il diritto commerciale d’oggi
    IV.1 – gennaio 2005

GIURISPRUDENZA

 

APPELLO TORINO, 7 maggio 2004 – Gamba Pres. – IntesaBCI s.p.a. c. Spataro
   La capitalizzazione trimestrale degli interessi contrattuali nel conto corrente bancario deve essere considerata legittima e corretta, in quanto tale capitalizzazione configura un uso normativo, essendo stato costantemente applicato per lungo tempo fino alla regolamentazione legislativa introdotta in materia con il D. Lgs. n. 342/99.
   La clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi maturanti sulle aperture di credito in conto corrente non può ricondursi al fenomeno dell’anatocismo degli interessi, poiché l’addebito per interessi operato in sede di chiusura periodica del conto bancario appare una operazione puramente contabile.

 

   Svolgimento del processo – Con atto di citazione dell’8/1/1999 il sig. Spataro Salvatore conveniva in giudizio avanti il Tribunale di Verbania la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde (CARIPLO) proponendo opposizione al decreto ingiuntivo emesso dal Presidente dello stesso tribunale su ricorso della banca opposta per la somma di L. 500.000.000, chiedendone la revoca per non essere dovuta da lui (fideiussore) alcuna somma e in particolare, per essere stati conteggiati interessi non dovuti.
   La banca opposta si costituiva in giudizio contestando le argomentazioni avversarie chiedendo il rigetto dell’opposizione proposta.
   Senza alcuna attività istruttoria (se non quella documentale) il Tribunale di Verbania con sentenza del 13/12/2001 accoglieva l’opposizione proposta disponendo però, la compensazione delle spese di giudizio tra le parti.
   Avverso detta sentenza la Spa IntesaBci Gestione Crediti (succeduta all’originaria banca opposta per intervenute fusioni e incorporazioni) proponeva appello censurandone l’erronea ed omissiva motivazione sulla base della documentazione già prodotta e, comunque, potendosi ovviare alle incertezze ritenute dal giudice di primo grado disponendo c.t.u. contabile.
   L’appellato si costituiva nel giudizio di impugnazione contestando e argomentazioni avversarie e chiedendo l’integrale conferma della sentenza gravata con vittoria delle spese del giudizio d’impugnazione.
   Con ordinanza del 19/2/2002 la Corte dichiarava inammissibile l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza gravata per carenza di interesse a proporre l’istanza.
   All’udienza del 21/5/2002 le parti chiedevano concordemente di fissare udienza per la precisazione delle rispettive conclusioni.
   Adempiuto a detto incombente all’udienza del 22/11/2002 la causa veniva assegnata una prima volta a decisione.
   Con ordinanza del 17/1/2003 la Corte disponeva la rimessione della causa in istruttoria disponendo al contempo c.t.u. contabile con la nomina a consulente del rag. Pietro Savarino, al quale venivano rasseganti i seguenti quesiti: 1) Accerti il c.t.u. se gli interessi contrattuali applicati dall’istituto bancario per il conto corrente n. 1185511 intestato allo Spataro Salvatore abbiano o meno superato la soglia “usuraria” e, in caso positivo, ne determini l’entità; 2) determini il c.t.u. gli interessi contrattuali su tutti i conti correnti intestati allo Spataro secondo il duplice criterio della capitalizzazione trimestrale e senza capitalizzazione trimestrale; 3) determini il c.t.u., conseguentemente, il saldo dovuto alla banca.
   Depositata la relazione di consulenza le parti precisavano nuovamente le rispettive conclusioni all’udienza del 17/2/2004 e quindi, la causa veniva nuovamente assunta a decisione.
   Scaduti i termini concessi per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, la causa viene decisa nei seguenti termini e per i sottoesposti motivi.

