla dichiarazione di fallimento.
L’indirizzo ora riassunto trova conferma nella (prevalente) giurisprudenza successiva, nella quale si è posto anche in luce che il principio di autonomia contrattuale con sete che il fideiussore di uno scoperto di conto corrente bancario estingua il proprio debito fideiussorio in modo indiretto (cioè mediante accredito della somma sul conto del fallito), anziché mediante versamento diretto alla banca (Cass., n. 7695 del 1998).
L’indirizzo suddetto, poi, è ribadito anche dopo il manifestarsi dell’orientamento contrario, in replica al quale si afferma che quando il credito della banca è esigibile, la rimessa effettuata dal terzo sul conto corrente del debitore poi è fallito è — ai fini della revocatoria fallimentare — un atto neutro (Cass., n. 13479 del 2002) e si ripete che il principio di autonomia contrattuale consente al fideiussore di uno scoperto di conto corrente di estinguere la propria obbligazione in modo indiretto, ossia mediante accreditamento della somma sul conto del debitore (Cass., n. 18998 del 2004).
Il secondo orientamento, che ha data luogo al contrasto, è espresso dalla sentenza 16 novembre 1998, n. 11520. La pronuncia condivide il principio secondo cui il pagamento del terzo garante costituisce “atto adempitivi di un’obbligazione propria del garante medesimo nei confronti del creditore garantito: obbligazione autonoma ancorché accessoria e di contenuto identico rispetto all’obbligazione principale”; e ribadisce l’esattezza del principio ulteriore (che definisce consolidato) alla stregua del quale i pagamenti eseguiti dal terzo sono revocabili “solo in dipendenza della loro avvenuta effettuazione con denaro dell’imprenditore poi fallito) ovvero a seguito di esercizio della rivalsa da parte del terzo prima della dichiarazione di fallimento”.
Afferma però che tale regola non troverebbe applicazione nella diversa ipotesi di versamento effettuato dal terzo sul c/c del debitore.
In tal caso, infatti, nell’operazione verrebbe ad inserirsi “il diaframma del rapporto di conto corrente, nel quale il versamento del terzo viene attratto, venendo — per effetto di quello — a costituire non altro che una variazione quantitativa del conto, una posta attiva, cioè, del correntista, nella cui titolarità l’importo accreditato viene quindi a confluire”; ciò comporterebbe (salvo patto contrario) che le rimesse del terzo sul conto corrente dell’imprenditore restino equiparate alle rimesse o ai versamenti del correntista medesimo ai fini della revocabilità ex art. 67 L.F., revocabilità che dovrebbe soggiacere alla diversa regola per cui tali versamenti (se eseguiti nel periodo sospetto e in presenza della scientia decoctionis da parte dell’istituto) sono revocabili o meno a seconda che la correlativa funzione possa configurarsi come solutoria ovvero meramente ripristinatoria della provvista.
L’orientamento ora riassunto trova conferma (senza ulteriori argomenti) nella sentenza n. 13159 del 2002 ed è stato poi ribadito dalla sentenza n. 6943 del 2004.
Il collegio ritiene che il contrasto suddetto debba essere composto in senso conforme ai principi affermati dal primo dei citati orientamenti, alla stregua delle considerazioni che seguono.
L’indirizzo sopra riassunto sub d) non mette in discussione il principio secondo cui il pagamento (nel periodo sospetto) di un debito del soggetto poi rivelatosi insolvente, effettuato dal terzo (nella specie, fideiussore) con denaro proprio e senza esercizio di azione di rivalsa prima del fallimento, non è revocabile ex art. 67, comma secondo, della L.F., in quanto non realizza un depauperamento del patrimonio del fallito e non viola la par condicio creditorum; afferma però che quel principio non troverebbe applicazione in caso di versamento effettuato da terzo sul c/c del debitore, perché in tale ipotesi nell’operazione verrebbe ad inserirsi il diaframma del rapporto di conto corrente nel quale il versamento stesso sarebbe attratto, venendo a costituire una variazione quantitativa del conto, una posta attiva (cioè del correntista) nella cui titolarità l’importo accreditato andrebbe quindi a confluire. Con il versamento in conto corrente il terzo porrebbe la somma a disposizione del titolare del conto, sicché soltanto n via mediata la somma stessa risulterebbe poi destinata al pagamento del suo debito.
