il diritto commerciale d’oggi
    III.12– dicembre 2004

GIURISPRUDENZA

 

CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite civili, 4 novembre 2004, n. 21095 – Presidente Carbone – Relatore Morelli; Credito Italiano Spa c. Stefana

   La prassi bancaria di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista nel conto corrente bancario configura un uso negoziale, in quanto tale inidoneo a derogare al divieto di anatocismo posto dall’art. 1283 cod. civ.
   La giurisprudenza, che, per lungo tempo, ha ritenuto erroneamente l’esistenza di un uso normativo circa la prassi bancaria di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista, non comporta la conseguenza che, in precedenza, tale prassi fosse percepita come conforme a ius e che, sulla base di una tale convinzione (opinio iuris), venisse accettata dai clienti.

   Svolgimento del processo – Il Credito Italiano Spa ha impugnato per cassazione la sentenza in data 15 gennaio 2001, con la quale la Corte di appello di Cagliari, in riforma della pronunzia di primo grado, ha accolto la opposizione proposta da Franco e Carlino Stefana avverso il decreto ingiuntivo su sua istanza, emesso nei confronti dei due predetti intimati, quali fideiussori della Fas Spa, per l’importo complessivo di lire 1.097.415.300 (ed accessori), corrispondente al saldo passivo finale del conto corrente sul quale sarebbero state effettuate plurime erogazioni di credito in favore della società garantita.
   Con le quattro complesse serie di motivi, di cui si compone l’odierno ricorso – la cui ammissibilità e fondatezza è contestata dagli intimati con separati controricorsi – il Credito italiano critica in sostanza la Corte di merito per avere, a suo avviso, errato:
   a) nel rilevare di ufficio profili di nullità del contratto da cui trae origine il debito garantito dagli attuali resistenti;
   b) nell’escluderne, in particolare, la validità in relazione alla clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, anche per il periodo anteriore alle note pronunzie della primavera del 1999 (nn. 2374 del 16 marzo, n. 3096 del 30 marzo e successive conformi) che, in contrasto con la precedente giurisprudenza, hanno escluso c) nel ritenere, inoltre, non operative le garanzie prestate dagli Stefana per il periodo successivo alla data (9 luglio 1992) di entrata in vigore della l. 154/1992, che ha prescritto la fissazione di un tetto massimo per la validità delle fideiussioni omnibus;
   d) nell’escludere, infine, la debenza dell’intero credito, azionato con il decreto opposto, per ritenuta (a torto) carenza di documentazione, imputabile all’istituto, che consentisse di scorporare dall’importo preteso in via monitoria quello riferibile a periodo di operatività della fideiussione e detrarre, dallo stesso, le voci relative alla capitalizzazione periodica degli interessi.
   Su istanza della parte ricorrente, il primo Presidente ha assegnato la causa alle Sezioni unite, ravvisando, in quella sub b), questione di massima di particolare importanza.

