il diritto commerciale d’oggi
    III.4 – aprile 2004
GIURISPRUDENZA

APPELLO FIRENZE, 28 gennaio 2004 – Est. Occhipinti – Banca Popolare dell’Etruria coop. a r.l. c. Fall. In Carta di Morandi T. & C. s.a.s.
   In presenza di un conto corrente bancario assistito da affidamento, sono revocabili i versamenti effettuati sul conto, per l’importo corrispondente alla differenza fra il limite estremo del saldo passivo raggiunto dal correntista e tollerato dalla banca ed il saldo finale del conto.
   Circa requisito della scientia decoctionis richiesto per la revocatoria fallimentare, costituiscono indizi gravi e concordanti della conoscenza della banca la riduzione di capitale per perdite della società cliente, i decreti ingiuntivi emessi a carico di quest’ultima e non opposti, nonché i procedimenti esecutivi avviati in un contesto socio-economico di piccole dimensioni.


     Svolgimento del processo – Con sentenza del 28.1.2002 il Tribunale di Pistoia, in accoglimento della domanda di revocatoria fallimentare proposta dalla Curatela del fallimento della In Carta di Morandi Tullio & C. s.a.s., dichiarava inefficaci i versamenti effettuati dalla fallita dal 3.5.1996 al 19.9.1996 nel suo conto corrente intrattenuto presso la Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, per un ammontare complessivo di lire 387.169.839. Condannava la Banca convenuta al pagamento delle spese processuali.
     Avverso tale sentenza proponeva appello la Banca suddetta, contestando, da un lato, la sussistenza del presupposto soggettivo della conoscenza, da parte di essa, dello stato d’insolvenza della cliente, e lamentando, dall’altro lato, l’errore in cui sarebbe incorso il Tribunale nella determinazione del limite del fido concesso alla cliente, in rapporto al quale sarebbe dato stabilire, secondo la giurisprudenza corrente, il carattere solutorio o meno dei singoli versamenti (solutorio, se il versamento avviene quando lo scoperto del conto supera il limite del fido; ripristinatorio della provvista, se il versamento avviene, invece, quando lo scoperto è al di sotto di tale fido). In particolare, deduceva che il primo giudice aveva determinato in lire 40 milioni tale limite, trascurando l’esistenza contrattuale di un ulteriore affidamento di lire 60 milioni, garantito da pegno. Inoltre, si doleva che la relazione di consulenza tecnica d’ufficio, sulla quale il Tribunale aveva basato la sua decisione, malgrado avesse enunciato di volersi attenere, nella ricostruzione dell’andamento del conto corrente, al criterio c.d. “del saldo disponibile di fine giornata”, ossia di quel criterio che fa dipendere il carattere, ripristinatorio o solutorio della rimessa dalla verifica se, al termine della giornata in cui il versamento è avvenuto, nel conto corrente esistesse, o meno, a favore del correntista, una effettiva disponibilità di denaro, di fatto aveva operato in modo diverso. Inoltre, sempre secondo l’appellante, non si era tenuto conto delle c.d. partite bilanciate, ossia di quei versamenti solo apparenti, non aventi la funzione di ridurre l’esposizione debitoria del correntista verso la banca, ma di consentire allo stesso un impiego pressoché immediato, se non addirittura contestuale, della medesima somma, attraverso un’operazione di segno contrario.
     Resisteva al gravame la Curatela del fallimento e, a sua volta, proponeva appello incidentale deducendo che neanche il minor limite di fido, pari a lire 40 milioni, supposto dal primo giudice, poteva ritenersi esistente, “perché la banca non ha provato con forma scritta l’esistenza dei contratti di apertura di credito”, con la conseguenza che si sarebbero dovute revocare, praticamente, tutte le operazioni di versamento eseguite dalla cliente in prossimità del fallimento. Inoltre, deduceva l’errore materiale in cui era incorso il primo giudice in seno al dispositivo della sentenza nella conversione aritmetica del dovuto da lire in euro.
     La Corte poneva in decisione la causa sulle conclusioni sopra trascritte.

