il diritto commerciale d’oggi
    III.2 – febbraio 2004

STUDÎ E COMMENTI

 

GIOVANNI CABRAS

Quale filosofia per la crisi di imprese? *

 


1. Esigenze di riforma e valori da proteggere
     Nel 2003 la crisi di alcune grandi imprese ha portato in Italia all’attenzione di tutti – anche dei privati cittadini, nonché delle forze politiche e dei mass media – l’inadeguatezza della disciplina vigente per le procedure concorsuali. Mi riferisco, in particolare, alla insolvenza dei gruppi Giacomelli, Cirio e Parmalat, che occupano tuttora le cronache dei mezzi di informazione, insieme ai rischi di insolvenza per altre importanti imprese, anche quotate in borsa (è di questi giorni il caso Finmatica).
     Proprio negli ultimi giorni dell’anno appena trascorso tale inadeguatezza è stata espressa legislativamente, con l’emanazione di due provvedimenti d’urgenza:
• il decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 247, sulla ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza, decreto presentato poi al Parlamento con la dichiarata esigenza – così si esprime la relazione al disegno di legge n. C-4592 – di correggere la legge sull’amministrazione straordinaria, che pure era stata riformata solo pochi anni fa;
• l’art. 7 del decreto-legge 24 dicembre 2003, n. 354, riguardante gli effetti sui contratti di leasing in caso di fallimento delle imprese di locazione finanziaria, disposizione presentata con l’esigenza di evitare il declassamento nel rating per operazioni di cartolarizzazione relative a contratti di quel genere (C-4594).
     Non voglio dire che la necessità di riformare la legge fallimentare finora non fosse stata avvertita; al contrario, tra gli addetti ai lavori se ne discute da molti anni e sono state formulate tante, forse troppe, proposte. Attualmente il Ministro della Giustizia ha sul suo tavolo un progetto di riforma elaborata dalla Commissione, presieduta dall’avv. Trevisanato e che ha concluso i suoi lavori nel giugno scorso, presentando una proposta in due versioni, quella della maggioranza e quella della minoranza.
     Tuttavia, le ultradecennali discussioni e la proposta della Commissione ministeriale, che si aggiunge a quelle precedenti, non sono indice di una soluzione imminente del problema, poiché rivelano un equivoco di fondo circa la riforma delle procedure concorsuali: fintanto che non si supera quell’equivoco è bene non toccare la vecchia, ma comunque coerente ed organica legge fallimentare, che merita tuttora il nostro elogio, come ho spiegato in un mio intervento di qualche mese fa. Infatti, a mio avviso, molti difetti della legge fallimentare vigente derivano dalla sua interpretazione ed applicazione, più che dal suo impianto di base.
     Il fatto è che solitamente si intende come riforma quella che elimina (o cerca di eliminare) le disfunzioni della disciplina sulle procedure concorsuali, senza preoccuparsi di compiere preliminarmente una scelta che definirei filosofica – per questo il titolo della mia relazione: dirò alla fine qual è la mia scelta filosofica – ricercando il perché di una legge in materia. Occorre allora domandarsi se ci deve essere e, in caso positivo, con quale funzione una apposita regolamentazione per la crisi delle imprese; in altri termini, quali valori fondamentali vanno protetti, ed in che modo, con un intervento legislativo.

