il diritto commerciale d’oggi
    III.3 – marzo 2004

STUDÎ E COMMENTI

 

ANTONIO GIOVANNONI

La responsabilità “amministrativa” delle persone giuridiche
nel decreto lgs. n. 331/2001: profili processuali

 


    

1. Cenni introduttivi

     Il Decreto legislativo 8 giugno 200, n. 231 (in seguito “Decreto) ha sancito l’assogettabilità di una persona giuridica ad una sanzione di carattere pecuniario o interdittivo, qualora siano commessi nel suo interesse – da soggetti legati all’ente giuridico da specifici rapporti normativamente previsti – determinati reati, anch’essi tassativamente previsti dalle disposizioni del Decreto. Dunque, il dogma che per lungo tempo ha dominato la scena dell’ordinamento giuridico, sancendo l’irresponsabilità penale dei soggetti diversi dalle persone fisiche, è stato superato alla luce di tale recente normativa. Infatti, i soggetti passivi delle disposizioni recate dal Decreto sono, sia gli enti forniti di personalità giuridica, sia le società ed le associazioni prive di personalità giuridica. Sono, invece, esclusi dall’ambito applicativo del decreto legislativo lo Stato, gli enti pubblici territoriali e gli enti pubblici non economici.
     Con riguardo, poi, al presupposto oggettivo delle disposizioni sanzionatorie in commento, esso va rinvenuto nella accertata commissione di un reato, nell’interesse o a vantaggio della società, da parte di un soggetto in posizione apicale, ovvero di soggetti sottoposti all’altrui controllo. Viceversa, l’ente non sarà sanzionato laddove il reato sia stato commesso nell’interesse esclusivo dell’autore materiale o di terzi.
     Pertanto, la volontà del legislatore di prevedere una responsabilità (para)amministrativa si traduce in una vera e propria colpa di organizzazione, nel senso che l’ente è responsabile della condotta dei soggetti in posizione apicale, ovvero dei suoi sottoposti se non ha adottato le misure di prevenzione idonee a scongiurare il rischio di commissione dei reati da cui l’illecito dipende.

2. L’attività nelle indagini preliminari

     Le attività di indagine da parte delle autorità competenti si muovono su un nuovo terreno; infatti oggi, dall’accertamento focalizzato sulla persona fisica autrice del reato, si passa ad accertare la responsabilità dell’ente collettivo attraverso l’esame della documentazione d’impresa, in armonia con quanto previsto dall’art. 357 del cod. proc. pen. e dall’art. 34 del Decreto.
     Gli accertamenti effettuati dagli organi preposti, volti ad individuare la responsabilità (para)amministrativa delle società, si occupano:
     – di verificare la relazione esistente tra l’autore persona fisica, che ha posto in essere la condotta illecita, e la società od ente (criterio di collegamento);
     – accertare la reale sussistenza del interesse o vantaggio per e la società od ente;
     – quantificare e qualificare le condizioni economiche e patrimoniali della società;
     – accertare l’esistenza delle esimenti (i c.d. modelli organizzativi), nonché valutarne l’efficacia.