     Motivi della decisione – Si chiama antonomasia quel traslato letterario con il quale, a furia di chiamare qualcuno o qualcosa con un nome che non è il suo, questo diventa il nome vero; e possibilmente l’interessato, che venga chiamato con il suo nome originale, neanche risponde. Antonomasia può anche essere l’esclamazione di uno che, dimenticandosi di avere la parrucca, se ne esca con espressioni del tipo: “Mi si rizzarono i capelli in testa”. Ora, l’antonomasia esiste anche in diritto, e non soltanto sul piano terminologico, ma anche su quello concettuale, per cui l’espressione giurisprudenziale di un concetto, consolidandosi poco per volta sulla base di modi terminologici suoi propri, riferimenti convenzionali o di altro genere a termini e concetti collegati, può finire col tempo per significare qualcosa di diverso, o perfino di opposto, a quello che voleva esprimere in partenza. E ciò che, in materia di revocatoria fallimentare, è accaduto dei versamenti in conto corrente rispetto ai pagamenti di debiti liquidi ed esigibili di cui parla l’art. 67 della legge fallimentare. Non è cha la legge dica: “Sono revocabili i versamenti nel conto corrente quando…”; la legge dice all’art. 65, e poi all’art. 67, che sono privi di effetto “rispetto ai creditori” del fallito, i pagamenti che questo, prima di fallire, abbia fatto ad altri creditori. In altre parole, non si vuole (ecco la ratio) che fra i vari creditori si soddisfi chi ci arriva prima, e gli altri restino gabbati. Per cui, se uno si fa dare dieci milioni da una banca, e glieli restituisce, a poco a poco o in una sola volta, nel periodo antecedente al suo fallimento, gli altri creditori hanno ragione di protestare che ciò non vale, rispetto a loro, e pretendere che la banca rimetta i soldi nel calderone comune, perché, tutti assieme, si rifaccia il conto.
     Chiarita – se bisogno ce n’era – questa premessa, non si vede come non possa essere, di conseguenza, chiara la soluzione della seguente ipotesi, che altro non è che, esemplificato all’osso, il caso del presente contendere e di altri ripetutisi all’identico modo nella giurisprudenza degli ultimi anni: uno ha un conto corrente bancario con affidamento a zero lire e saldo perfettamente in pareggio; preleva, o comunque riesce a prelevare un milione di lire, che rimette nel conto a distanza di un anno, il giorno prima di essere dichiarato fallito; la curatela fallimentare chiederà, ovviamente, alla banca di restituire questo milione, ai sensi dell’art. 67 della legge fall. Poniamo ora, invece, che la stessa persona, avendo bisogno di quel milione non continuativamente, ma a fasi alterne, ovvero essendo miserabilmente spilorcia e timorosa degl’interessi, appena può lo riporta in banca per riprenderselo l’indomani, e così di seguito fino al fallimento. Quale dei due comportamenti è quello che ha arrecato meno danno alla par condicio creditorum? Non c’è dubbio che sia il secondo, quanto meno perché dovrebbe aver prodotto un gettito d’interessi minore, mentre il capitale prestato un milione era ed un milione è rimasto, perché di tanto quello aveva bisogno. Eppure, esiste giurisprudenza che in un caso di questo genere avrebbe condannato la banca a pagare, anzi a restituire, alla curatela 365 milioni, uno per ogni versamento (facciamo astrazione dai giorni festivi), più gl’interessi corrispondenti, quasi che il nostro amico, a furia di andare e tornare dalla banca, ne avesse praticamente svuotato le casse e, bontà sua, avesse avuto anche la capacità di rimborsarla! Che manna, per gli altri creditori, e che bella par condicio! Sembrerebbe una facezia, se non fosse che fra questa giurisprudenza c’è anche la sentenza oggi appellata. Che non è la sola, fra le tante a memoria di questa stessa corte fiorentina, la quale non avrà forse dimenticato del tutto la sua sentenza del 3.11.1999, confermata da Cass. 1.10.2002 n. 14087 (erano 600 e passa milioni di revocato, nel 1984), che fu, per il Monte dei Paschi di Siena, una bella batosta.