2. Bando per l’imprenditore decotto
     Quella scelta filosofica – il perché di una legge sulle procedure concorsuali ed i valori da proteggere – è presente nella legge fallimentare del 1942, ma, a differenza di quanto comunemente si ritiene, non è frutto di una secolare impostazione della disciplina in materia, né è stata compiuta in modo originale da tale legge, come spiegherò più avanti.
     Certamente, nella legge fallimentare del 1942 si sentono gli echi della impostazione tradizionale, quella che si fa risalire nella seconda metà del Trecento a Baldo degli Ubaldi, secondo cui “decoctor, ergo fraudator”. L’apparato sanzionatorio, presente tuttora nella legge fallimentare, a carico del fallito, con pesanti limitazioni ai suoi diritti civili e politici (anche dopo la chiusura del fallimento e fino alla riabilitazione), è appunto in linea con quella impostazione.
     Al riguardo tutte le proposte di riforma e, in particolare, il progetto della Commissione Trevisanato sono univocamente orientate ad eliminare quelle sanzioni, affatto anacronistiche (sebbene la Corte Costituzionale non le abbia ritenute illegittime) e, comunque, controproducenti (perché possono indurre l’imprenditore ad occultare la propria crisi, nel tentativo – spesso vano – di evitare il fallimento, aggravando così la propria situazione patrimoniale e rendendo più difficile la soddisfazione dei creditori).
     Piuttosto, la soppressione – indiscutibilmente apprezzabile e doverosa – di tali sanzioni giunge, per così dire, troppo tardi ed è insufficiente a svincolare del tutto la regolamentazione delle procedure concorsuali dagli echi degli antichi editti, che mettevano al bando il commerciante decotto.
     La soppressione giunge troppo tardi, poiché l’iscrizione nel libro dei falliti non spiega più – per chi vi sia assoggettato – gli effetti umilianti e di ripudio dalla società civile, che si verificavano fino a qualche decennio fa.
     Invero, negli ultimi anni sta facendo capolino nel mondo degli affari l’esigenza di comportamenti eticamente corretti, attribuendosi nei rapporti commerciali e finanziari un disvalore all’impresa che abbia contravvenuto a tale regola di condotta. In questo senso, i casi eclatanti di bancarotta che nell’economia globale si sono presentati da una parte all’altra del mondo (la Worldcom e la Enron negli Stati Uniti; la banca BCCI in Gran Bretagna; da ultimo, la Parmalat in Italia) hanno portato a sanzioni non solo risarcitorie o penali a carico dei responsabili e di tutti coloro che ne hanno agevolato o coperto la frode. Mi limito a ricordare la “scomparsa” della società di revisione Arthur Andersen, che ha cessato la sua attività, travolta da uno di quei crac. Tuttavia, le nuove sanzioni non sono un ritorno all’antico, per il semplice motivo che colpiscono solo i casi di frode e non già tutti coloro che hanno l’avventura di divenire insolventi.
     Pertanto, sebbene un po’ tardiva, ben venga la soppressione delle sanzioni personali a carico dei falliti previste dalla legge fallimentare, purché tale soppressione sia accompagnata da un adeguato apparato sanzionatorio per i comportamenti fraudolenti.
     Non è dunque il rimuovere quelle sanzioni personali, evitando di mettere al bando l’imprenditore insolvente, che può costituire la ragione e, quindi, il valore fondamentale per una nuova legge fallimentare.

