il diritto commerciale d’oggi
    III.11 – novembre 2004

STUDÎ & COMMENTI

 

GIOVANNI CABRAS

Le clausole di conciliazione nella riforma del diritto societario

 

1. L’avvio della conciliazione

   In un recente studio divulgativo, dopo aver esposto le diverse tipologie della conciliazione, le varie modalità del suo svolgimento ed i suoi effetti, gli autori dedicano alcune considerazioni al modo di accedervi, ossia all’accordo di conciliazione ed alla clausola conciliativa. A mio avviso, l’approccio ai problemi della conciliazione può essere rovesciato, esaminando i modi di accesso per comprendere come si possa rendere operante tale istituto, disponendo in modo conveniente e, soprattutto, efficace l’accordo conciliativo o la clausola conciliativa: fornendo – per così dire – le istruzioni per l’uso.
   Al riguardo il decreto processuale (d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5), introdotto con la riforma del diritto societario, non contiene specifiche disposizione, dando semplicemente per presupposto che una clausola di conciliazione possa essere prevista in un contratto ovvero nello statuto di una società.
   La disciplina del patto conciliativo allora deve essere ricostruita pressoché per intero dall’interprete. A tal fine un ausilio può trarsi dalla regolamentazione e dall’esperienza del compromesso e della clausola compromissoria, in quanto il compromesso e la clausola compromissoria presentano problemi analoghi – non identici, ma soltanto analoghi – al patto conciliativo.

2. Atti suscettibili di patto conciliativo

   Tuttavia, il decreto processuale fornisce qualche indicazione. Infatti, specificando le controversie per le quali gli organismi di conciliazione possono gestire la conciliazione, implicitamente ci indica gli atti, cui può inerire un patto conciliativo:
   – rapporti sociali e, quindi, gli atti costitutivi e gli statuti di ogni tipo di società, tanto di persone, quanto di capitali;
   – ogni negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali e, quindi, gli atti di cessione, sia di singole partecipazioni, sia di pacchetti azionari;
   – patti parasociali stipulati tra i soci;
   – rapporti in materia di intermediazione mobiliare da chiunque gestita;
   – credito per le opere pubbliche.
   Il d. lgs. n. 5/2003 aggiunge anche le materie di cui al TUB del 1993; ma solo tra banche o con un’associazione di consumatori: si tratta, però, di controversie in cui non sembra ipotizzabile una clausola conciliativa, ma, al massimo, un accordo conciliativo a lite insorta, poiché i contratti bancari intervengono solitamente tra la banca e singoli clienti.
Quanto indicato riguarda la conciliazione che possiamo definire “societaria” e che è disciplinata dal d. lgs. n. 5/2003. È possibile, tuttavia, che il patto conciliativo inerisca ad altri atti e contratti; in tal caso, però, la conciliazione non potrà avvalersi delle agevolazioni e degli effetti previsti dal quel decreto.

3. Disponibilità dei diritti

   Il patto conciliativo si basa, innanzitutto, sull’autonomia privata, che comprende anche la libertà di conciliare le controversie già insorte o quelle che possono insorgere da un determinato rapporto giuridico.
   Quali limiti incontra, però, l’autonomia privata in tema di conciliazione? Sul punto la disciplina generale dell’arbitrato è assai precisa, in quando esclude le controversie in materia di lavoro, nonché quelle che non possono formare oggetto di transazione (art. 806 cod. proc. civ.), richiamando così l’art. 1966 cod. civ., secondo cui per la transazione le parti devono avere la capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della lite. La nuova disciplina dell’arbitrato societario sembra aver ampliato la potestas iudicandi degli arbitri, comprendendovi, in particolare, anche le questioni incidentali non compromettibili.
   In mancanza di deroghe, per la conciliazione, che è volta a comporre in modo convenzionale (e, quindi, sulla base dell’autonomia privata) una lite, le parti trovano un limite invalicabile nella indisponibilità dei diritti, oggetto della lite. Circa l’altra preclusione per il compromesso (le controversie di lavoro), per la conciliazione, più che una preclusione, si ha una riserva a favore della conciliazione speciale, prevista dall’art. 410 cod. proc. civ. come “tentativo obbligatorio di conciliazione” davanti alle apposite commissioni di conciliazione.

4. Poteri per la stipulazione

   Anche su questo problema si possono trarre indicazioni dall’esperienza in tema di clausola arbitrale. Per questa, dopo molte discussioni, il nostro legislatore ha stabilito, con l’art. 808, 3° comma, cod. proc. civ., che il potere di stipulare tale clausola è assorbito nel potere di stipulare il contratto, cui essa inerisce. Tale regola può essere seguita anche per il patto di conciliazione, non esistendo alcun ostacolo normativo.
   Pertanto, chi ha la capacità ed i poteri per stipulare l’atto, ha anche quelli per sottoporre le controversie, insorgende o già insorte, alla composizione in sede conciliativa.