     Nel caso presente è accaduto che la società, poi fallita, lavorava pressoché quotidianamente, e qualche volta ripetutamente nello stesso giorno, con un conto corrente continuamente altalenante attorno ad un saldo passivo medio di circa 100 milioni di lire, ora in ascesa, ora in discesa a seconda dell’operazione di volta in volta compiuta. Qualche esempio (si guardi all’allegato 6 della relazione di consulenza tecnica): l’1.4.1996 il cliente (la società), che già si trovava con un saldo a debito di 99 milioni, versa un assegno fuori piazza di lire 10.000.000, che gli viene contabilizzato con valuta al 4.4 1996, e il saldo scende a –89; lo stesso 4.4.1996 arrivano in banca cinque assegni di diverso importo da lui emessi, con valuta retrodatata di qualche giorno, cosicchè il saldo se ne sale a –129; l’indomani, cioè il 5, arriva un altro assegno fuori piazza e il saldo scende a –125; e così su e giù, su e giù tutti i giorni fino al fallimento, per un volume complessivo, in meno di undici mesi, di circa mezzo miliardo di lire in uscita dal conto, ed altrettanto circa (70 milioni in più) in entrata, ma che avrebbe potuto anche essere due, tre volte o cento volte tanto, a seconda della frequenza delle operazioni, fermo restando il rapporto di saldo fra dare e avere. Ora, l’assunto da cui muove la sentenza impugnata, sulla scorta di un certo supporto giurisprudenziale, e su cui insiste la curatela appellata, è che tutte queste operazioni di conto corrente – perché, si voglia o no, siamo dentro la dinamica tipica e la esteriorità documentale, fatta di assegni, estratti, commissioni e via dicendo, del conto corrente – se non sono assistite da un fido (poi vedremo quando si è in presenza di un fido) – o nei limiti in cui non lo sono, si devono considerare alla stregua di autonome anticipazioni di denaro, e relativi rimborsi, cioè di singole operazioni di prestito a tempo indeterminato e corrispondenti estinzioni, accidentalmente contabilizzate dentro il conto corrente: prestito l’emissione di un assegno, estinzione il versamento di un contante o di un assegno altrui; ogni operazione di segno – è un prestito, ogni operazione di segno + il relativo pagamento: basta sommare tutti i – e tutti i + e sappiamo, secondo il primo ed altri giudici quanti soldi la banca ha prestato e quanti il cliente ne ha restituiti. E la frittata è fatta, esattamente come nel bizzarro esempio che abbiamo disegnato più sopra, mutatis mutandis, e cioè mutato il solo volume delle singole operazioni, che là era un milione, e qua solitamente di più, ma qualche volta anche di meno. Il risultato è gemellare, perché, a fronte di una disponibilità reale di qualche decina di milioni di lire, anche in questo caso ci si trova a dovere sostenere per vero il colossale paradosso che in pochi mesi l’appellante abbia prestato alla sua cliente oltre mezzo miliardo di lire e che questa gliene abbia restituito addirittura di più, valori di origine esclusivamente meccanica, come in una slot-machine, a seconda della velocità di rotazione dei dati numerici. E’ evidente che sono già valori saliti alle stelle senza alcun riferimento con l’entità della somma che la cliente effettivamente ha avuto a portata di mano, e che sarebbero potuti salire ancora più in alto, fino all’inimmaginabile, se essa, manovrando sempre quella stessa somma che la banca almeno di fatto le consentiva, avesse soltanto intensificato la frequenza delle singole operazioni, mentre, al contrario, sarebbe bastato, per farli scendere, fare lavorare di più le tasche della giacca, una per prendere e l’altra per dare, facendo ristagnare più a lungo i saldi negativi del conto corrente bancario: per la banca, come per i futuri pretendenti della par condicio, sarebbe stata la stessa cosa, salvo la differenza di qualche lire d’interesse. Allo stesso modo se, per avventura, nei conteggi del c.t.u. fosse entrato l’intero anno antecedente alla dichiarazione di fallimento, e se la fallita avesse fatto girare di più quelle decine di milioni di spazio che le erano concesse, la vera fallita sarebbe oggi la banca stessa.