3. Tempestiva emersione della crisi d’impresa
     Come ho detto, la soppressione delle sanzioni personali può essere una misura insufficiente, da sola, a mutare rotta, rispetto all’orientamento tradizionale, siccome nelle proposte di riforma (e, in particolare, nel progetto della Commissione Trevisanato) le procedure liquidative mantengono sempre la sanzione di carattere patrimoniale, con lo spossessamento del debitore e la destinazione dell’intero patrimonio del fallito (anche dei beni sopravvenuti) ai fini esecutivi. È questa indubbiamente la forza della attuale procedura fallimentare: una forza enorme e terrorizzante; è comprensibile perciò che l’impresa in crisi cerchi con tutti i mezzi di sfuggirvi.
     L’attuale legge fallimentare, tuttavia, non prevede l’obbligo per l’imprenditore insolvente di chiedere il proprio fallimento; semplicemente punisce con le pene della bancarotta semplice l’imprenditore che, non richiedendo tempestivamente il fallimento, abbia aggravato il dissesto. È prevista, invece, la dichiarazione del fallimento ex officio, oltre che su istanza del pubblico ministero, in modo che si apra la procedura immediatamente, quando vi siano sintomi di insolvenza. In realtà, la possibilità della dichiarazione di ufficio è utilizzata solitamente per proseguire il procedimento prefallimentare intrapreso su iniziativa di un creditore, quando questo è tacitato dal debitore e rinuncia alla propria istanza.
     Nella consapevolezza che il ritardo nella apertura della procedura concorsuale – conservativa o liquidativa che sia – pregiudica il suo proficuo svolgimento, molte proposte di riforma prevedono l’obbligo di denunciare all’Autorità giudiziaria situazioni di squilibrio patrimoniale delle imprese. In questo senso si muove, sull’onda del modello adottato in Francia nel 1994, il progetto della Commissione Trevisanato, proponendo di introdurre sistemi di allerta e di prevenzione, ossia disponendo che determinati soggetti (amministrazioni pubbliche creditrici, organi di controllo, revisori contabili) abbiano l’obbligo di comunicare all’Autorità giudiziaria (ovvero, in una diversa versione, agli amministratori ed ai soci della società in crisi) taluni fatti forieri dell’insolvenza.
     Potrei mettere in dubbio l’utilità dei sistemi proposti di allerta, semplicemente ricordando che già la attuale legge fallimentare ne prevede uno, assolutamente inefficace, ossia l’obbligo dei pubblici ufficiali di trasmettere periodicamente al presidente del tribunale l’elenco dei protesti elevati a carico di imprenditori. Il codice di commercio disponeva una comunicazione con cadenza mensile, mentre la legge fallimentare del 1942 ha fissato una cadenza quindicinale, con la conseguenza che il 7 ed il 22 di ciascun mese ogni tribunale riceve l’elenco di tutti i protesti elevati nel circondario.
     Come è noto, l’esistenza dei protesti a carico di un imprenditore serve ai suoi creditori per provarne l’insolvenza nel procedimento da essi intrapreso per la dichiarazione di fallimento, ovvero serve al curatore fallimentare per esercitare le azioni revocatorie, nel presupposto che lo stato di insolvenza, preesistente alla dichiarazione di fallimento, fosse a conoscenza dei terzi, conoscenza provata appunto dalla pubblicazione dei protesti.
     La comunicazione dei protesti, invece, è pressoché inutile per il presidente del tribunale, sommerso dai tanti bollettini. Sono convinto, infatti, che in tanti anni di applicazione della legge fallimentare non vi siano stati casi di imprese assoggettate a fallimento tempestivamente, su iniziativa del pubblico ministero o d’ufficio, grazie a quell’allerta, rappresentata dalla comunicazione dei protesti al presidente del tribunale. Indubbiamente, nella proposta della Commissione Trevisanato l’allerta ha un carattere fortemente selettivo, tale da non portare all’attuale inutilità; preoccupa, tuttavia, proprio la possibile funzionalità dei sistemi proposti di allerta.
     L’anticipazione per l’emersione della crisi di impresa costituisce un fattore positivo, ma sono pericolosi i sistemi ipotizzati, che potrebbero far precipitare situazioni solamente di difficoltà. Quel che serve è che l’impresa abbia convenienza a denunciare lo stato di crisi; se non si crea questa convenienza, gli indicatori automatici o gli obblighi di denuncia producono l’effetto opposto.
     D’altronde, l’anticipazione nell’emersione dell’insolvenza si ottiene unicamente con una regolamentazione non sanzionatoria (non solo per il titolare, ma anche per la realtà aziendale) delle crisi. Infatti, se all’insorgere di ogni crisi si fa terra bruciata attorno all’impresa, ogni difficoltà dell’impresa si trasformerebbe immediatamente e necessariamente in fallimento, con conseguente distruzione di ricchezza, senza possibilità di alcun risanamento o rilancio imprenditoriale.
     Pertanto, neppure la funzione di allerta può essere considerata un valore fondamentale per la regolamentazione delle crisi d’impresa. Semmai regole di allerta e, prima ancora, l’obbligo di rappresentazione veritiera e corretta circa la situazione patrimoniale devono trovare una disciplina (come in effetti trovano), nonché le opportune sanzioni in caso di violazione (come forse attualmente non trovano in modo adeguato), non già nel diritto concorsuale, bensì nel diritto societario e nei sistemi di amministrazione delle imprese.
     Aggiungo soltanto che pure la responsabilità degli amministratori di società di capitali non può trovare una regolamentazione aggravata nelle procedure concorsuali, se non si vogliono confermare le regole interpretative attualmente diffuse (in palese contrasto – a mio avviso – con il diritto positivo, peraltro, senza grandi vantaggi per i creditori concorsuali) e se non si vuore dare un altro motivo agli stessi amministratori per ritardare l’emersione circa lo stato di insolvenza della società amministrata.

