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III.9 – settembre 2004 |
GIURISPRUDENZA
TRIBUNALE LATINA, 22 giugno 2004 – Cataldi Pres. e Est. – Bombacci c. Meccano Holding
La clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società e non conforme alle nuove norme inderogabili previste dal d. lgs. n. 5/2003, è nulla dal momento di entrata in vigore di tale decreto (1° gennaio 2004), non essendo applicabile l’ultrattività prevista dall’art. 223-bis disp. attuaz. cod. civ. per le clausole statutarie difformi dalle norme inderogabili contenute nel decreto n. 5/2004.Con citazione notificata il 29.3.2004 alla Meccano Holding s.r.l. F.M. Bombacci, nella qualità di socio detentore del 40% del capitale di quest’ultimo e amministratore della stessa, chiedeva dichiararsi la nullità, o disporsi l’annullamento, delle delibere assembleari, ordinaria e straordinaria, del 13.3.2004 della stessa meccano Holding s.r.l. e delle delibere dei cda della stessa società del 24.3.2004, per i motivi di cui all’atto introduttivo di questo giudizio. La Meccano Holding s.r.l., ritualmente convenuta, si costituiva, resistendo alla domanda. Unitamente al giudizio ordinario, lo stesso attore introduceva procedimento cautelare, con il quale chiedeva la sospensione degli stessi atti sociali impugnati.
Instaurato il contraddittorio con la convenuta, il Giudice designato, con provvedimento del 27.4.2004, dichiarava inammissibile la domanda cautelare e disponeva per la prosecuzione del giudizio di merito con le forme del giudizio abbreviato di cui all’art. 24 d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5. (Omissis)
Preliminarmente, il Collegio ritiene che la causa sia matura per la decisione di merito, come già valutato dal Giudice del cautelare, sentite le parti, che non hanno dissentito. Ancora preliminarmente, il Collegio rileva che la questione relativa all’ammissibilità, o meno, dell’impugnazione delle delibere assembleari prima della loro necessaria iscrizione nel registro delle imprese, che si è posta, in sede cautelare, per il primo giudizio instaurato dell’attore, è assorbita interamente dalla successiva riproposizione dell’identica impugnazione, avverso gli stessi atti e per gli stessi motivi, operata dall’attore dopo tale iscrizione, attraverso la notificazione della seconda impugnazione, perfezionatasi comunque nel termine di cui all’art. 2479-ter, 1° comma, cod. civ. (ed infatti la convenuta non ha eccepito alcuna decadenza). Pertanto, in forza dell’una o dell’altra impugnazione, identiche nel contenuto. Il Collegio deve comunque attingere il merito della lite.
Sempre in via preliminare, il Collegio ritiene altresì che l’eccepito difetto di giurisdizione o di competenza, derivante dalla clausola compromissoria di cui all’art. 24 dello statuto della convenuta, non sussiste, poiché la stessa clausola è nulla per contrasto con la disciplina cogente imposta dall’art. 34, 2° comma, del d. lgs. n. 5/2003, in ordine al potere di nomina degli arbitri, alla quale non è stata uniformata, come prescrive invece l’art. 223-bis disp. att. cod. civ., introdotto dall’art. 9, 2° comma, b) del d. lgs. n. 5/2003.
È vero, peraltro che lo stesso art. 223-bis disp. att. cod. civ. individua il periodo compreso tra il 1° gennaio 2004 e il 30 settembre 2004 per l’adeguamento degli statuti societari, ma deve escludersi che durante tale fase temporale le clausole compromissorie contrastanti con la disciplina inderogabile di cui all’art. 34, 2° comma, d. lgs. n. 5/2003, per quanto interessa ai fini di questo giudizio, possano perpetuare la loro efficacia. A tale conclusione, infatti, non conduce il 5° comma dell’art. 223-bis disp. att. cod. civ., secondo cui le disposizioni statutarie, ancorché non conformi a norme inderogabili della riforma, mantengono efficacia sino al 30 settembre 2004: l’ultrattività è infatti prevista per le disposizioni statutarie che «non sono conformi alle disposizioni inderogabili del presente decreto» e cioè del d. lgs. n. 6 del 2003, mentre nulla è previsto per il caso di non conformità al d. lgs. n. 5 del 2003, sicché è da ritenere che le disposizioni statutarie in contrasto con la nuova disciplina processuale cessino di avere efficacia con l’entrata in vigore di quest’ultima. Deve parimenti escludersi, ad avviso del Giudicante, che la conseguenza del mancato adeguamento di atti costitutivi e statuti, che già contengano clausole compromissorie contrarie alle nuove norme inderogabili, possa esser quella della conservazione delle clausole in questione, previa la sostituzione automatica delle disposizioni patrizie divenute contra legem con quelle di legge, in applicazione della regola contemplata dal 2° comma dell’art. 1419 cod. civ. (in forza del quale le clausole di un contratto contrarie a norme imperative di legge, quali debbono considerarsi le norme in materia di arbitrato, sono da queste ultime sostituite di diritto anche quando il legislatore non abbia espressamente previsto la sostituzione delle clausole e pattuizioni in contrasto con le norme imperative di legge). Infatti il meccanismo conservativo invocato pare non adeguato alla fattispecie oggetto del giudizio, atteso che:
