I quesiti di costituzionalità sollevati dalle ordinanze di rimessione, a mezzo delle quali è stata sollecitata la pronunzia della Corte Costituzionale, sent. n. 161/2004, investono la disciplina penalistica dell’informazione societaria, introdotta con il D. Lgs. 11 aprile 2002, n. 61 (Disciplina degli illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali), sotto molteplici profili.
Un primo ordine di problemi si pone, infatti, con riferimento alla figura contravvenzionale delle false comunicazioni sociali, ed a quella delittuosa delle false comunicazioni sociali in danno dei soci e dei creditori, rispettivamente previste dagli artt. 2621 e 2622 cod. civ., come sostituiti dall’art. 1 del citato decreto legislativo.
La perfetta omogeneità della condotta penalmente rilevante, nonché dell’elemento soggettivo, rispettivamente contemplati dalle due norme, consentirebbe ad avviso del giudice rimettente di ritenere illegittime, con riferimento all’art. 3 Cost., le divergenze che possono riscontrarsi, da un punto di vista quantitativo e qualitativo, confrontando le risposte sanzionatorie previste in relazione alle figure criminose in parola.
La relativa questione è stata dichiarata inammissibile dalla Consulta, la quale ha rilevato, con riferimento alla stessa, la carenza del requisito costituito dalla rilevanza nel procedimento a quo.
Occorre tuttavia considerare che, anche a voler ipotizzare la possibilità di esaminare il predetto quesito di costituzionalità sotto il profilo della fondatezza, i termini di formulazione della questione non appaiono accettabili. Il giudice rimettente sembra, infatti, operare una scissione nell’ambito degli elementi costitutivi dei fatti di reato de quibus, laddove ritiene che l’identità della condotta e dell’elemento soggettivo, che connotano le fattispecie di cui agli artt. 2621 e 2622 cod. civ., consenta all’interprete di concludere nel senso di una sostanziale omogeneità tra le due ipotesi criminose.
In tal modo non si attribuisce tuttavia alcun rilievo alla circostanza, pure fondamentale, costituita dalla radicale eterogeneità, sussistente tra le due figure sotto il duplice profilo dell’evento in senso giuridico e dell’interesse protetto.
L’oggetto della tutela penalistica offerta dalla norma contenuta nell’art. 2621 cod. civ. risulta infatti costituito, secondo l’orientamento attualmente dominante in dottrina, dalla trasparenza dell’informazione societaria (1), anche in quanto strumentale ad interessi “finali” ascrivibili ai destinatari delle comunicazioni sociali, mentre appare pacifico che il bene, tutelato dalla previsione di cui all’art. 2622 cod. civ., risulta individuabile nel patrimonio dei soci e dei creditori (2).
È agevole comprendere, a questo punto, come l’evento in senso giuridico, caratterizzante la fattispecie delle “false comunicazioni sociali”, sia dato dalla alterazione sensibile dei dati economici, contenuti nelle comunicazioni di cui all’art. 2621 cod. civ., dotata come tale di idoneità decettiva nei confronti dei destinatari delle comunicazioni stesse (3).
Assai semplice appare, d’altra parte, la ricostruzione dell’evento in senso giuridico, che connota il delitto di “false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori”, in termini di produzione di uno specifico e concreto danno patrimoniale ai soggetti de quibus.
Le profonde differenze, sussistenti tra gli elementi costitutivi delle fattispecie in parola, inducono pertanto a non ritenere irragionevole la previsione di un diverso trattamento sanzionatorio in relazione alle due ipotesi criminose.
Qualche perplessità potrebbe invece essere sollevata dalla circostanza che il Legislatore abbia voluto adottare, con riferimento ad una fattispecie che si presenta, come quella prevista dall’art. 2621 cod. civ., estremamente complessa ed articolata sotto il profilo dell’offensività, nonché dell’elemento soggettivo, il modulo contravvenzionale.
Si tratta di una problematica che si ricollega a due ulteriori quesiti di costituzionalità, affrontati dalla Consulta nella pronunzia in esame, rispettivamente concernenti l’inadeguatezza della disciplina, propria dei reati contravvenzionali, rispetto ad un illecito che si concretizza nella lesione di un interesse pubblico primario, costituito dalla trasparenza del mercato, nonché la modifica del termine prescrizionale relativo al reato de quo, diretta conseguenza del “declassamento” dello stesso da delitto a contravvenzione, operata dalla riforma attuata con il D. Lgs. n. 61/2002 cit.
Per quanto riguarda la prima questione, ad avviso del giudice rimettente l’adozione del modello contravvenzionale, con riferimento alla fattispecie in parola, risulterebbe incompatibile con l’art. 27, terzo comma, Cost. in ragione della sproporzione tra le caratteristiche oggettive e soggettive dell’illecito e la risposta sanzionatoria prevista, mentre la disparità di trattamento sussistente tra la figura criminosa considerata, ed altri reati lesivi del medesimo interesse e repressi in modo molto più severo, come l’aggiottaggio di cui all’art. 2637 cod. civ., configurerebbe una violazione dell’art. 3 Cost.
In contrasto con la predetta norma si porrebbe altresì, secondo il giudice a quo, la circostanza che l’attuale termine triennale di prescrizione del reato previsto dall’art. 2621 cod. civ. impedirebbe “sistematicamente”, a causa della sua eccessiva brevità, ed a fronte delle difficoltà di accertamento della fattispecie in parola, dovute all’estrema complessità della stessa, di giungere ad una definizione del relativo processo prima che intervenga una declaratoria di estinzione del reato.