Essa, invero, trascura di considerare che, nel rapporto fideiussorio (casualmente diretto a rafforzare la tutela dell’interesse del creditore all’attuazione del suo diritto attraverso l’estensione della garanzia patrimoniale ai beni del fideiussore, il quale aggiunge la propria obbligazione accessoria a quella del debitore principale), il fideiussore stesso di regola è obbligato in solido col debitore principale al pagamento del debito (art. 1944, primo comma, cod. civ.) e quindi è titolare passivo di un’obbligazione autonoma propria, ancorché accessoria e di contenuto identico rispetto all’obbligazione principale (come, del resto,anche la sentenza n. 11520 del 1998 conferma).Egli, pertanto, ha un interesse diretto ad adempiere la propria obbligazione di garanzia, allo scopo di evitare le conseguenze cui resterebbe esposto per effetto dell’inadempimento. Ne segue che il pagamento eseguito dal garante al creditore — nel quadro del rapporto di garanzia, con denaro proprio e senza esercizio dell’azione di rivalsa — si riferisce alle posizioni giuridiche di quei soggetti, non incide negativamente sul patrimonio del debitore principale poi fallito e non viola la par condicio creditorum (v. le considerazioni e i richiami sopra svolto).
Queste conclusioni — che non risultano messe in forse dall’indirizzo minoritario — non subiscono modifiche qualora il garante (fideiussore) esegua il pagamento del debito garantito al creditore (banca) non mediante versamento diretto all’istituto bensì tramite rimessa effettuata sul conto corrente del debitore principale poi fallito.
Infatti quella rimessa, in presenza degli elementi sopra indicati, si risolve in una semplice modalità di pagamento che non incide né sulla provenienza della somma versata (dal terzo garante), né sulla causale del pagamento (estinzione dell’obbligazione fideiussoria, in assenza di una diversa imputazione) e neppure sull’ammontare dei crediti concorrenti nella ripartizione dell’attivo a seguito del fallimento del debitore principale, sicché non si configurano differenze sostanziali tra pagamento eseguito dal fideiussore mediante rimessa sul conto corrente del soggetto insolvente e pagamento a mani del creditore.
Il presunto “diaframma” del rapporto di conto corrente, nel quale il versamento del terzo verrebbe attratto, in realtà non è ravvisabile.
Infatti si deve condividere la tesi propugnata dall’orientamento prevalente (v. in particolare, Cass., n. 13479 del 2002) secondo cui il versamento (rimessa) eseguito da un terzo sul conto corrente bancario del debitore poi fallito costituisce ex se un atto neutro, con valenza meramente contabile. Il suo significato giuridico non può essere fissato in modo unitario, ma deve essere valutato alla stregua dei singoli negozi giuridici nei quali di volta in volta trova causa. Pertanto non può affermarsi che, per il solo fatto di essere stata eseguita sul conto corrente del debitore principale fallito, la rimessa operata dal terzo si trasformi in una posta attiva del correntista nella cui titolarità l’importo accreditato viene a confluire, restando così equiparata alle rimesse o ai versamenti del correntista medesimo, ai fini della revocabilità ai sensi dell’art. 67 della L.F. Occorre invece verificare il negozio giuridico nel quale la rimessa trova causa,allo scopo di stabilire se il pagamento sia o meno dovuto, se sia annullabile o revocabile e distinguendo, all’interno delle rimesse, se queste siano riferibili al correntista, al terzo debitore del fallito ovvero al terzo che sia anche debitore della banca.
In altre parole non è sufficiente fermarsi alla modalità formale, in sé neutra, della rimessa, ma è necessario avere riguardo al titolo e alla causa di essa, allo scopo di accertarne le conseguenze giuridiche (tra cui l’eventuale revocabilità).