Il perché si sia giunti ad una tale deformazione del concetto di pagamento di un debito di cui parla l’art. 67 – l’antonomasia di cui si diceva sopra – si scorge nelle affannose e mai concordanti elucubrazioni giurisprudenziali sui meccanismi di funzionamento dei conti correnti, sulle connotazioni identificative dello stesso contratto e nei tentativi di districarsi in quel tecnicismo bancario da linguaggio cifrato, che sembra nascondere il malevolo intento di fare inciampare proprio il giudice; senza più rendersi conto che ciò che serve conoscere è semplicemente se sia stata violata o meno la par condicio dei creditori, e cioè se la banca, rispetto a loro, ed anzi a loro danno, abbia tratto un vantaggio dal rapporto con il cliente, e di che entità. Ed è tale il capovolgimento logico del problema, che la sussistenza stessa dell’alterazione della par condicio, ossia del danno per i creditori, si trova a non dover più dipendere da un fatto sostanziale, quale sarebbe l’effettivo rapporto fra approvvigionamento bancario e restituzioni, ma da componenti meramente teoriche ed interpretative del tecnicismo del conto corrente: in sostanza, il flusso del denaro che va e viene fra la banca e il cliente è quello che è, cambia la maniera di contarlo. Eppure tutto ciò è il risultato deformante di un principio che, nella sua formulazione originaria, e come ritorna talvolta in occasioni giurisprudenziali anche recenti (vedasi, ad esempio, il caso di Cass. 1.9.2002 n. 13143, in cui la revocatoria era collegata ad una solitaria operazione di sconfinamento mediante un assegno di 25 milioni fuori provvista, a fronte del quale il traente si era affrettato ad eseguire delle rimesse), corrisponde ad una logica elementare, che è quella per la quale il versamento fatto per ripianare una situazione di abuso del conto corrente - il quale abuso in definitiva dà luogo, nei confronti della banca, ad un illecito contrattuale - e per estinguere la corrispondente pretesa creditoria, costituisce ad ogni effetto atto di pagamento. Il discorso si complica, e nel contempo si allontana dal principio, quando il versamento non viene fatto in questo spirito, diciamo, riparatore, ma semplicemente nell’ambito di quella comodità pratica, propria del conto corrente, di prendere e posare a mano a mano che serve, senza i rischi che comporterebbe il tenere il denaro in casa o lo spenderlo a borsa sonante, e nella consapevolezza – vedremo da che cosa essa è desumibile – che in ogni momento si potrà tornare a disporre di quella somma appena versata. In sostanza, non è un do quia dedisti, ma il do ut des del conto corrente, che continua a sviluppare il suo ruolo fra le parti.
     A questo punto, la stessa giurisprudenza non poteva non avvertire il disagio di esiti talvolta palesemente iniqui (in dottrina non si è mancato di definire, proprio a causa di tale problema, il nostro sistema bancario come un canale privilegiato di finanziamento delle procedure fallimentari) ed ha cominciato a studiare dei temperamenti al proprio ragionamento: è così che è venuto fuori l’equivoco concetto delle partite bilanciate, cioè di quelle operazioni apparentemente attive del correntista, che in realtà attive non sono, perché servono ad equilibrare operazioni di senso contrario, cioè delle spese: in altre parole il correntista con una mano dà e con l’altra prende, come se dicesse alla banca: “Bada che questi soldi che ti sto dando non sono tuoi, anzi forse neppure miei, perché si devono considerare come già spesi; considerali come versamenti ad hoc”, dove l’hoc è un certo nesso teleologico (così Tribunale Milano, 9.3.1999, in Foro It. 1999, I, 2682, che fa seguito alla iniziale decisione dell’11.10.1994 del medesimo giudice, la quale sembra essere stata la prima a porre il problema delle operazioni bilanciate; nella stessa linea Appello Roma 1.4.1997, in Corr. Giur., 1998, n. 1077, Tribunale Torino, 22.6.2000, in Fallimento, 2001, 691, Tribunale Venezia, 4.1.2002, e, per quanto riguarda la Cassazione, la sentenza 26.1.1999 n. 686) che si viene a creare fra la provvista ed un determinato prelievo; onde si parla, appunto, di partite o operazioni bilanciate. E qui già si vede, in tutta la sua dimensione, l’equivoco, perché ci si dimentica che il conto corrente è esso stesso una bilancia, un altalenare (teoricamente) continuo fra operazioni collegate da un nesso teleologico permanente, perché ogni versamento prelude sempre ad una spesa, da fare o già fatta, onde