4. Responsabilità patrimoniale: generale e senza limiti
     Come ho detto dianzi, nell’attuale sistema fallimentare la vera sanzione per i falliti è lo spossessamento, ossia perdere la disponibilità del patrimonio, gestito e liquidato dagli organi della procedura per pagare i creditori.
     Si ha un bel dire che tale regola è la meno invasiva possibile, in quanto non priva il debitore della proprietà sui propri beni e non impedisce allo stesso debitore neppure di compiere atti traslativi, dichiarati semplicemente inefficaci rispetto alla massa dei creditori: dunque, con una inefficacia relativa. La regola, infatti, va vista nella sua pratica attuazione, nella quale normalmente essa comporta per il fallito la perdita totale e definitiva del suo patrimonio, essendo assai raro che la procedura fallimentare si chiuda con beni residui.
     Peraltro, sempre nell’ambito fallimentare la giurisprudenza ha inteso la nozione di inefficacia in senso radicale, come una nullità. Mi riferisco all’azione revocatoria, che comporta, nel caso in cui vi sia assoggettata una compravendita, la restituzione del bene compravenduto, così acquisito materialmente al fallimento, compresi i frutti maturati dalla domanda, restando salvo per il terzo solo il diritto a riprendersi il suo bene (qualora sia ancora rinvenibile nel patrimonio del fallito dopo la chiusura del fallimento).
     Lo spossessamento nell’attuale disciplina del fallimento ha una duplice portata: da un lato, è universale per il suo oggetto (riguarda tutti i beni del debitore, compresi quelli futuri e quelli acquisiti con la revocatoria) e, dall’altro, è generale, perché realizza l’interesse di tutti coloro che sono creditori al momento della dichiarazione di fallimento e che possono soddisfarsi solo attraverso il concorso nella esecuzione collettiva.
     Ciò sembra giustificarsi con il fatto che, diversamente, ogni creditore intraprenderebbe un’azione esecutiva a tutela del suo credito con tanti pignoramenti, tante esecuzioni e gli inevitabili contrasti tra le varie iniziative, nonché con un dispendio di energie e di denari, sicuramente eccessivo, considerato che, quando l’impresa è insolvente, in via di principio è difficile che essa possa soddisfare completamente i suoi creditori.
     Questo aspetto dell’esecuzione a carico dell’impresa insolvente (la probabilità di incapienza del suo patrimonio per la soddisfazione completa dei creditori) sembra giustificare un altro principio delle procedure concorsuali, ossia la par condicio creditorum, criterio che, invero, è presente già nelle procedure esecutive singolari, ma che nelle procedure concorsuali è rafforzato, sia perché costituisce la regola base del loro svolgimento, sia perché è amplificato, essendo esteso, con le azioni revocatorie, a chi non è creditore al momento della dichiarazione di fallimento, ma ha avuto rapporti giuridici con l’impresa insolvente nel periodo c.d. sospetto.
     Sebbene la legge fallimentare si presenti come un sistema per contemperare un duplice conflitto tra i creditori (conflitto tra le azioni esecutive singolari e conflitto tra le diverse posizioni creditorie), non mi sembra che ciò arrechi – almeno nell’attuale applicazione della legge fallimentare – un grande vantaggio per i creditori, che nel fallimento perdono ogni controllo sul patrimonio del loro debitore.

5. Soddisfazione dei creditori
     L’applicazione della responsabilità patrimoniale, generale e senza limiti, nella legge fallimentare non può che essere uno scopo-mezzo per raggiungere lo scopo-fine: soddisfare i creditori nell’ambito delle procedure concorsuali, in modo più conveniente rispetto a quanto avverrebbe con le azioni esecutive singolari. Il perseguimento di questo obiettivo, con trascorrere degli anni – dal 1942 ad oggi – si è perso, per l’assoluta inefficienza delle procedure concorsuali.
     Poiché questi aspetti sono ampiamente considerati in tutte le proposte di riforma, posso darli per scontati. Semmai ritengo che il criterio dell’efficienza, in base al quale usualmente si giudica inadeguata l’attuale legge fallimentare, non costituisca il vero banco di prova delle procedure concorsuali.
     Certo, una durata media dei fallimenti di 6 anni e mezzo (per l’esattezza 2.417 giorni per i fallimenti chiusi nel 1998, secondo una Ricerca commissionata dall’Unione Industriale di Torino nel 2001; se si considerano solo i fallimenti chiusi con ripartizione dell’attivo, la durata media è stata di 3.089 giorni, ossia 8 anni e 5 mesi; nel 2001 si è passati a 7 anni ed un mese per la durata media di tutti i fallimenti chiusi in tale anno) non può significare che la procedura concorsuale tuteli i creditori meglio delle procedure esecutive singolari.
     Parimenti, costi della procedura concorsuale che in media assorbono il 22% dell’attivo realizzato (il dato si riferisce sempre al 1998) non possono considerarsi segno di un sistema efficiente per la soddisfazione dei creditori, tanto più che ciascuno di essi è costretto ugualmente a sopportare costi personali (istanza di fallimento; ammissione al passivo, specie in sede tardiva; difesa nelle azioni revocatorie).
     Non è neppure il caso di soffermarsi sulle perdite per i creditori, perdite pressoché totali per quelli chirografari. Per riprendere i dati di quella indagine dell’Unione Industriali di Torino e, quindi, con riferimento al 1998, la percentuale complessiva di soddisfazione dei creditori (privilegiati e chirografari) era inferiore al 14,5%, con un trend in peggioramento nel corso degli anni.
     In una tale situazione, parlare ancora di tutela dei creditori come valore fondamentale della legge fallimentare può rappresentare soltanto una forma di ipocrisia, se non si propongono mutamenti radicali nella disciplina.
     Si badi bene: siffatta inefficienza, sotto il profilo della soddisfazione patrimoniale dei creditori, non è effetto imputabile al legislatore del 1942, che aveva cercato di regolamentare in modo adeguato le procedure concorsuali, sia pure in relazione alla situazione economica del tempo ed anche alla restante legislazione. Per questo, prima di proporre innovazioni al sistema delle procedure concorsuali occorre trovare valide ragioni per la regolamentazione legislativa.