   Motivi della decisione. – 1. La questione di massima, in ragione della cui particolare importanza gli atti della presente causa sono stati rimessi a queste Sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, cpv, cod. proc. civ. si risolve nello stabilire se – incontestata la non attualità di un uso normativo di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista bancario – sia o non esatto escludere anche che un siffatto uso preesistesse al nuovo orientamento giurisprudenziale (Cassazione 2374/1999 e successive conformi) che lo ha negato, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con la precedente giurisprudenza.
   2. È, per altro, preliminare all’esame della riferita questione, quello delle eccezioni pregiudiziali – sollevate, rispettivamente, da Franco e da Carlino Stefana – di inammissibilità del ricorso “per difetto di specialità della procura alle liti” e “per intervenuto giudicato formale sulla sentenza parziale resa dalla Corte di Cagliari” nel corso del giudizio a quo. (Omissis)
   3. Precede ancora, a questo punto, l’esame del primo motivo del ricorso, con il quale si denunzia la violazione degli artt. 112, 101, 345 cod. proc. civ., in relazione all’art. 1421 cod. civ., in cui si assume essere incorsa la Corte di appello nel rilevare di ufficio la nullità della clausola anatocistica. Atteso che, con tal mezzo, si introduce un tema di indagine logicamente preliminare, e virtualmente assorbente, rispetto a quello sostanziale sulla validità o meno della clausola stessa nel periodo che qui viene in rilievo.
   Il vizio in procedendo, così prospettato, ad avviso di questo Collegio, però, non sussiste.
   La nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi (tardivamente dedotta dalle parti solo in comparsa conclusionale), effettivamente è stata, infatti, rilevata “di ufficio” nella fase di gravame. Ma ciò la Corte di Cagliari ha fatto in corretta applicazione del principio per cui la nullità, in tutto o in parte, del contratto posto a base della domanda può essere rilevata, appunto, di ufficio, anche per la prima volta in appello (cfr. Cassazione 2772/1998).
   È pur vero, per altro, che il potere che il citato art. 1421 conferisce in tal senso al giudice (in ragione della tutela di valori fondamentali dell’ordinamento giuridico) va coordinato con il principio della domanda, di cui agli artt. 99 e 112 cod. proc. civ., e che le esigenze a tali principi sottese – rispettivamente di verifica delle condizioni di fondatezza della azione e di immodificabilità della domanda – possono trovarsi tra loro in contrasto ove, in particolare, alla pretesa di una parte relativa ad un credito ex contractu si contrapponga l’eccezione di nullità, dell’altra, che il giudice ritenga (come nella specie) di integrare con il rilievo di aspetti della patologia del negozio che la parte, interessata alla improduttività dei correlativi effetti, non abbia colto (o non abbia tempestivamente comunque dedotto).
   Ma un tale contrasto si risolve sulla base della considerazione che, se da un lato, il potere-dovere decisionale del giudice, in relazione alla domanda proposta, si estende agli aspetti della inesistenza o della nullità del contratto dedotto dall’attore, la deduzione in tal senso del convenuto non può costituire, od essere considerata, domanda giudiziale, non ponendosi in rapporto genetico con il potere-dovere decisionale del giudice sul punto, che già esiste.
   Sia impostata quella deduzione come eccezione, come domanda riconvenzionale per la declaratoria di nullità, o come motivo di gravame, si tratta pur sempre di mera difesa, attenendo all’inesistenza, per mancato perfezionamento o per nullità, del fatto giuridico, il contratto, dedotto dall’attore a fondamento della domanda, che dunque non condiziona l’esercizio del potere officioso di rilievo della nullità fondata su aspetti distinti di patologia negoziale (Cassazione 5341/1984).
   Nella specie deve farsi riferimento alla domanda iniziale, proposta in via monitoria dal Credito italiano la quale, se pur rivolta nei confronti dei fideiussori, ha comunque ad oggetto il pagamento del saldo del contratto di conto corrente, stipulato dal debitore principale. Per cui, appunto, non vale a paralizzare la rilevabilità, da parte del giudice, di aspetti di nullità di quel contratto il fatto che gli intimati (aventi veste sostanziale di convenuti nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo) abbiano focalizzato, in particolare, le loro difese su profili, di invalidità ed inoperatività della fideiussione, da essi prestata. E ciò a prescindere dalla considerazione che, eccependo comunque anche l’inesistenza di valida prova del credito contro di loro azionato, i fideiussori hanno con ciò contestato in radice lo stesso debito principale.
   4. Può ora passarsi all’esame della questione di massima di cui retro, sub 1.