   Motivi della decisione. – (Omissis). Venendo all’esame del merito l’appello proposto va accolto in quanto fondato ad eccezione di una ridottissima somma imputabile alla voce interessi di natura usuraria.
Infatti la sentenza emessa dal Giudice di primo grado pecca di eccessivo formalismo e “pigrizia” essendosi limitato lo stesso a rilevare che pur in presenza di una indubbia e rilevante somma capitale dovuta dallo Spataro, l’incertezza su quale dei vari conti correnti di dovessero verificare la correttezza degli interessi applicati gli avrebbe “impedito” di accogliere la domanda di condanna al pagamento.
   In sostanza la Corte ha fatto quello che il giudice di primo grado avrebbe dovuto fare e, cioè, disporre una consulenza contabile al fine di determinare l’entità degli interessi contrattuali applicati dalla banca opposta ed accertare se gli stessi avessero superato la soglia “usuraria” ed in quale misura, nonché di eseguire i conteggi relativi applicando o meno la capitalizzazione trimestrale.
   Orbene, depositata la relazione di consulenza, la Corte rileva che dell’originaria somma pretesa dalla banca opposta (L. 487.575.581 a seguito di correzione apportata dalla stessa banca con conseguente illegittimità del decreto ingiuntivo recante la maggiore somma di L. 500 milioni) devono essere detratte soltanto L. 33.227 in quanto imputabili ad interessi che superavano per il periodo 11.1-20/4/1998 la soglia usuraria sia pure di poco, come si desume dalla relazione di consulenza tecnica del rag. Savarino.
   Infatti si premette come questa Corte abbia adottato l’indirizzo giurisprudenziale (già espresso in varie sentenze di questa Corte) secondo cui la capitalizzazione trimestrale degli interessi contrattuali deve essere considerata legittima e corretta, andando di diverso avviso dalla Corte di Cassazione.
   Non ignora questo Collegio la più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. 17/4/99 n. 3845; Cass. 30/3/99 n. 3096; Cass. 16/3/99 n. 2374; Cass. 1/2/02 n. 1281; Cass. 28/3/02 n. 4490; Cass. 13/6/02 n. 8442) con la quale la Supr. Corte, ponendosi in contrasto con propria precedente consolidata giurisprudenza, ha ritenuto che la clausola in esame sia incompatibile con la norma imperativa di cui all’art. 1283 cod. civ., in quanto non legittimata da usi normativi dovendosi ritenere la prassi in corso, fondata sull’inserimento nei contratti delle norme bancarie uniformi, un semplice uso negoziale. Tale orientamento giurisprudenziale, già autoritativamente superato con l’art. 25 del DPR 4/8/99 n. 342, ha ripreso vigore e sostenibilità, limitatamente ai contratti anteriormente conclusi, in seguito alla pronuncia di illegittimità costituzionale della citata norma nella parte in cui prevedeva la propria retroattiva applicazione (Corte Cost. n. 425/2000). Il caso in esame rientra appunto tra i contratti anteriori, sicché questa Corte è chiamata a prendere posizione sulle menzionate incertezze giurisprudenziali, che vedono tuttora contrapporsi al nuovo indirizzo della Corte del legittimità la diversa opinione di giudizi di merito e fiere critiche della dottrina.
   Ritiene il Collegio, pur dando atto che il nuovo corso, per la reiterazione delle pronunce di legittimità, si avvia a divenire giurisprudenza consolidata, continui a non dare adeguata confutazione ai contrari argomenti sollevati in sede dottrinale e non appaia tuttora persuasivo.
   Esso si fonda sulla distinzione tra usi normativi (connotati dalla costante ripetizione per ampio lasso di tempo di tempo di una certa condotta nella convinzione del rispondere essa e regole giuridicamente vincolanti – c.d. opinio juris ac necessitatis) e usi negoziali (consistenti in comportamenti i quali, sebbene consolidati nel loro utilizzo, avvengano in base ad una formalmente libera determinazione negoziale, come tale priva del connotato della convinzione di necessarietà). Solo gli usi normativi avrebbero valore di norma giuridica, nei limiti consentiti dall’art. 8 disp. prel. cod. civ., avrebbero il potere di sovrapporsi alla disciplina codicistica sull’anatocismo (in particolare al divieto di pattuizione di esso anteriore al sorgere degli interessi da capitalizzare, e alla necessità che si tratti di interessi di almeno un semestre). Il principio è di per sé certamente condivisibile. E tuttavia, in difforme avviso dalla attuale giurisprudenza di legittimità, non pare che le clausole bancarie di capitalizzazione trimestrale consistano in semplici usi negoziali privi del connotato della “opinio iuris ac necessitatis”.
