1. Contrasti interpretativi
Nella recente riforma delle società di capitali una parte non secondaria è rappresentata dalla disciplina processuale (d. lgs. n. 5/2003), che ha introdotto, oltre ad un nuovo rito per il giudizio in materia societaria ed in materie assimilate, anche una regolamentazione per l’arbitrato e per la conciliazione (con gli artt. 34-40), aprendo così nuovi spazi all’autonomia privata nella risoluzione delle controversie.
Il predominio della giustizia statale, spesso inefficiente e soprattutto inadeguata a comporre i conflitti tra imprese, sembra prendersi la rivincita ad opera di taluni interpreti, che, illustrando le nuove norme, finiscono per sterilizzarne la portata innovativa, per motivi diversi, ma convergenti.
Secondo alcuni commentatori, le nuove regole dell’arbitrato societario (in particolare, l’efficacia della clausola compromissoria anche per i soci dissenzienti, salvo il diritto di recesso; nonché la competenza degli arbitri su questioni incidentali attinenti a diritti indisponibili) violerebbero princìpi di rango costituzionale, quali il diritto di tutti ad agire in giudizio davanti agli organi giurisdizionali dello Stato. Secondo altri commentatori, le società non sarebbero obbligate ad adeguare alle nuove regole la clausola compromissoria contenuta nel proprio statuto sociale, avendo la riforma previsto un tipo di arbitrato in aggiunta, ma non in sostituzione di quello previsto dal codice di procedura civile.
Entrambe le tesi sono tanto infondate, quanto pericolose per la diffusione dell’arbitrato in materia societaria.2. Il rispetto dei princìpi costituzionali
Il primo orientamento interpretativo trascura che anche gli arbitri esercitano una funzione giurisdizionale, con pari dignità rispetto alla giustizia statale; e che il deferire le controversie ad arbitri, anziché ai tribunali, con le clausole compromissorie statutarie è una scelta vincolante per tutti i soggetti del rapporto sociale (i soci, vecchi e nuovi; gli amministratori ed i sindaci) in quanto adottata in conformità alle regole del diritto societario e, quindi, nelle società di capitali con il principio maggioritario.
Al riguardo, va considerato che le regole convenzionali di funzionamento della società, contenute nello statuto o nell’atto costitutivo ed approvate in conformità ai criteri di formazione di quella volontà comune, assumono una forza di legge, imponendosi a tutti i soci, ancorché dissenzienti, e, in qualche misura anche dei terzi. Si parla perciò di efficacia reale del contratto sociale e dell’atto costitutivo, per indicare la rilevanza giuridica erga omnes delle disposizioni statutarie e, in generale, dell’assetto societario.
L’efficacia della clausola compromissoria statutaria perciò scaturisce – nel rispetto dei princìpi costituzionali – dalla pubblicità data allo statuto, nei limiti (per i soci, vecchi e nuovi; per gli amministratori ed i sindaci) e con i temperamenti (maggioranza qualificata richiesta per l’introduzione della clausola; diritto di recesso concesso ai soci assenti o dissenzienti) stabiliti dall’art. 34 del d. lgs. n. 5/2003.3. Nullità delle clausole statutarie difformi
Il secondo orientamento, pur apparendo ispirato ad una ampia libertà delle società di scegliere quale forma di arbitrato adottare, in realtà finisce per ostacolare la riforma, facendo perdurare lo stato di totale inoperatività dell’istituto arbitrale in materia societaria. Infatti, non è vero che, in mancanza di un espresso obbligo di adeguamento, le clausole compromissorie statutarie mantengano efficacia anche se difformi dalle prescrizioni del decreto legislativo n. 5/2003 (è questa la tesi sostenuta da Auletta e Zoppini, nell’articolo pubblicato sul Sole-24 Ore del 2 settembre, con il titolo “Doppia chance di arbitrato per le società”); al contrario, una disposizione negoziale, qual è la clausola compromissoria contenuta in uno statuto sociale, è nulla – e perciò inefficace – quando contrasta con una norma inderogabile (ancorché sopravvenuta); né è necessario che la legge stabilisca espressamente un obbligo di adeguamento.
In presenza di una clausola compromissoria statutaria difforme dalle nuove norme inderogabili (in particolare, rispetto alla disposizione che impone – sotto pena di nullità – di attribuire il potere di nomina degli arbitri ad un soggetto estraneo alla società: una disposizione forse eccessivamente drastica, ma funzionale all’arbitrato societario), i soci, se vogliono far decidere le loro controversie in sede arbitrale, devono modificare la clausola; diversamente, questa non potrà più operare, in quanto nulla.
Si tratta di una soluzione che non lascia adito a dubbi, siccome discende dai princìpi generali in tema di contratti ed atti giuridici. Sostenere il contrario significa allora indurre le società a restare inerti, omettendo di avvalersi delle agevolazioni previste per il periodo transitorio, con la conseguenza che poi, al momento di introdurre l’arbitrato per una lite insorta, si accerterà la nullità della clausola compromissoria.
4. Un termine per l’adeguamento dello statuto
L’unico dubbio può riguardare il momento, a partire dal quale le clausole compromissorie statutarie difformi dalle nuove norme perdono efficacia. Poiché il decreto processuale (d lgs. n. 5/2003) non ha introdotto per le clausole compromissorie una disposizione analoga a quella del d. lgs. n. 6/2003 (artt. 223-bis e 223-duodecies, secondo cui le clausole statutarie difformi dalle nuove norme inderogabili mantengono efficacia fino alla scadenza del periodo transitorio), è stato sostenuto che la nullità di quelle clausole è già operante dal 1° gennaio 2004, ossia dalla data di entrata in vigore della riforma (così si è espressa una sentenza del Tribunale di Latina, 22 giugno 2004). Tuttavia, è possibile accedere ad una soluzione più favorevole per le società, con la sopravvivenza della clausola compromissoria durante il periodo transitorio (fino al 30 settembre per le società di capitali e fino al 31 dicembre 2004 per le società cooperative).
Al riguardo si deve considerare che anche per le clausole compromissorie statutarie è stato previsto un adeguamento agevolato (ossia senza l’applicazione dell’art. 34, 6° comma, del d. lgs. n. 5/2003, che richiede un quorum qualificato e concede ai soci dissenzienti il diritto di recesso), con riferimento proprio agli artt 222-bis e 223-duodecies. In questa prospettiva, la previsione di un lasso temporale per l’adeguamento dello statuto circa le clausole compromissorie non può non significare che sia voluto implicitamente mantenere operanti, fino alla scadenza di quel termine, le clausole compromissorie statutarie, ancorché in contrasto con le nuove norme del d. lgs. n. 5/2003.
È opportuno perciò sollecitare gli amministratori delle società a mettere tempestivamente all’ordine del giorno delle assemblee convocate per l’adeguamento statutario, non solo le modificazioni richieste dalle norme sostanziali, ma anche quelle richieste dalle nuove norme in tema di arbitrato. Con l’occasione, sarebbe consigliabile introdurre nello statuto una clausola di conciliazione (disciplinata dagli artt. 38-40 del d. lgs. n. 5/2003), al fine di tentare di risolvere le controversie sociali, prima di ricorrere ad un giudice (arbitrale o ordinario), in modo amichevole e non conflittuale, nonché soprattutto con costi assai contenuti.
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