3. Le misure cautelari

     Il Decreto ha introdotto due tipi di misure cautelari. Da un lato, sono state previste per la società o l’ente misure cautelari interdittive, che insistono sulla persona giuridica, limitandone l’attività o l’accesso a determinate risorse economiche.
     Dall’altro, vi sono le misure cautelari reali a carattere patrimoniale, le quali aggrediscono il patrimonio sociale in vista di una eventuale confisca del profitto, ovvero per prevenire una dispersione delle garanzie patrimoniali necessarie al pagamento delle sanzioni pecuniarie, delle spese del procedimento o di altre somme dovute all’erario.
     Comunque, in entrambe le ipotesi il fine dell’applicazione delle misure cautelari è quello di paralizzare o ridurre l’attività dell’ente quando la prosecuzione dell’attività stessa possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato, ovvero agevolare la commissione di altri reati.
     Le misure cautelari possono essere disposte esclusivamente quando le corrispondenti sanzioni siano previste quali pena edittale rispetto al reato per il quale si procede. L’art. 13 del Decreto stabilisce che le sanzioni interdittive si applicano in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste: attualmente, esclusivamente per i reati tipizzati agli articoli 24, 25 e 25-bis, non già per i reati societari ex artt. 25 ter, quater e quinquies, introdotti con il D.lgs. n. 61 del 2002. Inoltre, le sanzioni interdittive si applicano se il reato ascritto all’ente potrebbe procurargli un profitto rilevante, ovvero l’ente stesso sia recidivo.
     La fase di accertamento dell’illecito, ai fini dell’applicazione delle misure cautelari, inizia con l’acquisizione degli elementi costituenti la responsabilità della persona fisica in qualità di emanazione dell’ente di appartenenza: condizioni necessarie, ma non sufficienti per parlare compiutamente di responsabilità dell’ente.
     Infatti, bisogna verificare se: (i) il soggetto abbia agito nell’interesse della società, e cioè se ha cercato di ottenere un risultato apprezzabile per la persona giuridica, a prescindere dal raggiungimento dello scopo voluto dall’autore della condotta, attraverso un esame ex ante nella prospettiva mentale dell’autore; o (ii) il soggetto abbia agito a vantaggio dell’ente, situazione in cui un utile per la società si sia concretamente manifestato, attraverso una valutazione ex post del risultato ottenuto dalla condotta. Per l’applicazione di misure cautelari è necessario che la persona fisica abbia agito l’interesse della società e che la persona giuridica ne abbia tratto un (rilevante) vantaggio economico. Quindi, la richiesta di una misura interdittiva attiene alla dimostrazione di questo presupposto indispensabile qualè il profitto di rilevante entità, non essendo sufficiente che il vantaggio sia ingiusto o realizzato contra legem.
     Nel caso in cui il reato sia commesso da soggetti in posizione apicale ex art. 6 del Decreto, cioè tutti quei soggetti che, anche di fatto, esercitano, la gestione ed il controllo dell’ente (quindi non rientrano in questa categoria i sindaci), incombe sulla società l’onere di dimostrare le circostanze idonee a renderla esente da responsabilità, quali:
     – idoneità del modello organizzativo adottato a prevenire il rischio di reati;
     – l’istituzione di un organismo interno dell’ente, detto anche Compliance Office, con il compito il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei predetto modello;
     – elusione fraudolenta da parte del soggetto in posizione apicale del modello organizzativo;
     – organismo interno che abbia adeguatamente vigilato.
     Diversamente, nel caso in cui il reato è commesso da un soggetto sottoposto, l’art. 7 del Decreto inverte l’onere della prova circa la responsabilità dell’ente. È, infatti, onere dell’accusa dimostrare che i soggetti sottoposti hanno realizzato l’illecito, in quanto i modelli organizzativi si sono dimostrati fallaci tanto da non riuscire ad impedire la commissione del reato.
     Ad ogni modo, come già previsto dall’art. 289, 2° comma, cod. proc. pen., in materia di misura interdittiva della sospensione da un pubblico ufficio, la pubblica accusa deve presentare al giudice competente gli elementi su cui si fonda la domanda e gli elementi a favore dell’ente, nonché inviare al soggetto passivo i documenti che ritiene utili, ma ha, altresì, l’obbligo, ex art. 291 cod. proc. pen., di trasmettere all’ente tutti gli elementi favorevoli. Il legislatore garantisce così l’ente dandogli il tempo necessario per integrare gli atti prima della decisione. Per giudice competente, ex art. 36 del Decreto, deve individuarsi lo stesso organo che conosce del procedimento relativo al reato per cui si procede.
     Il giudice decide, dopo aver sentito le parti in camera di consiglio, con ordinanza che deve essere depositata nel termine (ordinatorio) di quindici giorni ai sensi dell’art. 292 cod. proc. pen. L’ordinanza dovrà contenere a pena di nullità: elementi identificativi dell’ente e il suo legale rappresentante; la descrizione dell’illecito amministrativo di cui l’ente è accusato e del reato sul quale si fonda, con l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate; il quadro indiziario sul quale si fonda il giudizio di sussistenza della responsabilità dell’ente; gli specifici elementi di fatto che fanno ritenere concreto il pericolo di reiterazione di illeciti della medesima indole di quello per cui si procede, con l’indicazione dei motivi per i quali essi assumono rilevanza, tenuto conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato; l’esposizione delle ragioni per le quali gli elementi forniti dalla difesa non sono sufficienti ad elidere i gravi indizi e le esigenze cautelari; l’esposizione delle ragioni per le quali le esigenze cautelari impongono una certa misura interdittiva e non altre; la fissazione della data di scadenza della misura secondo i criteri dell’articolo 51; la data e la sottoscrizione del giudice. Il pubblico ministero una volta ricevuta l’ordinanza che accoglie la richiesta ne cura l’esecuzione, notificandola all’ente. Diversamente, l’ordinanza che rigetti la richiesta è comunicata al pubblico ministero e notificata all’ente.
     La misura cautelare può comunque essere soggetta a sospensione se l’ente chiede di poter realizzare gli adempimenti cui l’art. 17 del Decreto subordina l’esclusione di misure interdittive, quali il risarcimento del danno, l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, l’eliminazione delle carenze organizzative che hanno determinato il reato, il consegnare il profitto conseguito allo scopo di consentirne la confisca.
     Inoltre, la misura cautelare può essere soggetta a revoca, sostituzione ed estinzione.
     L’appello avverso i provvedimenti cautelari può essere promosso dal pubblico ministero e dall’ente, per mezzo del proprio difensore di fiducia nei modi dell’art. 322, 1°bis e 2° comma cod. proc. pen. Il termine per presentare appello davanti al tribunale del capoluogo di provincia in cui ha sede il giudice che ha emesso l’ordinanza impugnata è di dieci giorni dalla comunicazione o notificazione dell’ordinanza che si vuole impugnare. Avverso l’ordinanza emessa in sede di appello in caso di violazioni di legge è previsto il ricorso in cassazione ex art. 325 cod. proc. pen., promosso sempre dal pubblico ministero o dall’ente, per mezzo del proprio difensore.