   4.1. Il parametro di riferimento è costituito dall’art. 1283 del cod. civ. (Anatocismo) e, in particolare, dall’inciso “salvo usi contrari” che, in apertura della norma, circoscrive la portata della regola, di seguito in essa enunciata, per cui “gli interessi scaduti possono produrre interessi [(a)] solo dalla domanda giudiziale o [(b)] per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti da almeno sei mesi”.
   4.2. Come è noto, in sede di esegesi della predetta norma, le richiamate sentenze (2374, 3096, 3845) della primavera del 1999, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con pronunzie del ventennio precedente (6631/1981; 54091/1983; 4920/1987; 3804/1988; 2444/1989; 7575/1992; 9227/1995; 3296/1997; 12675/1998), hanno enunciato il principio – reiteratamente, poi, confermato dalle successive sentenze 12507/1999; 6263/2001; 1281, 4490, 4498, 8442/2002; 2593, 12222, 13739/2003, ed al quale ha dato comunque immediato riscontro anche il legislatore (che, con l’art. 25 del d.lgs. 342/1999 ha, all’uopo, ridisciplinato le modalità di calcolo degli interessi su base paritaria tra banca e cliente) – (principio) per cui gli “usi contrari”, idonei ex art. 1283 cod. civ. a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo gli usi “normativi” in senso tecnico; desumendone, per conseguenza, la nullità delle clausole bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad un uso meramente negoziale ed incorre quindi nel divieto di cui al citato art. 1283.
   4.3. Al di là di varie ulteriori argomentazioni, di carattere storico e sistematico, rinvenibili nelle pronunzie del nuovo corso, destinate più che altro ad avvalorare il “revirement” giurisprudenziale, emerge dalla motivazione delle pronunce stesse come, nel suo nucleo logico-giuridico essenziale l’enunciazione del principio di nullità delle clausole bancarie anatocistiche si ponga come la conclusione obbligata di un ragionamento di tipo sillogistico. La cui premessa maggiore è espressa, appunto, dalla affermazione che gli “usi contrari”, suscettibili di derogare al precetto dell’art. 1283 cod. civ., sono non i meri usi negoziali di cui all’art. 1340 cod. civ. ma esclusivamente i veri e propri “usi normativi”, di cui agli artt. 1 e 8 disp. prel. cod. civ., consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non dipendente da un mero arbitrio soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (opinio juris ac necessitatis).
   E la cui premessa minore è rappresentata dalla constatazione che «dalla comune esperienza emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati all’inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell’associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l’opinio juris ac necessitatis, se non altro per l’evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente».
   4.4. Ora di questo sillogismo, che costituisce la struttura portante del nuovo indirizzo, del quale si sollecita il riesame, neppure la banca ricorrente mette in discussione la premessa maggiore, mentre quanto alla sua premessa minore la contestazione che ad essa si muove, attiene, sul piano diacronico, al solo profilo della portata retroattiva che il nuovo indirizzo ha inteso attribuire alla rilevata inesistenza di un uso normativo in materia di capitalizzazione trimestrale degli interessi bancari.
   Si sostiene, infatti, in contrario che la giurisprudenza del 1999 abbia correttamente accertato l’inesistenza attuale, ma erroneamente escluso l’esistenza pregressa della consuetudine in parola. E si auspica per ciò, dunque, che essa vada superata nel senso di constatare che «la convinzione degli utenti del servizio bancario della normatività dell’uso di capitalizzazione trimestrale degli interessi, originariamente sussistente, è venuta meno dopo lungo tempo” [id est: la consuetudine si è estinta per desuetudine in relazione al venire meno della opinio iuris del comportamento sottostante] “proprio a seguito di quello stesso processo di mutamento di prospettiva che ha indotto la Cassazione medesima a mutare il proprio precedente orientamento».
   Ed a sostegno di tale assunto la difesa della ricorrente argomenta:
   a) che l’opinio iuris della prassi di capitalizzazione degli interessi dovuti dal cliente sarebbe stata esclusa dalla criticata giurisprudenza assumendo a parametro un quadro normativo, come evolutosi a partire dai primi anni ’90, non certo retrodatabile all’epoca in cui, in un contesto radicalmente diverso, quella prassi si era instaurata, con adesione degli utenti dei servizi bancari, che ne avrebbero pienamente presupposto la normatività;
   b) che, comunque, la stessa precedente giurisprudenza che per un ventennio aveva reiteratamente ritenuto, ove pur erroneamente, l’esistenza di un uso normativo di capitalizzazione degli interessi bancari avrebbe, per ciò stesso, costituito «elemento di fondazione o consolidazione dell’uso stesso».
   Nessuno dei riferiti, pur suggestivi, argomenti si lascia però condividere.