non si capisce come la singola partita bilanciata si possa distinguere nel bilanciamento proprio dell’intero conto. Se oggi faccio un versamento, come si fa a stabilire se esso serve a bilanciare il bonifico che ordinerò domani o l’assegno fuori piazza che ho rilasciato ieri? A quale delle due soluzioni può portare la prova logica che, secondo il Tribunale di Milano, serve a riconoscere il nesso teleologico del bilanciamento (tralasciando di chiedersi quali, per converso, sarebbero nel nostro ordinamento le prove non logiche)? Si è cercato, allora, un affinamento di quel concetto di nesso teleologico di cui ha parlato il Tribunale di Milano, attraverso il requisito della contestualità delle operazioni bilanciate (in questo senso sembra muoversi Cass. 26.1.1999 n. 686), che è un’idea del tutto evanescente, sia perché non è dato capire come un versamento ed un prelevamento possano risultare contestuali, e sia perché non si capisce neppure se questa contestualità debba essere intesa in senso cronologico, che vuol dire contabile (le due operazioni contrapposte dovrebbero, cioè, avvenire almeno contemporaneamente) o secondo le funzione tecnica del c.d. saldo disponibile, che quasi sempre, nel tecnicismo bancario, comporta una discrasia cronologica fra il momento negoziale ed il suo effetto sulla provvista del correntista. Se il correntista rilascia un assegno scoperto (era il problema in cui s’imbattè Cass. 1.9.2002 n. 13143) e contemporaneamente ne versa uno avuto da altri, si può dire che questo versamento sia contestuale al rilascio dell’assegno – una partita bilanciata, come si dice – o sia, invece, un pagamento bello e buono di un debito contratto dal cliente verso la banca attraverso l’emissione di quell’assegno fuori provvista, e che incorra perciò nella revocabilità? E che ne è della contestualità se, invece, l’assegno del terzo viene versato in conto il giorno prima? Oppure due giorni prima? Oppure una settimana? (detto per inciso, giacchè non è questo il punto che stiamo trattando in questo momento, la Cassazione fece dipendere la revocabilità di quel versamento, e quindi sostanzialmente la supposizione di una violazione della par condicio dei creditori concorsuali, non da un oggettivo spostamento di ricchezza dal correntista alla sua banca e nemmeno da un suo soggettivo atteggiamento circa la funzione economica del proprio operato, ma semplicemente da un meccanismo contabile rimesso unicamente alla discrezionalità della banca, e che con la par condicio non ha niente a che fare, ossia l’individuazione del momento in cui, per la banca, la somma portata da quell’assegno estraneo si poteva considerare a disposizione del cliente, con la conseguenza di determinarne la revocabilità a seconda che questo momento fosse risultato, anche di una frazione di secondo, anteriore o posteriore all’emissione dell’assegno da parte del cliente. Ma, tralasciando di dire che, peraltro, ogni banca ha un suo modo di operare, ci si torna a domandare se il senso dell’art. 67 della legge fallimentare stia davvero in queste sortite da slot-machine).
     A prescindere dal problema della partite bilanciate, di cui si è appena detto, e che tradisce manifestamente quanto la stessa giurisprudenza sia insoddisfatta dei risultati raggiunti con l’orientamento generalmente rigoristico seguito nella materia, ciò che in diverse decisioni pare essere l’ostacolo teorico maggiore per una soluzione di rilievo sostanziale, anziché di valore puramente teoretico e formale, è, in definitiva, la preoccupazione di non potere ricondurre nell’ambito contrattuale del conto corrente tutte quelle operazioni non inquadrabili in una previsione convenzionale d’instaurazione del rapporto: ciò vale, in parole semplici, per tutte quelle operazioni di dare e avere, prelevare e versare dal punto di vista del cliente, sviluppatesi sulla base di una disponibilità finanziaria di fatto che non risulta autorizzata dalla banca alla stipula del contratto, ancorché reiteratamente consentita nella prassi del rapporto (si è parlato, talvolta, a questo riguardo di fido di fatto). E anche quando dallo stesso estratto conto rimesso periodicamente dalla banca al cliente risulta l’esistenza stabilizzata di una tolleranza extra fido per effetto della quale tutte le operazione dell’uno e dell’altro segno si muovono nella dinamica tipica del conto corrente (era il caso della sentenza relativa al Monte dei Paschi di Siena di cui si accennava sopra – n. 14087/2002 della