6. Esdebitazione del debitore
     Come ho detto dianzi, è assai raro che la procedura fallimentare si chiuda rilasciando un patrimonio residuo al debitore; quel che è certo, invece, è che i debiti non soddisfatti in sede fallimentare rimangono in capo all’imprenditore anche dopo il fallimento.
     Invece, in altri ordinamenti, quale quello statunitense, la procedura concorsuale liquidativa fa perdere al debitore la proprietà del patrimonio, attribuito ad un trustee, con il compito di liquidarlo e ripartirne il ricavato fra i creditori; in compenso, però, il debitore è totalmente liberato dai propri debiti con l’stituto della discharge, potendo così egli riprendere una nuova attività senza il peso dei vecchi debiti.
     Forse la nostra cultura giuridica risente di una sorta di tabù circa la responsabilità patrimoniale: si enfatizza la regola posta dall’art. 2740, 1° comma, del codice civile, trascurando che il secondo comma della stessa norma prevede espressamente limitazioni di tale responsabilità, prescrivendo soltanto che esse siano stabilite dalla legge.
     Peraltro, già l’attuale legge fallimentare produce, riguardo al patrimonio del fallito, un assetto patrimoniale e gestionale che ben può essere qualificato come segregazione di beni, piuttosto che come spossessamento (per inciso, nella nomenclatura della legge fallimentare e, in precedenza, del codice di commercio non si trova l’espressione “spossessamento”, che è di origine dottrinaria; lo spossessamento è nominato, invece, nel progetto della Commissione Trevisanato, segno di una continuità interpretativa che non può non suscitare preoccupazioni).
     Aggiungo che la esdebitazione è presente da tempo nella disciplina del concordato preventivo; anzi questo istituto ha perso la caratteristica di finalizzare la liberazione del debitore insolvente alla ripresa dell’attività di impresa, caratteristica presente sini alla riforma introdotta con la legge 10 luglio 1930, n. 995, su cui ritornerò più avanti. Così Gustavo Bonelli, il maggiore dei nostri studiosi di diritto fallimentare nella prima metà del secolo scorso, scriveva nel 1923 che lo scopo del concordato preventivo non era soltanto quello «di evitare la vergogna e le diminuzioni che porta con sé il fallimento, ma anche di conservare il patrimonio e tornare alla testa della propria azienda commerciale».
     Dunque Gustavo Bonelli, da grande studioso, ma prima ancora da buon conoscitore dei fenomeni economici (egli lavorava alla Banca d’Italia), capiva che la continuazione dell’impresa costituiva la molla per il debitore a fare in modo che i creditori conseguissero la migliore, ancorché incompleta, soddisfazione per il loro credito.
     Tutto ciò non c’è più, dopo la legge del 1930, nel concordato preventivo e tanto meno nel fallimento. Non mi sembra, tuttavia, che le proposte di riforma si preoccupino effettivamente di favorire la ripresa dell’attività aziendale. Come ho detto, la Commissione Trevisanato prevede sì la discharge, ma come un beneficio, sottoposto a forti limiti, tanto da renderlo utilizzabile soltanto per l’imprenditore che intenda uscire onorevolmente dal mercato, non già di quello che – per dirlo con le parole di Bonelli – vuole “tornare alla testa dell’azienda” o, comunque, intende giocare un’altra partita nel mondo degli affari.
     Pertanto, ritengo che l’opportunità (non certo la necessità) di riprendere l’attività – “quella” attività, oppure, ovviamente, anche un’altra attività imprenditoriale – costituisca lo stimolo migliore per ottenere dal debitore la più ampia collaborazione in vista della soddisfazione dei creditori, nonché nell’interesse generale dell’economia, come vedremo tra poco. Questo è un valore che nella vigente legge fallimentare non c’è, ma non mi sembra perseguito davvero nelle varie proposte di riforma: non basta, infatti, prevedere il risanamento dell’impresa come sbocco delle procedure concorsuali, poiché occorre creare le condizioni affinché ciò si realizzi.