5. Forma del patto conciliativo

   Circa la forma del patto conciliativo, il d. lgs. n. 5/2003 non fornisce alcuna indicazione. Tuttavia, la mancanza di una disposizione come quella che, in tema di arbitrato, prescrive la forma scritta sotto pena di nullità (art. 807 cod. proc. civ.), consente di ritenere operante il principio generale di libertà delle forme, con la conseguenza che il patto conciliativo può essere stipulato anche verbalmente. Una conferma di ciò si trova nel codice di rito, secondo cui l’istanza al giudice di pace per la conciliazione in sede non contenziosa può essere proposta anche verbalmente (art. 322 cod. proc. civ.).
   Ovviamente, il consiglio è di stipulare comunque per iscritto il patto conciliativo, onde evitare contestazioni al momento in cui ci si voglia valere di esso.
   Qualora il patto compromissorio sia previsto in condizioni generali di contratto ovvero il contratto venga concluso mediante la sottoscrizione di moduli o formulari, non è necessaria la specifica approvazione per iscritto, che è richiesta, invece, per la clausola compromissoria dall’art. 1341 cod. civ.

6. Delimitazione delle controversie da comporre

   Essendo il patto conciliativo rivolto a comporre controversie tra le parti, è essenziale che queste siano determinate o determinabili nel patto. Il primo caso si presenta nell’accordo conciliativo, stipulato a lite già insorta; il secondo caso si presenta nella clausola conciliativa, contenuta in un contratto o nello statuto di una società ovvero in un atto separato e che opera per tutte o parte delle controversie derivanti dal contratto o dal rapporto sociale.
   Per quanto riguarda la conciliazione prevista negli statuti societari non è sufficiente il generico richiamo alle controversie derivanti dal rapporto sociale, poiché occorre specificare – siccome è stabilito per l’arbitrato societario – se vi siano comprese anche le controversie con gli amministratori, i liquidatori ed i sindaci.
   L’autonomia privata può esplicarsi nel delimitare le controversie da comporre con la conciliazione, individuandole in modo specifico, per tipo, per i soggetti tra i quali intercorrono, ovvero anche per valore.

7. Conciliazione amministrata e ad hoc

   In linea generale, il patto conciliativo deve contenere la nomina del conciliatore o i criteri per la sua nomina. Tra i criteri di nomina rientra la designazione di una camera di conciliazione, che provvederà poi a nominare il conciliatore.
   Per la conciliazione “societaria” è richiesta la nomina di un organismo di conciliazione, iscritto in un apposito albo tenuto dal Ministero della Giustizia e conforme al regolamento n. 222 del 23 luglio 2004. Al riguardo, si deve segnalare che attualmente non vi sono organismi di conciliazione iscritti nell’albo, essendo ancora in corso l’istituzione dell’ufficio deputato alla tenuta dello stesso albo ed alla verifica dei requisiti di ammissione.
   In materia societaria e materie assimilate c’è perciò la preferenza legislativa per la conciliazione amministrata rispetto a quella ad hoc. Al di fuori di quelle materie, invece, le parti solo libere di scegliere la conciliazione amministrata ovvero quella ad hoc.
   Il patto di conciliazione può contenere la nomina dell’organismo di conciliazione (ovvero, al di fuori della materia societaria, la nomina del conciliatore); è possibile, tuttavia, che il patto disponga semplicemente i criteri di nomina, affidando tale compito all’accordo delle parti oppure ad un terzo, eventualmente, in caso di mancato accordo delle parti. In ogni caso, è opportuno che il patto di conciliazione designi un soggetto (ad esempio, il presidente del tribunale o il presidente del consiglio di un ordine professionale) che nomini l’organismo di conciliazione, nel caso in cui questo non possa accettare o sia cancellato dall’albo.

8. Il procedimento

   La conciliazione è una procedura per la composizione delle controversie; sotto tale profilo, la conciliazione si differenzia dalla transazione, anche se questa può esserne è lo sbocco, in caso di esito positivo della procedura.
   Infatti, configura una transazione qualsiasi accordo con cui le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già insorta o la prevengono (art. 1965 cod. civ.); per la transazione è irrilevante come si arrivi ad essa, ossia se le parti intavolano trattative direttamente tra loro ovvero sono aiutate da un terzo.
   La conciliazione, invece, indica un sistema per comporre la lite con l’ausilio di un terzo, neutrale ed indipendente. L’accento è posto sulla procedura che, sebbene non abbia una specifica regolamentazione, ha una sua tipizzazione, soprattutto nell’esperienza internazionale delle ADR (Alternative dispute resolution), nella quale la conciliazione assume la denominazione di mediation. Secondo tale tipizzazione, la procedura della mediazione – a differenza di quanto avviene solitamente nel processo ordinario – è sotto il controllo delle parti, che non possono essere costrette a seguirla per intero e soprattutto non possono essere costrette a conciliarsi, ovvero a conciliarsi in un modo piuttosto che in un altro. L’accordo finale è perciò assolutamente volontario (non necessariamente con la natura di transazione: ad esempio, una parte può rinunciare totalmente alle sue pretese), anche se è frutto di quella procedura e della abilità del terzo.
   Esistono altre figure che prevedono il raggiungimento di un accordo, seguendo una determinata procedura; ciò avviene, ad esempio, nei tavoli di negoziazione, previsti sovente negli accordi sindacali, o nell’ombudsman bancario. In tali casi la procedura assume una diversa funzione dalla conciliazione, poiché manca il terzo neutrale ed imparziale.