4. Il procedimento penale

     Il legislatore, individuando la responsabilità amministrativa dell’ente come autonoma dalla responsabilità penale della persona fisica, ha attribuito al giudice penale, in via esclusiva ed inderogabile, ex art. 36 del Decreto, la capacità di conoscere, oltre che dei reati, anche degli illeciti amministrativi che da essi dipendono.
     In prima analisi, va rilevato che le sanzioni amministrative si prescrivono in cinque anni dalla data di consumazione del reato che determina la responsabilità amministrativa dell’ente; pertanto, la responsabilità della persona giuridica anche per quei reati per i quali siano decorsi i termini di prescrizione del reato commesso dalla persona fisica.
     Comunque, solo con la richiesta di applicazione di una misura cautelare del pubblico ministero, ovvero la contestazione dell’illecito amministrativo, ai sensi dell’art. 59 del Decreto, si verifica la sospensione dei termini di prescrizione degli illeciti amministrativi. Solo con la contestazione dell’illecito si impedisce, in via definitiva, la prescrizione dello stesso e si rinnova il nuovo decorso quinquennale della prescrizione delle sanzioni amministrative alla data del passaggio in giudicato della sentenza, con la quale sono state irrogate le sanzioni stesse.
     Appare, dunque, evidente come una strategia processuale di parte, basata sul dilatare i tempi processuali, determini un vantaggio esclusivo per l’imputato persona fisica e non già per l’ente. Inoltre, il legislatore, avendo così congegnato il doppio binario delle prescrizioni amministrativa e penale, vuole che intervenga comunque una sentenza di merito che accerti la sussistenza o meno della responsabilità (para)amministrativa.
     Diversamente, per quanto riguarda la decadenza a procedere, ex art. 60 del Decreto, quando il reato da cui dipende l’illecito amministrativo dell’ente è estinto per prescrizione, si ha archiviazione per improcedibilità alla contestazione.
     Il procedimento volto ad accertare la responsabilità amministrativa dell’ente gode di un autonomia propria rispetto alle vicende del procedimento penale, nel senso che, come chiarito dall’art. 8 del Decreto, la responsabilità amministrativa dell’ente sopravvive alla causa estintiva del reato, diversa dall’amnistia, ancorché dichiarata in primo grado. Diversamente da quanto accade, ad esempio, all’interno del processo penale relativamente alla pronuncia del giudice penale sulla responsabilità civile; infatti, anche in presenza di una specifica domanda della parte civile, la sentenza di primo grado che dichiari estinto il reato impedisce al giudice di pronunciarsi.
     Quindi, il giudice, nel caso in cui si trovi davanti ad una causa estintiva del reato diversa dall’amnistia, non può più pronunciarsi sulla responsabilità penale della persona fisica, né sulla responsabilità civile, ma perdura la sua competenza a conoscere dell’illecito amministrativo. Di converso, va rilevato che, nel caso in cui l’imputato rinunci all’amnistia, questa promana, comunque, i propri effetti in capo all’ente.
     È interessante sottolineare che le cause di improcedibilità, previste dall’art. 37 del Decreto, nei confronti dell’illecito amministrativo, dipendono direttamente dalle condizioni di procedibilità e punibilità penale.
     Con riguardo al c.d. simultaneus processus bisogna dire che non è previsto alcun obbligo giuridico, per cui vi sia la genesi simultanea del procedimento penale e del procedimento per illecito amministrativo, ma possono essere riuniti anche nel corso delle indagini preliminari.
     Per quanto riguarda l’onere della prova all’interno del procedimento penale, per l’accertamento vale quanto già affermato in sede di misure cautelari.
     La costituzione dell’ente è inammissibile, se non è sottoscritta dal difensore; quindi, l’ente non può difendersi da solo, ma deve essere assistito da un difensore tecnico (artt. 35 del decreto e 96 cod. proc. pen.), qualora l’ente non ne abbia nominato uno gli ne è assegnato d’ufficio ex art. 40 del Decreto.

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