7. Obiettivi mancati e nuove procedure
     Nella rassegna fin qui svolta dei valori fondamentali, che possono giustificare un intervento legislativo, abbiamo visto che la attuale legge fallimentare assolve alle seguenti funzioni:
• bandire l’imprenditore insolvente, con l’applicazione di sanzioni personali a suo carico; abbiamo visto, però, che le sanzioni personali, oltre a non essere più giustificate, hanno perso col tempo molto del loro mordente: non basta perciò eliminarle;
• favorire l’apertura della procedura concorsuale, prevedendo la dichiarazione di ufficio; un obiettivo, però, mancato, in quanto non persegiobile con i sistemi di allerta proposti, che potrebbero, invece, fare precipitare le crisi risolvibili;
• far valere in pieno la responsabilità patrimoniale, generale e senza limiti, con una esecuzione collettiva che contemperi i conflitti tra i creditori; un obiettivo anch’esso mancato, in quanto, oltre a non tutelare efficacemente i creditori, fa perdere a questi il controllo sul patrimonio del debitore;
• soddisfare i creditori per le loro legittime pretese, obiettivo che, più di tutti gli altri, è fallito nell’attuazione pratica della legge fallimentare;
• esdebitare il debitore nel concordato preventivo; ciò avviene, però, solo nel concordato preventivo e, comunque, senza assicurare la ripresa dell’attività imprenditoriale.
     Si tratta di una pluralità di funzioni, sostanzialmente non realizzate, quanto meno nella applicazione pratica degli ultimi decenni, anche perché – a partire dagli anni Settanta del secolo scorso – è stata messa in discussione taluna di esse e, in particolare, quella di tutelare principalmente i creditori, in relazione ad altri interessi, quale la salvaguardia dei posti di lavoro e dei complessi produttivi. Per tutelare tali interessi, da un lato, vi sono stati interventi ad hoc, con il sistema di salvataggio pubblico delle imprese in crisi, e, dall’altro, si è verificato l’uso definito “alternativo” delle procedure concorsuali, utilizzandole in consecuzione, dall’amministrazione controllata, al concordato preventivo, fino al fallimento, proseguendo sempre l’attività dell’impresa in crisi, fino alla liquidazione – necessariamente tardiva ed infruttuosa –del patrimonio aziendale.
     L’insuccesso di tale sistema (basti pensare a GEPI, EFIM ed EGAM) ha indotto l’Autorità giudiziaria a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ad applicare con rigore la legge fallimentare, dando così un motivo in più – per l’indubbia insoddisfazione circa il funzionamento attuale delle procedure concorsuali – per rivedere l’impianto della stessa legge. Invero, le esigenze di riforma sono state attutite, ancora una volta, da interventi ad hoc, con l’introduzione di una nuova procedura concorsuale, la amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (la c.d. legge Prodi del 1979), imprese che poi di grande avevano ben poco (salvo l’esposizione debitoria), essendo richiesto un numero di 300 dipendenti (diminuiti a 200 nella attuale versione dell’amministrazione straordinaria).
     Che l’obiettivo della legge Prodi fosse soltanto quello di evitare l’assoggettamento a fallimento di certe imprese, ritenute socialmente importanti, è dimostrato dal fatto che nella versione originaria della stessa legge non era disciplinata la chiusura della procedura: quel che interessava, evidentemente, era soltanto il suo avvio.
     Di fronte agli strali dell’Unione Europea, il nostro legislatore ha cercato di porre rimedio a taluni, più macroscopici vizi dell’amministrazione straordinari, con il d. lgs. n. 270 del 1999, che ha previsto una disciplina ampia ed articolata, come una sorta di anticipazione per la riforma delle altre procedure concorsuali. Ora, però, il Governo ha ritenuto la nuova amministrazione straordinaria inadeguata e macchinosa, proponendo, con il decreto-legge n. 247 del 23 dicembre scorso, una procedura più snella – sia pure per le sole imprese con almeno 1000 dipendenti – spinto dall’urgenza di porre rimedio all’immane dissesto della Parmalat.
     Poiché la nuova procedura speciale, per la maggior parte del suo svolgimento, si richiama all’amministrazione straordinaria che potremmo chiamare generale (quella del d. lgs. n. 270), la novità sta solo nella semplificazione della fase d’avvio, in particolare, per la possibilità riconosciuta al Ministero delle Attività produttive di ammettere le imprese alla nuova procedura, senza attendere la dichiarazione di insolvenza del tribunale, e di autorizzare, anche immediatamente, tutte le operazioni necessarie per la ristrutturazione dell’impresa o per la salvaguardia della continuità aziendale.
     Pur con questi accorgimenti, non mi sembra che sia cambiato molto dall’amministrazione straordinaria generale a quella del decreto Marzano per la Parmalat. Forse la nuova procedura funzionerà meglio, non avrà più tempi morti, ma siamo sempre nello stesso genere di intervento, anzi con un rafforzamento della posizione del Ministero.
     Peraltro, si ricade nel vizio di cercare di risanare l’impresa a spese dei creditori. Mi riferisco, in particolare, alla circostanza che il decreto Marzano prevede le azioni revocatorie, pressoché indiscriminatamente. Invece, nel caso di mantenimento in vita dell’impresa, non possono esservi regole diverse da quella della revocatoria ordinaria; possono esservi solo facilitazioni, con esclusione comunque dei rapporti e, in particolare, dei pagamenti effettuati nel normale esercizio dell’impresa: le eventuali facilitazioni devono riguardare una fascia temporale ristretta (a mio avviso, non oltre 3-6 mesi), decorrente dall’istanza.
     Così pure, non si può non deprecare l’innovazione in tema di contratti di leasing in corso al momento della dichiarazione di fallimento, innovazione introdotta con il decreto legge n. 354 del 2003 per esigenze – il rating delle cartolarizzazioni pubbliche – che non hanno niente a che fare con la continuazione dei contratti nelle imprese in crisi. Ora il rischio è che anche per altri contratti in corso al momento della dichiarazione di fallimento operi, in via analogica, il criterio della continuità, indipendentemente dalla funzionalità dello stesso contratto all’attività da proseguire.