– la sostituzione automatica non sarebbe operata integralmente, essendo solo ipotizzabile che la clausola che continui a prevedere la nomina degli arbitri ad opera delle parti, e non di un soggetto terzo, sia, dal 1° gennaio 2004, ai sensi del 2° comma dell’art. 1409 cod. civ., integrata dal solo ultimo periodo del 2° comma dell’art. 34, il quale stabilisce che, se il terzo estraneo non provveda alla nomina di tutti gli arbitri, la designazione degli stessi va chiesta al Presidente del Tribunale del luogo in cui la società ha sede legale. Quindi non sarebbe applicabile interamente la nuova disciplina legale, ma solo quella parte di essa – il ricorso al Giudice per la nomina degli arbitri – che il legislatore configura come extrema ratio, ma che, per le società inadempienti all’onere di adeguamento della clausola preesistente, diverrebbe la regola, con un capovolgimento della ratio della norma e con la formazione di una nuova disciplina negoziale solo in parte mutuata da quest’ultima (sulla necessità che la sostituzione automatica non possa riguardare soltanto una parte della clausola ed una parte della norma cogente cfr. Cass. 16 febbraio 1983, n. 1184);
– avendo il legislatore configurato una vacatio legis destinata appositamente anche all’adeguamento dei negozi societari alla nuova normativa, l’inerzia delle società preesistenti potrebbe essere sintomatica della consapevole volontà delle stesse di lasciare elidere, per effetto della nuova disciplina cogente, la clausola compromissoria dal proprio ordinamento, alla quale non dovrebbe quindi sovrapporsi necessariamente una sorta di ultrattività della clausola per effetto della sua sostituzione automatica;
– la conservazione della clausola compromissoria non è resa necessaria dal fine di garantire comunque alle parti la produzione o la persistenza di un diritto che le stesse perderebbero altrimenti a causa della nullità radicale della stessa pattuizione: essendo l’arbitrato comunque uno strumento di tutela dei diritti, la sua inoperatività consentirà, ovviamente, comunque di adire la tutela giudiziaria, con garanzie ancora maggiori per gli interessati. Per lo stesso motivo, la nullità della clausola compromissoria inadeguata non comporta la nullità dell’intero negozio societario ai sensi dell’art. 1419, 1° comma, cod. civ., e quindi la sostituzione automatica della disciplina della stessa clausola non è resa necessaria neppure dal fine maggiore di conservare la fonte negoziale della società.
Ancora preliminarmente, riguardo all’eccezione d’inammissibilità sollevata dalla Meccano s.r.l., il Collegio osserva che la circostanza che la delibera impugnata sia stata iscritta nel registro delle imprese a norma dell’art. 2436, 3° e 4° comma, cod. civ., e che contro il decreto del Tribunale non sia stata proposto reclamo, non può costituire certo causa di inammissibilità della successiva impugnazione della medesima delibera, come invoca invece parte convenuta.
Infatti il procedimento ed il provvedimento di cui all’art. 2436, 3° e 4° comma, cod. civ., come da richiamo espresso operato dall’art. 29 del d. lgs. n. 5/2003, appartengono alla volontaria giurisdizione, ed alla specie dei procedimenti camerali nei confronti di una sola parte, rappresentata dalla stessa società istante per l’iscrizione. Pertanto deve escludersi che un provvedimento per sua natura inidoneo all’irrevocabilità, privo dell’istruttoria propria della piena cognizione e, soprattutto, reso all’esito di un procedimento al quale il socio dissenziente rimane estraneo (potendo egli soltanto limitarsi a rendere note al notaio le pretese censure di legittimità del deliberato da iscrivere, sperando che questi le faccia proprie e non proceda all’iscrizione ai sensi dell’art. 2436, 3° comma, cod. civ.), possa precludere al socio dissenziente il diritto di impugnare successivamente la stessa delibera, una volta iscritta ed efficace, come invece espressamente consente, senza riserve di sorta in ordine all’iter pregresso del deliberato assembleare, l’art. 2479-ter cod. civ.
Sempre in sede preliminare, il Collegio rileva che l’eccezione della convenuta, relativa al preteso difetto di legittimazione dell’attore all’impugnazione, per non essere quest’ultimo titolare almeno del 5% del capitale sociale, come aumentato proprio in forza della delibera impugnata, è infondata.