In questo quadro non vale addurre che con l’accredito della somma versata sul conto il titolare di questo ne acuisce la disponibilità, perché essa è soltanto contabile ed è priva di autonomia rispetto all’estinzione del debito da parte del terzo. Né il disposto dell’art. 1852 cod. civ. potrebbe indurre ad una conclusione diversa. Vero è che, ai sensi di tale norma, nelle operazioni bancarie regolate in conto corrente il correntista può disporre in qualsiasi momento delle somme risultanti a suo credito, salva l’osservanza del termine di preavviso eventualmente pattuito. La norma, però, si riferisce al conto che presenta un saldo a credito; e, pur volendola ritenere applicabile al conto con saldo passivo, il suo effetto sarebbe quello di determinare una riduzione del passivo, ferma restando la necessità d’individuare la causa e il destinatario del pagamento.
Alla stregua delle considerazioni fin qui esposte deve essere affermato il seguente principio di diritto:
“In tema di azione revocatoria fallimentare, le rimesse effettuate dal terzo fideiussore sul conto corrente dell’imprenditore, poi fallito, non sono revocabili ai sensi dell’art. 67, comma secondo, della legge fallimentare, quando risulti che attraverso la rimessa il terzo non ha posto la somma nella disponibilità giuridica e materiale del debitore, ma — senza utilizzare una provvista dello stesso debitore e senza rivalersi nei suoi confronti prima del fallimento — ha adempiuto in qualità di terzo fideiussore l’obbligazione di garanzia nei confronti della banca creditrice”.
La sentenza impugnata si pone in contrasto con tale principio e con le considerazioni che lo sorreggono.
Infatti, essa non pone in forse che il versamento di cui si tratta sia stato effettuato “ad opera dei fideiussori F.A. e A.C. sul conto corrente assistito da apertura di credito intrattenuto dalla società poi fallita con il Banco di Napoli; osserva che il versamento “era stato posto in essere a seguito di decreto ingiuntivo e di accensione di ipoteca a carico dei fideiussori”, ed aggiungere che costoro avevano pagato versando sul detto conto un assegno emesso a loro ordine sul Monte dei Paschi di Siena (sentenza cit., pag. 5-7).
Così ricostruiti i fatti dichiara di aderire all’orientamento qui non condiviso, afferma la natura solutoria del versamento de quo, ed in modo apodittico considera “evidente” che i fideiussori, con la predetta operazione (che pur riconosce essere stata “eseguita sulla scorta della qualifica di garanti ad essi derivante dal contratto di fideiussione in atti, di data anteriore al fallimento e senza dubbio opponibile al curatore terzo”: sentenza cit., pag. 10) avrebbero inteso pagare un debito del fallito (trascurando di considerare che l’estinzione del debito del fallito, in caso di pagamento da parte del fideiussore nel contesto sopra indicato, è un effetto giuridico conseguente al meccanismo dell’obbligazione solidale: artt. 1292-1944, primo comma, cod. civ.), sicché solo indirettamente il versamento stesso sarebbe andato a beneficio dei medesimi fideiussori, liberandoli dall’obbligo assunto con il relativo contratto. In questo quadro ha considerato irrilevante stabilire se la rimessa sia avvenuta con denaro della fallita o dei fideiussori.
Siffatto percorso argomentativi, per le considerazioni sopra svolte, viola l’art. 67, comma secondo, L.F. (nonché la disciplina delle operazioni bancarie in conto corrente) ed incorre anche nei vizi di motivazione insufficiente e contraddittoria denunziati dalla parte ricorrente, perché, mentre non chiarisce le ragioni da cui è stato desunto il convincimento in forza del quale i terzi garanti, pur raggiunti da un decreto ingiuntivo con iscrizione d’ipoteca, avrebbero inteso pagare un debito della società poi fallita e non la loro obbligazione di garanzia, contestualmente afferma che l’operazione sarebbe stata eseguita “sulla scorta della qualifica di garanti ad essi derivante dal contratto di fideiussione in atti”, giungendo poi, in modo dl pari immotivato, a ritenere irrilevante stabilire se il versamento fosse avvenuto con denaro della fallita società o dei fideiussori.
(Omissis)

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