Si tratta, tuttavia, di questioni che investono in linea generale le scelte di politica criminale, operate dal Legislatore in sede di riforma della disciplina dei reati societari, e che richiederebbero un intervento della Corte certamente esorbitante, rispetto ai limiti del sindacato di costituzionalità: la Consulta risulterebbe infatti chiamata, nell’ipotesi di accoglimento delle questioni in parola, a prospettare una soluzione che, oltre ad incidere in peius sullo statuto penalistico delle società commerciali, avrebbe natura evidentemente “creativa”.
La nuova disciplina penalistica dell’informazione societaria è inoltre sottoposta a scrutinio di costituzionalità con riferimento all’art. 11, primo comma, lettera a), numero 1) della Legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario).
La circostanza che la predetta norma imponga al legislatore delegato di precisare, in sede di configurazione del nuovo reato di false comunicazioni sociali, «che le informazioni false od omesse devono essere rilevanti e tali da alterare sensibilmente la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, anche attraverso la previsione di soglie quantitative», nonché di fissare «idonei parametri per i casi di valutazioni estimative», integrerebbe infatti, in mancanza di riferimenti ulteriori che possano indirizzare l’attività normativa delegata, una violazione dell’art. 76 Cost., dando sostanzialmente corpo ad una ipotesi di “delega in bianco”.
L’introduzione, ad opera legislatore delegato, delle soglie di punibilità previste nel terzo e quarto comma dell’art. 2621 cod. civ., si porrebbe conseguentemente in contrasto con il principio della riserva assoluta di legge in materia penale, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., posto che l’inserimento di soglie percentuali prestabilite verrebbe ad integrare, nonostante la carenza delle indicazioni fornite dalla legge delega, il contenuto precettivo di una norma penale.
La previsione di un sistema di soglie quantitative violerebbe altresì, ad avviso del giudice rimettente, l’art. 3 Cost., laddove fatti egualmente lesivi dell’interesse alla trasparenza dell’informazione societaria (come le falsificazioni, in misura di per sé superiore alle soglie prestabilite, di poste di bilancio le quali si neutralizzino reciprocamente) risulterebbero privi di rilevanza penale.
In merito a tali quesiti di costituzionalità si pone tuttavia, ancora una volta, il problema rappresentato dal fatto che la Corte risulterebbe chiamata ad emettere un provvedimento che andrebbe ben oltre il sindacato di costituzionalità, e si concretizzerebbe nell’introduzione, in via additiva, di nuove ipotesi criminose, il che risulterebbe incompatibile con il principio della riserva assoluta di legge in materia penale, enunciato nel secondo comma dell’art. 25 Cost..
Non vale neppure richiamarsi in senso contrario, come emerge dal ragionamento del giudice a quo, ad alcune pronunzie della stessa Corte, la quale ha, in altra sede, ritenuto ammissibile il sindacato di costituzionalità in relazione alle c.d. “norme penali di favore”, da identificare con le disposizioni che stabiliscano, in determinati casi, un trattamento penalistico più favorevole di quello previsto dalle norme comuni, ed avente carattere derogatorio rispetto a queste ultime.
Le soglie di punibilità di cui all’art. 2621 cod. civ. non possono infatti considerarsi, come precisa la stessa Corte, alla stregua di “norme penali di favore”, trattandosi, nel caso di specie, di veri e propri elementi costitutivi del fatto di reato, sia pure delineati “in negativo”.
Particolarmente complessa si presenta, infine, la questione di costituzionalità sollevata con riferimento alla norma incriminatrice delle false comunicazioni sociali, nella parte in cui richiede, ai fini della integrazione della fattispecie in parola, la presenza di una alterazione “sensibile” della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene.
Tale disposizione violerebbe infatti, ad avviso del giudice rimettente, il principio di tassatività e determinatezza dell’illecito penale, di cui all’art. 25 Cost., laddove la norma in discorso risulterebbe talmente astratta, da risultare suscettibile di interpretazioni contrastanti.
La Corte respinge la relativa questione sulla base dell’irrilevanza della stessa nel procedimento a quo, ma non manca di sottolineare, a riprova dell’estrema delicatezza del quesito, gli ostacoli che si incontrano nel tentativo di operare un preciso inquadramento del requisito, costituito dalla alterazione sensibile dei dati economici oggetto delle comunicazioni sociali, nell’ambito della disciplina penalistica dell’informazione societaria, ed in particolare la difficoltà di delimitare, con riferimento alla fattispecie in discorso, l’ambito di operatività del parametro dell’alterazione sensibile, rispetto a quello del criterio rappresentato dalle soglie percentuali.
NOTE
(1) V. in tal senso MUSCO, I nuovi reati societari, Milano 2002, p. 38 ss.; alcuni Autori ritengono, tuttavia, che si tratti di un reato plurioffensivo, previsto a tutela della pubblica fede, degli interessi dell’impresa, dei soci uti singuli, dei creditori e degli altri soggetti che possono intrattenere rapporti con l’impresa, nonché dell’economia pubblica (cfr. Il nuovo diritto penale delle società a cura di ALESSANDRI, Milano 2002, p. 143 ss., nonché ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi Complementari, vol. I. I reati societari, bancari, di lavoro e previdenza, VII edizione aggiornata ed integrata da Conti, Milano 2002, p. 123 ss.).
(2) Così MUSCO, op. cit.., pag. 37, nonché FOFFANI, in I nuovi reati societari. Diritto e processo a cura di GIARDA, Padova 2002, p. 305 e ss., ed ALESSANDRI, op. cit., p. 43 e ss.
(3) V. in tal senso MUSCO, op. cit., p. 42 e ss.