Infatti, l’art. 2479-ter cod. civ., che disciplina, per le s.r.l., l’impugnazione delle decisioni dei soci invalide, nell’ultimo comma richiama l’art. 2377 cod. civ., che disciplina la stessa materia per le s.p.a., non integralmente, ma solo per i commi 1, 5, 7, 8 e 9, escludendo pertanto i commi 3 e 4, che introducono la limitazione alla legittimazione invocata dalla convenuta. Né, peraltro, potrebbe sostenersi che i predetti commi siano invece applicabili alle s.r.l. per effetto del richiamo che lo stesso art. 2479-ter cod. civ., nell’ultimo comma, fa dell’art. 2378 cod. civ., che, a sua volta, nel comma 2 rinvia all’art. 2377. 3° comma, cod. civ., assegnando al ricorrente l’onere di dare prova della propria legittimazione. È infatti da escludersi che un mero, e generico, richiamo indiretto – dall’art. 2479-ter, 4° comma, cod. civ. all’art. 2378 cod. civ., e dal 2° comma di quest’ultimo all’art. 2377, 3° comma, cod. civ. – pertinente all’onus probandi possa prevalere sull’esplicito e specifico richiamo parziale operato dallo stesso art. 2479-ter, 4° comma, cod. civ. ad alcuni soltanto dei commi dell’art. 2377 cod. civ., giacché pare logico che se il legislatore avesse inteso richiamare, in materia di s.r.l., il terzo comma dell’art. 2377 cod. civ., con la relativa limitazione alla legittimazione, lo avrebbe fatto includendo tale comma accanto agli altri che ha espressamente richiamato, e non si sarebbe servito del tramite dell’art. 2378 cod. civ. Quindi la mancata inclusione del 3° comma dell’art. 2377 cod. civ. tra i commi della stessa norma richiamati dall’art. 2479-ter cod. civ. è sintomatica della volontà del legislatore di non porre limiti alla legittimazione del socio impugnante.
Peraltro, se pure non si condividesse tale interpretazione, non si potrebbe non rilevare come il meccanismo invocato dalla convenuta, per cui il socio che impugni una delibera assembleare che determini l’aumento di capitale sarebbe legittimato soltanto se detenesse almeno il 5% del capitale sociale come aumentato dallo stesso atto censurato, finirebbe, nella gran parte dei casi, per vanificare la richiesta di sospensione della stessa delibera, poiché, per impedirne l’efficacia tramite pronuncia giudiziaria, il ricorrente dovrebbe prima darvi esecuzione, sottoscrivendo l’aumento quanto meno sino al limite minimo della propria legittimazione ad impugnare.
Quanto poi alla contestazione che l’attore non abbia dato prova di possedere almeno il 5% del capitale sociale prima dell’aumento impugnato, è sufficiente rimandare ai patti parasociali depositati e sottoscritti dagli unici due soci, che nella premessa riconoscono nello stesso attore il titolare del 40% del capitale totale.
Venendo poi al merito della lite, la fattispecie concreta d’invalidità che in via principale ed assorbente deve considerarsi è quella relativa al preteso difetto di legittimazione del Presidente del Cda della s.r.l. convenuta alla convocazione dell’assemblea, ordinaria e straordinaria, del 12.3.2004, il dato normativo da cui occorre muovere è rappresentato dall’art. 2479-bis, 1° comma, cod. civ., che rimette all’atto costitutivo «i modi di convocazione dell’assemblea dei soci». L’atto costitutivo della s.r.l. convenuta prevede, all’art. 9 che la convocazione sia effettuata «a cura dell’organo amministrativo», che l’art. 13 identifica o in un amministratore unico, o in un Cda composto da tre a sette membri. Pertanto, poiché la forma concretamente assunta dall’organo amministrativo è quella del Cda di tre membri, come non è contestato tra le parti ed è anzi documentalmente provato, è quest’ultimo organo collegiale che è legittimato alla convocazione, e che avrebbe potuto pertanto convocare l’assemblea che ha assunto le deliberazioni impugnate. La volontà dell’organo collegiale, ovviamente, non poteva identificarsi con quella del suo Presidente (che è anche il socio di maggioranza), ma presupponeva una deliberazione votata dalla maggioranza dei membri. Tuttavia, come risulta dal verbale del Cda del 25.2.2004, tale maggioranza non si raggiunse, poiché l’Amministratore delegato, socio di minoranza ed attuale attore, votò a sfavore della relativa proposta, avanzata dal Presidente del Cda, mentre il terzo membro del collegio, avendo fatto pervenire le proprie dimissioni dalla carica, non partecipò affatto alla seduta. Nonostante tate situazione il Presidente del Cda convocò egualmente l’assemblea, i cui deliberati sono pertanto viziati, secondo la tesi attorea, ab origine.