8. La riserva giurisdizionale ed amministrativa
     È il momento di tirare le fila del mio discorso. Abbiamo visto finora obiettivi mancati delle procedure concorsuali; c’è, però, un altro obiettivo, che esprime una scelta di fondo circa la funzione di tali procedure: di tutte, comprese le nuove e, in particolare, l’amministrazione straordinaria speciale. È un obiettivo, questa volta, realizzato appieno, anche se non c’è – a mio avviso – da restarne soddisfatti.
     Mi riferisco ad una funzione perseguita dalla disciplina delle procedure concorsuali sulla base di una scelta che non appartiene alla secolare tradizione del fallimento e che non è stata compiuta neppure dalla legge fallimentare del 1942, la quale si è limitata a seguire l’impostazione data al nostro sistema delle procedure concorsuali dalla citata legge 10 luglio 1930, n. 995.
     Tale legge ha previsto che i curatori fossero nominati esclusivamente dal tribunale (fino a quel momento, invece, i creditori avevano il diritto di surrogare al curatore nominato dal tribunale un curatore di loro fiducia) ed avessero la qualifica di pubblico ufficiale. Sembra un aspetto secondario, ma non è così.
     Illustrando la novella del 1930, un importante studioso del tempo, Antonio Brunetti, spiegava che con le procedure concorsuali «lo Stato soddisfa ad un compito eminente di amministrazione pubblica dei privati interessi», aggiungendo che «lo Stato non vede nel fallimento che uno dei procedimenti essenziali di tutela indiretta dell’economia nazionale» e ancora che la liquidazione del patrimonio del fallito è una «delle forme di distribuzione della ricchezza», distribuzione che, riguardando una pluralità di soggetti, va affidata alla pubblica amministrazione.
     La legge del 1930 costituisce così il manifesto per la regolamentazione delle crisi d’impresa, un manifesto cui si sono confermati tutti i successivi interventi legislativi in materia. Più precisamente, da una concezione privatistica delle procedure concorsuali (qual era quella del codice di commercio del 1882 e così indietro secondo la tradizione) si è passati nel 1930 ad una concezione pubblicistica, recepita poi dalla legge fallimentare del 1942 e, da ultimo, tenuta ferma – anzi rafforzata – dal decreto Marzano.
     Nelle procedure concorsuali previste dalla legge fallimentare l’impostazione pubblicistica si svolge sotto il segno del giurisdizionalismo e del processo, essendo tutto rimesso all’Autorità giudiziaria. Nelle procedure speciali e, segnatamente, nell’amministrazione straordinaria, in tutte le sue versioni (da quella della legge Prodi del 1979, a quella del 1999 ed infine alla versione del decreto Marzano) l’impostazione pubblicistica si svolge sotto il segno della Pubblica Amministrazione, che nomina gli organi, vigila sul loro operato e dispone circa le soluzioni da adottare, con un intervento molto discreto dell’Autorità giudiziaria.
Orbene, va trovata una ragione per giustificare il fatto che, quando la crisi coinvolga un’impresa con trecento (ora 200, secondo il d. lgs. n. 270 del 1999) dipendenti, l’attività aziendale debba essere assunta dalla mano pubblica, indipendentemente dal settore di attività. Ma il discorso non cambia, se il requisito dei dipendenti è di 1000, e va esteso anche all’intervento – assoluto nelle procedure ordinarie e limitato nelle procedure speciali – dell’Autorità giudiziaria, che sempre intervento pubblico è.
     Non voglio dire che non vi siano situazioni che rendono necessario e giustificato l’intervento dello Stato, di suoi organi e di suoi poteri: la Pubblica Amministrazione, in relazioni a particolari attività di interesse pubblico (mi riferisco, in particolare, all’attività bancaria); l’Autorità giudiziaria, per dirimere controversie, accertare presupposti di legge o applicare sanzioni. Tuttavia, c’è da dubitare che la gestione dell’impresa in crisi, il suo risanamento ovvero la sua dissoluzione possa rientrare – in una «economia di mercato aperto e in libera concorrenza», quale deve essere la nostra – nelle prerogative dell’Autorità giudiziaria ovvero, salvo specifiche e limitate attività, nelle prerogative della Pubblica Amministrazione.