   Giova premettere al riguardo che non vi è motivo per circoscrivere la consuetudine come fonte di diritto all’ambito delle norme imperative; anche norme c.d. permissive, cioè che consentino di derogare a divieti, possono venire ad esistenza attraverso fonte consuetudinaria, come è desumibile proprio dall’art. 1283 cod. civ. il quale, non operando distinzioni, valorizza appunto eventuali norme consuetudinarie (usi) che abbiano l’effetto di modificare, anche in senso permissivo, la disciplina legale dell’anatocismo. In tali casi la “opinio iuris ac necessitatis” deve consistere non tanto nella convinzione del carattere cogente della regola, ma nel convincimento che essa risponda a comportamenti legittimati da norme aventi valore giuridico.
   Ciò posto, l’uso negoziale della capitalizzazione trimestrale, o comunque periodica, degli interessi bancari passivi è fenomeno che è stato costantemente applicato ben prima dell’epoca ritenuta nelle sentenze della Cassazione che hanno inaugurato il nuovo indirizzo, e che può dirsi perdurato, fino all’epoca della regolamentazione legislativa introdotta in materia con il citato D. Lgs. n. 342/99, abbondantemente per oltre un secolo. Tale circostanza, la quale alla stregua del principio “iura novit curia” può prescindere dalle risultanze degli atti di causa, appartiene comunque al notorio ed è stata ampiamente illustrata negli elaborati dottrinali di critica alle menzionate decisioni di legittimità. La consuetudine negoziale in esame, fino alla svolta giurisprudenziale del 1999, è stata inoltre costantemente avallata dalla giurisprudenza di legittimità, che riteneva del tutto legittime le clausole di capitalizzazione. Non si può allora negare che la consuetudine negoziale in esame abbia assunto, proprio anche in conseguenza del menzionato avallo giurisprudenziale fino al 1999, carattere di diritto vivente, venendo utilizzata e rispettata per oltre un secolo nel convincimento di conformità l’ordinamento giuridico. Se è creata cioè nella collettività, per effetto della perdurante normale non contestazione della capitalizzazione trimestrale (nonché del rigetto in sede giudiziale delle eventuali contestazioni insorte), la convinzione che l’impossibilità di fondatamente porre in discussione la detta clausola corrispondesse alla realtà giuridica; col che trapassando l’uso negoziale (in data non precisamente determinabile, ma sicuramente anteriore al 1999), in uso normativo.
   Vi è di più. L’avvenuta introduzione dell’uso negoziale in esame nell’ambito del diritto vivente in un dato momento storico (con conseguente connotazione del carattere della “opinio iuris ac necessitatis” e trapasso da uso negoziale in suo normativo) è stata ufficializzata, e per così dire certificata, dallo stesso legislatore. Si fa riferimento al disposto dell’art. 8 Legge 17/2/1992 n. 154, il quale prevedeva in passato che le banche dessero periodica comunicazione al cliente, oltre che del tasso applicato, della capitalizzazione degli interessi pattuita: dal che si desume essere stata considerata quest’ultima pattuizione come del tutto lecita e inserita nel diritto vivente, tanto da venire regolamentata dalla legge sotto il profilo delle modalità del suo esercizio (e dunque con implicita facoltà di pattuirla anche per periodi inferiori all’anno), preoccupandosi il legislatore unicamente di salvaguardare le esigenze di trasparenza e conoscibilità delle relative condizioni praticate. Non rileva che il citato art. 8 legge n. 154/1992 non trovi più specifica corrispondenza, sul punto, negli attualmente vigenti artt. 117 e 119 del D. Lgs. n. 385/93 (che peraltro neppure lo smentiscono o lo revocano, limitandosi a più generali enunciazioni di “condizioni [di interessi] praticate”); il menzionato riconoscimento legislativo di un uso normativo attinente alla capitalizzazione degli interessi bancari contenuto nel riferito art. 8, non smentito dal nuovo testo unico, ha infatti assunto un valore di ufficiale accertamento avvenuto una volta per tutte, come tale non travolto dalle più generiche espressioni presenti nella sopravvenuta legge bancaria.
   Si ritiene pertanto che, con riferimento all’epoca qui in esame, ricorra un uso normativo, e non semplicemente negoziale, legittimante ai sensi dell’art. 1283 cod. civ. la capitalizzazione trimestrale degli interessi bancari, sicché la relativa clausola, qui in contestazione, appare giuridicamente valida e contabilmente considerabile.
   Al medesimo risultato in ordine alla validità della pattuizione in esame si giunge altresì in base alle seguenti ulteriori considerazioni, da intendersi qui come argomenti di motivazione del tutto autonomi dal precedente.
   È infatti contestabile, a monte, che la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi maturanti sulle aperture di credito in conto corrente debba ricondursi al disposto dell’art. 1283 cod. civ. (anatocismo degli interessi).