Sostiene tuttavia la convenuta che il Presidente della Cda poteva egualmente convocare l’assemblea in forza dell’art. 2479 cod. civ., che attribuisce ad «uno o più amministratori» il potere di sottoporre all’assemblea argomenti che non sarebbero di competenza di questa in base all’atto costitutivo. La tesi non può essere accolta. Infatti l’art. 2479, 1° comma, cod. civ., disciplina la competenza per materia dell’assemblea, consentendone l’ampliamento, rispetto alle previsioni dell’atto costitutivo, agli amministratori, ma non incide sulle modalità dì convocazione della stessa, che restano disciplinate, ex art. 2479-bis, dallo statuto. Pertanto gli amministratori che volessero sottoporre all’assemblea ulteriori argomenti, dovrebbero comunque attivarne la convocazione nei modi statutari.
Inoltre la formula testuale «uno o più amministratori» è in realtà la riproduzione dell’analoga espressione («uno o più soci» cui è affidata l’amministrazione della s.r.l.), e quindi presuppone che l’affidamento dell’amministrazione a più persone/soci coincida di regola ed a norma del terzo comma dell’art. 2475 cod. civ., con il Cda.
Quindi, per effetto del combinato disposto degli artt. 2479 e 2475 cod. civ., se la società è amministrata da un Cda, è a tale organo collegiale, e non ai singoli membri di questo (privi, in quanto tali, di alcuna autonoma competenza), che spetta anche il potere di ampliare, rispetto all’atto costitutivo, la competenza assembleare a norma dell’art 2479 cod. civ.
Sostiene ancora la convenuta che il Presidente del Cda poteva convocare l’assemblea ai sensi dell’art. 2258, 3° comma, cod. civ., richiamato dall’art. 2475, 3° comma, cod. civ., sussistendo l’urgenza di evitare un danno alla società. La tesi è tuttavia palesemente, contraddetta dal tenore letterale delle norme: l’art. 2258, 3° comma, cod. civ. richiama l’art. 2475 cod. civ. soltanto quando l’amministrazione della s.r.l. sia affidata a più persone congiuntamente, non anche quando, come nel caso di specie, le “più persone” costituiscano, come è la regola, l’unico organo amministrativo collegiale, ovvero il Cda.
Peraltro l’art. 2379 cod. civ., che, nel 3° comma, considera espressamente estranea alla fattispecie della mancata convocazione dell’assemblea dalla s.p.a. l’ipotesi in cui l’avviso provenga da «un componente dell’organo d’amministrazione», non è espressamente richiamato dall’art. 2479-ter, 4° comma, cod. civ., per la s.r.l., per cui deve escludersi l’applicabilità di tale sorta di sanatoria al caso sub iudice.
Infine, il richiamo (peraltro neppure dedotto da parte convenuta tra i motivi di validità della delibera), contenuto nell’art. 9 dello Statuto, all’art. 2366, 3° comma (ora 4) cod. civ., non è rilevante per la decisione della presente controversia, anche a prescindere, dalla sua interpretazione, che pare riferita alle “formalità” della convocazione (forma, termine di consegna e contenuto dell’avviso), ma non al potere di effettuare la convocazione stessa, che di tali formalità è comunque un necessario presupposto.
Infatti, nel caso di specie, non era presente alle sedute assembleari l’intero capitale sociale, essendo assente il socio di minoranza, attuale attore, per cui non sono applicabili né l’art. 2366, 3° comma, cod. civ., né l’art. 2479-bis, ultimo comma.
Escluso pertanto che, il Presidente del Cda, in quanto tale, potesse legittimamente convocare l’assemblea, deve rilevarsi che tale vizio – radicale e non sanato dalla condotta del socio di minoranza, attuale attore, che non comparve nella seduta assembleare ordinaria e straordinaria, e che ha impugnato i relativi deliberati – si riflette inevitabilmente sulla validità della stessa assemblea e delle decisioni che questa assunse il 12.3.2004. Peraltro il vizio procedimentale, motivo di annullabilità (per un precedente specifico v. Cass. 2 agosto 1977, n. 3422), è tanto radicale, per essere a monte di tutte le successive fasi degli atti collegiali censurati, da non rendere opportuno, ed anzi possibile, che il Tribunale in questa sede assegni il termine di cui al secondo periodo del 1° comma dell’art. 2479-ter cod. civ., come richiesto dalla convenuta, poiché tale provvedimento non contribuirebbe a far adottare una nuova decisione esente dalle invalidità denunciate, ma si risolverebbe, nel caso di specie, nell’emissione di un ordine di convocare l’assemblea, rivolto all’organo amministrativo, ovvero in un’ingerenza che sarebbe del tutto eccedente rispetto alla finalità “conservativa” della norma invocata.
Va quindi accolta la domanda di annullamento degli atti societari impugnati. (Omissis)