Cassazione), si obietta che questo non basta a dimostrare, da parte della banca, l’esistenza dell’affidamento, in quanto occorre “documentare l’esistenza, all’epoca, di un contratto di apertura di credito in ampliamento rispetto a quella precedentemente concessa”, con la conseguenza che le diverse operazioni di prelievo e versamento che si eseguono pacificamente fra le parti al di fuori di un fido preventivato in un apposito documento non potrebbero essere considerate operazioni di conto corrente, ma autonome figure contrattuali articolate in anticipazioni di somme produttive d’interessi con obbligo di restituzione, in pratica mutui, uno per ogni prelevamento (già Cass. 11.9.1998 n. 9018 parlava di autonomi crediti esigibili dalla banca). Dal che, facile facile, la revocabilità dei singoli versamenti, siano uno, cento, o centomila, in quanto tutti volti ad estinguere autonomi crediti esigibili dalla banca. Senonchè, quando si afferma che la documentazione afferente allo sviluppo del rapporto di conto corrente nella sua continuità (estratti-conto in primo luogo, oltre a tutto il resto, compresi gli stessi assegni emessi fuori provvista e pagati sistematicamente dalla banca) non è sufficiente a dare corpo al contenuto contrattuale, precipuamente in considerazione dell’obbligo della convenzione scritta sancito dalla legge bancaria (art. 117 del d.lgs. n.385 del 1993) a pena di nullità, non ci si accorge che, a maggior ragione, si troverebbero privi di forma scritta, e quindi essi stessi nulli, quei vari mutui autonomi che i rapporti extra-fido verrebbero a configurare. Se il pagamento, da parte della banca, di un assegno fuori provvista integrasse realmente un’operazione negoziale autonoma rispetto al conto corrente, tale operazione dovrebbe essere a sua volta nulla per mancanza di un contratto scritto, e nullo, conseguentemente, il successivo versamento in restituzione della somma, il quale non potrebbe, perciò, nemmeno avere funzione solutoria (almeno non nel senso previsto dall’art. 67 della legge fall.); ergo, tutte le operazioni, bilanciate o non, attive e passive, accumulatesi al di fuori della provvista, dovrebbero essere nulle. E il discorso potrebbe anche finire qui, perché revocare un atto nullo non significa molto.
     In verità, tuttavia, la tesi che il conto corrente debba rimanere necessariamente bloccato, particolarmente riguardo ai suoi limiti oggettivi di operatività, entro i limiti dell’impostazione convenzionale iniziale, e salvo il sopravvenire di una formale modifica di essa, non è condivisibile. E qui sembrano conducenti due osservazioni. La prima è che il divieto di pattuizioni non scritte esiste nell’interesse solo del cliente, e non anche della banca, come espressamente enuncia l’art. 127, secondo comma, del d.lgs. n.385/93, che riserva al cliente la legittimazione a promuovere l’azione di nullità, con la conseguenza che la pattuizione, anche verbale o per fatti concludenti, di un fido in deroga a quello risultante dal testo della convenzione di conto corrente, è valida, in quanto l’unico che potrebbe impugnarla è il cliente, il quale non avrebbe, però, né titolo né motivo per farlo, dato che è una pattuizione a suo esclusivo vantaggio. La seconda, e più forte, osservazione, è che non si vede perché l’attività di documentazione di un rapporto di durata, quale è appunto il conto corrente bancario, ed in particolare l’estratto periodico che una parte invia all’altra a scopo di riscontro consensuale delle operazioni compiute e reciprocamente accettate, non debba valere come regola di condotta contrattuale. Insomma, se il cliente sconfina a piacimento dal limite iniziale di fido, e la banca glielo consente, gli paga gli assegni invece di mandarli in protesto, gli rilascia dei nuovi blocchetti anziché ritirargli quelli che ha, e ogni tre mesi gli manda l’estratto con cui gli spiega: “ questo è il tuo conto corrente, queste le operazioni che hai fatto con gli assegni che ti abbiamo dato, e queste con quelle che ci hai portato, questo il conseguente saldo passivo a cui sei arrivato, questi gl’interessi, questa la commissione sul massimo scoperto”, come si può insistere nel dire che manca la prova scritta del fido concesso dalla banca? Si potrà dire, semmai, che non ne risulta l’efficacia temporale, e che perciò è un fido a tempo indeterminato, che la banca potrà revocare osservato l’eventuale obbligo di preavviso previsto dal contratto, ovvero quello di cui all’art. 1833 c.c.