   4.5. L’evoluzione del quadro normativo – impressa dalla giurisprudenza e dalla legislazione degli anni ’90, in direzione della valorizzazione della buona fede come clausola di protezione del contraente più debole, della tutela specifica del consumatore, della garanzia della trasparenza bancaria, della disciplina dell’usura – ha innegabilmente avuto il suo peso nel determinare la ribellione del cliente (che ha dato, a sua volta, occasione al revirement giurisprudenziale) relativamente a prassi negoziali, come quella di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti alle banche, risolventesi in una non più tollerabile sperequazione di trattamento imposta dal contraente forte in danno della controparte più debole.
   Ma ciò non vuole dire (e il dirlo sconterebbe un evidente salto logico) che, in precedenza, prassi siffatte fossero percepite come conformi a ius e che, sulla base di una tale convinzione (opinio iuris), venissero accettate dai clienti.
   Più semplicemente, di fatto, le pattuizioni anatocistiche, come clausole non negoziate e non negoziabili, perché già predisposte dagli istituti di credito, in conformità a direttive delle associazioni di categoria, venivano sottoscritte dalla parte che aveva necessità di usufruire del credito bancario e non aveva, quindi, altra alternativa per accedere ad un sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare. Dal che la riconducibilità, ab initio, della prassi di inserimento, nei contratti bancari, delle clausole in questione, ad un uso negoziale e non già normativo (per tal profilo in contrasto dunque con il precetto dell’art. 1283 cod. civ.), come correttamente ritenuto dalle sentenze del 1999 e successive.
   4.6. Né è in contrario sostenibile che la “fondazione” di un uso normativo, relativo alla capitalizzazione degli interessi dovuti alla banca, sia in qualche modo riconducibile alla stessa giurisprudenza del ventennio antecedente al revirement del 1999.
   Anche in materia di usi normativi, così come con riguardo a norme di condotta poste da fonti-atto di rango primario, la funzione assolta dalla giurisprudenza, nel contesto di sillogismi decisori, non può essere altra che quella ricognitiva, dell’esistenza e dell’effettiva portata, e non dunque anche una funzione creativa, della regola stessa.
   Discende come logico ed obbligato corollario da questa incontestabile premessa che, in presenza di una ricognizione, pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi però erronea nel presupporre l’esistenza di una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva debba avere una portata naturaliter retroattiva, conseguendone altrimenti la consolidazione medio tempore di una regola che troverebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenza che, erroneamente presupponendola, l’avrebbero con ciò stesso creata.
   Ciò vale evidentemente, nel caso di specie, anche con riguardo alla giurisprudenza (costituita, per altro, da solo dieci tralaticie pronunzie nell’arco di un ventennio) su cui fa leva l’istituto ricorrente.
   La quale – a prescindere dalla sua idoneità (tutta da dimostrare e in realtà indimostrata) ad ingenerare nei clienti una “opinio iuris” del meccanismo di capitalizzazione degli interessi, inserito come clausola insuscettibile di negoziazione nei controlli stipulati con la banca – non avrebbe potuto, comunque, conferire normatività ad una prassi negoziale (che si è dimostrato essere) contra legem.
   4.7. Della insuperabile valenza retroattiva dell’accertamento di nullità delle clausole anatocistiche, contenuto nelle pronunzie del 1999, si è mostrato subito, del resto, ben consapevole anche il legislatore. Il quale – nell’intento di evitare un prevedibile diffuso contenzioso nei confronti degli istituti di credito – ha dettato, nel comma 3 dell’art. 25 del già citato d. lgs. 342/1999, una norma ad hoc, volta appunto ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova disciplina, paritetica, della materia, di cui ai precedenti commi primo e secondo del medesimo art. 25.
   Quella norma di sanatoria è stata, però, come noto, dichiarata incostituzionale, per eccesso di delega e conseguente violazione dell’art. 77 Cost., dal Giudice delle leggi, con sentenza n. 425 del 2000.
L’eliminazione ex tunc, per tal via, della eccezionale salvezza e conservazione degli effetti delle clausole già stipulate lascia queste ultime, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle quali, per quanto si è detto, esse non possono che essere dichiarate nulle, perché stipulate in violazione dell’art. 1283 cod. civ. (cfr. Cassazione 4490/2002).
   4.8. Sul punto della rilevata nullità della clausola anatocistica inserita nel contratto da cui deriva il credito azionato in via monitoria dall’istituto, la sentenza impugnata resiste dunque a censura. (Omissis)

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