9. La crisi dell’impresa come opportunità per il mercato
     Il mio potrebbe sembrare che un discorso esageratamente critico, semplicemente distruttivo, proprio quando l’insolvenza di grandi imprese richiede di porvi rimedio e di intervenire con urgenza. Nei tempi di crisi – mi si potrebbe obiettare – non si può andare tanto per il sottile; quel che importa è che l’intervento sia efficace e sia indirizzato anche nella prospettiva degli interessi generali, che solo lo Stato ed i suoi organi possono curare.
     Vorrei invitarvi allora a riflettere sul fatto che l’intervento pubblico, in passato, ha dato esiti positivi solo quando lo Stato ha coperto i crac, addossando ai contribuenti le perdite di imprese decotte. Ciò ora non è più possibile; d’altronde, non si vede perché un professionista scelto da organi pubblici (amministrativi o giudiziari) per gestire la crisi di un’impresa abbia più probabilità di successo di quello nominato dai creditori o magari dallo stesso imprenditore. In fondo, nell’ultimo dissesto verificatosi in Italia (quello della Parmalat), come commissario straordinario è stato confermato il manager scelto (non so se in modo libero o per indicazione di creditori importanti) dalla proprietà; ciò è un fatto positivo, ma è frutto di una fortunata occasionalità, congiunta ad una illuminata determinazione del Ministro.
     A mio avviso, bisogna guardare più avanti dei singoli casi, pur eclatanti e devastanti, per cogliere le ragioni di fondo di una regolamentazione in materia, compiere quella che chiamo la scelta filosofica.
Indubbiamente, per le crisi delle imprese una regolamentazione è necessaria, non essendo possibile lasciare al mercato la soluzione del problema; ma deve essere una regolamentazione adeguata al fenomeno da regolare (l’impresa in crisi) ed all’ambiente in cui opera (il mercato concorrenziale).
     Tenendo conto di queste due esigenze di adeguatezza, nonché del principio di sussidiarietà dell’intervento pubblico rispetto alla regolamentazione privata, indico sommariamente alcuni criteri che possono guidare la riforma della legge fallimentare e che costituiscono i corollari della scelta filosofica, che ora posso rendere più esplicita: la crisi delle imprese è una opportunità, che il mercato presenta, come una sorta di selezione o, se si preferisce, di legge fisica di trasformazione delle cose. Può sembrare brutale, ma le crisi delle imprese consentono al mercato di essere efficiente ed anche di realizzare la concorrenza nella gestione delle imprese.
     È una opportunità, che può essere positiva o negativa; bisogna fare in modo – ed è questo il compito del legislatore – che la crisi diventi un fattore positivo per il mercato e per la collettività; ciò avviene, quando i valori dell’impresa in crisi non si perdono, ma proseguono nella stessa impresa o in altre.
     A tal fine ritengo, innanzitutto, che la regolamentazione della crisi deve essere riservata alle imprese medie e grandi, con una disciplina più snella per quelle medie; in ogni caso, tenendo distinto il destino dell’imprenditore e dei debiti dalla sorte dell’attivo dell’impresa.
     Inoltre, occorre attribuire alle parti interessate, ossia ai creditori ed allo stesso imprenditore, ampi poteri nella gestione della crisi (per l’iniziativa, lo svolgimento e le modalità di chiusura), riservando l’intervento dell’autorità giudiziaria alla constatazione delle fasi della procedura ed alla risoluzione di controversie, non altrimenti risolvibili, nonché privilegiando in qualsiasi momento le soluzioni stragiudiziali.
     La procedura concorsuale deve essere unica un’unica, articolata in più fasi e con più sbocchi, in modo da consentire, ove possibile, il risanamento dell’impresa in crisi o la prosecuzione dell’attività anche attraverso dismissioni di rami aziendali, ovvero in modo da realizzare la liquidazione dei beni, al fine di soddisfare i creditori, con un continuo adattamento alla mutevolezza delle condizioni.
     Occorre, infine, abrogare tutte le disposizioni che stabiliscono incapacità ovvero effetti di carattere personale per il titolare, i soci illimitatamente responsabili o, nelle società di capitali, gli amministratori dell’impresa assoggettata a procedura concorsuale, prevedendo a carico dei medesimi soggetti, durante la stessa procedura, obblighi di collaborazione funzionali al suo svolgimento, con sanzioni solo in caso di inosservanza, oltre che – ovviamente – in caso di frode.

 

* Relazione svolta nel convegno “Crisi d‘impresa, fallimento e mercato” tenutosi il 30 gennaio 2004 all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

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