9. La regolamentazione pattizia

   Come si è detto, la conciliazione si inserisce nell’esperienza internazionale delle ADR, nella quale la procedura è sotto il pieno e totale controllo delle parti. Tuttavia, il nostro legislatore sembra avere tenuto conto solo in parte di tale esperienza.
   In particolare, il d. lgs. n. 5/2003 richiede che, qualora il convenuto non si presenti per il tentativo di conciliazione, il conciliatore ne dia atto con un verbale che potremmo definire di “diserzione”; parimenti, il decreto richiede che, in caso di insuccesso della conciliazione, il conciliatore ne dia atto nel verbale conclusivo. In una prima bozza del decreto era previsto che tale verbale contenesse pure le posizioni delle parti, rispetto alla proposta conciliativa; nel testo finale del decreto, invece, è previsto che tale indicazione sia contenuta nel verbale soltanto su concorde richiesta delle parti.
   Anche se è venuta meno l’obbligatorietà di quest’ultima indicazione, nel decreto lgs. n. 5/2003 la procedura di conciliazione sembra in parte sottratta alla disponibilità delle parti. Ritengo, tuttavia, che le parti possano stabilire, con il patto di conciliazione, il loro totale controllo della procedura, disponendo, ad esempio, che il conciliatore non rediga alcun verbale, in caso di diserzione; ovvero stabilire specifici adempimenti, in modo da rendere più vincolante lo svolgimento della procedura.

10. Il terzo neutrale

   Nella conciliazione una funzione essenziale è svolta, come si è detto, dal terzo neutrale. Il nostro legislatore ha ritenuto di garantirne tali caratteristiche, con due regole: innanzitutto, riservando la conciliazione agli organismi di conciliazione, accreditati con l’iscrizione nell’albo ministeriale; inoltre, disponendo con il regolamento ministeriale n. 222 del 2004 requisiti professionali dei conciliatori.
   Nell’esperienza internazionale, invece, il mediatore è una figura professionalmente qualificata, ma la sua scelta è rimessa alle parti, che possono rivolgersi direttamente al mediatore, ovvero ad una struttura organizzata per lo svolgimento della mediazione. Quel che importa è soltanto che il mediatore goda della piena fiducia delle parti, perché tale caratteristica, indipendentemente dal fatto che egli operi isolatamente come professionista o nell’ambito di una struttura organizzata, assicura il miglior risultato per la composizione della lite.
   Per raggiungere tale obiettivo ritengo che le prescrizioni legislative e regolamentari, da noi vigenti, non impediscano alle parti di dare una regolamentazione convenzionale alla conciliazione. È possibile perciò che il patto di conciliazione stabilisca ulteriori requisiti professionali per il conciliatore, ovvero ne precisi meglio i compiti nello svolgimento dell’incarico, attribuendogli una funzione esclusivamente facilitativa (con esclusione di ogni funzione propositiva di soluzioni conciliative) o anche valutativa (nella quale il conciliatore formula soluzioni conciliative).

11. Una sfida per i professionisti

   Nonostante le critiche che la nuova disciplina della conciliazione può suscitare, il mio giudizio è complessivamente positivo. Tuttavia, bisogna rendere effettivamente operante la conciliazione “societaria”, se non si vuole aggiungere una nuova ipotesi all’armamentario inutilizzato delle conciliazioni in materia di lavoro, agrario e così via.
   Per evitare ciò, occorre che i professionisti che sono a contatto con le imprese (e tali sono, soprattutto, avvocati, dottori commercialisti ed esperti contabili) credano nella conciliazione e la pratichino come regola di comportamento nella loro attività professionale. In particolare, il professionista potrà consigliare al proprio cliente di inserire la clausola conciliativa in un statuto societario o in un contratto e suggerire la migliore formulazione per le esigenze della società o per il rapporto contrattuale, soltanto se egli stesso sia favorevole alla composizione amichevole delle liti ed esperto conciliatore (ovviamente in controversie che non riguardano il suo cliente).

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