     Risolto il problema ermeneutico in questi termini, l’applicazione pratica ne risulta semplificata ed evita quella grossolana soluzione di sommare tutti i versamenti extra-fido fatti dal correntista nell’ultimo anno e fare finta di credere che, nella intenzione delle parti, essi corrispondano ad altrettanti prestiti fiduciari concessigli, un giorno si e un giorno no, dalla banca. Evita, inoltre, la necessità di quella pedantesca e perniciosa – perniciosa per l’equità sostanziale – diatriba se, per stabilire quando un versamento è un versamento e quando è un pagamento o un bilanciamento, si debbano prendere in considerazione i saldi contabili, o i saldi per valuta, o i saldi disponibili, e, di questi ultimi, se quelli di fine giornata, di mezza giornata, della sola mattina, oppure del pomeriggio, o i saldi ad horas, o se non convenga addirittura fare carico alle banche di aggiungere, al timbro giornaliero di ogni operazione, anche l’indicazione del minuto.
     Venendo, pertanto, all’esame del conto corrente in questione, si evidenzia che alla data del 26.6.1996 il saldo passivo raggiunse il vertice di -179.866.976, cifra che segna, nell’andamento complessivo del rapporto, il limite estremo di tolleranza consentita dalla banca, in deroga al limite della convenzione iniziale (non ha più importanza, a questo punto, stabilire se esso era di 40 milioni, come ritenuto dal Tribunale, o di 100, come sostenuto dall’appellante); la differenza fra tale importo e il saldo finale del conto, alla vigilia del fallimento (-29.087.329), corrisponde al solutum, cioè a quanto incamerato dalla banca a decurtazione di quel credito massimo (lire 150.779.647). Tale è l’importo dei versamenti revocabili, precisamente quello che realmente la banca ha recuperato in violazione della par condicio con gli altri creditori della fallita.
     L’impugnata sentenza va, perciò, riformata entro questi limiti. E’ il caso di puntualizzare, ove mai dovesse sorgere dubbio sulla corrispondenza fra le argomentazioni finora svolte in sentenza e il contenuto logico dei motivi di appello (c.d. principio del tantum devolutum quantum appellatum), che l’oggetto del contendere, tanto nel primo quanto nel secondo grado, si incentra essenzialmente sul carattere, solutorio o meno, da attribuire alle rimesse effettuate nel conto corrente della fallita, e sulla individuazione, anche sotto l’aspetto documentale, del limite di fido alla stessa concesso dalla banca: punti sui quali è escluso che si sia formato un giudicato interno. Nel riesaminare tali questioni, alla quale il primo giudice aveva dato una soluzione totalmente respinta dall’appellante, il giudice del gravame conserva la piena libertà d’interpretare fatti atti e negozi in assoluta autonomia logica, anche con argomenti non necessariamente coincidenti con quelli sviluppati dalla parte appellante, come sovente avviene proprio in materia d’interpretazione del contratto, laddove non è detto che, per disattendere l’interpretazione data dal giudice di primo grado, quello di appello debba per forza fare propria l’interpretazione proposta dall’appellante (se così fosse, le sentenze di accoglimento dell’appello non avrebbero necessità alcuna di essere motivate, se non soltanto ad adiuvandum di quanto l’appellante ha inteso argomentare). D’altronde, si può richiamare al riguardo il principio di Cass. 16.1.2002 n. 397 (v. pure, fra le altre, Cass. 15.1.1999 n. 383), che testualmente si riporta: “L’effetto devolutivo dell’appello entro i limiti d’impugnazione preclude al giudice del gravame esclusivamente di estendere le sue statuizioni a punti che non siano compresi neanche implicitamente nel tema del dibattito svolto nei motivi d’impugnazione; pertanto non viola il principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice di appello che fondi la sua decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi”.
     Per contro, non appare condivisibile l’altro motivo di gravame, relativo alla scientia decoctionis, essendo l’impugnata sentenza, sul punto, ineccepibile. La riduzione di capitale per eccesso di perdite e poi la trasformazione della società (invariata essendo rimaste l’attività commerciale); i decreti ingiuntivi emessi in prossimità del fallimento anche per piccole somme, e neppure opposti (segno di totale impotenza dell’impresa e di assenza di ascendente negoziale verso il prossimo), i procedimenti esecutivi, in un contesto socio-economico di ridotte dimensioni, come quello Pistoia-Capannori, su cui le parti operavano, la particolare qualità tecnica della creditrice, appunto una banca, e i suoi usuali strumenti d’informazione, sono tutti indizi gravi, univoci e concordanti, atti a fondare il convincimento che la stessa fosse consapevole dello stato d’insolvenza della cliente. (Omissis)

 

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