   In realtà l’addebito per interessi operato in sede di chiusura periodica del conto bancario appare una operazione puramente contabile, che non incide sulla realtà giuridica sottostante; sotto il profilo propriamente giuridico gli interessi maturanti nel periodo vengono via via estinti (ai sensi dell’art. 1194 cpv. cod. civ.) con le rimesse attive che abbiano movimentato il conto; sebbene tali interessi, al pari del capitale, non siano esigibili in pendenza del rapporto, non si ravvisa motivo per ritenere non pertinente il menzionato art. 1194 cod. civ., la cui applicazione è, per verità, da escludere nel diverso caso in cui il credito per capitale e per interessi non sia liquido (Cass. 26/6/97 n. 5707; Cass. 8/3/88 n. 2352): invero, qualora sia il credito per capitale che quello per interessi siano invece liquidi (come avviene nel corso di svolgimento del rapporto di conto corrente, essendo possibile in qualsiasi momento la loro determinazione attraverso una pura operazione aritmetica di tecnica bancaria) essendo solamente entrambi inesigibili, non vi è motivo per negare che i versamenti, meramente ripristinatori della provvista, eseguiti dal correntista debbano imputarsi, sotto un profilo prettamente giuridico, prima al debito per interessi fino ad allora maturati ed indi al capitale, secondo i dettami di cui all’art. 1194 cit.. Emerge allora evidente che il c.d. addebito per interessi in sede di chiusura periodica del conto è solo espressione di una tecnica contabile non rispondente al fenomeno giuridico: la banca ben potrebbe redigere l’estratto conto imputando le rimesse del cliente anzitutto a decurtazione degli interessi passivi in quel giorno già maturati, con il risultato, il più delle volte, di enunciare un saldo di chiusura come debito unicamente capitale (su cui a buon diritto applicare interessi nel successivo periodo), e tale modo di procedere sarebbe giuridicamente ineccepibile. Il fatto che le banche ritengano contabilmente più chiaro conteggiare sul capitale le variazioni derivanti da rimesse addebitando poi gli interessi scalari in sede di chiusura periodica non incide sulla sostanza giuridica del fenomeno ed impedisce di qualificare come interessi, agli effetti dell’art. 1283 cod. civ., l’addebito per competenze in sede di chiusura periodica.
   Ove si ritenga di affrontare il fenomeno con un differente inquadramento giuridico appare poi condivisibile il seguente ulteriore argomento, già fatto proprio da talune pronunce di merito ed elaborato in sede dottrinale. Si è cioè rilevato che, ove al giorno di chiusura del trimestre il conto presenti occasionalmente un saldo attivo, la detrazione da esso degli interessi passivi maturati nel periodo sarebbe comunque estranea ai divieti dell’art. 1283 cod. civ., non verificandosi capitalizzazione a debito ma soddisfacimento dei detti accessori mediante scomputo dal saldo attivo. Poiché non si vede per quale ragione il meccanismo giuridico di regolazione periodica il conto si presenti occasionalmente attivo, appare corretto ritenere che in ogni caso il fenomeno giuridico sia tale che alla chiusura del conto si verifichi il soddisfacimento, e non la capitalizzazione a debito, degli interessi maturati: ciò avviene, ove il conto sia attivo, mediante decurtazione di essi dal saldo; ove il conto sia passivo, attraverso rimborso con contestuale elargizione di credito da parte della banca per fare fronte a tale adempimento. Tale fenomeno prescinde dalla tematica sulla esigibilità o non del saldo intermedio e sulla applicabilità al conto corrente bancario dell’art. 1823, 2° comma cod. civ. dettato per il conto correte ordinario: la decurtazione o l’addebito degli interessi maturati nel trimestre non costituisce infatti pagamento del saldo del conto o prima rimessa di un nuovo conto; i detti interessi non si identificano invero nel saldo (il quale, come è ovvio, risente di tutta la movimentazione pregressa e, in primis, del debito per capitale), ma rappresentano regolazione, in corso di rapporto e in base a specifica clausola, dell’addebito per interessi passivi; tale regolazione periodica, che è fondata sulle pattuizioni intervenute, è fenomeno diverso dall’anatocismo (il quale riguarda non la data di esigibilità degli interessi, ma il trapassare essi, ove insoluti, in debito per capitale) ed è fondato su una clausola di per sé pienamente lecita. Si ritiene alla stregua di quanto sopra che la annotazione in conto capitale degli interessi maturati sottintenda (là dove il saldo sia passivo o comunque insufficiente, sì che non si possa provvedere semplicemente con decurtazione da un saldo attivo) una operazione di finanziamento specificamente destinata a regolare la pendenza dei detti interessi, la quale operazione di finanziamento, ovviamente, legittima la pretesa di successivi interessi su di essa.
   Ritiene conseguentemente questa Corte la legittimità, anche per l’epoca anteriore all’art. 25, 3° comma DPR 4/8/99 n. 342, delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi sulle aperture di credito bancarie regolate in conto corrente.
(Omissis)

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